“Attenti ai boss che si dissociano per la pena soft” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 16 dicembre 2019 Il ministro Lamorgese: il fenomeno in aumento dopo le sentenze europee sull’ergastolo ostativo. Negli ultimi tempi le richieste di dissociazione da parte dei boss sono appaiono in aumento e sembrano esprimere una strategia processuale finalizzata agli sconti di pena”. Lo dice a “Il Mattino” il ministro dell’interno, Luciana Lamorgese, che affronta anche il problema dell’emergenza camorra. Tanti boss della camorra si dissociano con una lettera inviata in Procura. Quale significato assume questa scelta? “Negli ultimi tempi le richieste di dissociazione appaiono in aumento e sembrano esprimere una strategia processuale finalizzata ad accedere alle misure premiali previste per i detenuti condannati in via definitiva. Un cambiamento, questo, che potrebbe avere come obbiettivo i possibili effetti delle recenti sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale, che hanno sancito la parziale incostituzionalità del cosiddetto ergastolo ostativo. Ai boss, ora, non è preclusa la possibilità di scontare pene inferiori rispetto a quella a vita’ e di accedere a permessi premiali. Tale problematica è costantemente seguita anche dal Ministero dell’Interno”. Dinanzi alla commissione antimafia, il procuratore Melillo ha parlato di scenario di faida a bassa intensità. Di recente il ministero dell’interno ha promesso per Napoli l’arrivo di nuove forze di polizia: crede che possano bastare a risolvere il trentennale conflitto tra i Mazzarella e l’Alleanza di Secondigliano? “Nei primi 10 mesi del 2019, l’azione di contrasto condotta dalle forze di polizia nella provincia di Napoli ha consentito la denuncia o l’arresto di 323 persone per associazione di tipo mafioso e l’esecuzione di numerose operazioni di polizia giudiziaria. La situazione della criminalità organizzata nel capoluogo partenopeo, già particolarmente variegata, appare comunque in continua evoluzione. Si registrano alcune azioni violente tra componenti dei vari clan per la ricerca e l’affermazione della leadership nei vari quartieri. Va anche detto che la vita nei contesti degradati e la diseguaglianza socio-economica costituiscono l’habitat ideale per le organizzazioni camorristiche che finiscono per attrarre tanti giovani. Anche per questo, la prefettura di Napoli, fin dal 2017, ha istituito un apposito tavolo sul tema del disagio e della devianza giovanile e ha avviato, con i fondi del Pon Legalità, un progetto quinquennale per la presa in carico di 300 minori, tra i 6 e i 18 anni, a grave rischio di esclusione sociale. Altra iniziativa in materia di contrasto alla devianza giovanile è quella dei cosiddetti maestri di strada, anche questa finanziata con risorse del Pon. Ma Napoli è una città in cui bisogna sempre tenere alta la guardia. In alcune realtà è presente anche una generazione di nuove leve particolarmente agguerrite e contrapposte che affermano la loro presenza con modalità violente e volutamente eclatanti che mettono a repentaglio l’incolumità dei cittadini e allarmano interi quartieri. Le forze di polizia, quindi, stanno compiendo ogni sforzo possibile per rendere più serrato il controllo del territorio”. Altra questione centrale nel contrasto al crimine riguarda il pensionamento della parte migliore della nostra intelligence, causa “quota cento”. Eppure il crimine organizzato oggi ricicla e converte proventi di racket e droga, con strategie sempre più sofisticate. C’è il rischio di un arretramento investigativo? “I vertici delle forze di polizia seguono con attenzione il turn-over del personale e, nel caso di particolari professionalità, hanno cura di assicurare un affiancamento del personale più giovane a quello in possesso di maggiore anzianità ed esperienza. Inoltre, i numerosi concorsi succedutisi negli ultimi anni hanno visto la partecipazione di candidati sempre più preparati e dotati di titoli di studio fortemente legati alla professione: ciò garantisce in termini numerici e di know-how un adeguato turn-over del personale cessato dal servizio per raggiunti limiti d’età”. Uno dei fenomeni criminali cittadini riguarda le aggressioni all’interno degli ospedali, a che punto è il progetto di collegare la Questura ed i pronto soccorso allarmi e videosorveglianza? “Il fenomeno, purtroppo frequente, delle aggressioni nei confronti di medici e operatori delle strutture sanitarie è da tempo all’attenzione del Ministero dell’Interno. In alcune realtà, come quella di Napoli, sono già operativi piani di intensificazione della vigilanza mobile presso gli ospedali e sono attivi canali di comunicazione diretti con i presidi delle Forze di polizia. Sempre a Napoli è stata avviata la fase esecutiva del progetto di adeguamento tecnologico dei sistemi di videosorveglianza già esistenti al fine di consentire anche la messa in rete con le sale operative”. Il 10 dicembre, altri 10 immobili confiscati alla camorra dei Nuvoletta-Polverino di Marano, saranno riconsegnati al comune di Marano, anche se resta attuale il problema del riutilizzo di queste strutture strappate al clan grazie a processi lunghi e dispendiosi. Sono centinaia i terreni e gli immobili confiscati ai Nuvoletta-Polverino, anche se sono pochissime le acquisizioni che si sono trasformate in esempi virtuosi di riutilizzo, cosa risponde alle inevitabili perplessità da parte della società civile? “Il processo di riuso per finalità sociali dei beni immobili confiscati è spesso intriso di difficoltà, che sono la naturale conseguenza della provenienza criminale del bene e nascono anche da altre criticità frequentemente legate ai tempi lunghi che intercorrono tra il sequestro