Pietro Ioia Garante dei detenuti a Napoli e la sua storia di recupero e di impegno di Riccardo Polidoro e Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 18 dicembre 2019 L’Osservatorio carcere dell’Ucpi sulla nomina di De Magistris. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha nominato Garante dei diritti dei detenuti Pietro Ioia e immediatamente sono insorti i sindacati della Polizia Penitenziaria e sulla loro scia molti altri che hanno ritenuto inopportuna tale scelta. Ma chi è Pietro Ioia? Oggi sessantenne, in passato è stato condannato a 22 anni di carcere per traffico di stupefacenti. Da 14 anni, da uomo libero, si occupa del recupero delle persone detenute ed è un punto di riferimento per le loro famiglie. Nel corso di tale attività ha denunciato, unitamente al Garante dei detenuti della Campania Adriana Tocco e alla Onlus “Il carcere possibile”, quanto avveniva nella Casa Circondariale di Napoli - Poggioreale nella famigerata cella zero. Oggi il processo è pendente in primo grado e vede imputati alcuni agenti della Polizia Penitenziaria. Ha ricevuto il Premio Diritti Umani Stefano Cucchi. Ioia è anche scrittore e attore di cinema e teatro. La sua è una storia di totale recupero e di grande impegno sociale, ma comunque per molti resta un pregiudicato. Una macchia indelebile riportata nel titolo di alcuni quotidiani, all’indomani della nomina e a cui hanno fatto riferimento tutti coloro (molti purtroppo) che hanno aspramente criticato il sindaco. Quanto accaduto ricorda la nomina di Adriano Sofri a coordinatore di uno dei Tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, quello dedicato alla cultura in carcere. Nonostante avesse scontato la sua pena e fosse da tutti riconosciuto un raffinato intellettuale, per aver anche scritto libri e articoli di fondo su importanti giornali, fu costretto a rinunciare all’incarico. Con le differenze del caso, essendo Sofri e Ioia persone con storie personali del tutto diverse, è di palese evidenza che entrambe hanno una competenza sul carcere che difficilmente può trovarsi in altre figure, pur autorevoli, ma che non hanno conosciuto il mondo dietro quelle mura, che spesso nascondono indifferenza verso i diritti dei reclusi. Se Sofri rinunciò, ci auguriamo che Ioia resti al suo posto, perché la sua nomina è anche simbolo di riscatto ed esempio per altri che hanno avuto un burrascoso passato. La circostanza che il segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno si sia subito precipitato a Poggioreale, non per visitare il carcere, ma per sostenere - in un luogo non deputato a comizi politici - gli attacchi dei sindacati di Polizia Penitenziaria contro la delibera del Comune, è l’ennesima prova che in Italia si sta esplicitamente promuovendo un sentimento di odio verso le minoranze, tra cui ci sono immigrati e detenuti. Una campagna elettorale e non solo - che mira ad eliminare la tutela dei diritti di tali persone, le garanzie ed i Garanti. Le ulteriori recenti critiche all’ Ufficio del Garante Nazionale da parte dei sindacati della Polizia Penitenziaria, che continuano ad avere sostegno e solidarietà da alcune forze politiche, è un segnale inquietante che dovrebbe far riflettere tutti coloro che hanno a cuore la civiltà giuridica del nostro Paese, fino ad oggi tutelata dalla Costituzione. *Responsabili Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Sulle intercettazioni decreto legge possibile su fase transitoria e ruolo Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2019 Resta aperta la possibilità di un decreto legge sulle intercettazioni. Da presentare venerdì al Consiglio dei ministri. Con una disciplina della fase transitoria e la soluzione di alcuni degli aspetti più controversi della riforma Orlando. È fuori discussione comunque che quest’ultima possa entrare in vigore dal 1° gennaio senza modifiche. Al ministero della Giustizia si è ormai messa a punto la bozza di intervento ed è possibile la presentazione delle norme con decreto legge nell’ultimo consiglio dei ministri dell’anno, già in calendario per venerdì. In ogni caso è stato comunque previsto l’inserimento di un ulteriore slittamento di 6 mesi per l’entrata in vigore della riforma, all’interno del canonico decreto “Mille Proroghe” di fine anno. Nel merito le norme mettono rimedio a una delle carenze (comune peraltro ad altri recenti provvedimenti penali, come la legge “spazza-corrotti”) segnalate anche dai preoccupati capi delle più?importanti procure del Paese, l’assenza di una disciplina esplicita della fase transitoria. Assenza tanto più grave, se si tiene conto del fatto che il lavoro degli investigatori sarebbe appesantito in maniera significativa dalla necessità di tenere conto nello svolgimento della medesima operazione di 2 modalità diverse di svolgimento. Una operativa fino al 31 dicembre e l’altra dal 1° gennaio, senza soluzione di continuità. L’orientamento è così quello di considerare alla stregua di misure di diritto penale sostanziale, quelle che formalmente sarebbero invece procedurali. La nuova disciplina, approvata dal Governo Gentiloni e voluta dall’allora ministro della Giustizia e oggi vicesegretario Pd Andrea Orlando, nel tentativo di coniugare esigenze di tutela della privacy e necessità investigative, sarà così applicabile solo alle operazioni autorizzate dopo l’entrata in vigore delle correzioni. Si eviterà in questo modo di sovrapporre disposizioni diverse nella medesima investigazione, con il rischio di comprometterne gli esiti. Per quanto riguarda gli aggiustamenti più sostanziali, si punta a rendere più incisivo il ruolo del pubblico ministero, che la Orlando limita a favore invece di un intervento di selezione in prima battuta da parte della polizia giudiziaria, al quale resterebbe comunque affidata la decisione finale sul materiale rilevante per le indagini e quello invece più trascurabile. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è ottimista anche sul confronto politico e ieri ha sottolineato come “secondo me abbiamo grandi margini per trovare un accordo e nei prossimi 2 giorni ci incontreremo per quello che potrebbe essere anche un decreto legge”. Per il ministro comunque l’importante è che le Procure possano continuare a lavorare dal 1° gennaio e comunque assicura tutto l’impegno per assicurare l’infrastruttura della riforma (archivio riservato dove fare confluire tutto il materiale irrilevante e da non divulgare) e la formazione (si è concluso il giro di formulazione che ha coinvolto 600 magistrati presso la Procura generale della Cassazione). Intercettazioni e prescrizione, verso una tregua sulla giustizia Il Manifesto, 18 dicembre 2019 In settimana si riapre il tavolo della maggioranza. Nel decreto Mille Proroghe il quarto slittamento per la riforma Orlando. “Le intercettazioni non sono una stupidaggine, sono caduti governi su questo tema. Non è uno scandalo se proviamo a trovare un accordo con il Movimento 5 Stelle, una forza che ha una visione diversa dalla nostra”. Il vice segretario del Pd Andrea Orlando parla a Porta a Porta dopo che si è diffusa la notizia che nel decreto Mille Proroghe, che dovrebbe essere varato dal governo in settimana, ci sarà anche lo slittamento di sei mesi della norma sulle intercettazioni. È il quarto slittamento: la riforma firmata proprio da Orlando quando era ministro della giustizia è stata sterilizzata dal governo giallo verde per tre volte e adesso lo sarà anche dal giallo-rosso, fino al 30 giugno 2020. Più che una notizia è una conferma, solo che la settimana scorsa quando erano circolate le prime bozze del Mille Proroghe con dentro le intercettazioni, il Pd si era profondamente offeso e aveva fermato la manovra dei 5 Stelle. Adesso no, Orlando annuncia solo che la maggioranza tornerà al tavolo della giustizia entro la settimana. La schiarita è evidente. La volta scorsa i dem avevano protestato perché non accettavano che i grillini blindassero la “loro” riforma, quella della prescrizione, anche quella applicabile dal prossimo primo gennaio, rifiutando in quel caso ogni proroga, e facessero slittare invece solo la riforma “del Pd”, le intercettazioni appunto. Stavolta evidentemente hanno ottenuto garanzie che il ministro Bonafede cederà qualcosa. Si va verso un accordo complessivo sulla giustizia che accanto alla proroga della riforma delle intercettazioni riguarderà anche le intercettazioni, anche in questo caso con un decreto o più probabilmente con una norma che sarà inserita nel disegno di legge di riforma del processo penale. Nel merito l’accordo sulla prescrizione si avvicinerà alla proposta di legge che proprio ieri ha annunciato il deputato di Leu Federico Conte: conferma dello stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ma solo sentenza di condanna, e tempi massimi di durata dei processi nei gradi successivi, la cosiddetta “prescrizione processuale”. “La riforma della prescrizione entrerà in vigore automaticamente ed è giusta, solo che va accompagnata con altre misure che garantiscano la ragionevole durata dei processi”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Anche sulle intercettazioni “ci sono ampi margini per trovare la quadra”, come dice il ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Che giustifica lo slittamento di altri sei mesi della riforma Orlando con “problemi tecnici”. Ma chiarisce che ci sono anche problemi di merito, perché i 5 Stelle non hanno mai accettato la stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti, che si propone vengano filtrate direttamente dalla polizia giudiziaria e mai trascritte, e vorrebbero riportare la decisione su cosa trascrivere e cosa no al pm. “L’importante - ha detto Bonafede - è che le procure possano continuare a lavorare dopo il 1 gennaio”. I penalisti: ora i dati sui reati prescritti. Bonafede: vediamoci di Errico Novi Il Dubbio, 18 dicembre 2019 Alcuni giorni fa l’Unione camere penali ha avviato una campagna social sulla prescrizione. Obiettivo: sfrondare l’argomento dai pregiudizi dell’antipolitica. Ma oltre che sulle incisive vignette dei post, l’associazione che riunisce gli avvocati penalisti punta anche alla verità dei dati, per riportare il dibattito lungo i binari della concretezza. Lo fa con una lunga lettera in cui il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza ha chiesto ieri al guardasigilli Alfonso Bonafede di diffondere “i dati degli ultimi anni” per sapere “quali siano i reati falcidiati dalla vituperata prescrizione, a vantaggio di quali soggetti e in danno di quali”. Obiettivo: dimostrare come l’estinzione dei reati in virtù del tempo sia in realtà “l’istituto più democratico, popolare, interclassista che esista nel nostro codice”; e che dunque la prescrizione non è il trucco usato dai “potenti” per restare “impuniti”. La risposta di Bonafede arriva a stretto giro: “Mi ha fatto piacere la lettera dei penalisti, mi confronterò con loro per capire come declinare la trasparenza a beneficio di tutti”. Sembra un passo avanti minimo. Eppure potrebbe contribuire, almeno in prospettiva, a promuovere scelte meno irrevocabili sulla norma che divide la maggioranza. Non foss’altro perché la ratio della battaglia 5 Stelle sulla prescrizione affonda proprio nell’antipolitica, nella tesi per cui di quell’istituto si servirebbero appunto “i furbetti per farla franca”, come dice Luigi Di Maio. Se venisse fuori che invece la stragrande maggioranza dei reati estinti per l’eccesivo tempo trascorso rientra piuttosto nella categoria bagatellare, degli illeciti contro il patrimonio certo non riconducibili ai colletti bianchi, forse si potrebbe valutare con più serenità se davvero è il caso di tenere gli imputati esposti per vari lustri alla mannaia processuale. Intanto Bonafede conferma l’intenzione già prospettata una settimana fa al presidente del Cnf Andrea Mascherin: convocare di nuovo i tavoli tecnici con avvocati e magistrati sia sul ddl civile che sul penale. Al secondo dei quali l’Ucpi è sempre stata parte attiva. Lo ricorda proprio Bonafede quando riconosce che “con le Camere penali il confronto è stato sempre molto acceso” ma che “hanno sempre fatto battaglie sui contenuti. Mi piace confrontarmi con loro”, dichiara, visto anche il “contributo” dato proprio dall’Ucpi “sulla bozza di riforma del processo che ho presentato alla maggioranza”. Caiazza incassa i complimenti ma ribadisce la richiesta: “Prendiamo atto dell’attenzione mostrata da Bonafede alla nostra lettera, del tono della risposta e del riconoscimento del ruolo delle Camere penali, ma vorremmo qualcosa in più e di più preciso dal ministro: i dati ufficiali”. Il clima sembra dunque schiudersi almeno alla civiltà del confronto, se non a un dietrofront che il M5S continua a escludere. Certo è che persino la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, a proposito della eccessiva “durata dei processi”, ricorda come “ogni riforma in materia di giustizia non debba mai prescindere da una piena condivisione delle problematiche con tutti gli attori coinvolti, a cominciare da magistratura e avvocatura, e da un confronto costruttivo sulle possibili soluzioni”. Segnale importante che va nella stessa direzione dello scambio fra Caiazza e Bonafede. Ad aver ben chiaro che il rebus giustizia si disinnesca solo se finisce l’incantesimo dell’antipolitica sono, oltre all’Ucpi, anche alcune forze parlamentari come Psi e Leu. I socialisti danno vita a un sit- in nei pressi di Montecitorio con il presidente Riccardo Nencini, Bobo Craxi e il nuovo segretario Enzo Maraio, che attacca: “La prescrizione è un ergastolo processuale, non una scorciatoia giuridica: è profondamente irresponsabile convincere l’opinione pubblica che sia normale avere una visione rabbiosa e distorta della giustizia”. Negli stessi minuti il rappresentante di Leu nella commissione Giustizia di Montecitorio Federico Conte presenta in conferenza stampa la sua proposta di legge sulla prescrizione: “Potrebbe rappresentare una sintesi per risolvere lo stallo nella maggioranza”, dice. Il deputato batte sul tempo il Pd con uno schema in base al quale “con il rinvio a giudizio, prima ancora che con la sentenza, la prescrizione del reato si ferma” ma poi “si apre una nuova fase di tipo processuale con delle scansioni chiare e nette, termini di fase, entro le quali lo Stato deve portare a compimento il suo servizio giustizia”. È la prescrizione processuale rivista in una chiave che potrebbe non lasciare indifferenti i 5 Stelle. Intanto le opposizioni continuano a stuzzicare il Pd: ieri in Senato Forza Italia ha presentato un emendamento che avrebbe rinviato la norma Bonafede: “Bocciato da tutta la maggioranza”, comunica Anna Maria Bernini. E lo stesso guardasigilli dà idea di non sottovalutare i rischi di un ingolfamento della macchina processuale in secondo grado, visto che nello schema di decreto sulle piante organiche appena inviato al Csm spiega di aver “previsto un intervento molto significativo a beneficio delle Corti d’appello anche in vista dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione, che la sospende dopo la sentenza di primo grado”. Intanto, oltre che con gli avvocati, tiene vivo il dialogo anche con i partner di governo: già oggi potrebbe incontrarli per presentare il decreto “integrativo” sulle intercettazioni in modo da vararlo “entro il 31 dicembre”. Ma senza alcuna “logica di scambio” con la prescrizione. Quello giudiziario non è più un ordine ma un potere autonomo, che va regolato di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 18 dicembre 2019 La settimana scorsa il Senato ha dato vita ad un mini dibattito su un tema che avrebbe avuto bisogno di ben altro approfondimento e attenzione: si è avuto la pretesa di discutere del rapporto tra politica e giustizia e del rapporto tra i poteri dello Stato in pochi minuti e con pochi interventi ma tutti incentrati sul finanziamento ai partiti e alle fondazioni per l’esclusivo interesse di uno dei relatori il sen. Renzi. L’appello del sen. Zanda di non fare un dibattito sui titoli di “coda”, ma di discutere dello stato della nostra democrazia, delle condizioni del Parlamento e del ruolo dei partiti non è stato ascoltato. Il mini sbrigativo dibattito si è soffermato sull’ingerenza della magistratura nelle cose della politica e questo è servito soprattutto al sen. Renzi, che aveva interesse a trovare una tribuna autorevole come l’aula del Senato, per