Il Dap: il 41bis di Sassari è l’unico idoneo. Ma in quel carcere vivono sottoterra! di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2019 Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, sentito la scorsa settimana in commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra e volta ad approfondire i profili applicativi del 41bis, ha spiegato che solo il carcere di Sassari, il Bancali, ha la struttura idonea per ospitare i reclusi al cosiddetto carcere duro. “Le strutture penitenziarie per il regime al 41bis - ha spiegato Basentini dovrebbero avere una forma e un tipo di ripartizione logistica idonea: si potrebbe immaginare che i detenuti siano in celle tutte sulla medesima fila con di fronte solo il muro”. Il capo del Dap ha sottolineato che “in Italia ci sono 13 istituti penitenziari che hanno il 41bis ma sono tutti adattati successivamente: l’unico che nasce con una vocazione mirata è Sassari. Gli altri come l’Aquila, dove c’è il maggior numero di detenuti al 41bis, nascono come carceri di altro circuito, con file una di fronte all’altra: il detenuto al 41bis si trova di fronte un altro detenuto al 41bis e quindi qualunque forma di comunicazione è possibile tra le due celle. Poi ci anche sono i momenti di socialità, di cui i detenuti hanno diritto anche se si fa una selezione dei gruppi di socialità e poi tutto è osservato”. Il problema dell’organizzazione degli spazi detentivi esiste. La comunicazione tra detenuti dello stesso gruppo criminale è teoricamente possibile. Infatti, lo stesso Garante nazionale delle persone private della libertà, nel suo rapporto tematico proprio sul 41bis, ha rivelato l’inadeguatezza dei reparti “lineari”, in cui le celle affacciano in maniera speculare sui due lati del corridoio, rispetto a quelli “modulari” a gruppi di quattro stanze. L’organizzazione lineare dello spazio, quindi, non appare conforme alla finalità dell’interruzione della comunicazione all’interno, anche in considerazione del fatto che celle appartenenti a diversi gruppi di socialità di quattro sono adiacenti. Il Garante ha inoltre osservato che negli ultimi tempi “i gruppi di socialità in alcuni Istituti sono composti da tre persone e non da quattro per ragioni di incompatibilità territoriale o di appartenenza criminale”. L’autorità del Garante ha riscontrato situazioni in cui detenuti appartenenti a gruppi di socialità diversi avevano le celle una di fronte all’altra. È il caso non solo della Casa circondariale de L’Aquila, ma anche Novara, Tolmezzo e Cuneo. Quindi la soluzione per ovviare al problema è proprio la realizzazione di sezioni “modulari” (che però non vuol dire avere di fronte un muro) tipo quelle di Sassari. Solamente che l’esempio specifico di quel carcere sardo non contempla le gravissime problematiche e criticità esistenti in quel luogo. Basta leggere il rapporto del Garante relativo proprio al carcere Bancali di Sassari: le sezioni del 41bis sono state realizzate in un’area ricavata, scavando, al di sotto del livello di quota dell’Istituto e degli altri manufatti che lo compongono complessivamente. Le cinque sezioni scendono gradatamente, con una diminuzione progressiva dell’accesso dell’aria e della luce naturale, che filtrano solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete, corrispondenti all’esterno al livello di base del muro di cinta del complesso. Per tale motivo, sia le persone detenute nelle proprie stanze che il personale nei propri locali devono tenere continuamente la luce elettrica accesa per sopperire alla carenza di quella naturale. Inoltre, è stato riferito alla delegazione del Garante nazionale che spesso durante le piogge intense quest’ultima parte del reparto si allaga con evidenti disagi per tutti. Il Garante nazionale ritiene che tale progettazione non trovi giustificazione nella finalità specifica del regime del 41bis e rischi di generare una ricaduta negativa sulle condizioni psicofisiche del personale che vi lavora e delle persone ivi ristrette. “Il muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura degli Opg serve una scelta radicale” controradio.it, 17 dicembre 2019 Il Garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone chiede la riforma del Codice Rocco: “la riforma che ha portato alla chiusura degli Opg sta funzionando: ci sono 31 Rems in Italia, strutture con 650 persone, il problema è che non si è affrontato il nodo di fondo cioè quello legato al perché di queste misure di sicurezza” Una proposta di legge che intervenga sulle norme relative alla responsabilità penale dell’individuo malato di mente, abolendo la non imputabilità e superando la distinzione tra pene e misure di sicurezza: è quanto serve secondo Franco Corleone, Garante dei detenuti della Toscana, il quale ha “rispolverato” e aggiornato anche alla luce dell’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) una sua proposta di legge al tempo in cui era parlamentare. “L’anno prossimo - ha detto Corleone - sono 90 anni dal codice Rocco e penso che sia ora di incidere su certe questioni molto delicate tra cui c’è questa della concezione del trattamento per le persone responsabili e non responsabili il cosiddetto “doppio binario”. La riforma che ha portato alla chiusura degli Opg è stata molto importante, molto positiva, sta funzionando, oggi ci sono 31 Rems in Italia, strutture dove si eseguono le misure di sicurezza psichiatrica, con 650 persone, il problema è che non si è affrontato il nodo di fondo cioè quello legato al perché di queste misure di sicurezza”. “Penso che la via più limpida - ha spiegato ancora Corleone - sia quella di ritenere tutte le persone responsabili, ovviamente nella misura in cui è possibile, ma tutti sottoposti a giudizio, tenendo conto della loro condizione mentale”. Quella presentata oggi, ha aggiunto Corleone, “è una proposta che presentai negli anni 80-90 in Parlamento, ma adesso l’ho ricalibrata sulla nuova realtà senza gli Opg. In questi anni abbiamo verificato che questo sistema di misure di sicurezza uguali per tutti qualunque sia la patologia e il reato compiuto mostra delle difficoltà”. La presentazione del libro Presentato il volume che parla della proposta di legge per il superamento del doppio binario e affronta il difficile nodo dell’imputabilità dell’autore di reato. Franco Corleone: “Se si è scelto un nesso tra misura di sicurezza e reato, è coerente scegliere la via del giudizio, non per arrivare ad una pena dura ed esemplare, ma per affermare una responsabilità, anche se affievolita, che ha sicuramente un valore terapeutico”. “Una condanna giusta e umana dà maggiore dignità al soggetto, che oggi è invece ridotto a oggetto dall’incapacitazione totale. Prosciolto e internato sono categorie che producono uno stigma, che non favorisce le prospettive di progressiva autonomia e reinserimento sociale. Incidere sull’articolo 88 del Codice penale è in linea con il testo, ed il contesto, della legge 81/2014, che in un punto fondamentale lega la durata della misura di sicurezza alla pena massima prevista per il reato commesso. Se si è scelto un nesso tra misura di sicurezza e reato, è coerente scegliere la via del giudizio, non per arrivare ad una pena dura ed esemplare, ma per affermare una responsabilità, anche se affievolita, che ha sicuramente un valore terapeutico”. Franco Corleone, Garante regione dei diritti dei detenuti, al termine del suo incarico, ha sintetizzato con queste parole il senso della proposta contenuta nel libro ‘Il muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura dell’Opg, una scelta radicalè, che ha presentato questa mattina, lunedì 16 dicembre, nella sala Amintore Fanfani a palazzo del Pegaso. Al centro il superamento del ‘doppio binario’ nella responsabilità penale per gli autori di reato, abolendo la non punibilità nel caso dei malati di mente. “Ogni riforma che riguarda le persone con disturbi mentali mette in gioco il patto sociale e riguarda tutti noi - ha ricordato Pietro Pellegrini, curatore del report del Coordinamento delle Rems e di Stop Opg. Quale funzione ha la pena in generale? Il sistema che stiamo tenendo in piedi risponde al mandato costituzionale, ha un’efficacia? È giusto spendere denaro pubblico per avere queste risposte in termini di sicurezza e di recidive di reato?”. A suo parere “la proposta avanzata può aiutare il sistema a trovare un nuovo equilibrio”. “Mantenere queste norme del codice penale significa mantenere una certa concezione della malattia mentale, che genera un sistema fondato, da un lato, sulla incapacità di intendere e di volere, dall’altro sulla pericolosità per sé e gli altri - ha sottolineato Grazia Zuffa, presidente della Società della ragione e componente del Comitato nazionale di Bioetica. Il riconoscimento dei diritti fondamentali alle persone con disabilità psicosociali ha anche una grossa importanza terapeutica. Vuol dire puntare sulle loro capacità, non sottolineare il loro deficit. È un’applicazione del nuovo paradigma della salute mentale”. “L’idea che sia commutata una pena ad un soggetto, seppure in forma particolare, che è privo di un elemento per commettere un reato è un aspetto che merita una discussione approfondita, perché investe le fondamenta del nostro sistema penale - ha rilevato l’avvocato Emilia Rossi, componente dell’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà. La proposta ha una portata molto più ampia della sua finalità specifica. Anche tutto l’impianto delle misure di sicurezza, che si aggiungono a pene già scontate, pone interrogativi altrettanto profondi”. Nel corso della presentazione, sono intervenute anche le altre autrici del volume: Giulia Melani, che ha curato tutta la parte relativa alla proposta di legge; Evelin Tavormina, che ha illustrato il quadro nazionale delle Rems; Katia Poneti, che ha analizzato i protocolli operativi sulle misure di sicurezza. “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”, un Natale con chef stellati per 2.000 detenuti gnewsonline.it, 17 dicembre 2019 L’edizione 2019 de “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”, iniziativa organizzata e promossa Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza Onlus del RnS, si terrà il 18 dicembre in contemporanea in dodici istituti penitenziari italiani e coinvolgerà circa 2000 detenuti. Nata nel 2014, la manifestazione offre ogni anno un’occasione di convivialità natalizia a persone recluse, organizzando pranzi cucinati da chef stellati e serviti da testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, del teatro, della tv, del giornalismo e dello sport. Qui puoi leggere il resoconto della passata edizione. Cristina Bowerman, Heinz Beck e Filippo Lamantia sono solo alcuni dei cuochi che nelle edizioni precedenti hanno realizzato titolo volontario e gratuito pasti gourmet e speciali creazioni utilizzando alimenti - dalla carne al pane, dalla pasta a prelibatezze gastronomiche - offerte generosamente da molti ristoratori. Il regista Pupi Avati, l’attore Sebastiano Somma, suor Cristina e la cantante Teresa De Sio sono tra i testimonial dell mondo dello spettacolo che hanno aderito quest’anno all’evento e che contribuiranno alla sua animazione artistica. “L’Altra Cucina…per un Pranzo D’Amore” richiede ogni anno un notevole impegno organizzativo ed economico, ma è fortemente voluta, dicono gli organizzatori “non solo per donare una giornata di festa a chi affronta la dolorosa esperienza del carcere” ma anche per far sì che la detenzione, adoperando le parole di Papa Francesco “possa davvero diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone”. Prescrizione, la lite diventa una lunga guerra fredda di Errico Novi Il Dubbio, 17 dicembre 2019 Da Pd e renziani no alla legge Costa: solo a febbraio i loro correttivi alla norma Bonafede. Sulla prescrizione poteva consumarsi un conflitto nucleare. Sarà invece una guerra fredda. Lunga e dall’esito incerto. Dal vertice di maggioranza celebrato ieri sera (ancora non concluso al momento di mandare in stampa questo numero del giornale) un punto dovrebbe risultare chiarito: le distanze sulla norma Bonafede sono irrecuperabili ma non faranno cadere il governo, almeno per ora. Il ministro della Giustizia respinge definitivamente la prima richiesta degli alleati: rinviare lo stop ai termini di estinzione dei reati. Entrerà in vigore il 1° gennaio come previsto. L’altro dato certo è che né il Pd né Italia viva pigeranno il pulsante fatale, quello della legge Costa: la proposta azzurra, abrogativa della legge Bonafede, sarà votata in aula solo a gennaio, ma da ieri è acclarato che nessuno nella maggioranza la sosterrà. I paletti al blocca-prescrizione ci saranno, ma in una proposta di legge che il Pd a breve depositerà in Parlamento. Conterrà quasi certamente la prescrizione processuale, cioè “tetto di durata” del processo dopo la sentenza di primo grado. I 5 Stelle, Bonafede in primis, restano assolutamente contrari. Alle 11.30 di oggi illustrerà un’ipotesi simile Federico Conte, rappresentante di Leu nella commissione Giustizia di Montecitorio: blocco della prescrizione addirittura dopo il rinvio a giudizio ma tetto di durata anche per il primo grado. Sempre stamattina alla stessa ora il sit- in del Partito socialista, capitanato dal nuovo segretario Enzo Maraio, per denunciare il rischio di “ergastolo processuale” contenuto nella legge Bonafede. La guerra a bassa intensità sarà poco percettibile fino alle Regionali di fine gennaio. In attesa di comprendere se davvero il guardasigilli porterà in tempi brevi il ddl sul penale in Consiglio dei ministri, va detto che le intercettazioni rischiano invece di provocare qualche fibrillazione di fine anno, seppure non irreparabile. Se n’è parlato poco finora e si rischia di arrivare impreparati alla data del 1° gennaio: quel giorno dovrebbe entrare in vigore anche il decreto sugli “ascolti”. Dovrebbe: Bonafede si è cautelato e ha inviato già a metà novembre una nota agli alleati per annunciare un rinvio ulteriore di 6 mesi, da inserire nel Mille Proroghe. Da lì il nuovo attrito col Pd, il cui vicesegretario Andrea Orlando è autore della riforma. “Inaccettabile”, per il Nazareno, far slittare le norme che tutelano la privacy delle persone intercettate proprio mentre si respinge il “congelamento” della nuova prescrizione. Ma il vero punto è che dalla nascita dell’alleanza giallorossa la prescrizione ha divorato anche gli spazi di confronto destinati alle intercettazioni. E ora ci si trova in ritardo con decisioni che i capi delle maggiori Procure attendono da tempo. Una loro delegazione ne ha discusso un paio di settimane fa proprio col ministro della Giustizia: Giuseppe Creazzo (Firenze), Francesco Greco Milano), Francesco Lo Voi (Palermo), Giovanni Melillo (Napoli) e Michele Prestipino (facente funzioni a Roma) hanno spiegato che va innanzitutto completato l’adeguamento delle sale d’ascolto, dove i difensori saranno costretti a stare attaccati per ore alle cuffiette visto che le conversazioni captate, se ritenute irrilevanti, non saranno più trascritte. Poi c’è un problema non banale di applicabilità delle nuove misure alle indagini in corso, e sarebbe perciò indispensabile il decreto cuscinetto. Senza contare che i procuratori chiedono da tempo (da quando a via Arenula c’era Orlando) di precisare meglio i criteri di selezione del materiale, ora affidato alla polizia più che ai pm. Vorrebbero una specifica formazione del personale sulle nuove disposizioni. Sono insomma i vertici delle maggiori Procure a ritenere necessario un rinvio, più che il guardasigilli. La giustizia dei robot di Annalisa Chirico Il Foglio Quotidiano, 17 dicembre 2019 L’algoritmo studiato per velocizzare i processi. La formula matematica per prevedere i crimini. Come cambierà il sistema giudiziario con l’intelligenza artificiale? Un’indagine. Vi fareste giudicare da un giudice robot? Affidereste a un algoritmo, per quanto smart, la decisione sulla vostra libertà personale o sulla vostra proprietà? Non siamo in un film fantasy. L’applicazione dell’intelligenza artificiale al settore giuridico porta con sé una cascata di conseguenze pratiche e una riflessione, affascinante