protestare contro le iniziative ben note della procura di Firenze. Il dibattito al Senato perciò è stato patetico perché improvvisato, senza chiare finalità, senza una ragione istituzionale che giustificasse l’impegno di un’Aula così solenne. Il sistema giustizia e il ruolo del magistrato nella società moderna sono i problemi della democrazia e ognuno dovrebbe averne un profondo convincimento per affrontare un tema così difficile. E allora proviamo a spiegare. Il problema del rapporto tra i poteri e in particolare il rapporto con la magistratura non si inquadra nella sua reale dimensione se non si fa una analisi a fondo sulle responsabilità che hanno determinato questa situazione e soprattutto sulle responsabilità dei protagonisti della politica. Le colpe della situazione critica che attraversiamo da tempo sono della politica prima che della magistratura perché la politica in effetti è stata miope e reticente e si è piegata sempre alle richieste della magistratura che ha avuto come unico obiettivo il rafforzamento della sua autonomia, più che della sua indipendenza. I costituenti, non avevano previsto una evoluzione dell’ordine giudiziario in questo senso, ma il legislatore nel dopo guerra ha aiutato in tutti modi questa tendenza. Negli anni 70, ha consentito la “progressione in Cassazione” che consente appunto a tutti magistrati una promozione automatica fino ai vertici della Cassazione a prescindere dalle funzioni esercitate. Mi opposi strenuamente insieme on. Cossiga e a pochi altri, ma la DC cedette e il Parlamento approvò. Questo ha consentito una funzione della magistratura oltre quella stabilita dall’ordinamento e una irresponsabilità del “potere” giudiziario. Negli anni successivi la magistratura ha avuto una evoluzione interna con la formazione di correnti soprattutto collegate alla sinistra che hanno contestato il ruolo del giudice come esecutore della legge e esaltato, il ruolo di interprete coraggioso e ardito delle leggi, per fare affermare la figura del giudice di “lotta”. Il legislatore ha dunque assegnato compiti che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale e ciò ha consentito decisioni che hanno avuto e hanno carattere politico. Questo il programma della sinistra giudiziaria che con l’accordo e il supporto del PCI ha poi fatto crescere il fenomeno di Tangentopoli che ha oscurato la politica e contestato il suo primato. Questa in sintesi la storia dei rapporti anomali che hanno condizionato la democrazia, che non possiamo dimenticare per un dibattito serio. Aggiungo che negli anni 90 il Parlamento subissato dalle indagini giudiziarie ha espiato il suo senso di colpa eliminando la necessaria e sacrosante immunità: alla Camera con appena cinque voti contrari di pochi, come me, “resistenti”. Il legislatore insomma ha delegato alla magistratura soluzioni prettamente politiche. La legge contro la corruzione che prevede pene maggiori per i reati di corruzione come se il codice non avesse norme che sanzionano correttamente e in maniera proporzionale il reato di corruzione; le “manette agli evasori” che si invocano con maggiore pervicacia per la volontà di non risolvere il problema ma per illudere il cittadino invocando appunto una legge; la legge che é un autentico capolavoro in questo senso è il reato di “traffico di influenze” che non ha una fattispecie tipica e lascia il magistrato arbitro di interpretare: perché alla fine il giudice deve pur sempre interpretare?! Orbene tutti quelli che hanno votato queste leggi, non hanno titolo per protestare perché hanno seguito la moda del giustizialismo: aggiungo che la eliminazione della prescrizione dal 1 gennaio prossimo darà definitivamente una delega in bianco al potere giudiziario. Questa analisi non consente al sen. Matteo Renzi di invocare il primato della politica, che per colpe antiche ma soprattutto recenti è stato vituperato e contestato. Renzi, ha esaltato per la decadenza di Berlusconi dal Senato in base ad una legge perversa; ha consentito in ossequio a un giustizialismo qualunquistico le dimissioni di ministri per banali questioni para giudiziarie; ha proposto una legge per il taglio dei vitalizi e ha approvato il taglio dei parlamentari, tutti interventi questi ultimi che delegittimano il Parlamento. Tutto questo ha intaccato la “rappresentanza democratica”. Dunque se il sen. Renzi è convinto delle idee che ha esposto avrebbe dovuto inserire, nella sua proposta di Costituzione sottoposta a referendum, una modifica degli articoli che riguardano la magistratura, per dare vita finalmente ad una riforma valida ed efficace: forse avrebbe potuto finanche vincere il referendum! Gli articoli 104 e seguenti della Costituzione non sono più attuali perché la magistratura ha assunto un ruolo diverso e quindi non è più un “ordine” autonomo ma è un “potere” che quindi va regolato e disciplinato, e questo è il compito che da anni il legislatore dovrebbe svolgere. Renzi si è occupato delle ferie dei magistrati o del limite dell’età pensionabile… e quindi non ha titolo per disquisire. La conseguenza è che quando un legislatore miope ha abolito il finanziamento pubblico, ha implicitamente stabilito che i partiti non avevano e non hanno più la funzione che la Costituzione assegna loro: come fa Renzi a non rendersi conto di questo!? Per ultimo rilevo che nel mini dibattito al Senato non è stato dignitoso sul piano istituzionale la citazione di Moro e Craxi, due statisti che non possono essere confusi con lo squallore attuale. La loro scomparsa ha determinato le crisi ricorrenti e la perdita della credibilità politica che dunque ha perduto il suo primato. Rischia la custodia in carcere chi non presenta la dichiarazione di redditi e Iva di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2019 Anche per il reato di dichiarazione infedele saranno applicabili in futuro gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio e le altre misure coercitive previste dal codice di rito, finora escluse per questo illecito. Per l’omessa presentazione della dichiarazione potrà essere invece disposta anche la custodia cautelare in carcere (si veda l’altro articolo in basso). Con l’approvazione della legge di conversione del decreto fiscale diventa operativo il nuovo regime penale tributario che per effetto del generale innalzamento delle pene edittali sarà caratterizzato, con riferimento a taluni illeciti, da nuove potestà investigative, cautelari e regole procedurali. Le misure coercitive - Il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, gli arresti domiciliari e le altre misure coercitive differenti dalla custodia cautelare in carcere potranno in futuro interessare anche gli indagati del delitto di dichiarazione infedele dei redditi e/o dell’Iva la cui pena edittale viene ora fissata da due anni a quattro anni e sei mesi di reclusione in luogo della precedente da un anno a tre anni. Infatti, a norma dell’articolo 280 del Cpp, tali misure sono applicabili quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni. Sinora non potevano così essere applicate alle infedeli dichiarazioni dei redditi e/o dell’Iva. Ora, invece, per queste fattispecie delittuose, ricorrendo ovviamente anche le altre condizioni previste dagli articoli 281 e seguenti del Cpp, sarà possibile per il Pm richiedere al Gip una di tali misure coercitive. Da evidenziare, che per l’infedele dichiarazione sono state abbassate anche le soglie di punibilità con la conseguenza che la rilevanza penale della condotta viene sensibilmente ampliata ricomprendendo illeciti finora considerati soltanto violazioni amministrative. La nuova fattispecie scatterà infatti al superamento di imposta evasa superiore a 100mila euro - e non più 150mila euro (da intendersi sempre per ciascuna imposta e per ciascun periodo di imposta) e allorché gli elementi attivi sottratti a imposizione siano comunque superiori a due milioni (e non più tre milioni di euro). Intercettazioni - In base all’articolo 266 del Cpp le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione sono consentite, tra l’altro, nei procedimenti relativi ai delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni. A seguito dell’innalzamento delle pene nel decreto legge fiscale, vi sarebbero rientrati anche il delitto di omessa presentazione (la cui pena massima era stata innalzata a sei anni), e di dichiarazione infedele (la cui pena massima era stata innalzata a cinque anni). In sede di conversione in legge per questi due delitti la reclusione massima è stata ridotta rispetto all’iniziale previsione e fissata rispettivamente in 5 anni (omessa dichiarazione) e 4 anni e 6 mesi (infedele dichiarazione). Ne consegue che i delitti per i quali potranno essere svolte intercettazioni delle comunicazioni restano i medesimi del passato e precisamente: dichiarazione fraudolenta con documenti per operazioni inesistenti e mediante altri artifici, emissione di false fatture, occultamento e distruzione di scritture contabili, sottrazione fraudolenta del pagamento delle imposte nella forma aggravata, indebita compensazione con crediti inesistenti. Reati tributari. Arriva lavoro extra per i giudici di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2019 Sarà possibile l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per i delitti di omessa presentazione delle dichiarazioni delle imposte sui redditi, Iva e sostituto di imposta. Ciò, in conseguenza dell’aumento delle pene per questo reato che passano da un anno e sei mesi a due anni (nuova pena minima) e da quattro anni a cinque anni (nuova pena massima). Infatti la custodia cautelare in carcere (articolo 280 del Cpp) può essere, tra l’altro, disposta per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, oltre che, evidentemente, in presenza di determinate circostanze che valuterà il Gip. Ne consegue che con riferimento ai reati tributari (decreto legislativo 74/2000), la custodia cautelare non può essere adottata per: dichiarazione infedele delle imposte sui redditi e Iva (articolo 4), in quanto anche le nuove modifiche prevedono una massima inferiore a i 5 anni (4 anni e 6 mesi); omesso versamento ritenute (articolo 10 bis), Iva (articolo 10 ter) e indebite compensazioni di crediti non spettanti (articolo 10 quater); sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte per importi inferiori ai 200mila euro. Occorre ricordare che il delitto di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dell’Iva e del sostituto di imposta (sanzionato in futuro con la reclusione da due a cinque anni e non più da 18 mesi a quattro anni) per il quale sarà possibile in futuro l’applicazione della custodia cautelare in carcere concerne non solo i cosiddetti evasori totali (soggetti completamente sconosciuti al fisco), ma anche le ipotesi di estero-vestizione societaria, stabili organizzazioni non dichiarate in Italia, e trasferimenti fittizi di residenza all’estero di persone fisiche. Da segnalare infine che gli aumenti di pena previsti per i delitti di omessa presentazione della dichiarazione (redditi, Iva, sostituto di imposta) e di infedele dichiarazione (redditi e Iva) faranno venir meno, per i procedimenti riguardanti questi reati, la citazione diretta a giudizio da parte del Pm. Sinora per questi illeciti penali - abbastanza diffusi - essendo prevista una pena massima non superiore a 4 anni, una volta terminate le indagini preliminari, la Procura ove non avesse ritenuto di richiedere l’archiviazione, provvedeva a citare a giudizio (e quindi all’udienza dibattimentale) l’imputato. In futuro invece anche per questi delitti (essendo prevista ora una pena massima superiore a 4 anni) il Pm dovrà richiedere il rinvio a giudizio al Gip, il quale, all’esito di un’udienza preliminare, deciderà se assecondare la richiesta del Pm ovvero disporre il non luogo a procedere. Da notare che in molti tribunali questa modifica comporterà anche un maggior carico di lavoro per i giudici monocratici “togati” in quanto, in presenza di un rinvio a giudizio da parte del Gup, la fase dibattimentale non può svolgersi innanzi ad un giudice “onorario” a differenza delle ipotesi di citazione diretta a giudizio. Caso Cucchi, le istituzioni non c’entrano di Bruno Ferraro* Libero, 18 dicembre 2019 Non entro ovviamente nel merito della vicenda per la non conoscenza degli atti e per l’estrema difficoltà di muoversi, a tavolino, nel ginepraio delle ricostruzioni fatte negli armi da giudici e periti. Mi limito a ritenere presuntivamente per buona la conclusione a cui, dopo 10 armi e svariati processi, sono pervenuti i giudici della Corte di Assise. Cucchi dunque sarebbe morto in conseguenza del pestaggio subito da due carabinieri nei locali della stazione di Roma Appia, i cui effetti si sarebbero rivelati letali a causa del pessimo stato di salute del geometra romano per malnutrizione ed altre affezioni. Di qui la condanna per omicidio preterintenzionale di due militari dell’arma e per falso del terzo carabiniere (autore nel 2015, a distanza di 6 armi dal fatto, della clamorosa rivelazione): idem per l’ex comandante della stazione, che non avrebbe rivelato nel rapporto la triste verità. Assolti in altri procedimenti gli agenti di polizia penitenziaria che tradussero in tribunale l’arrestato per la convalida; assolti gli infermieri ed i medici che si occuparono della salute di Cucchi nei pochi giorni che precedettero la morte. Legittima allora è la domanda: è stata fatta veramente giustizia? E se sì, chi esce dal processo come vincitore o vinto? Ha vinto sicuramente la famiglia del geometra che si è strenuamente battuta, non rassegnandosi ai primi deludenti verdetti e ponendo in essere un’azione di denunzia a livello di opinione pubblica e di mass media che ha scongiurato la caduta dell’oblio sul caso. Non riavrà il congiunto ma potrà rivalersi con un’azione risarcitoria. Ne escono vincitori gli agenti di polizia penitenziaria, i medici e gli infermieri dell’ospedale Pertini. D’altro canto, che ragione avevano i primi per picchiare l’arrestato nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, con la sicura certezza di essere scoperti dai magistrati (Gip e Pm) incaricati di lì a poco della convalida dell’arresto? Quale plausibile motivo poteva spingere medici ed infermieri a trascurare il paziente in maniera tanto grave da procurarne la morte? Le perizie, a quanto è dato sapere, hanno escluso qualsiasi profilo di responsabilità professionale. Ne esce bene la Giustizia. La conclusione dimostra che i magistrati procedono magari a rilento leggendo variamente le carte processuali ma alla fine imboccano il sentiero della verità: verità, si badi bene, che è quella processuale non sempre coincidente con la verità reale ed assoluta. Non ne esce sconfitta l’Arma dei carabinieri, la cui immagine di strenua paladina dell’ordine, della sicurezza e dei diritti dei cittadini non è scalfita dall’operato, in singoli casi, di suoi appartenenti. L’Arma dunque non assume il ruolo di imputata ma se mai di parte lesa per la lesione di immagine ingenerata da vicende come questa. È chiaro che le valutazioni appena fatte si basano sulle conclusioni, processualmente non definitive, della sentenza di Corte di Assise: una sentenza che merita rispetto al pari di quelle che l’hanno preceduta, giungendo a conclusioni in tutto od in parte diverse. Giudicare non è facile. Giudicare bene, quando l’opinione pubblica preme chiedendo una sollecita “verità”, è ancora più difficile. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Caso Regeni, la verità in parlamento: “Nella rete degli 007 egiziani” di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 dicembre 2019 Verità per Giulio Regeni. Per la prima volta, davanti alla commissione d’inchiesta, parlano i pm di Roma: “Fu torturato in più fasi e i depistaggi furono quattro”. I genitori di Giulio: “Ora l’Egitto sa”. Giulio Regeni era seguito e pedinato da mesi, attorno a lui la National security egiziana aveva tessuto una ragnatela mortale. Una volta rapito, venne torturato in più fasi, per giorni, e morì dopo terribili sofferenze per un ultimo colpo che gli ha spezzato l’osso del collo. In seguito, gli apparati egiziani hanno pianificato e attuato almeno quattro depistaggi, arrivando ad orchestrare l’omicidio di innocenti che dovevano fungere da capri espiatori. A rimettere insieme tutte le tessere del sanguinario puzzle raccolte dagli inquirenti italiani che per anni hanno lavorato in solitudine sull’assassinio in Egitto del giovane ricercatore friulano, ritrovato morto il 3 febbraio 2016 sulla strada che collega Il Cairo ad Alessandria, nei pressi di una delle prigioni-lager dei servizi segreti egiziani, è stato ieri lo stesso pm romano che ha coordinato le indagini. Il sostituto Sergio Colaiocco, assieme al procuratore Michele Prestipino, ha ripercorso le fasi delle difficili indagini davanti ai membri dalla neo costituitasi commissione bicamerale d’inchiesta presieduta da Erasmo Palazzotto (Leu). Ed è questa la novità: per la prima volta gli inquirenti italiani ufficializzano in Parlamento i risultati delle loro indagini. “Intorno a Giulio Regeni è stata stretta una ragnatela dalla National security egiziana già dall’ottobre 2016 - ha raccontato Colaiocco. Una ragnatela in cui gli apparati si sono serviti delle persone più vicine a Giulio al Cairo tra cui il suo coinquilino avvocato, il sindacalista degli ambulanti e Noura Whaby, la sua amica che lo aiutava nelle traduzioni”. I due magistrati della procura di Roma hanno poi riferito i particolari dell’autopsia eseguita a Roma dal professor Vittorio Fineschi: “L’esame autoptico svolto in Italia ha dimostrato che le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 gennaio e il 31 gennaio. L’esame della salma depone per una violenta azione su varie parti del corpo. I medici legali hanno riscontrato varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il 1 febbraio, per la rottura dell’osso del collo”. La verità dunque era già nota, rivelata da quel corpo martoriato. Ma le autorità di Al Sisi negarono l’evidenza fin dal primo istante: “Nell’immediatezza dei fatti sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini - ha spiegato Colaiocco. In primis l’autopsia svolta al Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Altro depistaggio - continua il magistrato - è stato quello di collegare la morte di Giulio ad un movente sessuale: Regeni viene fatto ritrovare nudo”. E ancora altri due tentativi di depistaggio: “Due giorni prima della nostra trasferta del 14 marzo del 2016, un ingegnere parla alla tv egiziana raccontando di avere visto Regeni litigare con una persona straniera non lontano dal consolato italiano e fissa alle 17 del 24 gennaio l’evento. È tuttavia emerso che il racconto è falso e ciò è dimostrato dal traffico telefonico dell’ingegnere che lo colloca a chilometri di distanza dal nostro consolato sia dal fatto che Giulio a quell’ora stava guardando un film su internet a casa”. Quell’uomo ha poi ammesso di avere mentito su istruzioni di un ufficiale della Sicurezza nazionale che peraltro faceva parte del team investigativo congiunto italo egiziano. “Su questo episodio non ci risulta che la Procura del Cairo abbia mai incriminato nessuno”, ha sottolineato il pm. E infine l’ultima falsa pista costruita con “l’uccisione di cinque soggetti appartenenti ad una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani - conclude Colaiocco - erano stati loro gli autori dell’omicidio”. Una prima audizione, quella di ieri della commissione d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, che ha in qualche modo rincuorato i genitori Paola e Claudio, che da quattro anni lavorano per ottenere verità e giustizia: “In questi anni abbiamo dovuto lottare contro violenze, depistaggi, omertà, prese in giro e tradimenti - hanno commentato. Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in sinergia con noi e la nostra legale. Oggi per la prima volta i nostri procuratori hanno potuto rendere pubblici gli sforzi e i risultati del loro lavoro, e da oggi chiunque in Egitto e in Italia sa che la nostra fiducia in loro è ben riposta”. I coniugi Regeni hanno detto di confidare, a questo punto, “che la commissione d’inchiesta sappia sostenere con umiltà, rispetto e intelligenza il lavoro della nostra magistratura e della nostra legale”. Limiti giurisdizionali sui reati commessi all’estero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 48250. È ampia, ma non illimitata, la forza attrattiva della giurisdizione italiana nella repressione delle attività legate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La Cassazione, sentenza n. 48250 della Quinta sezione penale, ha affermato che, in assenza di un fondamento normativo che permetta di derogare al principio di territorialità, non esiste giurisdizione della magistratura italiana su reati commessi dallo straniero in danno dello straniero e interamente consumati all’estero, anche se connessi con reati (nella specie associazione per delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) per i quali la giurisdizione italiana è accertata. È stato così respinto il ricorso del Pm di Catania contro la decisione del Tribunale, in sintonia peraltro con quella del Gip, che aveva respinto la richiesta di carcerazione preventiva nei confronti di un uomo accusato dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura aggravata e violenza sessuale, commessi in Libia ai danni di alcuni migranti approdati successivamente in Italia. Per il pubblico ministero, il Tribunale avrebbe ritenuto, sbagliando, che requisito necessario per affermare la competenza del giudice italiano su reati interamente commessi fuori dal territorio dello Stato è l’esercizio del diritto di inseguimento, quando invece a dovere essere valorizzato sarebbe il rapporto di stretto collegamento tra gli illeciti commessi all’estero e quelli per i quali è certa la competenza nazionale. La Cassazione però non è stata di questo parere e ha ricordato innanzitutto il peso da attribuire agli istituti del diritto di inseguimento e della presenza costruttiva. Sulla base di convenzioni internazionali (quella di Ginevra del 1958 e quella di Montego Bay del 1982), infatti, le autorità dello Stato hanno il diritto di inseguire la nave straniera, sospettata di avere contribuito alla commissione di reati, anche oltre i limiti delle acque territoriali, a patto che l’operazione sia iniziata quando la nave era nel mare territoriale. È questo aggancio tra nave straniera e ambito territoriale nazionale a giustificare l’estensione della potestà punitiva dello Stato ai reati commessi in acque internazionali, ma strettamente collegati a quelli compiuti negli spazi assoggettati a giurisdizione nazionale. Altro elemento considerato dalla giurisprudenza è stato poi quello della presenza costruttiva, che permette di ritenere legittimo l’inseguimento anche della nave che non è mai entrata nelle acque territoriali, quando l’imbarcazione che vi ha invece fatto ingresso può essere considerata parte della medesima flotta. Una ricostruzione, quest’ultima, che prende in considerazione la sostanziale unitarietà delle imbarcazioni, dando importanza alla condotta delle “navi figlie”, permettendo di agire anche nei confronti della “nave madre”. In ogni caso, conclude la Cassazione, non è mai stato affermato il principio sostenuto dal Pm, per cui la connessione sarebbe criterio autonomo di individuazione della giurisdizione italiana per fatti commessi all’estero, da e ai danni dello straniero. Videosorveglianza, l’ok dei lavoratori non sostituisce la garanzia del sindacato e l’Ispettorato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 17 dicembre 2019 n. 50919. Il consenso collettivo o individuale dei dipendenti non può legittimare a posteriori la presenza in azienda di strumenti di videosorveglianza se il datore di lavoro li ha installati in violazione delle prescrizioni dello Statuto dei lavoratori, cioè senza consultazione e accordo con le rappresentanze sindacali o senza l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro provinciale. Passaggi che vanno compiuti prima di mettere in funzione i predetti strumenti. Quindi, come afferma la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 50919di ieri - il comportamento illegittimo perché posto in violazione delle prescrizioni indicate nell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, non è sanabile ex post raccogliendo il consenso dei lavoratori in azienda vista la posizione di sicura soggezione che questi hanno nei confronti dell’azienda datrice del loro posto di lavoro. La presa di posizione della Corte di legittimità - La Cassazione prende posizione sulla legittimità dell’installazione da parte del datore di lavoro di strumenti di videosorveglianza all’interno della propria azienda. E afferma, smentendo un proprio orientamento del 2012, che il consenso dei singoli lavoratori non può equivalere alla contrattazione con le rappresentanze sindacali o all’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro: il consenso scritto di tutti i singoli lavoratori non fa scattare alcuna esimente. Viene a mancare la tutela tipica delle relazioni sindacali o il vaglio di legalità che in alternativa è effettuato dall’Ispettorato del lavoro che autorizza il comportamento successivo del datore di lavoro. Infatti, quelli previsti dallo Statuto, sono adempimenti presupposti e non successivi alla predisposizione di strumenti aziendali in grado di effettuare videosorveglianza dei comportamenti dei propri dipendenti. Spiega la Cassazione che il controllo sui lavoratori è materia eminentemente delicata perché intrecciata con diritti fondamentali della persona come appunto il rispetto della privacy. E che proprio per tali ragioni in questa materia si tratta di diritti collettivi e superindividuali sottratti alla disponibilità del singolo anche inteso come l’intera platea dei lavoratori. La norma dello Statuto dei lavoratori - Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Borsello sottratto al passeggero del treno: pena più severa per il ladro La Stampa, 18 dicembre 2019 Riconosciuta l’aggravante della “sottrazione del bagaglio al viaggiatore”. Decisiva l’osservazione che il concetto di bagaglio include anche una semplice borsa o un marsupio che contiene documenti o valori e che la persona può portare con sé. Ampio il concetto di bagaglio: esso può includere anche un semplice marsupio. E proprio applicando questa visione è stata riconosciuta la maggiore gravità di un ladro che su un treno ha preso di mira un viaggiatore, sottraendogli il borsello (Cassazione, sentenza n. 48069/19, sez. V Penale, depositata il 26 novembre). Bagaglio. Ricostruito l’episodio, i Giudici di merito ritengono evidente la colpevolezza dell’uomo sotto processo che ha messo a segno su un treno un furto ai danni di un passeggero, sottraendogli un marsupio. A rendere più severa la pena, poi, il riconoscimento dell’aggravante prevista quando oggetto del latrocinio è “il bagaglio”. Su quest’ultimo punto si sofferma il legale dell’uomo, spiegando che “il borsello (o marsupio) per l’uomo va indossato, come gli occhiali o un cappotto”. Impossibile, quindi, seguendo questa logica, parlare di sottrazione di bagaglio. A questa osservazione ribattono i giudici della Cassazione, chiarendo che “per bagaglio del viaggiatore deve intendersi tutto ciò che questi porta con sé, senza custodirlo sulla propria persona, quale una borsa - come il marsupio, che può essere portato con sé in più modi - che contenga documenti o valori”. Toscana. Sovraffollamento e celle fredde, è emergenza nelle carceri di Andrea Vivaldi La Repubblica, 18 dicembre 2019 A Sollicciano ieri un guasto ha lasciato senza riscaldamento 400 persone. Infiltrazioni di acqua a Pisa e Massa Carrara. La denuncia: “Mancano agenti. Intervenga il ministro Bonafede”. L’impianto di riscaldamento fuori uso al carcere di Sollicciano a Firenze. Le infiltrazioni d’acqua al Don Bosco di Pisa e a Massa Carrara. La rissa e l’aggressione a Porto Azzurro sull’Isola d’Elba. Tredici istituti sovraffollati e polizia penitenziaria carente praticamente in ogni sede. Sono senza tregua le difficoltà nelle carceri toscane. I problemi strutturali sono numerosi e disseminati in tutta la regione. Ieri a Firenze è dovuta intervenire la Regione e la Misericordia per portare 400 coperte ai detenuti. “Il riscaldamento è guasto, per l’ennesima volta - scrive la Camera penale di Firenze - come l’anno scorso e come nel 2016. Fa freddo”. Le già precarie condizioni di vita e lavoro sono aggravate da un numero di condannati oltre i limiti: 671 persone in eccesso secondo i rilevamenti di fine novembre. Di questi 282 a Sollicciano, 48 a Massa, 44 a Lucca, 29 a San Gimignano. Solo tre sedi hanno numeri in regola. Dati all’opposto con quelli della polizia penitenziaria che conta invece una carenza nell’organico: 296 agenti in meno rispetto a quanto previsto per legge. Tra le celle si crea un clima di agitazione che innesca, come accaduto nei mesi scorsi, momenti di violenza. L’ultimo caso a Porto Azzurro sull’Isola d’Elba, dove una guardia è rimasta coinvolta in una colluttazione ed è stata portata all’ospedale di Portoferraio, ricevendo poi una prognosi di 10 giorni. “La grave situazione in cui versa questo istituto - spiega dopo l’episodio Donato Capece, segretario generale del Sappe - è dovuta soprattutto alla mancanza di sicurezza”. In molti penitenziari della Toscana sono necessari interventi di più tipo. A Pisa, ad esempio, non sono ancora stati conclusi i lavori per il settore femminile. Serve sistemare il teatro del carcere di Volterra. C’è da risolvere la sezione trattamentale a Lucca. Definire la chiusura dell’istituto a Grosseto. Il Gozzini di Firenze è in attesa di un possibile cambio di destinazione per ospitare solo il reparto femminile. Ci sono condizioni complesse anche al Don Bosco di Pisa: “Qui sono stati fatti alcuni lavori di ristrutturazione, ma non sono sufficienti - spiega Grieco Eleuterio, segretario generale regionale della Uilpa. Il centro clinico ha avuto un crollo del soffitto e la struttura interna è ferma da 15 anni. Avere condizioni dignitose per i detenuti vuol dire averle anche per il personale”. Non a caso dopo il guasto di ieri a Sollicciano, la Camera penale ha chiesto l’intervento di Alfonso Bonafede, ministro della giustizia, per risolvere la situazione di “quelle celle sovraffollate, umide e fredde”. E ha poi puntato il dito contro lo stato decadente dell’edificio: “La struttura è afflitta da un’umidità ineliminabile, perché l’acqua filtra ovunque - dice la Camera - e quando manca il riscaldamento quel freddo continuo entra nelle ossa, ti fa ammalare, ti fa sentire ancora più solo e lontano dal mondo là fuori, ti fa sentire ancor più abbandonato”. Corleone: “I fondi ci sono ma la burocrazia frena tutto” In diversi penitenziari della Toscana ci sono problemi strutturali che si trascinano da tempo. Franco Corleone, Garante regionale dei detenuti, ha affrontato in più occasioni la questione, sottolineando l’importanza d’investire per i diritti e la vita dei carcerati. Corleone, mancano i soldi per gli interventi? “I fondi ci sarebbero. Per la Toscana sono stati stanziati oltre 13 milioni e 800 mila euro, ma per ora sono stati usati solo in parte. Ci sono procedure lentissime: controlli lunghi, ditte che si rivelano non in regola, magari con problemi di trasparenza antimafia. Ricorsi e slittamenti che durano anni. Quando finalmente arrivano i soldi, ormai non bastano più perché erano stati stanziati anni prima”. Ci sono interventi urgenti da realizzare? La situazione è drammatica in alcuni penitenziari, come dimostra il black-out a Sollicciano… “Abbiamo 13 cantieri aperti nella regione. Ci sono miglioramenti importanti per la dignità dei detenuti. A Pisa deve ancora essere inaugurato il nuovo reparto femminile con bagni non più a vista. Il Gozzini di Firenze sta aspettando di diventare una sede solo femminile: potrebbe essere un luogo diverso che dia valore al reinserimento e alla differenza di genere”. Come si contrasta il cronico problema del sovraffollamento nelle carceri della nostra regione? “In Toscana il 33,8% delle persone è in cella per spaccio. E se a questi aggiungiamo i tossicodipendenti, spesso arrestati per furto o scippo, andiamo sopra il 50%. Aumentando le pene per questi reati definiti dalla legge “di lieve entità”, cresce il sovraffollamento. Il meccanismo scoppia”. Esiste un modello alternativo? “Manca un progetto culturale e politico per il carcere. Bisogna cambiare per la vita interna. Servono educatori e scuola. In Catalogna il personale è tutto civile, la guardia nazionale viene solo per rivolte. Dobbiamo decidere se avere istituti di custodia o di riabilitazione in cui si lavora. È