e spaventosa insieme, sulle ricadute in termini di tutela dei diritti fondamentali e di giusto processo. “È una sfida straordinaria per il futuro della giurisdizione”, dichiara al Foglio Fabio Pinelli, avvocato di lungo corso e membro della Fondazione Leonardo. Un futuro che è già presente: l’Estonia, paese all’avanguardia nel campo dell’e-government e della cittadinanza digitale, utilizza un algoritmo per risolvere le controversie risarcitorie fino al valore di settemila euro. “Nel caso estone - prosegue l’avvocato Pinelli - il cosiddetto ‘automated decision system’, già operativo in un gran numero di controversie civili, è in grado di ricevere la documentazione elettronica delle parti e di confrontarla con normative, atti depositati, regolamenti, per trarne infine le conclusioni. In caso di opposizione di una delle parti, si può procedere al giudizio con un giudice in carne e ossa. L’obiettivo è quello di rendere l’amministrazione più rapida e snella alleggerendo il carico di lavoro per cancellieri e magistrati”. La qualità del giudizio rischia di essere sacrificata sull’altare dell’efficienza? “L’algoritmo è in grado di gestire e comparare tutti i precedenti giurisprudenziali come nessun giudice umano saprebbe fare. Inoltre, la decisione automatizzata non risente di condizionamenti emotivi o di pregiudizi soggettivi”. Un giudice robot difficilmente verrà ricusato… “Anche la disciplina dell’astensione, al cospetto di un software, perde di significato. Per chi ambisce alla decisione fredda di un giudice privo di emozioni, è uno scenario affascinante. Continuo tuttavia a ritenere che strumenti così potenti vadano utilizzati con l’ausilio dell’umanità, anche emotiva, di un giudice, soprattutto in ambito penale”. Negli Stati Uniti da anni le corti impiegano algoritmi, forniti da società private come Compas, per determinare la misura della cauzione e, in modo ancor più controverso, per calcolare il rischio di recidiva e l’entità della pena detentiva. Diversi studi hanno dimostrato come i principali algoritmi in uso oltreoceano abbiano discriminato a sfavore dei neri e a favore dei bianchi. “La trasparenza del sistema informatico, che noi giuristi non siamo in grado di garantire, pone un problema insormontabile. Essendo sistemi brevettati, il loro funzionamento non è conoscibile in quanto coperto dal segreto industriale. Non a caso, nel 2018 il Consiglio d’Europa ha adottato la Carta etica europea per l’uso dell’Ia nei sistemi di giustizia penale; in essa si pone l’accento sul rischio di discriminazione poiché tra i dati valorizzati dall’algoritmo è elevata la probabilità che specifici fattori di pericolosità vengano ricostruiti in relazione a determinate appartenenze etniche, religiose, di estrazione economico-sociale”. Nel 2016 la Corte Suprema del Wisconsin ha respinto il ricorso di un condannato a sei anni di reclusione affermando la legittimità della procedura: all’obiezione sulla non conoscenza del funzionamento dell’algoritmo le società fornitrici dei software reclamano che i propri algoritmi sono segreti industriali non divulgabili, nemmeno agli imputati a cui si applicano. “È una materia controversa che sta prendendo forma man mano che casi simili finiscono in tribunale. Non è irragionevole pensare che il progresso dell’Ia potrà condurre a prodotti sempre più sofisticati, effettivamente in grado, se forniti delle corrette informazioni, di dare risultati paragonabili a quelli cui giungerebbe un essere umano. Ricordo quando nel 2006, per la prima volta, la stampa nazionale diede notizia del tribunale di Zibo, in una regione sperduta della Cina, dove un computer sofisticato aveva già emesso oltre millecinquecento sentenze. La reazione tra i giuristi fu tra lo stupito e il divertito. Oggi invece siamo chiamati a occuparcene perché, dalle auto a guida autonoma fino all’algoritmo nei tribunali, l’impiego dei software è destinato a essere sempre più esteso. Per questo con la fondazione Leonardo, presieduta dal professore Luciano Violante, stiamo lavorando sul rapporto tra esercizio della giurisdizione e progresso tecnologico”. Nell’esperienza cinese, il computer si era rivelato più o meno indulgente del giudice umano? “Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, nei primi millecinquecento processi il computer non aveva mai comminato la pena di morte, pur applicabile a oltre la metà dei crimini attribuiti alla sua competenza. Quella macchina artificiale era sensibile alla funzione rieducativa della pena. E nessuna impugnazione era stata proposta contro le sue decisioni: le sentenze venivano percepite come eque anche da parte di chi le subiva”. Rispetto a queste nuove entità artificiali si pone poi il tema della responsabilità in sede giudiziaria: il dogma del machina delinquere non potest non regge più. “Il caso emblematico è quello della self-driving car, l’auto senza conducente. Chi risponde di un eventuale incidente? Il modello tradizionale per il quale le macchine sono meri strumenti dell’agire criminoso umano non è più applicabile perché il risultato dannoso è causa della scelta della sola macchina, in modo del tutto scollegato dall’agire dell’uomo che l’ha costruita. E anche l’uomo che della macchina fa uso difficilmente può essere ritenuto responsabile del danno, nella misura in cui questo non è impedibile attraverso l’utilizzo di un qualche strumento di vigilanza sulla condotta arbitraria della macchina. Se la vettura è semi-autonoma, ovvero dotata di comandi che permettono di intervenire in caso di emergenza, possono permanere margini di responsabilità colposa del potenziale guidatore; nel caso invece in cui l’automazione sia completa, al punto da ritenere l’uomo un vero e proprio trasportato, allora l’impossibilità oggettiva di interventi umani di emergenza impedisce di contestare penalmente una qualche colpa dell’utilizzatore”. I terzi danneggiati dovrebbero citare in giudizio una macchina? “La prospettiva di punire direttamente la macchina sembra fantasia e invece è particolarmente feconda negli ambienti di common law. Esiste tuttavia il rischio evidente di un vuoto di tutela penale per taluni tipi di offesa dal momento che i modelli imputativi di responsabilità oggettiva non sono compatibili con il principio di colpevolezza e personalità della responsabilità penale”. Le potenzialità investigative della cosiddetta “polizia predittiva” superano i confini dell’immaginazione. “Quello delle indagini è un ambito di enorme rilievo sotto il profilo sia dell’efficacia sia dei rischi per la privacy. Già oggi i nuovi strumenti informatici sono in grado di raccogliere e processare una grande quantità di dati, in particolare video e immagini, che arrivano a prevedere, sulla base di una serie di similarità e ripetizioni comportamentali, il rischio della commissione di specifiche attività criminali in un determinato contesto spazio-temporale. I cosiddetti ‘trasfertisti’ delle rapine in banca, per esempio, colpiscono in un tempo circoscritto più obiettivi; elaborando i dati relativi a un elevato numero di rapine sul territorio, l’algoritmo è in grado di predire, probabilisticamente, luogo e fascia oraria della rapina successiva, consentendo così un’efficace azione di contrasto”. La lotta al crimine può giustificare un Grande fratello senza limiti? “Questo è il punto decisivo. L’algoritmo che predice le rapine immagazzina una mole infinita di dati (immagini di persone, targhe di auto etc.) del tutto estranei agli interessi pubblici che vengono perseguiti”. Nel 2018 è entrato in vigore il nuovo Regolamento europeo sulla privacy che all’articolo 22 sancisce il diritto di non essere sottoposti a una decisione giudiziaria basata esclusivamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione. “Anche la Carta etica già menzionata cita tra i princìpi irrinunciabili il rispetto dei diritti fondamentali della persona, inclusa la riservatezza, la trasparenza del sistema e la garanzia del controllo umano. I giuristi ovviamente non possono occuparsi delle difficoltà operative connesse agli strumenti informatici. È chiaro che oggi il tema dell’Ia e dei Big data comporta una riflessione più ampia sul rapporto tra stato e cittadino”. In che senso? “Il legislatore contemporaneo, in una deriva securitaria e giustizialista, s’ispira al principio molto totalitario che il cittadino debba essere una casa di vetro nei confronti delle istituzioni. In una prospettiva liberale invece vale il contrario: le istituzioni hanno l’obbligo della trasparenza mentre gli individui sono titolari del diritto primario alla riservatezza. La scarsa sensibilità in proposito è testimoniata dalla Legge spazza-corrotti che ha ampliato significativamente lo spazio di praticabilità delle indagini a mezzo trojan horse”. Lei si riferisce all’utilizzo del captatore informatico, originariamente limitato ai reati di mafia e terrorismo e ora impiegato ai delitti di criminalità organizzata. “Io non sono tra coloro che vorrebbero fare a meno di questi strumenti, né ho un’idea romantica dei diritti che non fa i conti con la contemporaneità. Ma è stata la Corte di Cassazione a sezioni unite, nella famosa sentenza Scurati del 2016, ad affermare che il mezzo tecnologico impone un difficile bilanciamento delle esigenze investigative che suggeriscono di fare ricorso a questo strumento dalle potenzialità non pienamente esplorate con la garanzia dei diritti individuali che possono subire gravi lesioni”. Il legislatore però ha bypassato questa decisione allargando l’ambito applicativo del virus spia. “I diritti fondamentali non possono essere sacrificati sull’altare della lotta al crimine. Mafia e terrorismo sono fenomeni criminosi di gravità eccezionale, il che giustifica l’impiego di mezzi investigativi particolarmente invasivi. Ma l’eccezione non può diventare la normalità. Gli smartphone che tutti teniamo in tasca accumulano una miriade di dati personali e sensibili che entrano nella disponibilità di un gestore privato. Si dice che certi tipi di smart watch, quelli che registrano anche dati biometrici come velocità del passo e frequenza cardiaca, consentano di monitorare, a fini commerciali, le reazioni emotive delle persone in seguito alla visione di determinati contenuti sul web. Uno scenario inquietante”. In conclusione, il giudice robot presenta luci e ombre. Più efficienza, d’accordo, ma sul fronte penale il giudice umano, per quanto imperfetto, resta forse l’opzione migliore? “Il giusto processo non può prescindere dal diritto costituzionale dell’accusato di interrogare o far interrogare coloro che rendono dichiarazioni a suo carico davanti a un giudice terzo e imparziale. E allora, pur ammettendo l’imparzialità del giudice robot (almeno all’apparenza, visto che è sconosciuta la sua progettazione e programmazione), si può svolgere il contraddittorio di fronte a una macchina spersonalizzata, distante, che elabora dati? Non si può. Chiunque pratichi le aule di giustizia sa che il contraddittorio è fatto di sguardi, inciampi emotivi, sensazioni e percezioni assolutamente umane e reali che non possono essere sottratte al controllo umano. Il diritto e il processo penale penetrano nel profondo il cuore dell’umanità; e basta questa considerazione per concludere che non possono essere disumanizzati”. Depistaggio Cucchi, l’accusa dei sottoposti: “Erano ordini militari” di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 dicembre 2019 Al via il processo ter, alla sbarra un generale e sette carabinieri. Due imputati si costituiscono parti civili nei confronti dei superiori. Si è aperto ieri con un colpo di scena e con un nuovo giudice monocratico che ha preso il posto del precedente, astenutosi perché ex carabiniere, il processo agli otto militari dell’Arma accusati di aver nascosto la verità sulla morte di Stefano Cucchi e di aver falsificato documenti per depistare le indagini. Un piano messo in atto secondo l’accusa almeno in tre occasioni, nel 2009, nel 2015 e nel 2018, ed evidentemente ben riuscito, visto un inutile processo durato anni contro tre innocenti poliziotti penitenziari, mentre venivano tenute nascoste le violenze perpetrate dai due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro (condannati in primo grado per omicidio preterintenzionale) sul giovane geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo in ospedale. Ma ora che la verità si è fatta largo durante il processo bis e che il pm Giovanni Musarò ha scoperchiato il verminaio nella catena di comando che arriverebbe fino ad un generale, davanti alla giudice Giulia Cavallone della 7° sezione penale il procedimento appena aperto ha già assunto una nuova prospettiva, con i due imputati di grado più basso che accusano altri due imputati di rango più alto di aver impartito loro ordini contrari alla legge. Infatti, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca comandante della stazione di Tor Sapienza, e il carabiniere Francesco Di Sano, che in quella caserma durante la notte ebbe in custodia un Cucchi già dolorante e con la schiena spezzata dal pestaggio subito dai carabinieri della stazione Appia, hanno chiesto di costituirsi parti civili nei confronti del maggiore Luciano Soligo (a quel tempo comandante della Compagnia Montesacro dalla quale dipendeva Tor Sapienza) e del colonnello Francesco Cavallo (nel 2009 tenente colonnello, capoufficio del comando del Gruppo Roma) che li precedono nella scala gerarchica. Come ha riferito in aula il loro difensore, Labriola e Di Sano accusano Soligo e Cavallo di aver ordinato loro la rettifica dell’annotazione di servizio sulla condizione di salute di Cucchi: “Non sapevano del pestaggio - ha detto l’avvocato Giorgio Carta - Colombo Labriola non hai mai incrociato Cucchi e venne estromesso dalle operazioni perché Soligo si presentò in caserma e diede ordini direttamente ai carabinieri che avevano redatto il documento. Quanto a Di Sano, era in partenza per la Sicilia ma fu contattato da Soligo affinché prima eseguisse la modifica richiesta. Col senno di poi, ora capiamo l’insistenza dei superiori, ma all’epoca non sapevano nulla. Se non avessero eseguito quell’ordine sarebbero incorsi in un reato militare”. Colombo Labriola e Di Sano si sono seduti sul banco degli imputati ed hanno ascoltato l’intera udienza, insieme ad altri due degli accusati, il capitano Tiziano Testarmata, comandante della IV sezione del nucleo investigativo, e il colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo. Non erano invece presenti il generale Alessandro Casarsa, nel 2009 comandante del Gruppo Roma, Cavallo, Soligo e il carabiniere Luca De Cianni accusato di calunnia nei confronti di Riccardo Casamassima, il primo militare ad aver rotto il muro di omertà. Alla prossima udienza, fissata per il 20 gennaio, la corte scioglierà la riserva sull’ammissione delle parti civili che, oltre alla famiglia Cucchi e ai tre agenti penitenziari, è stata richiesta anche da Casamassima, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dai ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia, e dalle associazioni Antigone e Cittadinanzattiva. I tre poliziotti penitenziari tramite i loro avvocati hanno però citato il ministero della Difesa, come responsabile civile dei danni subiti, “in quanto organo di riferimento dell’Arma dei carabinieri”. Un processo, insomma, che mostra già alle prime battute le contraddizioni di un sistema, di un corpo che risponde a regole e gerarchie militari ma che ha funzioni di polizia e si occupa di ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. È un po’ un peccato perciò che la giudice Giulia Cavallone abbia deciso di vietare le foto e le riprese video “perché - ha spiegato però - il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula”. L’amministratore non è sempre “scudo penale” dei condòmini di Rosario Dolce Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2019 Corte di cassazione, sentenza 12 dicembre 2019, n. 50366. Accade spesso che, nonostante la necessità di lavori urgenti in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali (come i solai dei garage), non si formi la volontà assembleare e non vengano stanziati i fondi necessari. Ma non può ipotizzarsi la responsabilità per il reato di cui all’articolo 677 del Codice penale a carico dell’amministratore del condominio per non aver attuato interventi che non erano in suo materiale potere. Al contrario: ricade su ogni singolo proprietario l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa. Così ha chiarito la (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, con la Sentenza n 50366/2019) Il fatto - Un proprietario di un appartamento di un fabbricato condominiale fatiscente riceve un’ordinanza del sindaco, contingibile e urgente, per eseguire i lavori di messa in sicurezza e rimozione del pericolo di crollo. Il condomino, però, si difende dal provvedimento di condanna poi conseguito (per aver omesso l’esecuzione delle opere dovute) indicando l’amministratore quale responsabile dell’evento, in funzione della sua posizione di garanzia, di cui all’articolo 40 del Codice Penale. Lo scudo penale - In altri termini, il proprietario assume che la presenza dell’amministratore condominiale funga da “scudo penale”, in quanto soggetto attivo del reato al posto dei proprietari, i quali, al più, potrebbero essere chiamati a rispondere a titolo di responsabilità sussidiaria. La Corte di Cassazione, però, respinge la tesi difensiva. I presupposti - La Cassazione ha affermato anzitutto che il provvedimento sindacale era destinato soggettivamente ai proprietari degli immobili ubicati nel fabbricato e non all’amministratore. Inoltre ha rilevato come tra le attribuzioni dell’amministratore non vi sia quello di provvedere alla manutenzione straordinaria del fabbricato, potendo, al più, disporre in termini di messa in sicurezza del medesimo, laddove sussistano i fondi per disporre al riguardo. La Corte ha anche chiarito che, nel caso previsto dal terzo comma dell’articolo 677 del Codice penale, è sufficiente per l’amministratore, per andare esente da responsabilità, intervenire sugli effetti della rovina, interdicendo, ove ciò sia possibile, l’accesso o il transito delle persone (sul punto è stata anche richiamata la sentenza 21401/2009). “Molestia possessoria” - Ma non basta: secondo un’altra corrente giurisprudenziale (di rilievo “civile”), tuttavia, l’amministratore non può neppure interdire l’uso delle cose comuni, adducendo ragioni connesse alla sicurezza dei condomini o dei terzi, potendo una simile condotta finire per ledere il contenuto del diritto che su di esse compete a ciascun partecipante: integrandosi, per contro, una molestia possessoria (Cassazione, sentenza 6 febbraio 1982, n. 686). Il cane che morde perché investito esclude la responsabilità penale del padrone di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 16 dicembre 2019 n. 50562. La responsabilità penale del padrone del cane va accertata “in positivo” e non è presunta, a differenza della responsabilità civile per i danni. Così il cane che morde perché reagisce al dolore provocato dal passaggio di una bicicletta sulla sua coda è evenienza connotata da “assoluta abnormità ed eccentricità”, che va ben oltre il generale obbligo di garanzia di cui è gravato il padrone dell’animale, il quale - in via generale - risponde anche nel caso in cui vi siano stati comportamenti imprudenti della vittima. Con la sentenza n. 50562 di ieri la Corte di cassazione ha così accolto il ricorso contro la condanna del padrone del cane per il reato di lesioni colpose. La vicenda - Il fatto riguardava il morso che l’animale aveva assestato al polpaccio di un minore mentre questi andava in bicicletta. I giudici di legittimità annullano la condanna e rinviano al giudice di pace, per un nuovo esame della vicenda, affinché sia accertata la circostanza che il ragazzino avrebbe prima pestato la coda del cane con la ruota della sua bici, e che solo dopo - e per reazione - avrebbe subito il morso. Tale circostanza era stata invece - erroneamente - ritenuta irrilevante dal giudice di pace unitamente a quell’altra, affermata sempre dalla difesa, secondo cui il cane non sarebbe stato sciolto, ma al guinzaglio. In tal modo sarebbe rientrato nell’ampio dovere di custodia anche il fatto “assolutamente abnorme ed eccentrico”. Il giudice di pace aveva invece erroneamente pretermesso lo specifico esame ritenendolo irrilevante tout court nella sede penale. Si tratta, al contrario, di verificare l’esistenza di quel “caso fortuito” che fa venir meno anche la responsabilità civile, ma che in sede penale va accertato autonomamente dal giudice perché non è onere specifico dell’imputato fornirne la prova. La responsabilità penale e civile - Infatti, la Cassazione chiarisce che, l’imprudenza altrui non esclude la responsabilità di chi detiene l’animale e che la colpa della vittima solo mitiga e non esclude la responsabilità di chi riveste un ruolo di garanzia. Ma, ai fini penali, l’accertamento deve essere “positivo” e non presuntivo. La presunzione, infatti, vale in termini di responsabilità civile, e viene meno solo se all’origine del danno si dimostra l’avverarsi di un caso fortuito: unico elemento che slega il danno occorso alla vittima dalla responsabilità per i danni di chi riveste il ruolo di custode. Giudizio di rinvio - La Cassazione, infine, indica al giudice del rinvio la strada da seguire e precisa che la responsabilità penale per le lesioni colpose prodotte dall’animale in custodia va verificata secondo i canoni dell’articolo 672 del Codice penale, anche se ormai depenalizzato a reato amministrativo. Infatti, come spiega la sentenza di legittimità: nel processo penale non si può partire dalla presunzione fissata dall’articolo 2052 del Codice civile con conseguente inversione dell’onere della prova. Calabria. Primo rapporto sulla violenza di genere di Domenico Grillone noidicalabria.it, 17 dicembre 2019 In Regione l’indice dei femminicidi è il secondo più alto d’Italia. La Calabria risulta essere la seconda regione italiana a più alto indice di femminicidio in rapporto alla popolazione femminile, preceduta dal Trentino Alto Adige (0,41 donne uccise l’anno ogni 100mila donne residenti). È solo uno dei dati, decisamente inquietanti, presenti nel primo Rapporto sulla violenza di genere in Calabria, realizzato dall’Osservatorio Regionale sulla violenza di genere grazie all’indagine Istat sui Centri anti violenza e ai dati amministrativi del Ministero dell’Interno, presentato nella sala Calipari del Consiglio regionale. Un lavoro ragguardevole, realizzato grazie all’impegno costante di Mario Nasone e Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vicecoordinatore dell’Osservatorio che per elaborare il rapporto si sono avvalsi, tra l’altro, della preziosa collaborazione del gruppo di monitoraggio attivato dallo stesso Osservatorio con la consulenza della prof.ssa Giovanna Vingelli, ricercatrice dell’Università della Calabria e del dottore Domenico Tebala dell’Ufficio territoriale Istat. Per quanto riguarda le denunce, in Calabria il numero dei reati commessi è aumentato (da 1.746 del 2014 a 1.893 nel 2018), il 71% di vittime sono di sesso femminile e 83% sono italiane, il reato più frequente è, a differenza del dato italiano, quello degli atti persecutori (663, 35% sul totale) seguito dai maltrattamenti contro familiari e conviventi (612, 32% sul totale). In particolare il reato delle violenze sessuali sono il 5% dei reati commessi (101), in diminuzione rispetto al 2014 (-22%) e contro le donne per il 90% mentre in Italia rappresentano il 10% dei reati commessi (4.887), ma in aumento rispetto al 2014 (+15%) con il 92% di vittime femminili. In Calabria il numero dei condannati è pari a 318 casi (+6% rispetto al 2014), soprattutto per maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (99, 31,1% sul totale, +20% rispetto al 2014) e per percosse (61, 19,2% sul totale, +58% rispetto al 2014). Da non trascurare il numero di condannati per omicidio consumato (51, 16% sul totale) anche se in diminuzione rispetto al 2014 (-27%) e per violenza sessuale che è invece in crescita (46, 14,5% rispetto al totale, +9% rispetto al 2014). In Italia nel 2017 si è raggiunta quasi la quota di 10mila condannati. La tipologia di reato più frequente nel triennio 2014-2017 è quella dei maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (3.153, 34,2% sul totale, +23% rispetto al 2014) seguita dalla violenza sessuale (1.871 casi, 20,3% sul totale, +17% rispetto al 2014). Altri dati contenuti nel rapporto indicano che circa il 31% dei calabresi ritiene accettabile la violenza nella coppia almeno in alcune circostanze (media italiana 25%); a una donna che ha subito violenza da parte del proprio compagno/marito, il 59% della popolazione calabrese consiglierebbe di denunciarlo (media italiana 64,5%) e il 32,2% di lasciarlo (media italiana 33,2%), ma solo il 13,8% indirizzerebbe la donna verso i centri antiviolenza (media italiana 20,4%), il 10,9% le consiglierebbe di rivolgersi ad altri servizi o professionisti (media italiana 18,2%) e solo lo 0,3% suggerirebbe di chiamare il numero verde 1522 (media italiana 2%) il 13,2% dei calabresi ritiene che spesso le accuse di violenza sessuale sono false (media italiana 10,3%) e il 4,2% che non è una violenza se un marito/compagno obbliga la moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà (media italiana: 1,9%). Ed ecco i territori nei quali sono avvenuti i femminicidi: la provincia con il maggior numero di donne uccise è Cosenza n.12; a seguire Reggio n. 8; Crotone n. 3; Vibo Valentia n. 1; Catanzaro n. 1. Nella provincia di Cosenza sono avvenuti il 48% dei femminicidi della Regione e nella provincia di Reggio Calabria il 32%. “Le caratteristiche, le dinamiche dei femminicidi, le età delle donne uccise, la relazione tra vittima ed autore del delitto - si legge nel rapporto - sono sovrapponibili a quelle del resto d’Italia”. Per ultimo una riflessione che mette in guardia dalle facili deduzioni che si possono trarre ad una lettura superficiale del rapporto: “Che la prima regione a più alto indice di femminicidio sia il Trentino e la seconda sia la Calabria, la prima del nord e la seconda del sud, che ogni anno il maggior numero di femminicidi avvengano in Lombardia, dimostrano che il fenomeno pervade l’Italia in modo omogeneo. Ricercare da parte di alcuni, nei casi di femminicidio al sud, specificità sociologiche nella supposta cultura retrograda del sud è fuorviante e pregno di luoghi comuni e pregiudizi. Penso soprattutto alle giovanissime. Le ragazze del sud ascoltano le stesse canzoni delle ragazze del nord, vestono alla stessa maniera, usano gli stessi linguaggi, condividono le stesse passioni e gli stessi sogni. Vivono le stesse dinamiche sentimentali ed affettive. Credere che gli atti di violenza nei loro confronti siano espressioni di arretratezza del sud è assolutamente sbagliato ed un modo sbrigativo per relegare il fenomeno a espressioni marginali del Paese e liquidarlo con faciloneria. Le ragioni del femminicidio, invece, come dimostrano i dati riferiti dall’Onu e come dichiarano le Convenzioni Internazionali stanno nei rapporti diseguali tra i generi, storicamente e culturalmente determinati in ogni parte del mondo. È un fenomeno universale, strutturale ed antico”. Frosinone. Due morti in carcere nell’arco di poche ore, casualità o giallo? di Tiziana Cardarelli Il Messaggero, 17 dicembre 2019 Ieri mattina il primo decesso: Salvatore Lupo, 31 anni, della cosca di Monreale. Alle 17 la seconda vittima: Onofrio Cavallo di 51 anni. Ufficialmente entrambi per arresto cardiaco. Due morti, entrambi siciliani, entrambi nella stessa ala del carcere. Un giallo avvolge il penitenziario di Frosinone anche se, ufficialmente, entrambe le morti sono da attribuire a cause naturali. Nel carcere di Frosinone ieri mattina un trentunenne della cosca Monreale di Palermo è deceduto per arresto cardiaco; a nulla sono serviti i soccorsi da parte degli operatori del 118 prontamente allertati. Nel pomeriggio caso simile per non dire identico: un altro detenuto cinquantenne, ospite nella stessa ala del penitenziario dove poche ore prima era morto il trentunenne, ha avuto anche lui un arresto cardiaco che l’ha lasciato esanime; anche per lui i soccorsi sono stati vani. Vi è quantomeno un sospetto da parte degli inquirenti su queste due morti che sanno di “giallo” da chiarire. Pur essendo state archiviate come morti naturali si aspetta per entrambi l’esame autoptico per cercare di ricostruire i fatti che presentano un alone di mistero sconcertante. Frosinone. Accusato di aver ucciso due detenuti in carcere: al via al processo di Raffaele Calcabrina ciociariaoggi.it, 17 dicembre 2019 Due delitti quasi fotocopia, commessi in carcere ai danni di altrettanti detenuti. È cominciato ieri, davanti alla Corte d’assise (presieduta dal presidente della sezione penale, il giudice Francesco Mancini) il processo per duplice omicidio a carico di Daniele Cestra, 42 anni, di Sabaudia. Saltata, in udienza preliminare, l’opzione rito abbreviato si va dunque davanti alla giuria popolare. Si comincia oggi con una prima udienza filtro e dunque interlocutoria per incardinare il processo e stabilire il calendario delle prossime udienze. L’imputato, rappresentato dagli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, aveva chiesto un abbreviato condizionato a una perizia psichiatrica e a una medico legale sulle vittime. Richiesta, alla quale si era opposto il pubblico ministero Vittorio Misiti, titolare dell’indagine, che il Gup aveva respinto dando il là al rinvio a giudizio. Cestra, peraltro, sta scontando una condanna, sempre per omicidio, a 18 anni, motivo per il quale si trovava detenuto nella casa circondariale di Frosinone. I delitti per i quali è imputato sono risalenti il primo, quello di Pietro Paolo Bassi, al 15 giugno 2015 e il secondo, di Giuseppe Mari di Sgurgola, all’agosto del 2016. Le indagini sono iniziate dal secondo delitto. Inizialmente il decesso del compagno di cella di Cestra era stato archiviato come un suicidio, ma qualcosa non quadrava per cui sono state richieste indagini più approfondite. Il pm Misiti aveva disposto la riesumazione della prima salma per far luce su quanto avvenuto nel giugno del 2015 all’interno del carcere. Questo perché sono state ravvisate delle analogie con l’episodio più recente. In quel periodo l’imputato era ristretto nel capoluogo ciociaro - da dove è stato poi trasferito - per espiare la condanna definitiva per l’omicidio di Anna Vastola, l’ottantunenne uccisa, il 9 dicembre del 2013, con un colpo alla testa inferto con un oggetto contundente durante una rapina nella sua abitazione di via don Giuseppe Capitanio a Borgo Montenero, a San Felice Circeo. La procura aveva affidato al medico legale Daniela Lucidi gli accertamenti necroscopici, mentre la difesa di Cestra si era affidata al consulente di parte Giuseppe Manciocchi. Successivamente era stata disposta un’integrazione delle operazioni peritali per valutare se vi sia stata quell’asfissia meccanica ipotizzata dalla procura o se si sia trattato di un suicidio tramite impiccagione. Per l’accusa per il delitto di Mari sarebbero stati utilizzati dei “mezzi soffici” (probabilmente un lenzuolo o anche altro) per esercitare la compressione del collo e l’ostruzione delle vie respiratorie. Oltre a ciò, si ipotizza anche l’utilizzo di corpi contundenti. Il medico legale ha riscontrato, tra le altre cose, la frattura dell’osso ioide e la rottura del timpano. Per quanto riguarda Bassi, invece, sarebbe stato immobilizzato (riscontrata la sub-lussazione di due vertebre) e successivamente sarebbe stato impiccato. Napoli. Caso Ioia, penalisti contro Salvini “Costituzione calpestata, no diritto penale del nemico” giustizianews24.it, 17 dicembre 2019 Le critiche sprezzanti mosse a Pietro Ioia per la sua nomina a Garante dei detenuti; le critiche livorose che fanno leva esclusivamente sul suo passato da ex narcotrafficante ed ex detenuto come se lo status di pregiudicato sia qualcosa che si eterna nel tempo nonostante l’evidente percorso di recupero e di reinserimento nella società che nel caso di Ioia è lungo 14 anni, non fanno altro che calpestare la