una questione di scelte”. Roma. Uccise i suoi due figli nel carcere di Rebibbia, assolta per vizio di mente di Monica Musso Il Dubbio, 18 dicembre 2019 La donna dovrà trascorrere 15 anni in una Rems. Prima di uccidere i due bimbi la donna era stata segnalata più volte per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei loro confronti. Vizio totale di mente: è quanto ha deciso il Gup di Roma Anna Maria Gavoni, che ha assolto Alice Sebesta, la detenuta tedesca che il 18 settembre 2018 ha ucciso i due figli, scaraventandoli dalle scale nel reparto nido del carcere di Rebibbia. La donna dovrà trascorrere 15 anni in una Rems, struttura sanitaria per l’esecuzione di misure di sicurezza. Anche il pm Eleonora Fini aveva chiesto l’assoluzione per vizio totale di mente. La donna, difesa dall’avvocato Andrea Palmiero, poco prima della sentenza ha reso dichiarazioni spontanee in aula. “Non è vero che sono una cattiva madre, non ho usato alcuna crudeltà - ha detto. L’ho fatto per salvare i miei figli: a loro ci penso ogni giorno”. Uscita dall’aula ha abbracciato in lacrime il suo avvocato. Una donna affetta da “una grave forma di dissociazione”, che al suo ingresso in carcere aveva già alle spalle un percorso clinico di 9 anni. Un particolare che era emerso nel corso dell’incidente probatorio, finalizzato a capire se la donna, arrestata il 26 agosto 2018 perché trovata in possesso di 10 chili di marijuana, fosse capace di intendere e di volere. “La sua è una patologia abbastanza forte - spiegava allora al Dubbio l’avvocato Palmiero - e il consulente ha rilevato una grave forma di dissociazione”. Le sue condizioni, però, non erano state ritenute incompatibili con il regime carcerario, nonostante quanto contenuto in un documento firmato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, visionato dall’Ansa subito dopo la tragedia. Prima di uccidere Faith, di 4 mesi, e Divine, di 19 mesi, la donna sarebbe stata segnalata più volte “per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli”, tanto che il personale del carcere aveva segnalato “la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico”. Prima di compiere il terribile gesto, la donna aveva atteso che le altre detenute sfilassero prima di lei per poi rimanere in disparte e sbattere ripetutamente, con forza, il corpo dei suoi due bimbi per terra. Una volta compreso quanto stava accadendo, sono intervenute alcune agenti della polizia penitenziaria e diverse detenute rom per cercare di fermare la furia della donna. “Adesso i miei figli sono liberi, gli ho dato la libertà”, aveva spiegato la donna al suo avvocato, giustificando così la tragica fine dei suoi figli. Nel corso dell’interrogatorio, la donna aveva affermato di aver “mandato mio figlio a Dio”. E aveva aggiunto: “ho cercato un posto dove buttare i bimbi perché certamente andranno in cielo. Non voglio che questo mondo li distrugga”. Palermo. Reinventarsi dopo il carcere, l’iniziativa Panormedil-Cpt livesicilia.it, 18 dicembre 2019 Attualmente sono in fase di svolgimento due corsi per operatore edile in due diversi reparti. Reinventarsi muratori, elettricisti o idraulici. Apprendere un mestiere e trovare un impiego stabile. Una seconda possibilità per l’inserimento socio-lavorativo dei soggetti detenuti. Grazie all’attività di formazione e di tirocini sarà più facile il reinserimento lavorativo delle persone che stanno scontando la loro pena al carcere Pagliarelli di Palermo. Il progetto “Avviso 10/2016 - Costruisci il tuo futuro” è attuato dal Panormedil-Cpt, l’ente unico per la sicurezza e formazione nell’edilizia. Si tratta di un intervento realizzato nell’ambito delle iniziative promosse dal programma operativo Regionale Sicilia 2014/2020 cofinanziato dal Fondo sociale europeo. L’ente bilaterale presieduto da Mario Puglisi, vicepresidente Pasqualino De Vardo, lo ha realizzato in associazione con E.N.G.I.M. Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo e Ance Palermo Associazione Nazionale Costruttori Edili di Palermo: l’obiettivo è quello di affermare il principio del fine rieducativo della pena e di offrire una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario o in regime alternativo alla detenzione. Il progetto prevede la realizzazione di cinque corsi di formazione. Attualmente sono in fase di svolgimento due corsi per operatore edile in due diversi reparti, oltre la selezione dei partecipanti che vede coinvolti 120 detenuti. Il carcere diventa così non solo il luogo in cui scontare una pena ma anche il punto di partenza per una nuova vita. E niente può agevolare un percorso di questo tipo come il reinserimento nel mondo del lavoro. In questi giorni, i docenti del Panormedil-Cpt hanno anche celebrato un piccolo momento conviviale con il detenuto nei due reparti coinvolti dal progetto. Bologna. Gianni Morandi e gli imprenditori insieme ai detenuti, per il lavoro di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 18 dicembre 2019 Si è portato dietro la chitarra Gianni Morandi, ieri entrando nel carcere della Dozza insieme al gotha dell’imprenditoria bolognese. L’occasione era una festa di scambio di auguri natalizi con detenuti e agenti della penitenziaria organizzata grazie alla collaborazione della direttrice del carcere Claudia Clementi e del provveditore per l’Emilia-Romagna e le Marche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Gloria Manzelli. Il cantante, che è stato “pizzicato” per caso all’ingresso dai cronisti subito dopo l’inaugurazione della nuova aula bunker per i processi, ha sottolineato “l’importanza di questa visita, perché ci sono persone che fanno un lavoro di riabilitazione e imprenditori bolognesi che offrono questa possibilità”. Oltre a fare gli auguri di Natale a dipendenti e detenuti, ha scherzato Morandi, “se si divertono sono pronto a cantare”. Tra gli imprenditori in visita alla Dozza c’era il presidente di Confindustria Emilia, Valter Caiumi, che nel rimarcare l’importanza dei progetti sulla promozione del lavoro in carcere ha spiegato che “si vuole vedere se c’è spazio per espanderli. Abbiamo colto l’occasione per cercare di capire da un lato quali iniziative già sono in corso alla Dozza”, dove ad esempio “si fanno attività di assemblaggio con alcune imprese bolognesi, con il contributo dei tecnici delle varie aziende”, e dall’altro “se c’è la possibilità di estendere i progetti in altre carceri”. Sull’utilità del lavoro in carcere, che “rappresenta una possibilità di rifarsi una vita” si sofferma anche Maurizio Marchesini, presidente di Marchesini Group, spiegando che “questi ragazzi sono lavoratori come gli altri, e quando escono li inseriamo nelle nostre aziende e in quelle dell’indotto, quindi siamo qui a fare gli auguri di Natale come facciamo con i nostri dipendenti”. Marchesini ha anche sottolineato che “Morandi ha accettato subito l’invito, non c’è stato bisogno di convincerlo”. Presenti anche Alberto Vacchi (Ima), Isabella Seragnoli (Coesia e Gd) e Flavia Franzoni. Foggia. Detenuti confezionano le strenne natalizie ai dipendenti del Gruppo Megamark manfredonianews.it, 18 dicembre 2019 Oltre 3.000 strenne natalizie destinate a dipendenti e collaboratori del gruppo Megamark di Trani assemblate e confezionate nella Casa Circondariale di Foggia. Al lavoro da alcuni giorni sono Matteo e Carlo, i due ragazzi assunti a tempo indeterminato dalla Cooperativa Sociale “Pietra di Scarto” di Cerignola che, nel luglio 2018, avviò il progetto “In me non c’è che futuro” in partnership con la Direzione della Casa Circondariale, il Provveditorato agli Istituti Detentivi di Puglia e Basilicata e la Farmalabor di Canosa di Puglia; obiettivo dell’iniziativa realizzare all’interno dell’istituto penitenziario un laboratorio di packaging per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti ospiti della struttura. È il secondo anno che Matteo e Carlo confezionano le strenne per il Gruppo Megamark (presente nel Mezzogiorno con oltre 500 supermercati Dok, A&O, Famila e Sole365), grazie anche al sostegno dell’omonima Fondazione, sempre attiva e sensibile alle tematiche sociali del territorio. “Questo progetto per noi rappresenta una grande sfida, non esente da difficoltà - dichiara Pietro Fragasso, presidente di “Pietra di Scarto” - che vuol realizzare il dettato costituzionale del recupero del detenuto già all’interno del carcere, attraverso l’arma di riscatto più potente che esista: il lavoro. E non è un caso che abbiamo deciso di intitolare il Laboratorio, dove Carlo e Matteo tutti i giorni lavorano, alla figura di Piero Calamandrei, padre della Repubblica, che tanto si è battuto per i diritti di chi sconta una pena. Il sostegno della Fondazione Megamark racconta di un territorio che sa costruire sinergie positive capaci di generare opportunità lavorative concrete che vanno oltre le semplici buone intenzioni e sanno farsi sostanza, economia solidale”. “Il lavoro - ha dichiarato Francesco Pomarico, direttore operativo del Gruppo Megamark - è un diritto di tutti, a maggior ragione di chi intravede in esso un riscatto sociale mentre sconta una pena in carcere che, a nostro avviso, deve offrire la possibilità di una seconda vita. Insieme alla nostra Fondazione sosteniamo anche quest’anno il progetto, lieti che ognuno dei nostri 3.000 collaboratori, scartando il proprio pacco dono, possa comprendere l’importanza dei percorsi di riabilitazione sociale e recupero lavorativo dei carcerati”. Catanzaro. Nel carcere al via il progetto “Essere genitori oltre le sbarre” cn24tv.it, 18 dicembre 2019 È stato avviato nel carcere di Catanzaro il progetto di genitorialità dal titolo “Essere genitori oltre le sbarre”. Lo scorso 16 dicembre le stanze della struttura sono state riempite di disegni, giochi, merende a basi di dolci. Questo momento di socialità in vista del Natale è una tappa del progetto Genitorialità portato avanti dall’Istituto in collaborazione con l’associazione Universo Minori, presieduta da Rita Tulelli. La direttrice della Casa Circondariale Angela Paravati spiega: “Il progetto intende elaborare e ridefinire i valori, le emozioni ed i pensieri dei detenuti rispetto al proprio ruolo genitoriale”. Le attività di gruppo sono state tenute settimanalmente fin da ottobre da risorse qualificate, tra cui la psicologa Maria Teresa Villì, dell’associazione Universo Minori, con l’obiettivo di accrescere la relazione emotiva tra detenuti e figli e sono state quindi una preparazione all’incontro di oggi. Il ruolo di genitore, seppur limitato dalla detenzione, deve rimanere sempre attivo e vigile ed è spesso la motivazione migliore per un reinserimento sociale onesto”. La presidente Rita Tulelli ha ringraziato la direzione dell’Istituto “per una collaborazione che va avanti da anni e che è l’esempio dei risultati proficui che istituzioni e realtà del terzo settore possono raggiungere attraverso un cammino comune”. Il progetto proseguirà nel corso dei prossimi mesi per creare una maggiore connessione emotiva con il contesto esterno, anche attraverso l’analisi dei valori e dei pensieri disfunzionali. L’obiettivo è condurre i detenuti a conoscere le emozioni principali (rabbia, paura, tristezza, gioia), sapere come e quando si presentano, quali effetti hanno sul corpo e sui pensieri, riconoscerle in sé e negli altri. Napoli. Il Natale delle detenute di Pozzuoli: “Vigilia in cella con i nostri figli” di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 18 dicembre 2019 Resteranno in carcere 130 ospiti, altre trenta potranno andare a casa in permesso premio. Per Natale molte delle 160 donne detenute della Casa circondariale femminile di Pozzuoli andranno a casa. Almeno una trentina con i permessi premio già accordati. Per i colloqui in sede alla Vigilia del 24 molte ospiti potranno stare con i figli e i mariti. Per chi resta “dentro” ci sarà comunque la possibilità di festeggiare. Per loro la Comunità di Sant’Egidio ha preparato una festa il 30 dicembre con un ricco buffet e un concerto di Rosa Chiodo: si ballerà, si canterà e si cercherà di dimenticare. In questo istituto di pena si respira un’aria di umanità e di sensibilità. All’interno storie di solitudine, amarezza, depressione, ma anche di colpe non dovute per reati di cui qualche volta ci si accusa per difendere i propri figli. Nella mattinata trascorsa in compagnia del cardinale Sepe, ad ascoltare il quartetto Discantus, con la splendida voce del soprano Martina Sannino, qualcuna prova a raccontarsi. Valentina è una bella ragazza alta e con un viso fresco, ha 25 anni, deve scontare il “definitivo” di un anno e mezzo. Viene da Secondigliano: è in cella per una rapina. “L’unico reato che ho commesso - dice - è stato in un momento di debolezza. Lavoravo in un bar, finivo tardi la sera e venivo da una forte depressione, i miei genitori “quel giorno” non riuscivano a rintracciarmi, non avrebbero mai immaginato che avessi commesso un reato”. Valentina è fra le ragazze che hanno partecipato al presepe vivente che si è tenuto qui la settimana scorsa. Per Natale non potrà andare a casa, è qui solo da un mese. Sarà in compagnia delle altre: “Qui c’è un bel clima, con le compagne ci vogliamo bene, io credo che si possa sempre migliorare, voglio cambiare vita”. Questo è un po’ un sentire comune, parla così anche Luana, 33 anni di Taranto: “Non mi hanno fatto mai sentire sola anche se non sono di Napoli”. C’è anche Anna, 60 anni, è in carcere per un reato del quale si dice “colpevole con la legge, ma non con il Signore”. La fede l’ha aiutata a superare un grosso dolore: la perdita di un figlio ventenne. Per le feste Anna andrà a casa in permesso, così potrà stare con i suoi sette figli. “So che devo stare bene e uscire di qui per loro, soprattutto per Marco che è disabile. Le assistenti e la direttrice sono brave con noi, voglio ringraziarle”. Dalla sua cella si vede una croce, forse quella della chiesa di San Gennaro. “È da un po’ che è spenta - dice - credo sia guasta, vi chiedo di farla riparare, quella croce illuminata mi dà tanta speranza”. Una realtà che ti resta nel cuore questa di Pozzuoli. Qui dentro si lotta per la rieducazione. La direttrice Carlotta Giaquinto: “Cerchiamo di creare osmosi tra il carcere e il territorio, perché crediamo che le nostre detenute siano persone che facciano parte a pieno titolo della società”. Tante le attività che si fanno, dalla torrefazione del caffè “Lazzarelle”, ai corsi di estetica e di teatro, alla gestione di una piccola boutique. Il tutto per sentirsi donne e vive anche qui dentro. Quando esci e vedi di fronte lo splendido panorama del Golfo, su cui il penitenziario si affaccia, pensi di essere più fortunata a stare fuori e impari - forse - a non giudicare troppo facilmente. Roma. Volontari di Regina Coeli: un quartiere, un carcere, un ospedale di Giuliano Giulianini earthday.it, 18 dicembre 2019 L’intervista a padre Vittorio Trani, fondatore e presidente dei Volontari di Regina Coeli racconta la quotidianità dell’associazione Voreco, che si occupa di assistenza ai detenuti del carcere romano, durante e dopo la pena. Un’attività, allargata ai senzatetto e ai bisognosi di Roma, sostenuta dalla comunità del quartiere con donazioni e servizi gratuiti assicurati da medici, legali e consulenti volontari. Pochi luoghi sono tanto rappresentativi delle bellezze, potenzialità e criticità di Roma quanto via della Lungara. In poche centinaia di metri si passa dagli incanti dell’orto botanico ai ricoveri di fortuna sotto i ponti del Tevere; dagli angoli turistici con negozi e ristoranti alle strutture ospedaliere del vicino Bambin Gesù; dai locali alla moda di Trastevere alle mura del carcere di Regina Coeli. Proprio dalla comunità del penitenziario nasce l’associazione Volontari di Regina Coeli che a via della Lungara gestisce un centro di accoglienza per ex detenuti e bisognosi del quartiere. Un’accoglienza morale e materiale cui partecipa anche la comunità locale, donando cibo, medicine, abiti e disponibilità al volontariato. Ecosistema, la trasmissione di Earth Day Italia trasmessa da Radio Vaticana, ne ha parlato con padre Vittorio Trani, fondatore e presidente dell’associazione Vo.Re.Co. La novità di questi mesi è la “farmacia di strada” che ha aperto nella sede di Vo.Re.Co. in via della Lungara. Che attività fa questa farmacia, che affianca l’ambulatorio già attivo da tempo? “È nata come “espressione naturale” proprio della presenza dei medici, il sabato mattina. Si sentiva il bisogno di avere dei medicinali da poter dare. È stato il frutto di una collaborazione tra chi produce le medicine, i farmacisti, e diverse associazioni che si occupano di persone che sono del disagio e hanno bisogno di medicine. Abbiamo avuto un’inaugurazione in cui si sono impegnati chi può darci delle medicine e dei privati che stanno mandando medicinali di loro iniziativa”. Personalmente ho visto oggi una signora portare dei medicinali donati da lei. Che altro possono fare le persone che vogliono sostenere quest’associazione di volontariato. Di che generi di prima necessità avete bisogno, per distribuirli alle persone che assistete? “Tutto! Si può dire: che ognuno vada in farmacia, compri una medicina - possibilmente medicine da banco, di prima necessità, che qui sono molto importanti - e le porti qui. Vengono prese in carico dai farmacisti che le selezionano e poi entrano nel circuito. Questo è uno dei punti dove si distribuiscono le medicine, ma altre vengono portate in centri di altre associazioni che si occupano dei poveri”. La connotazione particolare di questa associazione Volontari del Regina Coeli è appunto la vicinanza con il carcere. Vicinanza fisica ma anche morale: lei è cappellano del carcere. C’è un’osmosi fra questi due luoghi: qui si assistono anche gli ex carcerati. Chi sono queste persone? Di che cosa hanno bisogno, una volta che hanno finito il loro percorso dentro il carcere? “Stasera arriverà un detenuto che sta dentro Regina Coeli e lavora all’esterno: può rimanere qui alcune ore il pomeriggio e la domenica. È una collaborazione: questa persona, che ha la fiducia dell’amministrazione, avrà delle ore da passare qui in alternativa al trascorrerle in carcere. Inoltre ci sono (nel centro di accoglienza, nda.) due detenuti che sono usciti ma che non avevano casa; quindi hanno chieste dei giorni per potersi guardare un po’ attorno. Già ci sono in lista altri due che usciranno il 7 gennaio e rimarranno qui: uno quindici giorni, un altro un mese. Inoltre si è instaurata una prassi: ai detenuti che sono soli ed hanno già trascorso una pena abbastanza “robusta”, e a cui si vuole dare un minimo di fiducia, danno un permesso del giorno qui. Quindi io li vado a prendere la mattina alle 9 e li riporto la sera. È una forma di collaborazione molto interessante. Poi qui c’è lo smistamento della biancheria e di quanto altro (donazioni, nda) viene portato poi in carcere. È un rapporto molto bello”. C’è anche un’altra faccia del quartiere: quella dei “ragazzi di strada” come li ha definiti un suo volontario: le persone che vivono nel quartiere, che siano ex detenuti, o stranieri arrivati a Roma, o anche italiani che hanno perso la casa. Che rapporto c’è fra il quartiere e queste persone che magari passano la notte sotto i ponti o nella struttura che voi avete a disposizione? “C’è un piccolo riflesso bello. Quando abbiamo aperto l’alloggio (in via S. Francesco di Sales, poco lontano, nda) gli abitanti della zona erano tutti guardinghi, mi guardavano come a dire “questo prete adesso ci mette una rogna qui a due passi. Dopo un anno mi hanno chiesto scusa, dicendomi: “Questi ragazzi non li sentiamo”. Non hanno avuto mai un problema. Ma l’aspetto più importante è che si è creato un rapporto di solidarietà: nel quartiere abbiamo chi ci dà la pizza; chi i dolci; abbiamo la John Cabot University qui vicino che ci dà parte della cena per tre giorni a settimana; hanno aperto delle attività di accoglienza che, quando hanno cose che avanzano ce lo portano. Con il quartiere si è creato un buon rapporto, considerando anche un aspetto di ricambio: ogni quindici giorni noi diamo alle famiglie bisognose del quartiere un pacco di viveri piuttosto corposo. Poi, con l’espressione organizzativa del quartiere che è la parrocchia, abbiamo aperto la “Casa del papà”. Tutta la parrocchia ci è vicina, aiutandoci anche dal un punto di vista economico: tra tutte questa attività, la spesa più robusta è quella delle utenze; per quanto riguarda il resto, mangiare, (vestiario, servizi, nda) al 90% ci arriva dalla solidarietà”. Un’altra connotazione del quartiere è il Bambin Gesù, qui vicino. I “papà” a cui ha accennato sono quelli che accompagnano i figli a fare le cure all’ospedale pediatrico, e spesso hanno bisogno di aiuto. Che cosa possono ottenere qui? “Spesso capitava la sera che qualche signore, giovane per lo più, con la valigia in mano ci chiedeva dove poter passare la notte; perché aveva ricoverato il figlio o la figlia al Bambin Gesù, la moglie era rimasta lì, e lui doveva trovare un alloggio. Questo si ripeteva spesso, e così la parrocchia ha offerto la disponibilità a darci un ambiente. Noi l’abbiamo sistemato e abbiamo raggiunto un accordo col Bambin Gesù che seleziona le famiglie povere che arrivano, soprattutto dall’estero: il papà in genere (perché la mamma rimane là) ci viene segnalato è noi lo accogliamo gratuitamente. Questo papà che arriva può rimanere il tempo che è necessario per il figlio che è ricoverato; dorme gratuitamente; può cenare qui, se vuole, la sera alle 19; e può fare colazione. È un’opportunità molto grande”. Tra gli altri servizi che Vo.Re.Co fornisce alla comunità ci sono anche quelli legali, il Caf, un avvocato in sede, Chi sono le persone che vengono in cerca di questi servizi? Quali sono le loro esigenze? “Possiamo fare uno sguardo unico. Questa è gente che sta in mezzo alla strada; che non ha nessuno; non ha assistenza legale, né per i problemi che possono sorgere. Teniamo presente che molte di queste persone hanno fatto qualche “tappa” a Regina Coeli, e quindi c’è qualche problema. Ci sono problemi legati alla parte fiscale, quindi c’è il Caf della Uil; ci sono problemi legati alla salute. Quindi stiamo cercando di creare un punto di riferimento per le cose essenziali. Proprio questa mattina ho avuto un incontro, e forse a gennaio partiranno altri servizi sanitari: un cardiologo, un otorino, ecc. Vorremmo garantire che chi sta in mezzo alla strada con qualche problema possa avere un punto di riferimento per tutte queste cose, o almeno avere indicazioni su dove, eventualmente, poter trovare soluzioni”. Stiamo entrando nell’inverno, nei mesi più freddi dell’anno. Roma è pronta a rispondere alle esigenze di solidarietà, di accoglienza e di supporto alle persone che purtroppo non hanno un rifugio, una casa o una famiglia che se ne occupi? “Si fa tanto chiasso su questo. Basterebbe un po’ di buona volontà: che tutti facessero qualcosa. Per esempio a noi qui manca una sala di appoggio per far sì che, durante la giornata, questa gente che sta in mezzo alla strada, soprattutto i malati e gli anziani, possa avere l’opportunità di stare a guardare la televisione, poter leggere qualcosa, e passare la giornata. Noi non abbiamo questa possibilità, ma nelle parrocchie, in qualche contesto, si potrebbe fare questo servizio. Senza sbandierare chi sa che cosa; ma dare la possibilità della dignità alle persone che si trovano in mezzo alla strada. Perché per chi è anziano e malato stare in mezzo alla strada quando fa molto freddo è veramente un dramma”. Roma. Pranzo di Natale tra i detenuti: “Troppe donne in carcere a causa di un uomo” di Rosalba Emiliozzi Il Messaggero, 18 dicembre 2019 “Le donne solitamente non sono in carcere perché sono delle criminali, spesso dietro i reati commessi c’è un uomo. Sono finite dentro per difendere un uomo o per difendersi da un uomo, o ancora per difendere i figli da un uomo. Altre volte sono in galera per coprire un uomo, si accollano reati che non hanno commesso, lo fanno per amore o solo per una debolezza culturale, una sorta di sudditanza psicologica che resiste ancora quando si proviene da famiglie che non hanno saputo o voluto fare crescere la donna sotto il profilo culturale e sociale, quando mancano un titolo di studio e un lavoro che danno autonomia”. Cioè quando l’uomo è tutto e in quel tutto c’è anche la condivisione di un futuro, qualunque esso sia. A parlare è Marcella Reni, 60 anni, notaio calabrese e al vertice dell’Ordine dei notai di Palmi, ma soprattutto è presidente da 10 anni dell’associazione Prison Fellowship Italia onlus e organizza il pranzo di Natale tra i detenuti e le detenute in 12 carceri italiane. “Abbiamo iniziato con Rebibbia femminile e con gli anni il progetto è cresciuto. È una speranza per chi vive nelle carceri. Ho conosciuto gli ultimi, i peggiori - racconta Reni - e ho sempre ricercato la dignità, dalle loro esperienze mi sono resa conto che il male non si vince con il male ma con il bene, solo il bene porta un cambiamento”. E questo è visibile nelle donne detenute che spesso, come succede a Rebibbia, hanno i figli accanto. “Quando le si aiuta, si percepisce il cambiamento - aggiunge Reni - e un aiuto può venire anche in carcere, con il “Pranzo d’amore” ma anche con un corso di cucina che insegna loro un mestiere che può diventare un lavoro”. Perché la “filiera” dell’iniziativa “L’Altra cucina... per un Pranzo d’amore” in dodici carceri italiane è lunghissima e mette in campo la solidarietà di grandi chef stellati, 12 per l’appunto, uno per ogni carcere che domani (mercoledì 18 dicembre) per una giornata lasciano le loro cucine e preparano i piatti per i detenuti e le detenute di Rebibbia femminile (Roma), Milano Opera, Le Vallette di Torino, Pagliarelli di Palermo e le carceri di Massa Carrara, Salerno, Siracusa, Trani, Aversa, Eboli, Castelfranco Emilia e Ivrea. Per un giorno la prigione è il passato. Vere tavole di Natale, apparecchiate con addobbi e il senso di famiglia, vengono allestite nelle sale teatro del carcere o lungo i corridoi dove i duemila detenuti e detenute, coinvolti nel progetto, di solito mangiano. Seicento i volontari serviranno il pranzo, tra loro anche personaggi famosi e vip come l’attrice Maria Grazia Cucinotta, la cantante Teresa De Sio e la chef Marianna Vitale presenti in conferenza stampa. “A Rebibbia femminile domani ci sarà lo chef Francesco Apreda e per i bambini sono previsti spettacoli e giocolieri fin dalla 10,30 del mattino - aggiunge Reni - a Opera al pranzo di Natale verranno le famiglie dei detenuti e a servire saranno le vittime di reato coinvolte attraverso il progetto Sicomoro. A Torino e Ivrea a servire a tavola saranno gli agenti di polizia penitenziaria perché spesso si intrecciano anche rapporti di amicizia”. Roma. Ministro Bellanova in visita al carcere minorile di Casal del Marmo askanews.it, 18 dicembre 2019 La ministra delle Politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova ha incontrato i ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma nell’ambito dell’iniziativa realizzata da Assoittica Italia “Un natale di armonia e salute insieme a tavola”, in collaborazione con l’Ispettorato Generale dei Cappellani delle Carceri Italiane ed il supporto della Rete degli Istituti Alberghieri. Un incontro che ha commosso la ministra Bellanova che ha auspicato un futuro di rilancio per i giovani che stanno scontando la loro pena: “Spero di incontrarvi fuori da queste mura”, ha detto la ministra ricordando l’importanza di individuare percorsi formativi di recupero che possano inserire in maniera positiva i giovani nel tessuto sociale ed economico. Bellanova ha sottolineato alle amministrazioni presenti la necessità di un impegno sempre maggiore nell’individuazione di percorsi che vedano il coinvolgimento della filiera ittica per fornire occasioni lavorative ai ragazzi ed ha invitato i giovani ospiti dell’istituto ad impegnarsi per il percorso riabilitativo, in cui sono impegnati, “perché fuori dal carcere potranno esserci percorsi di legalità in grado di fornire gratificazioni professionali e perché no economiche”. L’evento, che ha coinvolto 13 dei 17 carceri minorili italiani, ha visto la collaborazione degli Istituti alberghieri “Tor Carbone” e “Domizia Lucilla” che per la giornata hanno organizzato il “pranzo di Natale” per i ragazzi. Presenti all’iniziativa Giuseppe Palma, segretario generale di Assoittica Italia e don Raffaele Grimaldi Ispettore Generale dei Cappellani d’Italia. Il nuovo sistema penitenziario minorile prevede che l’esecuzione della pena favorisca percorsi di giustizia riparativa e di mediazione delle vittime di reato oltre a favorire la responsabilizzazione, educazione, pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, preparazione alla vita libera ed inclusione sociale. Una delle modalità attraverso cui si favorisce lo sviluppo psico-fisico del minorenne è l’attenzione riservata all’alimentazione in termini qualitativi e quantitativi nonché quei percorsi di preparazione alla vita libera eventualmente attraverso acquisizione di specifiche professionalità. Assoittica Italia con il supporto del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia e della Direzione Pesca Marittima ed Acquacoltura del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, ha organizzato questa giornata presso gli Istituti Penitenziari Minorili d’Italia mediante utilizzo dei prodotti ittici offerti dalle aziende aderenti all’associazione. L’obiettivo è stato quello di far trascorrere non soltanto una giornata diversa e costruttiva ai ragazzi ma anche focalizzare l’attenzione su una equilibrata e consapevole alimentazione tanto importante per le ragazze ed i ragazzi che si trovano in un importate periodo di crescita in termini psicologico e fisiologico. Trieste. Presentazione del libro fotografico “Casa Azul” al Coroneo di Corinna Opara Vita Nuova, 18 dicembre 2019 Libertà e resistenza individuale. Da cinque storie personali a una riflessione universale. Resilienza, resistenza identitaria e tolleranza, ma anche capacità di convivenza e libertà: sono i temi affrontati nell’interessante e vivace dibattito suscitato tra i presenti nell’area trattamentale della Casa Circondariale di Trieste dalla presentazione del libro “Casa Azul” della fotografa e artista visiva Giulia Iacolutti nella mattinata di sabato 19 ottobre. A dialogare con lei, l’avvocato Patrizia Fiore. Accanto alle persone della sezione maschile e femminile del penitenziario, anche un nutrito e variegato pubblico “esterno”. “Caza Azul” non è solo un libro da sfogliare, è un progetto a più “piani di lettura” dove ogni singolo dettaglio è stato profondamente meditato e non è mai casuale, a partire dalla scelta dei colori: rosa e azzurro. Tutto nasce dall’incontro della giovane fotografa italiana con la sociologa francese Chloé Constant, che nel 2015 stava ultimando il suo post-dottorato sui processi di transizione da identità maschile a identità femminile all’interno degli istituti di pena maschili della capitale sudamericana di Città del Messico. “Poiché nel carcere maschile le persone sono obbligate a portare dei vestiti “blu” - ha spiegato Giulia, le detenute trans usano soprannominarlo “Casa Azul” (Casa Blu), in contrapposizione al loro essere donna” (quindi “rosa”). Il libro, in particolare, racconta le storie di cinque persone, della loro vita fuori e dentro il penitenziario, prima e dopo la loro scelta di vita, di come all’interno del carcere gli oggetti considerati “femminili” (e quindi vietati negli istituti maschili) diventino allo stesso tempo “uno strumento identitario” (visto che si trovano circondate da uomini), ma anche “di ricatto in cambio di prestazioni sessuali da parte del personale dell’istituto”, che all’occasione li sequestrano per ottenere “qualcosa”. Ecco allora che la storia di America, Frida, Martina, Gabj e Alejandra, estrapolata dal loro contesto, può in realtà diventare un’occasione per tutti per riflette su come ciascuno di noi, a modo suo e all’occorrenza, sia capace di trovare dentro di sé le risorse necessarie a riaffermarsi come persona con una propria identità all’interno di contesti ostili o a noi sfavorevoli. Ma anche un’occasione per riflettere come i nostri percorsi di crescita personale - intellettuale o fisica che sia - si trovino per forza a dover affrontare e superare diversi tipi di ostacoli che ognuno può identificare in qualcosa di diverso: il carcere, allora, non è solo quello “tradizionale” con le sbarre, ma lo può essere il nostro corpo che non sempre siamo capaci di accettare, così come pure la società con i suoi vincoli e i suoi pregiudizi. A tal punto da far sentire delle persone più libere nelle celle di una prigione perché lì non rischia di essere aggredito per il suo