Costituzione. È quanto scrivono in un documento congiunto la Giunta della Camera penale di Napoli (guidata dall’avvocato Ermanno Carnevale) e “Il carcere possibile” (Associazione presieduta dall’avvocato Anna Maria Ziccardi) a seguito delle polemiche che hanno accompagnato la nomina voluta dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Nella nota vengono anzitutto stigmatizzati i molti interventi che “si sono distinti quali echi persistenti di quella perenne propaganda, cui assistiamo purtroppo da tempo, volta ad edificare l’idea di un diritto penale del nemico. Che nella polemica urlata e nella (voluta) disinformazione trova ragione d’esistere e linfa vitale”. E c’è spazio anche per una censura delle note dichiarazioni di Matteo Salvini, che in una conferenza stampa tenuta nel carcere di Poggioreale dove la visita agli agenti della Penitenziaria ha riservato le parole più aggressive a Pietro Ioia e alla sua nomina: “Da ultimo, si è unito al coro delle voci sdegnate l’Onorevole Salvini che ha del tutto impropriamente utilizzato il pulpito del Carcere di Poggioreale non già per manifestare il proprio pensiero sulle condizioni dei detenuti ma per affermare che la nomina di Ioia quale Garante dei detenuti suscita “Vergogna e schifo”, e “grida vendetta davanti a Dio e davanti agli uomini”. Per gli avvocati non vi è dubbio che questo tipo di interventi non fa altro che calpestare “i diritti e i doveri” di cui Ioia ha al pari “di ogni altro cittadino” e “non già per caritatevole concessione di chicchessia, ma perché lo prevede la legge. La più importante delle nostre leggi. La Costituzione”. Ecco perché, concludono, gli avvocati “le espressioni inaccettabili” che tendono a mettere in risalto il lontano passato di Ioia e non gli ultimi 14 “contrassegnati peraltro da un grande impegno sociale proprio in favore di quanto sono ristretti nelle nostre carceri”, “offendono i principi di solidarietà sociale, di uguaglianza formale e sostanziale e di finalità rieducativa della pena, pilastri di civiltà giuridica scolpiti nella nostra Carta Costituzionale - e che ben dovrebbe ricordare chi, negli alti incarichi istituzionali ricoperti, quei valori ha giurato di “osservare lealmente” - per disegnare un modello di società inclusiva, molto diversa da quella evocata dallo strepitio di queste voci”. Taranto. Carcere sovraffollato, mancano i posti-letto e anche i materassi Gazzetta del Mezzogiorno, 17 dicembre 2019 Carcere sovraffollato a Taranto: mancano letti e materassi. A denunciarlo è il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che spiega che la struttura del capoluogo jonico ha raggiunto quota 640 detenuti a fronte dei 310 posti regolamentari e per questo ci sarebbero difficoltà anche a reperire letti e materassi, per cui il carcere di Taranto il più affollato della nazione, non può più ospitare detenuti, se non facendoli dormire per terra. “È possibile - prosegue la nota del Sappe - che carceri come Cosenza abbiano 232 detenuti a fronte di 218 posti; Paola 229 a fronte di 182; Rossano 296 a fronte di 263; Catanzaro 682 a fronte di 633 e, addirittura sotto, Reggio 302 a fronte di 337 e Vibo 319 a fronte di 407 posti? In Puglia invece a Bari 461 detenuti per 299 posti; Trani 364 per 227 posti; Foggia 623 per 365 posti; Lecce 1099 per 610 posti e infine la vincitrice, Taranto. Anche altre regioni limitrofe come Campania e Abruzzo potrebbero accogliere detenuti”. Nel caso della Puglia, lunga 400 km, il Sappe respinge la motivazione addotta spesso per il sovraffollamento diseguale, quella della “territorialità della pena (i detenuti devono scontare la pena in carceri prossime alla residenza dei familiari)” perché - spiega - “un detenuto di Trani, Foggia, Lucera, San Severo ristretto nel carcere di Taranto o Lecce è più lontano dalla propria famiglia di un detenuto Tarantino ristretto a Cosenza (circa 200 km) o Rossano (159); oppure un detenuto Leccese o Tarantino ristretto a Trani, Foggia, San Severo o Lucera sarebbe più lontano che se fosse ristretto a Lanciano o Vasto”. Il Sappe chiede perciò al capo Dap Basentini e al Ministro della Giustizia Bonafede “urgenti provvedimenti con vigorosi sfollamenti dalle carceri pugliesi”. Cassino (Fr). Visita nel penitenziario dove niente funziona di Alessandro Capriccioli* Il Riformista, 17 dicembre 2019 Non ha nulla di rieducativo, è solo un moltiplicatore della pena. Sovraffollato, sei o sette persone per cella, senza docce, niente palestra, campo di calcio irraggiungibile, poco personale. Nella Casa circondariale di Cassino, che come Consigliere regionale ho visitato nei giorni scorsi, la cosa più difficile da dimenticare sarà il freddo. Un freddo pungente e umido che penetra negli infissi, passa per i corridoi e si infila nelle celle, da cui gli ospiti si difendono con maglioni, felpe di pile e cappellini di lana e che nell’isolamento raggiunge l’apice facendosi gelo, al punto da far sembrare incredibile non soltanto che qualcuno possa viverci dentro ventiquattr’ore al giorno, ma anche che qualcun altro possa lavorarci. Un’ora e mezza al mattino e un’ora e mezza al pomeriggio: questi gli orari di accensione dei termosifoni in una struttura che è tutta infiltrazioni e spifferi, e che sembra letteralmente cadere a pezzi. Letteralmente, dico, perché un’ala intera del carcere è sprofondata lo scorso mese di marzo, col conseguente trasferimento ad altri istituti dei detenuti che vi alloggiavano, e da allora è rimasta chiusa in attesa delle decisioni del caso su un eventuale ripristino o sulla definitiva demolizione. Oltre a questo, che già di per sé non è affatto poco, tutti i problemi purtroppo comuni ad altre carceri: un notevole sovraffollamento (i detenuti sono sei o sette per stanza, e perfino fare in modo che possano mangiare tutti insieme diventa un problema); il personale della polizia penitenziaria in forte sotto numero rispetto a quanto sarebbe necessario (si parla di alcune decine di persone, non di quisquilie) e con un’età media piuttosto avanzata (circostanza che per un lavoro usurante come questo non è un dettaglio); la mancanza di strutture per garantire agli ospiti la possibilità di svolgere un minimo di attività fisica (non c’è una palestra, per raggiungere il campo da calcio sarebbe necessario passare per la parte inagibile e non è stato ancora individuato un percorso alternativo); la difficile gestione quotidiana dei detenuti con problemi psichiatrici da parte di personale che getta il cuore oltre l’ostacolo, ma avrebbe competenze e mansioni diverse; l’assenza di docce in cella e il conseguente disagio legato all’igiene personale, oltre che ai turni e al contingentamento dei tempi. È un problema, tra tutti gli altri, perfino il parcheggio per il personale che lavora nell’istituto, costretto ogni giorno a fare i salti mortali in giro per la città perché non esiste un’area dedicata. Tutto ciò induce chi, come me, è investito di un potere ispettivo che coincide con una precisa responsabilità, a chiedere al Ministro della Giustizia Bonafede e al Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Basentini che vengano risolte urgentemente le questioni più critiche, a partire da quella del riscaldamento; ma allo stesso tempo, in linea più generale, non può non suscitare una serie di (angosciose) riflessioni sul senso della pena che viene scontata in luoghi come questo. Non solo in relazione alla sua troppo spesso solo supposta (ancorché esplicitamente prescritta dalla Costituzione) finalità rieducativa, che di fronte a criticità del genere non è oggettivamente possibile espletare (nonostante la buona volontà e la dedizione di chi è chiamato ad attendervi), ma soprattutto in ordine al fatto, in posti come il carcere di Cassino plasticamente evidente, che in condizioni simili la pena si moltiplica, perché alla detenzione si somma l’inadeguatezza della struttura, con tutte le problematiche che essa fa precipitare sulle persone. Mancano i fondi. Questa è l’affermazione che fa da chiosa a qualsiasi tentativo di dibattito sul tema. Ed è proprio in questa mancanza di fondi, che tradotta significa mancanza di volontà, di visione. di strategia, che sta il cuore del problema. Sulle carceri non si investe perché si decide scientificamente di non investire. O, per dirla meglio, perché le carceri non vengono percepite dalla classe politica di questo paese come luoghi di riscatto per le persone e al tempo stesso fabbriche di sicurezza per la collettività, ma in modo opposto: discariche sociali, luoghi di mortificazione umana, riserve di marginalità e di esclusione. Presidi che anziché provvedere al “reinserimento” di chi si è allontanato. commettendo un reato, dal cosiddetto “patto sociale” allargano e amplificano una forbice che arresto dopo arresto, detenzione dopo detenzione, finisce per trasformarsi inesorabilmente in un divario incolmabile. Anche per questo il freddo di Cassino è difficile da dimenticare: perché è la metafora di un freddo che pervade il rapporto tra la cosiddetta parte “sana” della società e le sacche di emarginazione che quella società prima contribuisce a produrre, e poi relega ciecamente nella sfera dell’irrimediabile. Un freddo che paralizza, in tutti i sensi. *Consigliere regionale del Lazio +Europa Radicali Rimini. “Celle aperte” per un giorno: torna l’iniziativa che avvicina detenuti e volontari di Francesca Valente altarimini.it, 17 dicembre 2019 Una trentina le persone che hanno avuto accesso alle cinque sezioni per condividere tempo e spazi. Il 12 dicembre una trentina di persone ha osservato la prima nevicata della stagione da una prospettiva del tutto inedita: le finestre del carcere di via Santa Cristina a Covignano di Rimini. Questo grazie alla seconda edizione di “Celle aperte”, l’iniziativa proposta dal cappellano don Nevio Faitanini e resa possibile dalla disponibilità della direzione, rappresentata della dottoressa Carmela De Lorenzo, e del commissario capo Aurelia Panzeca, in virtù anche del buon successo della prima edizione che si è svolta con le stesse modalità nel mese di giugno. Il Magistrato di Sorveglianza di Bologna ha autorizzato l’ingresso nelle cinque sezioni dell’istituto penitenziario a una trentina di persone provenienti da otto realtà volontaristiche, solidali o cooperativistiche del territorio riminese che a vario titolo operano dentro e attorno la Casa circondariale, occupandosi dei temi della legalità e della privazione della libertà. C’erano rappresentanti delle associazioni Caritas Rimini Onlus, Papa Giovanni XXIII, della parrocchia San Benedetto di Cattolica, del Centro per le famiglie del Comune e della Diocesi di Rimini, del gruppo di volontari, della Congregazione delle suore missionarie di Cristo: un gruppo eterogeneo di persone di tutte le età e provenienze, alcune in carcere per la prima volta, attirate dall’opportunità di poter trascorrere un’intera giornata all’interno dei “Casetti” fianco a fianco con le persone recluse, con la rara opportunità di avere accesso alle sezioni dove si trovano le celle, vivendo tutti i momenti che scandiscono la giornata-tipo di una persona detenuta. Dall’apertura delle celle del mattino dopo la prima conta alla “chiusura” per il pranzo delle 11.30 (anche se, con l’occasione di questa iniziativa, le celle sono state lasciate volutamente “aperte” per consentire un maggiore contatto e interscambio tra le persone detenute e i volontari in visita), fino alle due ore d’aria dalle 13 alle 15, per terminare con il bilancio condiviso dell’esperienza, che è stato tracciato da detenuti e volontari insieme nella cappella della casa circondariale dalle 15.30 alle 16.30. La giornata si è conclusa con un brindisi - rigorosamente analcolico - per scambiarsi, con l’occasione, non soltanto i ringraziamenti ma anche gli auguri di Natale. Alla prima chiamata di giugno aveva risposto un gruppo più ristretto di persone, segno che la possibilità di guardare il carcere da dentro è una prospettiva che attira non tanto i curiosi del tema e degli spazi reclusi, ma più che altro coloro che vogliono entrare più in sintonia con il contesto e con gli argomenti della vita carceraria che così poco ancora si conoscono, soprattutto da chi ne parla più spesso e volentieri. “Celle aperte” è un progetto che ha pochi eguali nelle carceri italiane e che è arrivato nel carcere di Rimini grazie alla mediazione della cappellania: il buon esito della giornata dietro le sbarre è stato condiviso da tutti, ospiti, partecipanti e polizia penitenziaria, i quali hanno auspicato in modo trasversale che l’iniziativa possa ripetersi presto, e più spesso, perché in grado di alleggerire i pensieri, alleviare gli animi e rompere la routine della quotidianità carceraria, e questo non soltanto per le persone recluse. Le prime impressioni - Tra i volontari sono molte le impressioni che sono state condivise con don Nevio, don Matteo Donati della parrocchia di Cattolica e il vicario del Vescovo Francesco Lambiasi, don Maurizio Fabbri. Da chi ha dimenticato giudizi e pregiudizi trovandosi di fronte a persone di cui non ha voluto conoscere i reati, rispondendo così alla chiamata della sua professione di fede, a chi si è trovato inaspettatamente a confidarsi, a chi invece ha preferito fare domande anche sulle cose più pratiche, come il lavaggio dei vestiti o il funzionamento della spesa personale. A colpire una volontaria è stato quel tempo perlopiù vuoto, quell’assenza di attività o passatempi che rischia di rendere diseducativa la permanenza in carcere e di trasformare quel vuoto in “tempo perso”. A onore del vero però va precisato che giovedì mattina non erano presenti i detenuti quotidianamente impegnati nell’attività di pulizia dei locali dell’istituto, come anche in mensa, lavanderia e nei lavori di manutenzione del fabbricato, ovvero 29 persone, cui va aggiunta una trentina di partecipanti ai corsi di alfabetizzazione, di scuola media e di biennio di base. Senza dimenticare E poi ci sono le altre attività e momenti di confronto e animazione organizzate da parte delle diverse associazioni di volontariato che hanno accesso alla struttura. Ad attirare un’altra volontaria è stato il bisogno di vedere con i propri occhi se in quel luogo c’era ancora speranza per l’umano, una risposta interiore che ha risuonato come un “sì”. Il momento del pranzo è stato di pura condivisione, fin dalla sua preparazione. Tra una resistenza e un cenno di timidezza, molte delle persone detenute scese dalle sezioni al termine della giornata trascorsa insieme hanno voluto ringraziare al microfono chi aveva dedicato loro il proprio tempo libero e chi l’aveva resa possibile, in un intercalare di riconoscenza che ha fatto comprendere, oltre alla valenza di iniziative simili, anche la loro efficacia. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). “Innocenti evasioni”, in scena lo spettacolo dei detenuti orticalab.it, 17 dicembre 2019 “Innocenti evasioni”: uno spettacolo organizzato dai detenuti della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi che oggi hanno preso parte alla Manifestazione ludico-ricreativa. Gli stessi si sono esibiti con volontà ed emozione attraverso momenti di lettura di poesie, prodotte da loro, alternati a momenti canori. Erano presenti circa 70 detenuti e alcuni parenti che hanno assistito alla rappresentazione dei propri cari. Un evento voluto e promosso da Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della loro libertà personale che evidenzia l’importanza di questi momenti di condivisione e aggregazione sostenendo “la musica ha una funzione educativa, una funzione terapeutica che ci rende solidali e aiuta a risollevarci dalle difficoltà e problematiche quotidiane. Questi sono momenti di notevole importanza perché incitano alla socializzazione, maturano le emozioni e sono terapeutici. Infatti li ritengo fondamentali perché “musicoterapici”. Per lo stesso motivo ho promosso altre iniziative analoghe, un concerto presso il carcere di Benevento l’11 dicembre e un altro è stata programmata per il 13 dicembre nel carcere di Salerno”. Erano, inoltre, presenti alla Manifestazione il Direttore della Casa di reclusione Paolo Pastena, il Comandante Giovanni Salvati e l’ispettrice Pasqualina Solito. Ospite d’onore il cantante Maurizio. Genova. “Emozioni Recluse”, sex offender sul palco del Teatro dell’Arca genova24.it, 17 dicembre 2019 Lo spettacolo nasce dal laboratorio del Teatro dell’Ortica condotto da Mirco Bonomi e Anna Solaro con i detenuti. “Emozioni recluse”, questo il titolo dello spettacolo organizzato all’interno del progetto Amal, coordinato dalla Coop. Soc. Il Cerchio delle Relazioni, nell’ambito di un finanziamento regionale tramite bando del Fse. Lo spettacolo nasce da un lavoro teatrale sulle emozioni, parallelo all’intervento che viene svolto dal Cipm Liguria, Associazione di Promozione Sociale, che gestisce percorsi per uomini autori di maltrattamento e di reato a sfondo sessuale sia all’interno delle strutture carcerarie, sia all’esterno. Lo spettacolo viaggia sul terreno delle emozioni percepite nell’ambito della clausura carceraria, ma anche della riflessione sui propri percorsi di vita. Un lavoro che spazia da momenti corali in cui si esplorano aspetti legati al movimento e all’uso dello spazio, importante per chi è costretto in carcere, a momenti di racconto individuale in cui emergono elementi di interiorità. “Il teatro è l’occasione che hanno di esprimersi - spiega Mirco Bonomi, direttore artistico del Teatro dell’Ortica e regista di Emozioni Recluse insieme ad Anna Solaro - c’era chi inizialmente era come catatonico, mentre oggi è protagonista sulla scena, perché prova a mettersi in gioco. E poi c’è chi ha scoperto di aver un talento o altre sfumature della propria personalità che potranno essere trasportati altrove, nella vita dopo il carcere. Ed è questo l’obiettivo del teatro sociale: far si che le persone possano crescere e stare meglio”. Al laboratorio hanno partecipato inizialmente 16 persone mentre sul palco saranno andranno in scena dieci persone. Tutti sex offender: “Qualcuno non voleva farlo temendo di essere riconosciuto, una volta fuori, ma poi ha accettato. Sono percorsi che devono avere tempi lunghi, in cui ognuno si mette in gioco come può, ed è come andare in terapia. In questo senso il teatro è un modo per veicolare, anche indirettamente, determinati sentimenti e sensazioni, ed esprimersi senza farsi distruggere dal male”. Un percorso di coinvolgimento che permette una ridefinizione di sé, primo passo per uscire fuori dalla recidiva che in questo ambito è potenzialmente molto alta: con percorsi di questo genere le percentuali di chi ricommette un reato del genere scende dal 90-80% al 20-30%, secondo le statistiche. “Il recupero va fatto anche con chi è violento, e non solo con le donne vittime - spiega Bonomi - perché se non lavoriamo sugli oppressori, il fenomeno non può cessare d’esistere”. “Emozioni Recluse”. Giovedì 19 dicembre 2019 ore 21:00. Teatro dell’Arca via Clavarezza 14/25 Genova. Intero € 12,00 - Ridotto € 10,00, con i detenuti della Casa Circondariale di Genova Pontedecimo e gli attori del Teatro dell’Ortica Antonio Carletti, Marco Tulipano e Luca Puglisi, regia di Anna Solaro e Mirco Bonomi, coordinamento pedagogico Romina Soldati. Per assistere allo spettacolo che si svolge dentro al teatro del carcere di Marassi è assolutamente necessario prenotare il biglietto entro martedì 17 dicembre ore 11 compilando tutti i dati richiesti al seguente link https://www.teatronecessariogenova.org/tno-tda/eventi/emozioni-recluse/ Trieste. Il caso Rasman diventa un documentario che chiede giustizia di Federica Gregori Il Piccolo, 17 dicembre 2019 Un film di ascolto e osservazione, che pedina i suoi protagonisti e lascia al contempo respirare il paesaggio, tutto triestino. Perché “Confini”, presentato di recente al Torino Film Industry, è un progetto di documentario che ha per protagonista una particolare famiglia triestina di origini istriane finita, suo malgrado, sulle prime pagine di tutti i giornali. Tra i dieci finalisti del premio Solinas, selezionati tra 65 script, gli autori, non triestini, Riccardo Campagna e Federico Savonitto hanno suscitato grande interesse e attenzione dai produttori - Beppe Leonetti li ha subito appoggiati e li sta seguendo a distanza - raccontando la quotidianità di Duilio, Maria Albina e Gabriella Rasman, la famiglia che fa quotidianamente i conti con i fantasmi dell’omicidio del figlio e fratello Riccardo, ucciso in casa dalla polizia nel 2006. A sorpresa, però, “Confini”, possiede un taglio molto diverso da quanto ci si potrebbe aspettare in casi del genere. “È da un anno che stiamo girando, Riccardo Campagna e io: il materiale raccolto è molto buono e stiamo avendo ottimi risconti da persone titolate, insomma: siamo sicuri che il film si farà” racconta Federico Savonitto. Di Codroipo, ha vissuto a Palermo e a Roma. Al Centro Sperimentale, da studente e poi da tutor didattico, ha incrociato il palermitano Riccardo Campagna. “È lui ad avermi raccontato questa storia - spiega Savonitto: era incappato in un video pubblicato in rete da Giuliana Rasman. Già da adolescente, avevo vissuto qualcosa del genere quando a San Vito al Tagliamento un ragazzo venne ucciso dalla polizia. Sopraffatti dal dolore, i genitori non fecero nulla per far uscire la verità: uno dei tanti casi sommersi, spacciato come suicidio ma in realtà un’uccisione a randellate. Incuriositi, abbiamo deciso di andare sul posto insieme. Quando siamo arrivati a Domio, l’impatto con i Rasman è stato subito fortissimo: è come se ci avessero accolti come emanazioni del loro figlio, e ci siamo sentiti un po’ a casa anche noi. Loro, comunque anziani, continuano a coltivare la campagna con le mani, si fan forti nel dolore: secondo noi hanno una gran tempra”. Da questo fertile incontro non scaturisce però né un reportage né un film che va a inseguire i colpevoli, toccando invece corde impensate. “Non ci interessa l’aspetto giudiziario ma quello umano - racconta il regista - interrogandoci su come un dolore simile possa essere metabolizzato, su che conseguenze ha, sulla complessità di un evento simile. E ci interessano le loro origini: sono arrivati dall’Istria negli anni 60 e hanno sempre subito una certa condizione di minoranza, di esclusione. Volevamo raccontare il mondo istriano che si portano dietro e che si tengono stretti, a volte messo in pericolo dai tanti interessi edilizi in quella zona. I nostri protagonisti rappresentano un modo di stare al mondo in via di estinzione”. La resistenza dei Rasman è simboleggiata proprio dall’orto che Duilio e Maria Albina coltivano pazientemente, mentre il bisogno di giustizia è raccontato dal muoversi da un’aula giudiziaria all’altra di Giuliana. “Abbiamo già girato un anno raccontando le varie fasi del passaggio delle stagioni - conclude Savonitto - ora continueremo, e fra un anno contiamo di averlo pronto. Siamo in continua ricerca, ma soprattutto cerchiamo di non mettere mai il nostro giudizio davanti all’osservazione e al puro ascolto”. Grosseto. Le creazioni dei detenuti di in vendita al mercatino di Natale della Diocesi ilgiunco.net, 17 dicembre 2019 Un mercatino con oggetti realizzati a mano per arricchire l’albero di Natale o decorare spazi della casa e biglietti per fare gli auguri per le imminenti festività. Sono i lavori dei detenuti della casa circondariale di Grosseto, che saranno messi in vendita, domenica 15 dicembre, grazie ad un piccolo mercatino organizzato dalla casa circondariale e dalla Pro loco cittadina e che verrà allestito nell’atrio del palazzo vescovile, in corso Carducci 11, a Grosseto. “Si tratta - spiega Eleonora D’Amico, responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale di Grosseto - di una serie di lavori che i detenuti hanno realizzato in queste settimane nell’ambito del laboratorio di disegno che si tiene all’interno della struttura di via Saffi, grazie alle volontarie Stefania Biagini e Giulia Maccanti”. “È un’attività importante - prosegue D’Amico - così come sono importanti tutte le varie attività che vengono realizzate, perché stimolano la socializzazione, l’espressività e in qualche modo anche il bisogno di svago. Abbiamo pensato che fosse bello far conoscere alla città i risultati del lavoro che i detenuti fanno e da qui, grazie alla collaborazione della Pro loco e della Diocesi, è nata l’idea del mercatino, che servirà anche a creare un fondo di solidarietà per far fronte ai bisogni più urgenti di detenuti indigenti. Per questo invitiamo i grossetani a farci visita”. Il mercatino sarà aperto domenica 15 dicembre dalle 9.30 alle 13 e dalle 16 alle 19. “Quello tra la casa circondariale di Grosseto e la Pro loco è un rapporto che va avanti da tempo - commenta il presidente Umberto Carini. Il nostro vuol essere un ruolo di sostegno, solidarietà e facilitazione anche di un contatto più forte tra la città e la struttura di via Saffi, che è nel cuore del centro cittadino. In varie circostanze abbiamo partecipato ad iniziative fatte all’interno della casa circondariale, soprattutto di tipo culturale e ricreativo, e ben volentieri anche stavolta ci mettiamo a disposizione nel dare un aiuto per realizzare questo mercatino”. Lunedì 16 dicembre, infine, il vescovo Rodolfo, accompagnato dal cappellano don Enzo Capitani, si recherà nella casa circondariale di via Saffi per incontrare la direzione, il personale, gli agenti della polizia penitenziari, i detenuti e i volontari. Alle 9.30 celebrerà la Messa, occasione con cui farà gli auguri di Natale. Animeranno i giovani di Nomadelfia. Ravenna. Costruire 42 gabbiani (di legno), sognando la libertà di Emanuel Manchi* Buone Notizie - Corriere della Sera, 17 dicembre 2019 Una giovane di Senigallia propone al carcere di Ravenna un laboratorio artistico. Sette detenuti sono coinvolti nella realizzazione di un progetto di installazione urbana. Al termine di 5 mesi di lavoro, l’opera viene esposta in una strada del centro storico. Un giorno è entrata nel nostro salone del carcere di Port’Aurea di Ravenna (Ra) una ragazza. L’educatrice del carcere dove stiamo scontando la pena, Daniela Bevilacqua, ci ha spiegato che aveva intenzione di creare insieme a noi un progetto artistico. Era un’esperienza nuova per tutti. Là per lì eravamo un po’ stupiti, ma chi vuole fare un progetto artistico in carcere? Poi dalla sorpresa siamo passati alla curiosità e abbiamo ascoltato il racconto. Giorgia Pettinari, in arte Pettigio, è una giovane di Senigallia (An) che ha studiato a Ravenna alla scuola di mosaico e si è laureata all’Accademia di Belle Arti. Ci ha fatto subito una bella impressione, si capiva che amava l’arte in generale, nelle sue forme, e che era appassionata del suo lavoro. Sorridente, un po’ timida, Giorgia si è fatta spazio e ci ha spiegato cos’era “L’eco del fiume”, un progetto di arte urbana da lei ideato, nato con il desiderio di far rivivere il passato di città d’acqua di Ravenna. Nonostante Giorgia non sia di Ravenna, proprio come alcuni di noi, si è innamorata di questa città. Come far rivivere il passato? Attraverso un’installazione temporanea in una caratteristica via del centro storico, dove un tempo scorreva davvero un fiume, il Lamone. La via dove avremmo costruito insieme a Giorgia il nostro progetto si chiama Vicolo Gabbiani. Sorpresi dalla giovane età di Giorgia e dalla sua buona volontà di renderci partecipi, sette di noi si sono iscritti al progetto “L’eco del fiume”. Nonostante solo due di noi avessero già lavorato il legno o dipinto, ci siamo subito sentiti a nostro agio. Il nostro compito era quello di realizzare a mano 42 gabbiani di legno, ciascuno dipinto in modo diverso e unico. Lavorare insieme è stato veramente bello, più stavamo dentro al laboratorio interno alla Casa Circondariale di Ravenna, più i gabbiani prendevano forma e più il progetto dell’Eco del fiume ci prendeva. A volte ci sembrava di costruire proprio un’opera d’arte, questi gabbiani erano leggeri e con le ali lunghe, ci davano una bella sensazione e avevamo voglia di vederli finiti. Giorgia diceva che era merito della nostra forza, della nostra energia di detenuti, che si sprigionava per realizzare un vero stormo di gabbiani liberi, sospesi tra sogno e realtà. Ovviamente il confronto fra noi, chiusi in carcere, e i gabbiani, liberi in volo, ci dava forza e ci faceva anche sognare la libertà, come nel libro di cui ci ha parlato la direttrice Carmela De Lorenzo, Il gabbiano Jonathan Livingston. Per realizzare i gabbiani ci abbiamo messo cinque mesi. Il laboratorio era sempre rumoroso e pieno di vita, si sentivano muoversi le tavole in legno, i seghetti traforavano, i colori, i pennelli. Non vedevamo l’ora di vedere l’installazione. I nostri gabbiani hanno preso il volo nel mese di ottobre. Soddisfatti ed entusiasti del lavoro svolto, abbiamo avuto un certo rammarico per non poter essere lì con Giorgia, il giorno dell’inaugurazione, a presenziare. Ci hanno raccontato che chiunque passava di lì, lungo il Vicolo Gabbiani, alzava gli occhi al cielo, turisti, passanti curiosi, residenti, tutti ammiravano i nostri gabbiani sospesi in volo tra le mura degli edifici del centro storico e ascoltavano un audio che trasmetteva i suoni dell’antico fiume. Dev’essere stato proprio bello! Il rumore del fiume doveva riportare i passanti a una dimensione antica, come se tornassero al passato. Abbiamo poi visto le foto dell’inaugurazione, tutto è andato a buon fine, il risultato è stato ottimo: e chi l’avrebbe mai detto?! Grazie Giorgia, grazie a chi ha permesso tutto questo. Un po’ è anche merito nostro, se questo eco del fiume è stato apprezzato. Siamo consapevoli di aver dato tutti noi stessi come contributo, perché abbiamo creduto in questo sogno. Il progetto ci ha fatto crescere e ci ha dato la forza di non smettere di credere che nella vita si può cambiare. *Ex detenuto Lasciamo in pace le sardine di Luigi Manconi La Repubblica, 17 dicembre 2019 La prima lezione politica suggerita dalla manifestazione romana di sabato è così riassumibile: “lasciamo in pace le sardine”. È questa la condizione preliminare perché l’attuale mobilitazione possa conquistare una sorte diversa da quella di altre mille avventure precedenti. Basta un po’ di memoria e una verifica su Google per ricostruire una sequenza, probabilmente parziale, di novità che via via hanno fatto irruzione sulla “terra desolata” del nostro scenario politico. Dunque, per limitarci all’ultimo quarto di secolo: La Rete, Boicottiamo il Biscione, Donne in nero, Disobbedienti, Girotondi, Lenzuoli Antimafia, Agende Rosse, Popolo Viola, movimento Arancione, Vaffa Day, Forconi, Madamine di Torino. Tutte queste esperienze hanno suscitato via via curiosità e insofferenza, aspettative di catarsi e frustrazioni deprimenti. Di esse, quasi nulla è restato, se non - cosa non trascurabile - impreviste aperture di spazi per forme inedite di partecipazione, transitorie ma tutt’altro che inutili. Ma, sul piano politico e istituzionale, è rimasto solo quanto di più convenzionale è stato prodotto da quei movimenti: ovvero alcuni dirigenti, leader o capetti, che hanno saputo trasferire negli apparati dei partiti ciò che avevano appreso nell’azione di piazza. E invece, c’è qualcosa tra le sardine che può essere in grado di esorcizzare questo eterno ritorno alla normalità dei codici politici tradizionali. Le sardine, più che un movimento costruito sul modello classico dell’azione collettiva come si è sviluppata negli ultimi due secoli, possono definirsi innanzitutto uno stato d’animo. Una condizione emotiva, un sentimento collettivo, forse una “reazione cutanea dell’anima” (Marco Taradash) o “il sottosuolo della politica” (Emanuele Macaluso). Ma è proprio questo che le rende sfuggenti e imprendibili. E di conseguenza più efficaci nel mettere in difficoltà l’avversario. Le sardine lavorano nell’ombra e sott’acqua, con un andamento carsico che, prima di manifestarsi nelle piazze, si esprime come un “corpo intermedio tra la politica e il mondo civico attivo” (dal loro Manifesto). Ma in democrazia contano i voti e il numero di voti ottenuto da ciascun partito. E tuttavia conta in misura rilevantissima tutto ciò che precede il gesto finale di infilare la scheda nell’urna: sentimenti e