modo di essere. Milano. Dal carcere alla casa per madri fragili, Parolin nella Milano degli ultimi di Lorenzo Rosoli e Giovanna Sciacchitano Avvenire, 18 dicembre 2019 Il segretario di Stato è stato prima nell’istituto di pena di Opera, poi ha inaugurato il borgo solidale a Quarto Oggiaro. Il carcere di Opera, al margine meridionale di Milano, con le 1.300 persone che vi sono detenute, più gli agenti, gli educatori, i volontari. La Corte di Quarto, all’estrema periferia nord, dove Fondazione Arché ha avviato un’esperienza di “vicinato solidale” che mette in rete nuclei mamma-bambino “fragili” con alcune coppie e singoli e una piccola fraternità formata da religiosi e laici. Infine la redazione di Avvenire, dov’è stata celebrata la Messa per il Natale (si veda l’articolo che apre questa pagina). Ecco i tre volti di Milano - tre modi, diversi, di promuovere bene comune - che oggi si sono fatti incontro al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, nella giornata trascorsa a Milano. Nel carcere di Opera, dove “nascono” le ostie - “Voi state collaborando col Signore, perché possa dare la vita a tante persone”. Così ha detto il cardinale Parolin, benedicendo il laboratorio “Il senso del pane”, nato nel carcere di Opera nel 2016, in vista del Giubileo della misericordia, e che da allora ha prodotto, grazie al lavoro dei detenuti, più di tre milioni di ostie destinate a parrocchie di tutto il mondo. Questo laboratorio è una delle esperienze più significative, fra le numerose ospitate nella casa di reclusione milanese. Accolto dalla vicedirettrice dell’istituto, Mariantonietta Tucci, dal comandante del reparto di Polizia penitenziaria, Amerigo Fusco, e dal cappellano, don Francesco Palumbo, Parolin ha dialogato con i detenuti e visitato diversi laboratori, a partire da quello delle ostie, dove lo ha accompagnato Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello spirito e delle arti. Nello stesso laboratorio ha incontrato il barnabita padre Giannicola Simone, che ha testimoniato il desiderio del suo istituto di aprire un’esperienza analoga nel carcere di Merida, nel Messico. Quindi la tappa nella cappella. “Grazie per questa accoglienza così bella, semplice, fraterna - ha esordito Parolin - mi avete accolto come una persona importante. Ma io vi porto la vicinanza di una persona più importante di me. La più importante di tutte ovviamente è Gesù. E noi vogliamo essere trasparenza di Gesù, non schermo. E vi porto la vicinanza e i saluti di papa Francesco. Voi sapete quanto abbia a cuore la situazione dei carcerati. Vicinanza - ha aggiunto il porporato - è una parola che usa spesso. Quante volte l’ho sentito dire ai preti: siate vicini alla gente! Questa vicinanza non è solo un atteggiamento umano ma, per i cristiani, un dovere, se siamo davvero discepoli di Gesù. Perché il mistero del Natale consiste in questo: in un Dio che si fa vicino a noi, si addossa le nostre sofferenze e i nostri errori, condivide tutto di noi per aprirci alla speranza di diventare persone nuove e di poter essere, a nostra volta, vicini agli altri”. Infine: nel giorno del compleanno di Bergoglio, da Opera - primo carcere italiano a lanciare un’iniziativa simile, ricorda un comunicato di Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti - nasce la proposta di riunirsi in preghiera un giorno a settimana per il Papa. Quarto Oggiaro, spazio al “vicinato solidale” - Il borgo solidale “La Corte di Quarto” - casa per mamme e bambini con fragilità costruita e aperta da Arché a Quarto Oggiaro - è stata la seconda tappa nell’itinerario milanese del cardinale Parolin. L’obiettivo di questo progetto: accompagnare per un anno o due le donne in fuga da violenze e dalle guerre, dopo il percorso di comunità. “Questo non è solo un tetto ma è un luogo di condivisione e di relazioni, perché le relazioni curano e aiutano moltissimo queste mamme a recuperare la voglia di futuro”, ha detto padre Giuseppe Bettoni, fondatore e presidente di Arché, cui si deve l’intuizione del progetto. “Il Santo Padre sarà contento della vostra presenza in occasione dei 30 anni di attività. È importante che lo Spirito del Signore continui a suscitare uomini e donne che sanno intercettare i bisogni e dare risposte”, ha detto il porporato intervenendo all’inaugurazione della Corte di Quarto, poco dopo mezzogiorno. “Insieme si può fare e si può rispondere alle necessità, questo è un messaggio importante alle porte del Natale”. E ai giornalisti ha spiegato: “Penso che questo progetto a Milano porti un messaggio di solidarietà. Di fronte all’esistenza di tanti problemi, difficoltà, disagio, bisogna essere sensibili e non chiudere gli occhi. È il tema della globalizzazione dell’indifferenza che il Papa continua a richiamare”. La struttura prevede 14 nuove unità abitative per accogliere nuclei di madri con bambini avviati all’autonomia, singoli o coppie che scelgono di vivere un’esperienza di vicinato solidale e una piccola fraternità di religiosi e laici. Al piano terra c’è uno spazio polivalente aperto alla cittadinanza, dove, oltre ad iniziative culturali, è previsto un servizio di counseling per i genitori del territorio. Il progetto ha potuto contare sul contributo di oltre un milione di euro, grazie a tanti amici e sostenitori, primo fra tutti Unicredit. Trento. La messa dell’arcivescovo Lauro Tisi nel carcere di Spini di Gardolo Corriere del Trentino, 18 dicembre 2019 “Voi ci provocate a uscire dal carcere fatto di superficialità, banalità, frenetica routine. La Luce del Natale prende dimora ai margini della storia”. Le parole dell’arcivescovo Lauro Tisi sono echeggiate ieri pomeriggio nel carcere di Spini di Gardolo dove ha officiato due messe. In piedi davanti all’altare un folto gruppo di detenuti e il personale della casa circondariale hanno ascoltato attenti l’omelia di Tisi. L’arcivescovo ha voluto ricordare il vero significato del Natale che assume un valore, se possibile, ancora più profondo in un luogo di chiusura e sofferenza come il carcere. “La Luce del Natale - ha detto don Lauro, accanto al cappellano del carcere don Mauro Angeli - prende dimora ai margini della storia. Il suo habitat è con gli ultimi, i senza nome, i dimenticati. Dai margini viene la vita”. Monsignor Tisi si è poi rivolto con tono paterno ai presenti: “Fratelli e sorelle che siete in carcere, presso di voi dimora il Verbo della vita, qui siamo sicuri di poterlo incontrare. Ne sono conferma i gesti di solidarietà che vi scambiate, pur nella prova della detenzione. L’arcivescovo ha voluto regalare una nuova speranza ai detenuti, ma anche ricordare il coraggio di chi lotta, nonostante le difficoltà, verso il ridagli errori del passato. Una strada difficile, spesso costellata di ostacoli, ma è nel coraggio degli uomini e delle donne che non si arrendono, che continuano a combattere per un nuovo futuro e una nuova vita, la chiave per uscire da quel luogo anonimo, freddo e “fatto - ha ricordato ancora don Lauro - di superficialità”. “Stando tra voi - ha quindi concluso l’arcivescovo Tisi - veniamo provocati a uscire da quel carcere fatto di superficialità, banalità, frenetica routine che ci sta togliendo la vera libertà, la gioia di vivere, e spegne le domande con tragiche semplificazioni. Buon Natale, fratelli e sorelle carcerati, e grazie per la lezione di vita che ci offrite”. Catania. La Caritas incontra i detenuti del carcere di Piazza Lanza cataniatoday.it, 18 dicembre 2019 Giovedì e venerdì, don Piero Galvano e Salvo Pappalardo, rispettivamente direttore e responsabile delle attività della Caritas Diocesana di Catania, incontreranno i detenuti della Casa Circondariale di Piazza Lanza. La visita della delegazione dell’organismo diocesano, un appuntamento ormai tradizionale nel corso delle feste, sarà dedicata a uno scambio di auguri, alla consegna del panettone, almeno un dolce per ogni camera detentiva, e del Calendario Caritas 2020 che quest’anno è stato intitolato “...ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Il calendario ospita i pensieri dei detenuti e ciò è stato possibile grazie alla collaborazione della Casa Circondariale di Piazza Lanza, nella persona della direttrice Elisabetta Zito, che ha concesso l’utilizzo degli scritti per la pubblicazione. Parole di speranza, ravvedimento e affetto per i propri cari emergono dai pensieri che i fratelli reclusi hanno voluto indirizzare alla Caritas Diocesana per il Calendario 2020. Da questa raccolta, che accompagna i dodici mesi dell’anno, emergono aspirazioni e prospettive, e traspare anche il racconto dell’esperienza della detenzione e la volontà di una seconda occasione. L’edizione 2020 del Calendario vuole suggerire al lettore di andare oltre i consueti luoghi comuni sui detenuti, per offrire, tramite le loro stesse parole, uno sguardo su quanti hanno commesso degli errori e vorrebbero, col tempo e con consapevolezza, poter rimediare. “Auspico vivamente - scrive monsignor Salvatore Gristina, Arcivescovo di Catania, in un estratto del suo intervento che è integralmente riportato nel Calendario - che anche attraverso questo strumento del Calendario 2020 possiamo abbattere quotidianamente il muro della diffidenza o indifferenza verso i fratelli reclusi, sforzandoci di promuovere nei loro riguardi atteggiamenti di concreta accoglienza e inclusione sociale”. Anche don Piero Galvano, direttore della Caritas Diocesana, ha voluto sottolineare come “non dobbiamo dimenticare che, anche chi sta “dentro”, come ogni persona, ha un cuore che batte e una mente che pensa: come tutti noi piange e spera, sogna e lotta per perseguire i propri obiettivi, si preoccupa della propria famiglia e soprattutto dei figli, pensa al proprio futuro e lo vede incerto, piange ed ha paura della morte, si pone interrogativi e cerca la verità”. Un pensiero di condivisione e speranza arriva da Elisabetta Zito, direttrice C.C. Piazza Lanza, che ha voluto spiegare che “solo con la collaborazione, la sensibilità e l’empatia che tutti gli operatori penitenziari possono aprire spiragli di luce e di libertà”. Paola (Cs). Detenuti-attori impegnati nel dramma “Follout” lameziaoggi.it, 18 dicembre 2019 I detenuti della Casa circondariale di Paola saranno gli attori del dramma “Fallout” liberamente tratto dal libro di Salvatore Brusca “Fallout. Redenti e dannati nell’era dell’antropocene” (Santelli ed.) che sarà rappresentato presso la stessa Casa circondariale la mattina di venerdì 20 dicembre. L’iniziativa ha ottenuto il permesso del direttore della Casa circondariale, Giuseppe Carrà, il quale ha sempre dato la dovuta importanza all’attività teatrale per la sua funzione rieducativa e per come può facilitare il reinserimento sociale. Prevista nell’ambito del progetto di Cittadinanza e Costituzione dell’Icsaic “Nella memoria la nostra identità”, l’iniziativa, è scritto in una nota, “costituisce un importante traguardo per un percorso durato un anno e, attraverso il quale - ha detto la responsabile del progetto Francesca Rennis - mi sono interfacciata con un gruppo di detenuti in un percorso di rielaborazione critico-riflessivo che da situazioni storiche ci ha condotto a ripensare il nostro rapporto con l’ambiente e con le persone. Non è un percorso concluso ma credo che questa sia una tappa significativa”. Lo stesso libro era stato presentato e oggetto di approfondimento alcuni giorni fa con la presenza dello stesso autore. In quell’occasione aveva riscontrato l’interesse dei detenuti presenti, con i quali Brusca ha dialogato rispondendo alle loro domande e curiosità. La sceneggiatura è stata curata dalla stessa Rennis che ha collaborato anche nella regia con Roberto Pititto. La vicenda rappresentata si snoda da un equivoco che condizionerà gli eventi dei protagonisti anche se il vero protagonista è la scelta etica che ciascuno di noi è chiamato a fare per poter garantire una sana convivenza civile. Di fondamentale importanza nella realizzazione della rappresentazione sono stati il sostegno dell’equipe degli educatori e la disponibilità della Polizia penitenziaria, la collaborazione con il Centro sociale “Piergiorgio Frassati”, la partecipazione dell’associazione “Compagnia della rosa”. Alla rappresentazione, seguiranno alcune canzoni e poesie di detenuti, i saluti delle autorità cittadine e del direttore dell’istituto, di alcuni rappresentanti di associazioni presenti, dell’autore del libro. La saggezza delle sardine e quei consigli non richiesti di Enzo Scandurra Il Manifesto, 18 dicembre 2019 Sono troppi i consigli che da più parti si vogliono indirizzare alle sardine. Spesso, dotati di presunta saggezza contro i rischi che sicuramente (si prevede) incontreranno nel loro cammino (“le bassezze della disperazione”, così li ha chiamati Barbara Spinelli). Oppure consigli dettati dal timore che consumati uomini politici, saggisti, politologi e tutti i protagonisti del circo mediatico conoscono bene per avere sempre fallito. E tuttavia non sanno cosa fare fuori dalla nomenclatura dei partiti, se non ripercorrere le stesse strade che conducono verso gli stessi fallimenti. Ognuno avanza qualche suggerimento sia pure precisando che lo fa per aiutarli a capire; talora in punta di piedi, sommessamente, ma lo fa. A me viene in mente il titolo di un vecchio libro di Gregory Bateson, l’ultimo che non ha mai portato a termine per la morte sopraggiunta in fase di scrittura. Quel titolo era, “Dove gli angeli esitano” (originale del 1979, per Adelphi 1989 e terminato dalla figlia Mary Catherine). Il titolo esprimeva la sua esitazione davanti a interrogativi che egli sentiva essere nuovi e che richiedevano una saggezza diversa e un diverso coraggio. Nella fattispecie Bateson aveva capito di essere ormai prossimo a quella dimensione integrale dell’esperienza cui dava il nome di sacro. Ma non è il concetto di sacro che qui interessa quanto invece il carattere inedito di una rivolta silenziosa che, nello spazio di qualche settimana, ha mandato a pezzi il vocabolario e i modi urlanti e comunicativi della classe politica, in primis la Lega. E che richiederebbe silenzio e ascolto, se non rispetto, prima di pronunciare parola. Forse il loro messaggio è proprio questo: noi siamo le generazioni future, quelle tradite dalle promesse della modernità, quelle post-ideologiche, quelle dell’eterno presente che non passa mai; dovete ascoltarci senza ricordarci le vostre sconfitte, gli errori che voi pensate di risolvere con quegli stessi strumenti che vi hanno portato a commetterli. A cominciare dal linguaggio che si è fatto volgare, rozzo, intriso d’odio e disprezzo per gli altri. Alberto Leiss (Il Manifesto, 17 dicembre) afferma provocatoriamente richiama quanto “oggi la politica sembra ridotta alla spasmodica ricerca del consenso, funzionale al potere, e ricercato grazie ai linguaggi più rozzi e semplificati. Se invece del “modello potere” si provasse a seguire un “modello piacere”? Nel senso più alto del termine?”. C’è qualcosa di nuovo nel movimento delle sardine, abissalmente diverso dai movimenti che fin qui abbiamo conosciuto: un nuovo linguaggio, un’Ecumene che non significa che siamo tutti uguali, un’imprecisione politica che non significa non stare da una parte, che vuol dire piuttosto ripartiamo dalle nostre esistenze, per approdare, esitanti, a un terreno sconosciuto dove ogni consiglio che viene da fuori è estraneo e astratto, perché non è il nostro. Dobbiamo cercare noi la nostra strada e gli “errori” faranno parte di questo percorso, di questa storia. Nessuna “verità” è data per sempre e noi dobbiamo ricercare la nostra, ma neppure partiamo dal nulla, la Costituzione è eredità del passato che dobbiamo custodire perché patrimonio collettivo che dobbiamo e vogliamo fare nostro. Così come i decreti sicurezza non fanno parte della nostra cultura e del nostro linguaggio. Una nuova saggezza politica dove anche gli angeli esitano? Il silenzio è d’obbligo, ogni suggerimento, pur dotato di presunta saggezza, è inutile perché l’approdo è sconosciuto ma proprio per questo carico di opportunità inedite, non escluso il ritorno all’oblio nell’indifferenza totale, nelle attese riposte in chi dice che bisogna cambiare ma continua a suonare la stessa vecchia musica. Strade e sentieri ben noti hanno fallito con nostro grande stupore e delusione. Lasciamo dunque che siano loro, le “sardine”, a suggerire altri sentieri, chissà che non li si incontri, prima o poi, quando entrambi parleremo lo stesso linguaggio, quello della Politica con la P maiuscola. Come nell’aforisma dei giganti e dei nani: i nani guardano oltre perché situati sulle spalle dei giganti che a loro volta non saprebbero cosa fare senza assolvere questo ruolo di silenzioso supporto. Dio benedica Mattia Santori e le sardine, viva la complessità! di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 dicembre 2019 La prima volta che ho partecipato ad una manifestazione politica, da liceale, era una manifestazione antifascista. Parlo della fine degli anni Sessanta. Gridavamo slogan contro Almirante e il Msi. L’Msi era un partito di estrema destra che non era mai stato al governo. La seconda volta invece era una manifestazione studentesca molto agguerrita, mi ricordo che sfilammo in via Cavour, a Roma, e gridavamo: “Siamo sempre più incazzati con governo e sindacati”. I sindacati non sostenevano il governo, anzi, erano filo-Pci, in gran parte, e stavamo vivendo un periodo di fortissimo conflitto sociale. Più tardi, da giornalista - faccio un salto negli anni 90 e Duemila - ho seguito diverse manifestazioni contro Berlusconi, anche quando Berlusconi non era al governo. Negli anni 70 invece avevo seguito le manifestazioni contro il Pci, che era il partito cardine dell’opposizione. Mi stupisce che un sociologo e politologo colto e serio come il professor Luca Ricolfi (ma non solo lui: tanti altri commentatori colti e seri) consideri un paradosso e una insensatezza e un fenomeno senza precedenti, il fatto che le Sardine sfilino contro un partito di opposizione, e cioè la Lega di Salvini, invece che contro il governo. La mia, intendiamoci, non è una obiezione filo-sardine. In questo momento non entro nella discussione sulla loro natura e sugli effetti positivi o negativi che potranno avere sulla società e sulla politica italiana. Mi interessa semplicemente osservare come forse talvolta un pregiudizio politico possa far male non tanto alla politica, quanto alla politologia. Salvini in questo momento è quasi l’unico leader politico sulla scena. Comunque è il leader di una forza politica maggioritaria, nei sondaggi sicuramente, e ragionevolmente anche nell’opinione pubblica. Salvini ha dato al suo partito una impronta ideologica e una identità molto nette e in contrasto apertissimo con il cattolicesimo bergogliano e con il pensiero liberale, socialdemocratico, laico e progressista. Cosa c’è di strano, o addirittura di scorretto, se compare una piazza che è contro di lui e che contesta le sue idee e il suo slang? P.S. Il giovane leader delle Sardine, Mattia Santori, ha chiesto ai leader politici “di usare un linguaggio più complesso”. Dio lo benedica! Erano anni che sentivo solo inviti a parlare più semplice. Tanto che alla fine la parola più usata nel dialogo politico era diventata vaffanculo. Viva la complessità. Almeno su questo: grazie Santori. I populisti? Sono analfabeti funzionali di Gilberto Corbellini Il Riformista, 18 dicembre 2019 Chi non studia non sa, chi non sa non capisce, chi non capisce sbaglia, chi sbaglia non è libero, etc. Quasi ovvio. Ma se solo ci si azzarda a dirlo si viene insultati per essere politicamente scorretti o per lesa dignità di persone che si credono libere solo perché agiscono scompostamente, etc. mentre sono eterodirette o mosse da irrazionali impulsi lesisi e autolesivi. Decine di studi sui profili di coloro che hanno votato Trump e Brexit, mostrano che il livello di istruzione è il principale parametro predittivo del voto populista. Ma se si dice che il populismo italiano è la conseguenza del grave tasso nazionale dell’analfabetismo funzionale si viene messi alla gogna. Ci saranno sicuramente persone molto istruite che si riconoscono nel populismo e persone poco istruire che lo rifuggono, ma la statistica dice che le persone con bassi livelli di istruzione è più probabile che votino dal lato populista. “Analfabetismo funzionale” non è un insulto, ma una definizione tecnica, relativa a persone che sanno leggere e scrivere (in Italia l’analfabetismo totale quasi non esiste, trattandosi dello 0,2%), ma non sanno estrarre da un testo il suo preciso contenuto o scoprire che è falso. Dal 28% (fonte Ocse) al 48% (Human Development Index) degli adulti italiani tra 16 e 65 anni è colpito da questa condizione. Siamo ultimi tra i Paesi Ocse e siamo tra gli ultimi in Occidente. Persino i recenti risultati del test Ocse-Pisa certificano il dramma. Paesi che avvertono meno dell’Italia il problema, come la Francia, hanno lanciato dal 2016 una campagna capillare per migliorare i livelli di istruzione media sulla base di interventi fondati su prove di efficacia, e non mere di chiacchiere pseudo-pedagogiche. L’ascesa del populismo forse non si spiega ovviamente solo o direttamente con bassi livelli di istruzione. C’entrano anche i social media, internet, il fallimento politico della sinistra, la crisi finanziaria, etc. Ma gli effetti di questi fattori cambiano a seconda della base culturale e psicologica delle persone su cui agiscono. È possibile che la correlazione con la scarsa istruzione sia in realtà una spia di altri fattori. Per esempio, l’apertura mentale delle persone, misurata da test che rilevano specifici tratti della personalità (Big Five) come la disposizione o meno a socializzare, a essere creativi, emozionalmente stabili, interessati alla complessità, etc. Esistono studi sul profilo di personalità di chi ha un orientamento populista, e tutti portano al risultato che è caratterizzato da chiusura mentale e tende a essere convenzionale e tradizionalista. Sembra che esista una significativa correlazione tra apertura mentale e prosecuzione degli studi superiori, nonché per orientamenti meno populisti. Ergo, può darsi che coloro che decidono di andare all’università abbiano meno probabilità di avere opinioni populiste, anche prima di ricevere istruzione extra, e i livelli di istruzione potrebbero indicare una apertura preesistente, e livelli di istruzione bassi possono semplicemente segnalare una mentalità più tradizionale o “chiusa”. Alcuni pensano che non siano i livelli di istruzione che qualcuno riceve, a modellare le opinioni populiste, ma il “tipo”. L’educazione contemporanea metterebbe troppa enfasi sul superamento di test, abuso di indicatori biblio-metrici o sulle prospettive occupazionali di uno studente, invece di insegnare il pensiero critico e le capacità analitiche. Se non viene insegnato a mettere in discussione ciò che ascoltiamo, il populismo diventa più attraente. Oggi, “pensiero critico” è una delle espressioni più usate anche in Italia, quando ci si lamenta di troppa pseudoscienza o superstizione, ma se si interroga chiunque non si riceverà una definizione uniforme. Eppure, si possono costruire mappe di concetti, teorie, valori e procedimenti utili alle persone per capire e affrontare le sfide della contemporaneità. Il pensiero critico serve perché i politici avvelenano le statistiche per calcoli personali, ovvero adattano le variabili alla loro argomentazione, dando semplicemente priorità al loro successo elettorale, senza necessariamente mentire. Non hanno alcun interesse a cercare la verità interrogando questioni complicate. Inoltre, lo scontro tra le visioni politiche è controproducente poiché il dibattito quasi sempre si basa sulla polarizzazione, che non mette in discussione la fissità o dogmaticità di presunte verità alternative. La politica ridotta a battaglia demagogica tra fazioni di tifosi minaccia la democrazia in quanto gli elettori sono scoraggiati dal mettere in discussione regimi di verità fisse, proposte come approdi sicuri. Istituzioni come università o partiti politici non possono fare nulla per impedire una tendenza perversa. La mancanza di pensiero critico e il perpetuarsi della demagogia favoriscono la percezione della naturale incertezza dell’esistenza come una ansiogena insicurezza, che accetta risposte acritiche. I politologi degli anni Cinquanta sapevano che l’istruzione svolge un ruolo chiave per la maturazione di un’autoconsapevolezza politica. Tanto più, quindi, in una società della conoscenza dove servono strumenti precisi o definiti per analizzare i problemi e valutare le decisioni. Sempre che siamo ancora in tempo. Il decreto sicurezza fa aumentare i migranti senza fissa dimora di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 dicembre 2019 Nessun supporto per chi aveva un permesso umanitario e ora deve lasciare i Centri. La situazione descritta nel terzo lavoro di monitoraggio dell’Osservatorio dell’associazione Naga, che garantisce assistenza a cittadini stranieri. L’impatto maggiore del decreto Salvini sulla sicurezza varato dallo scorso governo legastellato è quello dell’aumento dei senza fissa dimora. Sì, perché attraverso il taglio dei fondi ai progetti dei centri di accoglienza, ovvero passando dai tanto famigerati 35 euro a un massimo di 19- 26 euro, si risparmia tantissimo sugli alloggi. Nessun supporto è previsto per coloro che sono costretti a lasciare i centri, ad esempio le persone che avevano un permesso umanitario e che da un giorno all’altro si ritrovano senza più diritto all’accoglienza e quindi per strada. Questo meccanismo è fortemente patogeno: ritrovarsi per strada comporta i rischi e il degrado psico-fisico che ben si conoscono dagli studi sui senza fissa dimora, riscontrati anche tra i migranti nelle stesse condizioni. In generale, le persone che chiedono asilo arrivano in buona salute, fatte salve le conseguenze delle torture e delle privazioni subite durante i vari episodi di prigionia e lavoro forzato a cui sono stati sottoposti lungo il viaggio per arrivare in Italia. Ciò è conosciuto come il cosiddetto “healthy migrant effect”: partono le persone più sane, con più probabilità di farcela. Una volta arrivate si scontrano con quello che la ex primo ministro britannica Theresa May chiamò nel 2012 “hostile enviromnent”, cioè condizioni che scoraggiano l’integrazione di una data popolazione in un determinato ambiente. Da qui le condizioni di alloggio spesso proibitive, i lavori precari, saltuari e senza forme di protezione, la salute che via via si deteriora. Senza contare l’impatto psicologico dato dall’isolamento e dalla mancanza dei legami familiari, le conseguenze fisiche ancora attuali e lo stress delle torture subite e l’incertezza per le lungaggini nell’ottenere un permesso di soggiorno pur non definitivo. Allo stato attuale, se un migrante è senza alloggio è un “senza fissa dimora” e dunque non può avere una residenza. Senza certificato di residenza non può trovare un lavoro regolare. Senza un lavoro regolare non può pensare di poter affittare regolarmente una casa, o nemmeno una stanza. È in una situazione senza vie d’uscita descritta dal terzo lavoro di monitoraggio e analisi compiuto dall’Osservatorio del Naga, un’associazione composta da numerosi volontari che garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura, oltre a portare avanti attività di formazione, documentazione e lobbying sulle Istituzioni. Tale lavoro ha come obiettivo di comprendere i cambiamenti nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati con particolare attenzione all’area di Milano in cui il Naga opera dal 1987. E, infatti, proprio a Milano sarebbero almeno 2.608 i senza fissa dimora. I volontari e le volontarie del Naga hanno visitato nel corso della ricerca diverse tipologie di insediamenti informali (strutture coperte abbandonate, spazi all’aperto, palazzine abbandonate e giardini pubblici) per fornire un identikit delle persone fuori dal sistema di accoglienza e restituire una fotografia di queste marginalità. Le persone incontrate hanno provenienze diverse e status giuridici eterogenei: da stranieri in attesa o nell’iter di formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, a titolari di protezione, a stranieri con permesso di soggiorno in corso di validità, a cittadini italiani. Il minimo comune denominatore sembra essere l’instabilità abitativa, la precarietà occupazionale e salariale e la quasi totale assenza di tutele. Per quanto riguarda chi si trova al di fuori dell’accoglienza, il report descrive anche le risposte istituzionali, che si concretizzano prevalentemente in interventi numericamente insufficienti a favore dei senza fissa dimora e nella pratica costante degli sgomberi senza soluzioni alternative e giustificati dalla retorica della sicurezza e del decoro. Droghe. La Relazione del Governo orfana e senza senso di Stefano Vecchio Il Manifesto, 18 dicembre 2019 La Relazione sulle droghe 2019, è sostanzialmente una fotocopia di quella del 2018, con l’aggravante che non è firmata da alcun rappresentante del Governo. Preoccupa questa “rimozione” della politica dalle droghe ma ancor di più il vuoto politico che crea. Un vuoto politico che oggi tende ad essere riempito con le proposte di Salvini di inasprimento dell’art 73 del Dpr 309/90, prevalentemente volte a intensificare la criminalizzazione dei consumatori e, ancor peggio, con la presa di posizione sulle stesse corde repressive del Ministro dell’Interno. In questo quadro politico preoccupante si colloca la Relazione al Parlamento che fa risaltare i limiti delle rilevazioni e l’assenza di una analisi sugli effetti delle politiche adottate ormai da 30 anni. La Relazione, pur presentando questi limiti ormai strutturali, presenta alcuni elementi che, per quanto “inconsciamente” autocritici, di fatto descrivono il fallimento delle politiche di stampo punitivo-repressivo della legge italiana, incentrate sulla patologizzazione dei comportamenti legati all’uso di droghe e alla diffusione di rappresentazioni stigmatizzanti delle persone che usano sostanze psicoattive. Emerge che negli ultimi anni vi è stato un sensibile ampliamento e differenziazione del mercato e delle sostanze circolanti, con l’immissione di droghe sintetiche, con la corrispondente diffusione di modelli di consumo differenziati. Un ricercatore attento, e magari qualche esponente governativo, avrebbe dovuto trarne le conseguenze che le politiche costruite sul modello della guerra alla droga non hanno raggiunto gli effetti attesi. Se proprio si dovesse rappresentare un “allarme” dovrebbe essere rivolto ai danni sociali, economici e a carico della convivenza, di questo modello di politiche fallimentari. Se incrociamo i dati dei consumi con l’utenza dei servizi uniformemente diffusi in Italia, i SerD e le Comunità Terapeutiche, la maggioranza (65%) degli utenti di questi servizi è rappresentata da un target che fa riferimento all’1% di utilizzatori di eroina e da una minoranza di assuntori di cocaina. Di persone che usano la cannabis, sostanza più diffusa, se ne contano pochissimi e prevalentemente per effetto delle sanzioni amministrative, cioè per effetto della legge. Il sistema attuale dei servizi, per ammissione implicita della Relazione, non è cioè pensato per rispondere alle nuove realtà dei consumatori di sostanze psicoattive. Dietro le sbarre troviamo circa un terzo dei detenuti per effetto dell’art. 73 della legge sulle droghe, che conferma quanto da noi scritto nel decimo Libro Bianco sulle droghe. Il Dipartimento Politiche Antidroga rifiuta il confronto con le prospettive delle ricerche internazionali e italiane (condotte da Forum Droghe) che, sulla scorta del modello di Zinberg “droga set e setting”, avrebbero consentito di comprendere le specificità dei modelli di consumo diversificati rilevati e evidentemente non compresi in quanto ingabbiati attraverso le discutibili categorie patologizzanti di rischio e alto rischio. Nonostante vi sia un paragrafo per gli interventi di Riduzione del Danno, come per il 2018, non compare una analisi puntuale che avrebbe fatto emergere che sono questi i servizi che incontrano i consumatori che non si rivolgono ai servizi ordinari. E ricordiamo che la Riduzione del Danno, inserita nei LEA dal 2017, attende ancora la sua completa declinazione a livello nazionale e rimane a tutt’oggi un diritto “sospeso”. In assenza della politica, la Rete della società civile, degli operatori e delle persone che usano sostanze si incontrerà a Milano (28-29 febbraio) per rendere pubbliche le proposte per un cambio di rotta delle politiche sulle droghe per un governo del fenomeno dei consumi di sostanze psicoattive radicalmente alternativo al modello penale e patologico etichettante del Dpr 