risentimenti, interessi materiali e morali, condivisione e comunanza con i prossimi e i sodali, senso di appartenenza e voglia di incontro, conversazioni e scambi. È questo lo spazio dove le sardine garantiscono una presenza e un orientamento, e una forma di continuità. I movimenti tradizionali, tutti, seguono un percorso progressivo che va dal piccolo al grande, aggregando successivamente un numero maggiore di individui e dotandosi di strutture organizzative e di gruppi dirigenti, più o meno formalizzati, ma sempre fondati sul principio della delega. Questo, finora, per quanto riguarda le sardine, è accaduto nella misura dello stretto necessario e non sembra aver compromesso la loro peculiarità. Ed è sempre questo che le rende così inafferrabili. Non solo dalla destra, ma anche dalla sinistra in tutte le sue componenti. La maggiore risorsa politica delle sardine, infatti, risiede nella loro apparente impoliticità. Intanto perché sembrano riuscire a mantenersi estranee - un vero miracolo - a tutti i riti e i vizi della politica politicante e partitocratica. E lo svolgimento, lo stile e l’esito della manifestazione di sabato e della successiva assemblea dei 150 coordinatori - prova ancora più temibile - fa ben sperare per il futuro. Detto questo, ed espiando il fatto che anche queste mie considerazioni si qualificano come un’interferenza indebita, la sola conclusione possibile è: lasciamo in pace le sardine. Qui non c’è bisogno di fare ricorso al pensiero acutamente conservatore del Thomas Mann di Considerazioni di un impolitico e nemmeno alla riflessione radicale della Simone Weil della proposta di soppressione dei partiti politici, per comprendere quanto ampio sia lo spazio per un’azione pubblica totalmente diversa da quella che passa attraverso i canali convenzionali. È utile, piuttosto, il libro di Adriana Cavarero “Democrazia sorgiva”, che riflette sull’elaborazione di Hannah Arendt a proposito di una politica come potere diffuso, partecipativo, relazionale e plurale. Insomma, facciano le sardine ciò che meglio credono e ciò che meglio sanno fare e hanno saputo finora fare proprio “in quanto sardine”. Inventino le future forme di azione collettiva e le modalità più efficaci di relazione con il sistema politico-istituzionale, rimanendone a una giusta distanza. Se, poi, tanta novità di linguaggio e di comportamento si traducesse in un assessorato di una giunta regionale, non ci sarebbe certo da scandalizzarsene, ma nemmeno da rallegrarsene oltremodo. Tanto meno se venisse giustificato col fatto che “solo così si può fare politica”. Falso, falsissimo, come proprio le sardine hanno dimostrato. Quel cambio di vocabolario, quella nuova gestualità, quella rinuncia a ogni prova di forza marziale, sono state altrettante utilissime azioni politiche. Per questo, costituire uno stato d’animo, prima e più che un movimento collettivo, non è una dichiarazione di impotenza né l’accettazione di uno stato di minorità. È, piuttosto, l’espressione di quel “corpo intermedio” che rappresenta un giacimento prezioso di energie morali. Le sole, cioè, che possono rivitalizzare la politica senza sostituirsi a essa. La sinistra che accantona le grandi questioni dimentica gli ultimi, l’immigrazione, il sociale di Sergio Valzania Il Dubbio, 17 dicembre 2019 L’anno politico più spettacolare della storia italiana, caratterizzato dal cambio di casacca in corsa da parte del Presidente del Consiglio, impresa inedita per le democrazie occidentali, si chiude con toni mesti. Andiamo verso una votazione rapida, a botte di fiducia, della legge di bilancio, certificando la marginalità di un Parlamento nel quale si prepara una sorta di scambio di senatori tra maggioranza e minoranza, con l’obbiettivo comune che tutto resti come prima e la legislatura si trascini ancora qualche mese. Poi si vedrà: le cose non possono andare né meglio, né peggio, quindi perché cambiare? Zingaretti non ha il coraggio di avanzare pretese che si spingano oltre a chiedere che l’alleanza di governo sia “condivisa”, frase davvero sibillina, ma sufficiente per irritare Di Maio, che dietro queste parole sente odore di revoca dei decreti sicurezza di Salvini o ridiscussione del fallimentare sistema di reddito di cittadinanza allestito dal passato governo, che impiega in maniera scellerata le poche risorse disponibili per sostenere l’welfare nel nostro paese. Di jus culturae non si parla nemmeno più, e forse si tratta della rinuncia più grave accettata dalla sinistra per entrare al governo. A essere completamente impantanata è la politica nel suo complesso, ferita dall’uno vale uno di Grillo quanto dal rifiuto delle sardine di portare in piazza simboli di partito, riuscendo solo così a garantire uno strisciante sostegno a Stefano Bonaccini, attenti a che non si sappia che l’attuale presidente della giunta regionale emiliana milita nel PD o che il PD bolognese è lo stesso che governa a Roma insieme a M5S. Le grandi questioni del paese sono state trasferite in una sorta di mondo altro, che si affaccia raramente su quello reale, per esempio quando un ministro confonde dolo e colpa, fra le sghignazzate generali, senza pensare che si tratta della stessa persona che si ingegna, con probabile successo, a cancellare l’ultima tutela solida esistente in Italia contro la persecuzione giudiziaria, qualora si manifesti. Allora ci sarà meno da ridere. Lo stesso Renzi si occupa di indagini, avvisi di garanzia, acquisti di ville (forse inopportuni), e si dimentica le promesse fatte neppure troppo tempo fa, relative ai compagni di scuola dei suoi figli che non erano cittadini italiani anche se tifavano fiorentina quanto e più di loro. Il differenziarsi di Italia Viva dal PD sul terreno degli aggiustamenti fiscali è un modo certo per incamminarsi a passo spedito verso l’irrilevanza, se per farlo si gira attorno alle questioni che lo stesso PD ha deciso di ignorare nel costruire l’alleanza di governo. È diventato di moda sostenere che se la sinistra vuole vincere di nuovo deve recuperare la sua radicalità. Può darsi sia vero e certo non si tratta del ritorno al materialismo storico, alla centralità operaia o all’egemonia culturale. L’esperienza inglese insegna che una sinistra all’antica e con le idee confuse difficilmente gioca un ruolo significativo, anche contro una destra disordinata e contraddittoria. La sinistra può trovare una radicalità 2.0 solo riprendendo, con tutta la fatica che questo comporta, il discorso sugli ultimi, che non è difficile riconoscere in quanti sopportano sacrifici enormi con l’unico obiettivo di entrare nel mondo nel quale noi siamo nati. È attorno a loro che si ricompongono etica e ragion di stato e non ci sono dubbi che il compito della sinistra, e forse di ogni governo responsabile che il nostro paese possa avere, consista nel far emergere e consolidare le ragioni sia etiche che economiche e sociali dell’accoglienza. Non è un percorso in discesa, ma tutti gli indicatori sociologici ci dicono che la nostra società ha perso slancio vitale e forza demografica: a conti fatti sappiamo già di non poter uscire da soli dal pozzo nel quale siamo precipitati e che pretendere nello stesso tempo di arrestare in modo definitivo l’arrivo di immigrati determinati è impossibile. Sarebbe voler fermare l’acqua con le mani, come ebbe a dire il maresciallo Ney a chi gli chiedeva di arrestare Napoleone di ritorno dall’Elba. L’Italia non è quella di trent’anni fa e fra trent’anni sarà completamente diversa da quella di oggi, una politica responsabile e non al traino del contingente dovrebbe essere al lavoro anche per indirizzare un cambiamento destinato ad avvenire con certezza, Salvini e Meloni volenti o nolenti, e a realizzarsi con il contributo di una elevata componente di immigrazione. Perdere il lavoro per un post su Facebook, l’impatto dei social sulla vita di Corinna De Cesare Corriere della Sera, 17 dicembre 2019 La storia di Clemmie Hooper, nota su Instagram come @mother_of_daughters, è diventata in Inghilterra molto nota. Perché da sconosciuta ostetrica britannica, questa ragazza trentenne al centro di moltissime polemiche è diventata una cosiddetta “mumfluencers” con migliaia di follower. Che utilizzava però account fake per insultare e denigrare quelle che lei considerava sue rivali. “All’inizio di quest’anno - ha ammesso - sono venuta a conoscenza di un sito web che conteneva migliaia di commenti negativi su di me e sulla mia famiglia. Leggerli mi ha fatto male e mi ha influenzato molto di più di quanto non avessi capito in quel preciso istante”. Ha cominciato così a fare altrettanto sulle pagine social delle sue “nemiche” fino a quando, Clemmie Hooper, ha deciso di autodenunciarsi, cancellare e chiudere tutti i suoi account social e chiedere al Consiglio infermieristico e ostetrico del Regno Unito di poter non praticare mai più. Il suo, ha raccontato anche il Financial Times, è solo uno dei tanti esempi di come i social possano cambiare la vita lavorativa delle persone. Non solo in Gran Bretagna. Solo pochi mesi fa il caso di Tommaso Casalini, vice allenatore della squadra giovanissimi del Grosseto Calcio che dalla sua bacheca Facebook aveva rivolto insulti nei confronti di Greta Thunberg, l’attivista svedese di 16 anni. In poche ore la sua esternazione aveva fatto il giro del web e il club del Grosseto calcio annunciò il licenziamento in tronco “per comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che su valori tecnici”. Nel 2018 è stata la volta di una dipendente di un’azienda elettronica di Forlì che ne parlò, anche lei su Facebook, come di “un posto di m...”. La Cassazione ha ritenuto il post diffamatorio e ha ritenuto il licenziamento legittimo. Il problema però è che spesso i confini non sono così netti. Virginia Mantouvalou, professoressa specializzata in diritti umani e diritto del lavoro all’University College London, ci ha scritto un intero paper accademico dal titolo: “Ho perso il lavoro dopo un post su Facebook. È corretto?”. Secondo la professoressa i licenziamenti per l’attività sui social media dovrebbero essere considerati legittimi in occasioni limitate: “i datori di lavoro non dovrebbero avere il diritto di censurare le opinioni e le preferenze morali, politiche e di altro genere dei loro dipendenti anche se causano danni agli affari”. Infatti, generalmente, in queste cause legali vengono implicati il diritto alla vita privata e il diritto alla libertà di parola. “Il problema però è che i tribunali non hanno familiarità sulla materia dei social - spiega il paper - e che queste piattaforme, essendo online, sono spazi che diventano praticamente pubblici”. Quali sono i limiti a ciò che possiamo pubblicare senza rischiare di perdere il lavoro? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha esaminato in più occasioni se e quando una limitazione (quella di pubblicare post su Facebook o altri social) ha avuto uno scopo legittimo e se i mezzi impiegati sono stati proporzionati allo scopo perseguito. “La natura del lavoro assunto e le dimensioni dell’azienda sono fattori importanti che devono essere presi in considerazione nella valutazione del danno della reputazione al datore di lavoro - spiega il paper di Mantouvalou. Ma il datore di lavoro non è un giudice della moralità dei suoi dipendenti”. La materia insomma è controversa ma, esclusi i reati veri e propri come nel caso della diffamazione, può aiutare sempre sottolineare che le proprie opinioni sui social sono da intendersi personali e non rappresentative dell’azienda per cui si lavora. Rapporto Istat sull’immigrazione: “Più italiani emigrati, meno arrivi dall’Africa” La Repubblica, 17 dicembre 2019 Sono 816mila quelli che si sono trasferiti all’estero negli ultimi 10 anni, in calo del 17% chi viene dal continente africano. Aumentano gli italiani che si trasferiscono all’estero, diminuiscono invece gli immigrati dall’Africa. A rivelarlo sono i dati dell’Istat. Nel 2018 le cancellazioni anagrafiche per l’estero sono 157 mila (+1,2% sul 2017). Di queste, quasi tre su quattro riguardano emigrati italiani (117 mila, +1,9%). Le iscrizioni anagrafiche dall’estero sono circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente (-3,2%) dopo i costanti incrementi registrati tra 2014 e 2017. Sono dunque 816 mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero negli ultimi 10 anni. Oltre il 73% ha 25 anni e più; di questi, quasi tre su quattro hanno un livello di istruzione medio-alto. Il calo, invece, degli immigrati in Italia provenienti dal continente africano nel 2018 è pari al -17%. Gli italiani emigrati - Nel decennio 1999-2008 gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati complessivamente 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri, con un saldo negativo di 48 mila unità. Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri); di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno. La regione da cui emigrano più italiani, in valore assoluto, è la Lombardia con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 22 mila, seguono Veneto e Sicilia (entrambe oltre 11 mila), Lazio (10 mila) e Piemonte (9 mila). In termini relativi, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di emigratorietà più elevato si ha in Friuli-Venezia Giulia (4 italiani su 1.000 residenti), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta (3 italiani su 1.000), grazie anche alla posizione geografica di confine che facilita i trasferimenti con i paesi limitrofi. Tassi più contenuti si rilevano nelle Marche (2,5 per 1.000), in Veneto, Sicilia, Abruzzo e Molise (2,4 per 1.000). Le regioni con il tasso di emigratorietà con l’estero più basso sono Basilicata, Campania e Puglia, con valori pari a circa 1,3 per 1.000. A un maggior dettaglio territoriale, i flussi di cittadini italiani diretti verso l’estero provengono principalmente dalle prime quattro città metropolitane per ampiezza demografica: Roma (8 mila), Milano (6,5 mila), Torino (4 mila) e Napoli (3,5 mila); in termini relativi, tuttavia, rispetto alla popolazione italiana residente nelle province, sono Imperia e Bolzano (entrambe 3,6 per 1.000), seguite da Vicenza, Trieste e Isernia (3,1 per 1.000) ad avere i tassi di emigratorietà provinciali degli italiani più elevati; quelli più bassi si registrano invece a Parma e Matera (1 per 1.000). Nel 2018 il Regno Unito continua ad accogliere la maggioranza degli italiani emigrati all’estero (21 mila), seguono Germania (18 mila), Francia (circa 14 mila), Svizzera (quasi 10 mila) e Spagna (7 mila). In questi cinque paesi si concentra complessivamente il 60% degli espatri di concittadini. Tra i paesi extra-europei, le principali mete di destinazione sono Brasile, Stati Uniti, Australia e Canada (nel complesso 18 mila). Gli spostamenti interni - Si continua a spostarsi per il lavoro dal Sud verso il Settentrione e il Centro Italia e il fenomeno è in lieve aumento. Secondo il rapporto Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente | nel 2018, sono oltre 117 mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord (+7% rispetto al 2017). A soffrire sono soprattutto Sicilia e Campania, che nel 2018 perdono oltre 8.500 residenti italiani laureati di 25 anni e più per trasferimenti verso altre regioni. I flussi di cittadini stranieri - Tra gli italiani che espatriano si contano anche i flussi dei cittadini di origine straniera: si tratta di cittadini nati all’estero che emigrano in un paese terzo o fanno rientro nel luogo di origine, dopo aver trascorso un periodo in Italia e aver acquisito la cittadinanza italiana. Le emigrazioni di questi “nuovi” italiani, nel 2018, ammontano a circa 35 mila (30% degli espatri, +6% rispetto al 2017). Di questi, uno su tre è nato in Brasile (circa 12 mila), il 10% in Marocco, il 6% in Germania, il 4% nella ex Jugoslavia e in Bangladesh, il 3,5% in India e in Argentina. I paesi dell’Unione europea si confermano le mete principali anche degli espatri dei “nuovi” italiani (55% dei flussi degli italiani nati all’estero). In particolare, con riferimento al collettivo dei connazionali diretti nei paesi dell’Ue, si osserva che il 17% è nato in