309/90. Droghe. Eroina e cocaina uccidono una persona ogni 26 ore: il nemico non è la cannabis di Carmine Gazzanni Il Giornale, 18 dicembre 2019 Le parole utilizzate dal leader della Lega, Matteo Salvini, non possono essere derubricate a mera battuta. Dopo la decisione della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, di non ammettere la norma sulla cosiddetta “cannabis light” al voto in Aula, l’ex vice-ministro dell’Interno ha ringraziato la seconda carica dello Stato e ha tuonato: “Bloccata in Senato la norma sulla coltivazione e la distribuzione di droga di Stato: no allo Stato spacciatore”. La domanda, a questo punto, nasce spontanea: quanto c’è di vero in quanto riferito dal segretario del primo partito italiano? In sintesi, nulla. E a dirlo non è nessun rivale politico ma una relazione contenente dati oggettivi e redatta dal dipartimento per le Politiche antidroga della presidenza del Consiglio, che fa capo direttamente a Giuseppe Conte. Il report, consegnato solo poche settimane fa in Parlamento, presenta dati a dir poco drammatici. Partiamo dalla mortalità. L’utilizzo di droghe pesanti in Italia miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, 38 in più dell’anno precedente. In media, una ogni 26 ore. Il 12,8% in più rispetto ai 296 dell’anno precedente, con una quota particolarmente rilevante (+92%) tra le donne over 40. La causa del decesso è stata attribuita in 154 casi all’eroina, in 64 alla cocaina, in 16 al metadone, in 2 alla metamfetamina, in 1 caso all’amfetamina, in 1 alla benzodiazepina, in 1 al furanilfentanil e 1 a psicofarmaci. In 94 casi (28,1%) la sostanza non è stata indicata. Mai, dunque, alla cannabis. E non va meglio sul fronte delle persone “in trattamento” per l’uso di stupefacenti: un totale di 133.060 (88% uomini, dipendenti soprattutto da eroina e coca). Ma se i 568 servizi pubblici per le dipendenze e le 839 strutture socio-riabilitative censite (su 908 presenti) notano un “invecchiamento della propria utenza”, sono i dati sui ricoveri a indicare come molti assuntori non siano consapevoli dei rischi. In un anno, infatti, sono state 7.452 persone finite in ospedale, più di 20 al giorno. E “più della metà di tali diagnosi fa riferimento a sostanze miste o non conosciute”, col sospetto che sia la punta dell’iceberg di una “popolazione insorgente di utilizzatori di sostanze sintetiche e Nps, in maggioranza giovani”. E qui si apre un nuovo fronte. Attraverso il web, infatti, iniziano ad arrivare in Italia “Nuove Sostanze Psicoattive”: cannabinoidi, catinoni e oppioidi sintetici, in genere ordinati su Internet e ricevuti per posta. Sono “oltre 400”, si legge ancora, i “siti/forum/account social molto usati soprattutto dai giovani”, come “piattaforme di vendita online”, per i quali sono state “avanzate al ministero della Salute, 17 proposte di oscuramento di siti”: Le indagini hanno “portato al sequestro di quasi 80 kg e 27mila dosi di sostanze sintetiche”. Dati eloquenti, dunque, che lasciano intendere come la narrazione di una certa politica sia assolutamente errata. “Stiamo provando in tutti i modi pur di invertire la rotta - spiega a La Notizia l’onorevole Alessandra Mammì (M5S), da sempre impegnata sul fronte sociale - Abbiamo costruito un Intergruppo parlamentare composto da più di 100 deputati. L’Intergruppo affronta in modo trasversale la tematica sostenendo la legalizzazione: ci servirà anche per fare convegni, trasmettere corrette informazioni. È veramente urgente, informare anche con campagne di sensibilizzazione perché non è pensabile pensare che chi fuma cannabis passi poi alle droghe pesanti, come la destra vuol far credere. Libia. I migranti detenuti nei lager: un’emergenza umanitaria dimenticata di Daniela Fassini Avvenire, 18 dicembre 2019 Gli ultimi rapporti di Acnur e Cir parlano di 60mila rifugiati (6mila rinchiusi nei Centri governativi) e un milione di persone senza aiuti. Il problema più urgente? I campi di detenzione. Lo dicono tutti, dalle associazioni in campo per i diritti umani ai governi fino alle agenzie Onu. I centri dove gli stranieri, intercettati sul territorio libico senza un regolare visto, vengono rinchiusi e lasciati in balìa di miliziani con pochi scrupoli. È qui che avvengono “situazioni indicibili”, come aveva denunciato il segretario generale dell’Onu, Guterres, in relazione all’ultimo rapporto sulla situazione nel Paese nordafricano. In assenza di un governo stabile, i migranti vengono venduti come merce di scambio. Spostati da un lager a un altro, schiavizzati e torturati per estorcere denaro dai familiari costretti ad ascoltare, al cellulare, i dolori delle torture dei propri cari. “Meglio morire in mare che in un lager libico” raccontano i migranti soccorsi in mare da quelle poche navi Ong che ancora lo possono fare. Attualmente in Libia, secondo l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato Onu per le Nazioni Unite, sono circa 6mila i migranti rinchiusi nei dieci principali centri di detenzione del governo di accordo nazionale di al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale. Ma sarebbero tre volte tanto quelli “non governativi” e fuori controllo. Ad oggi, l’Acnur ha registrato 60.000 richiedenti asilo in Libia, ma è riuscita a ricollocarne solo 2.000 circa all’anno. La capacità dell’agenzia dei rifugiati di ricollocare i richiedenti asilo dalla Libia dipende dalle offerte da parte di Paesi ospitanti sicuri, soprattutto in Europa. A novembre, un appello urgente dal centro di detenzione di Zawiya, dove sono rinchiuse 650 donne e uomini (tra cui 400 eritrei ed etiopi) è stato rilanciato da don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia: “Viviamo costantemente nella paura, sentiamo continuamente spari nelle vicinanze, siamo chiusi qui, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco, rischiamo la vita”, raccontano i detenuti quando riescono a mettersi in contatto con il presule. Don Zerai chiede a tutte le istituzioni europee e alle agenzie per i diritti umani di mobilitarsi per mettere in atto un piano straordinario per queste persone. Dall’inizio dell’anno allo scorso 15 novembre, sempre secondo gli ultimi dati diffusi dall’Acnur, sarebbero complessivamente 8.155 i rifugiati e migranti intercettati dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportati a terra. Si tratta, in particolare, di 6.547 uomini, 508 donne e 777 minori. La maggior parte delle persone riportate in Libia proviene da Sudan (3.250 persone), Mali (520), Bangladesh (456), Costa d’Avorio (439) e Somalia (391). La maggior parte delle imbarcazioni intercettate è diretta in Europa ed è in partenza da Zwara e Garabulli, rispettivamente a ovest ed a est di Tripoli. “Da gennaio, più di 8.600 migranti che hanno tentato la traversata del Mediterraneo sono stati riportati in Libia in centri di detenzione sovraffollati, dei quali le Nazioni Unite hanno documentato le condizioni inaccettabili, le violazioni dei diritti umani e le sparizioni - denuncia l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. È necessario che siano intraprese azioni rapide per smantellare il sistema di detenzione e trovare soluzioni alternative per proteggere le vite dei migranti”. Ma la guerra civile ha messo in ginocchio l’intera economia del Paese nordafricano. Il Centro italiano per i rifugiati parla di circa un milione di persone bisognose di assistenza umanitaria. Sono soprattutto cittadini libici, sfollati, senza cure mediche né medicinali. Libia. Di Maio media tra Haftar e Sarraj: “Ora un inviato italiano in Libia” di Francesca Paci La Stampa, 18 dicembre 2019 Il ministro degli Esteri al premier libico: Ankara non deve intervenire militarmente. L’Italia rilancia l’iniziativa europea. A breve l’uomo forte della Cirenaica a Roma. “Nei prossimi giorni l’Italia nominerà un inviato speciale per la Libia, una figura di alto profilo che rappresenterà il nostro Paese e risponderà direttamente alla Farnesina”. Il ministro degli esteri Luigi Di Maio atterra a Ciampino dopo la visita lampo a Tripoli, Bengasi e Tobruk con l’annuncio di un rilancio diplomatico a tutto campo. “È stata una giornata densa di appuntamenti, l’Italia ha indubbiamente perso terreno il Libia ma è il momento che recuperi il suo ruolo naturale e dia una mano in un Paese amico, vicino, a rischio terrorismo e nel pieno di una grave crisi umanitaria”, spiega Di Maio. Nel giro di poche ore l’ha ripetuto come suggello di un impegno personale ai suoi due interlocutori principali, il premier Fayez al Sarraj e l’avversario irriducibile Khalifa Haftar, il primo da risentire al telefono stamattina stessa e il secondo atteso a Roma già nelle prossime settimane. La missione del ministro degli Esteri nasce dall’urgenza imposta alla partita dall’entrata a gamba tesa della Turchia, pronta a intervenire militarmente al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna). A Tripoli Di Maio è andato per porgere la mano ai fini di “una soluzione negoziale” ma soprattutto per fare pressione affinché al Sarraj congeli il patto con Erdogan (“sono accordi critici a partire dai confini marittimi”, dice) e tenga lontani i suoi soldati. Le parole di Di Maio ai leader del Gna su questo sarebbero state molto nette: la Turchia non deve intervenire militarmente, non potete farli entrare. Una preoccupazione che, al netto di tante differenze, accomuna Roma a Parigi e Berlino. Dall’entourage del premier libico riferiscono di aver apprezzato, ha apprezzato anche Misurata, la potente città-Stato il cui sostegno al Gna, al netto del recente malumore di alcune milizie per il ritardo nel pagamento degli stipendi, non è mai venuto meno. Però, con la pressione dei bombardamenti alla periferia della capitale, hanno messo i loro paletti fermi, ribadendo che prima di qualsiasi potenziale negoziato Haftar deve rinunciare all’offensiva e tornare da dove è venuto, ossia a Bengasi. L’Italia gioca di rimessa. A seguito di mesi di assenza il nostro Paese torna a mettere nelle mani nella conflittuale eredità post Gheddafi e lo fa cercando d’inserirsi tra i tanti giocatori in campo. Dopo aver incontrato al Sarraj, Haftar ma anche il vice premier Maitig, il ministro degli Esteri Siala, il presidente della camera dei rappresentanti Aguila Saleh, Di Maio vuole allargare il tavolo: “Parlerò con il segretario di Stato americano Mike Pompeo, con il ministro degli Esteri turco e con quello russo, ci sono molti attori in Libia, qualsiasi interferenza non è una buona notizia per la pace e per questo dobbiamo essere in contatto con diversi Paesi e spingere sul ruolo dell’Italia e dell’Unione EUropea”. Roma, sottolinea più volte, “appoggia gli sforzi dell’inviato delle Nazioni Unite Salamé” e la piattaforma da cui partire è la conferenza di Berlino, pianificata per fine gennaio. Le carte in mano non sono buone. Con Haftar Di Maio ha insistito sul nuovo approccio, vale a dire basta con le foto di summit inconcludenti e lavorare agli interessi comuni. Nelle ore in cui dialogava con Sarraj a Tripoli, un C-130 prelevava a Bengasi 5 bambini con gravi malattie per trasportarli al Bambin Gesù di Roma, una missione umanitaria a sfondo diplomatico. Haftar, ci riferiscono, è soddisfatto. Tripoli anche. In sottofondo però si continua a sparare, sempre più vicino. Pakistan. Pena capitale per l’ex presidente Musharraf di Emanuele Giordana Il Manifesto, 18 dicembre 2019 Militari in subbuglio, il governo “esaminerà nel dettaglio” la decisione della Corte. Pena di morte per Pervez Musharraf dice la sentenza di una corte ad hoc pachistana che mette la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria dell’ex dittatore, ex presidente ed ex generale dal 2016 rifugiatosi a Dubai. Pena capitale per alto tradimento - la condanna più grave in un Paese che ha tra l’altro sospeso la moratoria sulle esecuzioni di Stato - per aver sospeso la Costituzione durante gli anni del suo regime. La notizia arriva come una bomba e sembra mettere una pietra tombale sul destino dell’uomo che dal 1999 al 2008 ha retto il Paese. Ma è davvero la parola fine? L’esecutivo del premier Imran Khan viene in soccorso, sebbene con prudenza, al generale. Il governo pachistano infatti “esaminerà in dettaglio” la decisione della corte le cui motivazioni saranno rese note a breve. È la prima volta nella storia del Paese che un capo dell’esercito viene dichiarato colpevole di alto tradimento e condannato per questo a morte e non sarebbe evidentemente un bel precedente. Awan ha aggiunto che gli esperti legali analizzeranno tutti gli aspetti legali e politici, nonché l’impatto sugli interessi nazionali, dopo di che una dichiarazione del governo verrà resa nota. È un distinguo che fa intravedere il fatto che la parola fine si allontana. Ma c’è di più. La condanna colpisce indirettamente gli uomini in divisa, vero potere neppur troppo occulto del Paese. E infatti i militari prendono subito posizione. Una dichiarazione dell’Inter-Services Public Relations (Ispr), ala mediatica dell’esercito, dice che “la decisione è stata accolta con molto dolore e angoscia dalle forze armate”. La dichiarazione porta la firma del generale Asif Ghafoor: “Un capo di stato maggiore e presidente del Pakistan, che ha servito per oltre 40 anni e ha combattuto guerre per la difesa del Paese non può essere un traditore”. I giochi dunque non sono affatto chiusi. Del resto il team legale di Musharraf, malato di cuore, può appellarsi ricorrendo alla Corte Suprema. E se questa confermasse il verdetto della corte speciale, il presidente avrebbe pur sempre l’autorità costituzionale ai sensi dell’articolo 45 per perdonare un imputato nel braccio della morte. Le accuse a Musharraf riguardano il periodo che va dal 3 novembre al 15 dicembre 2007. In quel pugno di giorni il generale dittatore dichiara lo stato di emergenza e sospende la Costituzione cosa che gli permette di giurare come presidente non eletto. Ma non si ferma lì: per evitare ostacoli imprigiona 61 giudici dei gradi più alti del sistema giudiziario incluso l’uomo che sta all’apice della piramide, il Chief Justice Iftikhar Mohammad Chaudhry, che aveva già sospeso dal servizio ma che un vasto movimento popolare aveva fatto reinsediare. È forse il suo scivolone più grosso, un calcolo politico che gli mette contro magistrati e società civile già turbati dall’ennesimo golpe militare. Il 2007 è davvero un pessimo anno per il Pakistan che si chiude con l’assassinio di Benazir Bhutto. La sentenza è forse anche il segnale di un desiderio di autonomia della magistratura e di come debba essere giudicato traditore chiunque violi la Costituzione civile. Concetto che finisce per dire indirettamente che l’epiteto “traditore” si dovrebbe storicamente adottare per tutti i dittatori del Paese dei puri. Passati e futuri. In divisa e non. Panama. 12 morti e 11 feriti per sparatoria in carcere di Marilyn Aghemo lettoquotidiano.it, 18 dicembre 2019 Un primo bilancio che arriva da Panama dopo la sparatoria in carcere. Ora il Presidente della Repubblica vuole capire cosa sia accaduto. Secondo una primissima ricostruzione, tutto è iniziato dopo una rissa in due padiglioni dell’Istituto con “guerra” interna tra carcerati. In un secondo momento la Polizia è riuscita ad entrare all’interno della prigione e porre fine alla sparatoria, nonostante le tante perdite. La Polizia ha sequestrato dopo un controllo otto armi da fuoco che i detenuti avevano nascosto all’interno delle loro celle. Il Presidente della Repubblica ha rilasciato un primo commento sulla grave situazione: “la presenza di armi in carcere è una cosa gravissima”. Per questo è ora in atto una indagine, non solo per ricostruire tutta la vicenda di cui sopra ma anche per scoprire se ci siano o meno complicità da parte degli agenti interni di custodia. Il vicedirettore Munoz ha dichiarato alla stampa locale - La Prensa - che il bilancio dei morti potrebbe salire nelle prossime ore, essendo due dei feriti in condizioni gravissime. The Sun ha riportato tempo fa le condizioni dei carcerati in questo istituto che non ha nulla a che vedere con il suo nome di battesimo. Secondo quanto emerso le celle sono piccole e sovraffollate, non esistono cure mediche e in molti casi i carcerati sono in attesa di giudizio - così da restare all’interno delle celle per anni. Non c’è igiene, bagni sporchi e la doccia viene fatta in cortile con dei secchi perché spesso e volentieri manca l’acqua.