Marocco, il 16% in Brasile, il 7% nel Bangladesh. Ancora più in dettaglio, i cittadini italiani di origine africana emigrano perlopiù in Francia (62%), quelli nati in Asia nella stragrande maggioranza si dirigono verso il Regno Unito (90%) così come fanno, ma in misura molto più contenuta, i cittadini italiani nativi dell’America Latina (26%). I cittadini nati in un paese dell’Ue invece emigrano soprattutto in Germania (42%). Età e livello di istruzione - Nel 2018, gli italiani espatriati sono prevalentemente uomini (56%). Fino ai 25 anni, il contingente di emigrati ed emigrate è ugualmente numeroso (entrambi 18 mila) e presenta una distribuzione per età perfettamente sovrapponibile. A partire dai 26 anni fino alle età anziane, invece, gli emigrati iniziano a essere costantemente più numerosi delle emigrate: dai 75 anni in poi le due distribuzioni tornano a sovrapporsi. L’età media degli emigrati è di 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Un emigrato su cinque ha meno di 20 anni, due su tre hanno un’età compresa tra i 20 e i 49 anni mentre la quota di ultracinquantenni è pari al 13%. Considerando il livello di istruzione posseduto al momento della partenza, nel 2018 più della metà dei cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero (53%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33 mila diplomati e 29 mila laureati. Rispetto all’anno precedente le numerosità dei diplomati e laureati emigrati sono in aumento (rispettivamente +1% e +6%). L’incremento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto a cinque anni prima gli emigrati con titolo di studio medio-alto crescono del 45%, rispetto a 10 anni prima sono 182 mila. Quasi tre cittadini italiani su quattro trasferitisi all’estero hanno 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati); di essi 27 mila (32%) sono in possesso di almeno la laurea. In questa fascia d’età si riscontra una lieve differenza di genere: nel 2018 le italiane emigrate sono circa il 42% e di esse oltre il 35% è in possesso di almeno la laurea, mentre, tra gli italiani che espatriano (58%), la quota di laureati è pari al 30%. Rispetto al 2009, l’aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10 punti percentuali) che tra gli uomini (+7%), Tale incremento risente in parte dell’aumento contestuale dell’incidenza di donne laureate nella popolazione (dal 5,3% del 2008 al 7,5% del 2018). I rimpatri - L’altra faccia della medaglia è costituita dai rimpatri: nel 2018, considerando il rientro degli italiani di 25 anni e più con almeno la laurea (13 mila), la perdita netta (differenza tra rimpatri ed espatri) di popolazione “qualificata” è di 14 mila unità. Tale perdita riferita agli ultimi dieci anni ammonta complessivamente a poco meno di 101 mila unità. La ripresa delle emigrazioni di cittadini italiani è da attribuire in parte alle difficoltà del nostro mercato del lavoro, soprattutto per i giovani e le donne e, presumibilmente, anche al mutato atteggiamento nei confronti del vivere in un altro Paese - proprio delle generazioni nate e cresciute in epoca di globalizzazione - che induce i giovani più qualificati a investire con maggior facilità il proprio talento nei paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione. I programmi specifici di defiscalizzazione, messi in atto dai governi per favorire il rientro in patria delle figure professionali più qualificate, non si rivelano quindi del tutto sufficienti a trattenere le giovani risorse che costituiscono parte del capitale umano indispensabile alla crescita del Paese. Le iscrizioni anagrafiche dall’estero registrate nel corso del 2018 ammontano a 332.324, in calo del 3,2% rispetto all’anno precedente; di queste, 286 mila riguardano cittadini stranieri (86% del totale). A livello nazionale il tasso di immigratorietà è pari a 4,7 immigrati stranieri ogni 1.000 abitanti. I flussi migratori verso l’Italia - L’andamento dei flussi migratori in ingresso nell’ultimo decennio per macro-aree di provenienza evidenzia un calo generale delle immigrazioni per tutti i paesi esteri: dopo l’incremento dovuto alle regolarizzazioni e all’ingresso di Romania e Bulgaria nell’Unione europea osservato nei primi anni Duemila, i trasferimenti dall’estero hanno avuto un lento declino. Dal 2015 al 2017 le immigrazioni sono tornate ad aumentare per via dei flussi numerosi provenienti dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo, caratterizzati prevalentemente da cittadini in cerca di accoglienza per asilo e protezione umanitaria. Nel 2018, questi ingressi hanno subito una battuta d’arresto. Nel 2018 le iscrizioni anagrafiche dall’estero più numerose provengono, in valore assoluto, da paesi europei: la Romania con 37 mila ingressi (11% del totale) si conferma il principale paese di origine seppur in deciso calo (-10% rispetto al 2017). Meno numerosi i flussi provenienti dall’Albania (oltre 18 mila) ma in forte aumento rispetto all’anno precedente (+16%). Seguono le iscrizioni da Ucraina (8 mila, -2%), Germania (oltre 7 mila, +9%) e Regno Unito (poco meno di 7 mila, +12%). Per gli ultimi due flussi si tratta prevalentemente di cittadini italiani che fanno rientro in patria dopo un soggiorno all’estero. Sempre consistenti, ma nettamente in diminuzione, le immigrazioni provenienti dal continente africano, in particolare quelle provenienti da Nigeria (18 mila, -24%), Senegal (9 mila, -20 %), Gambia (6 mila, -30%), Costa d’Avorio (5 mila, -27%) e Ghana (5 mila, -25%) che durante il 2017 avevano fatto registrare aumenti record. Il Marocco è l’unico paese africano che segna una variazione positiva rispetto all’anno precedente (17 mila, +9%). Tra i flussi provenienti dall’area asiatica, i più cospicui sono quelli da Bangladesh e Pakistan (entrambi 13 mila, ma in calo rispettivamente di 8% e 12%), le immigrazioni dall’India invece ammontano a oltre 11 mila e aumentano del 42% rispetto al 2017. In aumento anche le iscrizioni dall’America: dal Brasile si contano circa 24 mila iscritti (+18%), dal Venezuela circa 6 mila (+43%) e dagli Stati Uniti oltre 4 mila (+16%). Le immigrazioni di cittadini italiani ammontano a 47 mila nel 2018 (14% del totale iscritti dall’estero). Si tratta di flussi provenienti in larga parte da paesi che sono stati in passato mete di emigrazione italiana. Ai primi posti della graduatoria per provenienza si trovano, infatti, Brasile e Germania (che insieme originano complessivamente un quarto dei flussi di immigrazione italiana), Regno Unito (10% sul totale immigrati italiani), Svizzera (9%) e Venezuela (7%). Per alcuni di essi è plausibile l’ipotesi del rientro in patria dopo un periodo di permanenza all’estero. Migranti. Se a prevalere sono i doveri e non i diritti di Filippo Miraglia Il Manifesto, 17 dicembre 2019 Se la stella polare di questo governo continuerà a essere la paura, difficilmente avrà lunga vita. È la paura però che sembra continuare a determinare le scelte, o meglio le non scelte, in tema di diritti e immigrazione. Il dibattito sulla riforma della cittadinanza, ad esempio, è ancora ingabbiato dentro formule poco utili se non addirittura controproducenti. Non si tratta di sostituire allo Ius Soli lo Ius Cuturae, apparentemente più rassicurante. Qualunque sia la formula, la destra xenofoba, che su quest’argomento gioca in attacco, spesso senza avversari, non rinuncerà a fare la sua propaganda. Sarebbe opportuno guardare alla sostanza della proposta e alle sue implicazioni concrete oltre che a quelle culturali e politiche. La proposta denominata “Ius Culturae” quale strada indica? Il minorenne straniero, nato o cresciuto in Italia, può chiedere (i suoi genitori possono chiedere) di diventare italiano se, questa sembrerebbe essere la proposta, ha frequentato (qualcuno addirittura dice con successo) un corso di studi. Fino a 16 anni in Italia la scuola è obbligatoria e rappresenta, secondo la nostra Costituzione, un diritto garantito a tutti dalla Repubblica, senza distinzione. Un minorenne che non frequenta la scuola può essere addirittura sottratto alla potestà dei genitori. Trasformare un diritto, quello allo studio, in una condizione per l’accesso alla cittadinanza, significa ribaltare i presupposti della nostra democrazia: è la Repubblica che garantisce le condizioni per il diritto allo studio e non il minorenne o la sua famiglia che lo fanno per poter ottenere la cittadinanza. Se i partiti, i sostenitori di questa formula, vogliono introdurre un ostacolo, alzare l’asticella per l’accesso alla cittadinanza, indichino, come già avviene per la naturalizzazione, un numero di anni di presenza, e non un corso di studi. Hai meno di 12 anni, sei nato o arrivato in Italia? Per diventare italiano devi essere presente nel Paese da 5 anni. Nessun minorenne straniero può eludere l’obbligo scolastico. Quindi se un bambino o una bambina vivono in Italia da 5 anni, certamente frequenteranno la scuola dell’obbligo. Il modo in cui si affronta il tema dei diritti degli stranieri e della cittadinanza ha avuto, e continuerà ad avere, un peso decisivo nell’orientare l’opinione pubblica. Se la politica rinuncia al suo ruolo educativo, pedagogico, diventa solo gestione del potere. In politica, ogni parola, ogni atto, deve indicare una direzione, un campo di scelte ideali. La destra, da sempre, e in questi ultimi anni in maniera molto efficace, l’ha capito e usa ogni strumento per conquistare spazi e consenso. Le forze democratiche e di sinistra faticano a trovare un terreno identitario dal quale partire per indicare una direzione chiara e condivisa, e spesso si affannano a rincorrere le destre sul loro campo, o scelgono il silenzio. Il risultato è il disastro politico e l’arretramento culturale che è davanti agli occhi di tutti. Le associazioni hanno avanzato, oramai da anni, una proposta contenuta nella legge d’iniziativa popolare de L’Italia sono anch’io, oggi ripresentata alla Camera dall’on Boldrini. Una proposta che prevede una riforma complessiva della legge n.91/92. Pensavamo e pensiamo ancora che sia necessario e urgente intervenire per sottrarre alla discrezionalità dell’amministrazione pubblica l’accesso alla cittadinanza sia per i minorenni che per gli adulti. Siamo anche consapevoli che in Parlamento si debba ricercare una mediazione. Ciò che non è accettabile è che la mediazione contenga un “dovere in più” per gli stranieri, alimentando così luoghi comuni e razzismo nei loro confronti. La riforma della cittadinanza è una battaglia di civiltà e noi intendiamo continuare a farla a fianco dei giovani di origine straniera. Il 18 dicembre, giornata internazionale per i diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, saremo in piazza con la rete Saltamuri, la campagna Io Accolgo e Italianisenzacittadinanza. Sarà un nuovo inizio. E non ci fermeremo fino a quando non avremo ottenuto l’obiettivo di cambiare questa brutta legge. Stop in Aula alla cannabis “light”. La Casellati decide e pone il veto di Francesco Grignetti La Stampa, 17 dicembre 2019 La presidente del Senato: “Inammissibile, serve un disegno di legge”. Insorge il M5S: “La droga non c’entra, vanno tutelati gli agricoltori”. L’emendamento sulla cannabis light, quella a bassissimo grado stupefacente che fino a qualche mese fa si vendeva nei negozi, non s’ha da inserire nella legge di Bilancio. Con decisione inappellabile, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, ha tagliato un nodo che da giorni aggrovigliava le discussioni tra maggioranza e opposizione e ha dichiarato “inammissibile” l’emendamento per estraneità di materia. Una decisione apparentemente tecnica, ma in realtà ad alto tasso politico e simbolico. Che in Aula ha fatto applaudire freneticamente il centrodestra e però ha precipitato la presidente Casellati nel gorgo delle polemiche per tutto il giorno. “Siamo molto dispiaciuti della sua decisione - ha attaccato il senatore Matteo Mantero, M5s, firmatario dell’emendamento della discordia - l’emendamento non riguarda la droga, ma semplicemente degli agricoltori. Le chiedo di dimostrare che la sua scelta era scevra da qualsiasi pressione della sua parte politica e voler mettere in calendario in votazione alla prima seduta utile la richiesta di urgenza per lavorare sulla canapa industriale, che ho depositato a luglio”. Il suo collega Alberto Airola ha poi rincarato contro chi avrebbe adottato una “decisione politica”. E il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, ha appena salvato le forme: “Pur rispettando la decisione e l’autonomia della presidente del Senato, non posso non rimanere amareggiato”. Accuse che sono state respinte dalla Casellati al mittente. “Come ho già specificato più volte - ha replicato a Mantero - mi spiace che lei si riferisca a una decisione che dovrebbe essere scevra da condizionamenti politici. Le voglio far presente che lo sono tutte le mie decisioni. È una decisione meramente tecnica. Se ritenete questa misura importante per la maggioranza, fatevi un disegno di legge”. Non c’è da meravigliarsi. Anche la liberalizzazione della cannabis light, infatti, al pari della liberalizzazione della sorella maggiore, è tema incandescente. Matteo Salvini, che da ministro gli aveva dichiarato guerra, ha ringraziato la presidente “a nome di tutte le comunità di recupero d’Italia. È stata evitata la vergogna dello Stato spacciatore”. Così anche Giorgia Meloni. O il senatore Maurizio Gasparri, che per primo era insorto al Senato contro l’emendamento grillino: “Forza Italia si batte contro le droghe. Ben vengano quelli che hanno condiviso la nostra contestazione a questo emendamento. Più siamo, meglio è”. Di fatto, infilando l’emendamento nel convoglio blindato della legge di Bilancio, su cui il governo si apprestava a chiedere il voto di fiducia, non ci sarebbe stata partita. E perciò esulta il centro studi Livatino, di area cattolica: “Decisione di correttezza costituzionale”. Cannabis light, decisione stupefacente per un settore in crescita di Giuliano Santoro Il Manifesto, 17 dicembre 2019 Con la decisione di non ammettere il sub-emendamento sulla commercializzazione della cannabis light, cioè con principio attivo Thc inferiore allo 0,5%, la logica proibizionista assume caratteri paradossali, arrivando a colpire una pianta anche quando trattata biologicamente in modo da non causare alcun effetto stupefacente, neanche quelli blandi propri della marijuana. “Il comparto della canapa industriale non ha nulla a che vedere con gli stupefacenti o con gli aspetti ludici della cannabis”, dichiara Stefano Zanda, direttore generale del Consorzio nazionale per la tutela della filiera e presidente di My Joint, una delle 1500 aziende italiane del settore in cui lavorano circa 12 mila persone. L’allarme tra produttori e commercianti di cannabis light si è creato dal maggio scorso, quando una sentenza delle sezioni unite penali della cassazione aveva stabilito che la vendita di cannabis sativa sotto forma di foglie, inflorescenze, olio, resina ottenuti dalla coltivazione non rientra nell’ambito di applicazione della legge del 2016 che aveva previsto quello che Federcanapa definisce un “cuscinetto” di esenzioni di responsabilità per l’agricoltore nel caso in cui il controllo del tasso di Thc contenuto nella pianta fosse risultato superiore allo 0,2% ma inferiore allo 0,6. Le motivazioni della sentenza avevano spostato il focus della proibizione non sul Thc ma su un più generico “effetto” causato dalla sostanza. “Ciò che occorre verificare - sottolinea la cassazione - non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante”. Le destre erano andate a nozze con la decisione, alcuni negozi avevano chiuso per precauzione e investimenti e posti di lavoro avevano cominciato a traballare assieme alle nuove abitudini di consumo dei tanti che avevano trovato un modo per fumare o bere di tisane di marijuana in maniera legale. Matteo Salvini ieri è tornato alla carica, ringraziando la presidente del senato e addirittura dicendo di parlare “a nome di tutte le comunità di recupero dalle dipendenze e a nome delle famiglie italiane per aver evitato la vergogna dello stato spacciatore”. Dalla maggioranza protesta soprattutto Matteo Mantero del M5S, che fin dalla scorsa legislatura lavora sul tema delle droghe leggere e sulla marijuana senza Thc. Mantero rispedisce al mittente le illazioni di Salvini e auspica che si intervenga direttamente sul testo di legge che disciplina la coltivazione di canapa industriale. “Siamo molto dispiaciuti per la decisione presa e per il comportamento delle opposizioni che dimostrano estrema ignoranza in materia festeggiando con un applauso la cancellazione di questa norma. Le opposizioni che applaudono in aula festeggiano alla faccia gli agricoltori che lavorano in questo settore. Mi aspetto ora che la presidenza del senato metta in calendario alla prima seduta utile la richiesta di urgenza, sottoscritta da 50 senatori, di modifica del testo sulla canapa industriale”. Il Consorzio che riunisce gli operatori del settore ha calcolato che il volume di affari nel 2018 era stato di 150 milioni di euro per 2500 ettari coltivati a canapa. Ma le stime di crescita, proibizionisti permettendo, dicono che dal 2021 su scala europea si potrebbe arrivare a 36 miliardi di euro, visto l’interesse per la marijuana senza Thc manifestato da aziende della farmaceutica (la pianta mantiene un effetto rilassante), della cosmesi, dell’alimentare. E poi la canapa è molto più di una “droga”: ha una fibra molto resistente, per questo la sua coltivazione interessa all’industria del packaging, dell’edilizia e del design. Siria. Cosa succede nelle prigioni per i combattenti dell’Isis di Marta Bellingreri L’Espresso, 17 dicembre 2019 In Siria sono detenuti jihadisti di 48 diverse nazionalità. Ma mancano le guardie e cresce il pericolo di fughe. L’Espresso è entrato in una di queste strutture per vedere come funziona. La prima regola per entrare nei centri di detenzione per i prigionieri Isis è non scrivere dove si trovano. Nessuna indicazione sul luogo, descrizione o foto dall’esterno. La seconda regola ancora più importante è: non parlare ai prigionieri di cosa succede nel mondo. Non sanno nulla della recente invasione della Turchia nel nord-est della Siria contro i combattenti e i civili curdi, arabi, armeni, siriaci, assiri della zona. “Qualsiasi notizia sarebbe come accendere loro la televisione per la prima volta in nove mesi”, dice il comandante delle Forze siriane democratiche, a guida curda, responsabile della sicurezza della struttura. La terza regola, imprescindibile, è: non farsi scappare che Abu Bakr al-Baghdadi è morto. Il leader del cosiddetto Stato islamico, autoproclamatosi califfo, si è ucciso il 27 ottobre durante il raid dell’esercito americano nella provincia di Idlib, a cinque chilometri dal confine turco. Là si era nascosto con i suoi fedeli e i parenti stretti negli ultimi mesi. Ma i suoi combattenti, devoti al Califfato, non lo sanno. “Ne va della sicurezza di tutti noi”, conclude il comandante nella sua introduzione di benvenuto, chiedendo di non scrivere nemmeno il suo nome. Non parla con sguardo severo, ma con sincera preoccupazione. Un velo di paura, di urgenza nelle sue parole. Dietro di lui, un’enorme bandiera gialla con la cartina della Siria, il fiume Eufrate in evidenza, e le scritte in arabo, curdo, siriaco. È la bandiera delle Forze siriane democratiche, Sdf nel suo più comune acronimo inglese, che hanno condotto la battaglia contro l’Isis, sostenute dalla coalizione a guida americana. Adesso che gli alleati americani se ne sono andati, però, le Sdf hanno un compito perfino più arduo: vigilare affinché non risorga lo Stato islamico. Del resto, l’Isis è fiorito nelle prigioni irachene dopo l’invasione americana; e di certo oggi non morirà in queste nuove prigioni irachene e siriane, dove i rischi di rivolte, tentativi di fuga e pianificazione dei prossimi anni di guerriglia sono altissimi. Il comandante Sdf lo dichiara senza mezzi termini: “Siamo in pericolo noi, sono in pericolo loro”. Muoiono prigionieri ogni mese. Dei cinquemila che ospita la struttura, duemila sono malati: ferite di battaglia, malattie cardiache, malnutrizione, alcuni casi di Aids. “Non abbiamo le risorse per curarli adeguatamente né per nutrirli come si deve”, sottolinea il comandante. “In particolari momenti di crisi, abbiamo dato loro il nostro cibo”. La situazione è peggiorata lo scorso 9 ottobre, da quando la Turchia ha iniziato l’attacco alla Siria. Il personale si è ridotto del 40 per cento e le guardie fanno turni tra prigione e fronte. Inoltre, dopo che la Turchia ha bombardato la vicina stazione di approvvigionamento dell’acqua, per poter far sciacquare la faccia ai prigionieri, ogni giorno le Sdf devono percorrere 70 chilometri. La struttura in cui si trovano i prigionieri, miliziani catturati in battaglia, il 90 per cento proprio a Baghuz, l’ultima roccaforte dell’Isis espugnata dalle Sdf a marzo, è una ex-scuola costruita dal governo siriano quando ancora controllava la provincia di Hasake. I lavori di ristrutturazione, o meglio di ridefinizione da scuola a prigione, non sono terminati: tra le mura alte, è previsto un cortile per l’ora d’aria. Finora, in nove mesi, i prigionieri dell’Isis la luce del sole non l’hanno mai vista. Le finestre di quelle che dovevano essere delle aule sono murate. Da una stanza con una decina di schermi i soldati delle Sdf li monitorano 24 ore su 24. Tre sono i colori dominanti: il grigio delle coperte che i detenuti hanno addosso, l’arancione delle loro tute, e il verde chiaro delle pareti. Proprio il genere di colore che si troverebbe in una scuola elementare. Appesi alle pareti con lo scotch, dei sacchetti con degli effetti personali, qualche asciugamano e dei tozzi di pane. “Ho bisogno di vedere uno psichiatra: è il motivo per cui voglio tornare in America”. Lurin Sulimani ha 53 anni. Ha raggiunto la Siria per vivere con l’Isis alla fine del 2015. In America ci era arrivato da rifugiato kosovaro nel 1999, ne aveva preso la cittadinanza: oggi né il governo americano né quello kosovaro si sono fatti vivi. “Non ho notizie della mia famiglia: mia moglie e tre figli, due nati in Canada e l’ultimo a Manbij”. Sostiene di non aver mai combattuto, di aver cercato di sopravvivere e di provvedere per la famiglia. Ogni volta che c’erano battaglie si spostava. Manbij è stato il luogo di una feroce battaglia durata tre mesi tra Sdf e Isis nel 2016 e i nomi che snocciola sembrano seguire geografia e cronologia delle battaglie contro l’Isis lungo l’Eufrate: da Raqqa a Mayadin ad Hajin, fino a Baghuz, al confine con l’Iraq, confine ultimo del Califfato, almeno a livello territoriale. “Ero venuto per vivere la shari’a, ho creduto alla propaganda, ma sono stato deluso, erano solo interessati a combattere”. Sulimani fa parte di quei 2 mila detenuti che per motivi di salute non stanno nelle aule-celle dove stanno accalcate 100 o 200 persone, ma in una grande sala che fa da “ospedale”, in cui alcuni dei prigionieri hanno dei letti e ricevono visite mediche quotidiane. Un’infiammazione all’intestino gli ha fatto perdere peso per mesi. Ma, col suo accento americano, ripete che più delle condizioni fisiche, migliorate ultimamente, è preoccupato per la sua salute mentale: “Quello che abbiamo vissuto, you know, va oltre l’immaginazione”. Non specifica se è solo quello che ha vissuto o anche quello che ha fatto vivere commettendo lui stesso crimini. “Se ho compiuto dei crimini, mi portino in tribunale, facciano quello che pensano sia giusto: ma non lasciateci qui a languire. Se parlo coi giornalisti è perché spero che la mia famiglia googli il mio nome e scopra che sono ancora vivo”. Sono 48 le nazionalità cui appartengono i detenuti: europei, russi, americani, nordafricani, asiatici, oltre ai numerosi siriani e iracheni. Il numero reale è impossibile da stabilire: molti combattenti hanno imparato l’arabo e si dichiarano locali. Dagli interrogatori però è facile identificare subito chi non lo è. “I nostri servizi di sicurezza hanno bisogno delle loro informazioni”, dice Heval Toheldan dell’ufficio anti-terrorismo di Rumeilan. “I crimini sono avvenuti qui contro la popolazione locale, non ci basta che i diversi Stati li riportino nei loro paesi”. Nell’ospedale improvvisato del carcere, come in ogni cella, c’è un prigioniero-responsabile. Qui è un ventottenne di Damasco, con occhi verdi luminosi, che dice di essere stato membro dell’Isis: ha vissuto a Deir Zor e ora è il portavoce dei detenuti per indirizzare alle guardie bisogni e richieste. Tra lui e la guardia di turno c’è un’aria di confidenza: scherzano, si danno pacche sulle spalle, si parlano all’orecchio. Mentre lui scherza sul corridoio della sala-ospedale, sfilano prigionieri in sedia a rotelle, su stampelle, o reggendosi sulle sole braccia, perché hanno perduto le gambe. Feriti in battaglia o durante i bombardamenti. Adesso sono lì, anonime figure in divise arancione acceso. Non hanno voglia di parlare con nessuno. Al primo piano dello stesso edificio, un corridoio di cancelli e lucchetti fa avanzare le guardie verso le celle. Delle cifre incise sulle porte di ferro indicano il numero di detenuti e quello della cella. Da una finestrella minuscola che solo le guardie possono aprire appaiono centinaia di uomini in fila: l’unico modo per avere un contatto, col mondo esterno, parlare. “Non sono dell’Isis, sono un civile, quelli là sono dell’Isis!”, dice Hasan, indicando un gruppetto dietro di lui. Un altro, originario di Bu Kamal, che ha fatto parte dell’Esercito Siriano Libero contro Bashar al-Assad ed è stato fatto prigioniero dall’Isis ma non vuole dichiarare il suo nome, descrive le prigioni tenute dall’Isis come migliori di queste: “Il cibo che mangiavamo era lo stesso del giudice”, dice. “Almeno là dopo pochi giorni venivi portato in Tribunale islamico e giudicato, qua in nove mesi non abbiamo visto nemmeno un avvocato”. La Croce Rossa ha fornito materassi, coperte, tutto il minimo necessario, ma è venuta soprattutto per portare messaggi delle famiglie, cercando anche di dar loro notizie se i loro familiari sono ancora vivi. La maggior parte dei detenuti però dice di non averne avute. “Fino a poco tempo fa, c’erano bambini di dieci anni prigionieri qui dentro. Questo non conta per l’Unione Europea?”. Si riferisce ai bambini e adolescenti addestrati dall’Isis per combattere, anche loro imprigionati a Baghuz. A quanto pare, da poco sono stati trasferiti altrove perché, come ha spiegato il comandante delle Sdf, per legge non possono stare insieme agli adulti. “Le relazioni tra noi detenuti sono buone, anche coi militari”, aggiunge infine il tipo di Bu Kamal, “vogliamo solo sapere il destino che ci aspetta”. “Ci sono molti problemi qui dentro, violenze sessuali. Fate qualcosa”, bisbiglia però un prigioniero avvicinandosi alla finestrella prima che venga chiusa. Solo una piccola cella si distingue dalle altre: al suo interno due detenuti, ognuno con il suo abitacolo separato e un bagno in comune. Abdelrahman, 37 anni, iracheno di Anbar, è un pittore. “Lo sono da prima di venire in Siria. È anche una terapia per me”. Le guardie dicono che non è un isolamento per punizione, ma un premio. Abdelrahman si dichiara “un civile” e solo in quella cella più spaziosa può continuare a dipingere. Tutti i suoi quadri sono nelle stanze delle Sdf che gli forniscono pennelli e tele. Delle altre attività per la de-radicalizzazione non pare al momento ci sia l’ombra. “Dopo l’attacco della Turchia non abbiamo le forze”, spiega il comandante che spera che questi prigionieri possano liberare le proprie menti dal male che hanno commesso e forse vogliono ancora compiere. Del resto, “a Baghuz ce l’hanno detto: quando saremo di nuovo liberi, faremo peggio di prima”. La sensazione del rischio è costante, sostiene una delle guardie, soprattutto se si pensa che di fronte a un’altra prigione, le cellule dell’Isis ancora attive hanno organizzato un attentato, facendo esplodere una macchina e lanciando dei missili. “Il messaggio per noi è chiaro: siamo un target”, conclude. “Ma lo è anche per i detenuti dell’Isis: pazientate, non vi abbiamo dimenticato, vi libereremo”. Iran. Il giro di vite dopo le proteste: migliaia a rischio di tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 dicembre 2019 Amnesty International ha nuovamente aggiornato il numero dei manifestanti uccisi nei primi giorni delle proteste che a metà novembre hanno scosso l’Iran. La tragica conta dei morti accertati è salita a 304, almeno 12 dei quali minorenni. Come Mohammad Dasankhan, 15 anni, colpito al cuore da un proiettile mentre, uscito da scuola, stava attraversando una manifestazione per tornare a scuola. Ora, ripristinato l’ordine con la forza brutale, è iniziato il secondo tempo della repressione. Gli arresti, infatti, sono stati migliaia: persone che prendevano parte alle proteste, studenti, giornalisti, difensori dei diritti umani, persino ragazzi di 15 anni. Non esiste ancora un dato ufficiale, ma il 26 novembre Hossein Naghavi Hosseini, portavoce del comitato parlamentare per la sicurezza nazionale, ha parlato di 7000 persone arrestate. Molti degli arrestati sono stati torturati, trattenuti in isolamento, fatti sparire. I nuovi ingressi nelle carceri regolari non faranno altro che peggiorare le preoccupanti condizioni di sovraffollamento. Nella prigione di Raja’i Shahr di Karaj, una delle più famigerate dell’Iran, colonne di camion hanno scaricato centinaia di detenuti, ammanettati e bendati e accolti con calci, pugni, manganellate e frustate. Gli arresti sono stati accompagnati da una narrativa ufficiale estremamente ostile: dalla Guida suprema al capo della magistratura fino agli organi d’informazione statali, i manifestanti sono stati etichettati come “banditi” e nei confronti degli organizzatori delle proteste è stata invocata la pena di morte. Ecco alcune storie. Mohammad Massa’ed, giornalista, è stato arrestato il 23 novembre dopo aver denunciato su Twitter il quasi totale black-out di Internet imposto dalle autorità tra il 16 e il 24 novembre. Lo hanno rilasciato su cauzione alcuni giorni dopo. Soha Mortezaei, studente dell’Università di Teheran, è stata arrestata il 18 novembre. Pochi giorni prima, i dirigenti dell’ateneo l’avevano ammonita a non protestare altrimenti l’avrebbero torturata. Bakhtiar Rahimi, attivista curdo per i diritti dei lavoratori, è stato arrestato il 27 novembre a Marivan, nella provincia del Kurdistan. Da allora non si hanno più sue notizie. Sono stati presi di mira anche attivisti delle minoranze: a Tabriz, nella provincia dell’Azerbaigian orientale, sono stati arrestati Akbar Mohajeri, Ayoub Shiri, Davoud Shiri, Babak Hosseini Moghadam, Mohammad Mahmoudi, Shahin Barzegar e Yashar Piri. Le forze di sicurezza hanno anche fatto irruzione negli ospedali di tutto il paese, arrestando manifestanti feriti e portandoli in carcere, dove non starebbero ricevendo cure mediche. Almeno 304 morti nella repressione delle proteste - L’ong Amnesty International aggiorna il suo precedente bilancio che era di 208 morti. Sono state almeno 304 le vittime della dura repressione in Iran delle violente proteste scoppiate il mese scorso contro il caro benzina. Lo indica un nuovo bilancio fornito da Amnesty International, che finora aveva parlato di 208 morti accertati. Amnesty fa riferimento al periodo tra il 15 e il 18 novembre, in cui si è registrato il picco delle manifestazioni. Tra le vittime indica anche almeno due adolescenti di 15 e 17 anni. Migliaia sono stati inoltre i feriti, sempre secondo l’ong. Le autorità della Repubblica islamica avevano in precedenza respinto le cifre fornite dall’estero come “menzogne assolute” diffuse da parte di “gruppi ostili”, senza fornire però bilanci aggiornati delle proteste. L’ong parla inoltre di “strazianti testimonianze” di come Teheran abbia avviato “un giro di vite di massa” per nascondere l’entità della “spietata repressione” dopo aver “massacrato” i dimostranti. A questo scopo, aggiunge, sono state arrestate migliaia di persone, tra cui “giornalisti, attivisti per i diritti umani e studenti”. Amnesty chiede quindi all’Iran di “rilasciare urgentemente e incondizionatamente tutti quelli che sono stati detenuti arbitrariamente”.