e la confisca definitiva. Naturalmente, queste difficoltà si sono registrate e si registrano anche per i beni confiscati al clan Polverino, al quale sono stati sottratti complessivamente qualcosa come 151 beni immobili, riutilizzati anche per esigenze logistiche dell’Arma dei Carabinieri. Il Comune di Marano ha svolto un ruolo significativo in questa vicenda, manifestando interesse sia in una precedente occasione sia qualche giorno fa, per l’acquisizione di un certo numero di beni, che in parte verranno destinati a finalità sociali e in parte a finalità economiche. Ovviamente bisognerà sostenere il Comune in questo sforzo, superando la criticità principale che vede questi beni ancora parzialmente occupati; e, in tal senso, sono state già calendarizzate, d’intesa tra l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e la Prefettura di Napoli, le operazioni di sgombero. Altrettanto significativo è stato l’apporto fornito dal Comune di Quarto che nell’ultima conferenza di servizi ha manifestato l’interesse all’acquisizione di 60 su 61 della confisca Polverino che ricadono in quel territorio comunale”. Uno dei punti critici del contrasto all’illegalità riguarda la difficoltà di reperire i cosiddetti braccialetti elettronici. In circolazione sull’intero territorio nazionale ci sono ancora pochi dispositivi rispetto alle esigenze: una questione che non dipende direttamente dal ministero dell’interno, ma che rappresenta un tema aperto in materia di prevenzione e di esecuzione delle pene. Quale è il suo giudizio? “Risultano 4.367 braccialetti elettronici attivati sul territorio nazionale di cui ben 4307 riguardano persone agli arresti domiciliari mentre sono 57 i dispositivi da collocare nelle prossime settimane. Il Ministero dell’Interno ha investito circa 23 milioni di euro per un contratto che prevede la possibilità di attivare ogni mese anche 1.200 braccialetti elettronici se richiesti dall’autorità giudiziaria. Questo tipo di dotazione tecnologica è molto utile, non solo a Napoli, per l’esecuzione della pena fuori dal carcere e in materia di prevenzione dei reati, da ultimo anche contro lo stalking. L’amministrazione dell’Interno è dunque molto attenta alle richieste dell’autorità giudiziaria per l’utilizzo di questo strumento di sorveglianza elettronica”. Codice Rosso, a Napoli solo a novembre c’è stato un boom di reati legati ad aggressioni contro le cosiddette fasce deboli (per lo più aggressioni contro le donne), numeri che richiedono preparazione e strutture ad hoc per le forze di polizia. Come giudica i primi mesi dalla nuova legge chiamata codice rosso? “In tre mesi - dal 9 agosto scorso, data di entrata in vigore della legge sul cosiddetto Codice Rosso, al 30 novembre ci sono già numerose denunce connesse alle nuove fattispecie di reato introdotte in materia di violenza di genere. Il dato, oltre a fornire l’ampiezza del fenomeno, consente di evidenziare come l’attività repressiva delle forze di polizia, ma anche di vicinanza alle vittime con l’impiego di personale altamente specializzato nella gestione di tali delicati eventi, abbia fatto crescere la fiducia nelle istituzioni da parte delle persone coinvolte da queste odiose condotte. Le vittime, infatti si rivolgono sempre più spesso ai presidi di polizia, anche per il tramite di patronati o associazioni, denunciando gli autori e facendo in tal modo emergere il fenomeno nella sua reale dimensione”. Immigrati e camorra, esiste un corto circuito? C’è allarme dal suo osservatorio? “Le più recenti attività investigative non hanno evidenziato commistioni stabili tra organizzazioni criminali straniere e clan camorristici operativi in città e provincia. Vi sono, però, contatti fra i due mondi criminali per ciò che attiene al traffico internazionale ed allo spaccio di sostanze stupefacenti, nonché alla contraffazione ed alla commercializzazione di merce griffata realizzata in fabbriche clandestine e venduta sui mercati campani e nelle altre province italiane. La camorra, specie nell’area centrale della città di Napoli, si avvale di stranieri per consumare alcune tipologie di reato come furti, piccole rapine, spaccio di droga. Anche in questo campo è costante l’attività della Forze di polizia che, tra il 1° gennaio e il 31 ottobre 2019, ha portato all’arresto o alla denuncia nella provincia di Napoli di 4.949 cittadini stranieri”. Dei processi e delle pene, dialogo su un abisso civile di Alessandro Barbano e Vittorio Manes Il Foglio , 16 dicembre 2019 La “campagna morale” per l’abolizione della prescrizione ha le sembianze accattivanti della lotta all’impunità e del sostegno alle vittime del reato. Ma nasce dall’idea di una giustizia con pretese assolutistiche. Una potente macchina di dolore umano. Caro Vittorio, non ti pare che il confronto politico sulla prescrizione racconti tutto intero l’abisso civile in cui il paese s’è cacciato? Per capirne la portata, bisogna varcare le coordinate processuali entro cui si colloca - e cioè l’efficacia dell’azione penale o piuttosto del diritto alla difesa di fronte ai tempi lunghi del giudicato - e portarlo dentro la società. Solo così si può cogliere quel rapporto con la vita e con la morte che esso implica, e il senso di quella relazione con “l’altro da noi” che si chiama giustizia, e di cui la prescrizione è indizio. C’è un dibattito che precede questa vicenda e ci aiuta a spiegare le questioni in gioco: quello sulla sostenibilità e sulla giustificazione del cosiddetto ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e collaborare con la giustizia. Le sentenze con cui, prima la Corte europea dei diritti dell’uomo e poi la Consulta hanno censurato l’irragionevole automatismo di questo istituto e la debole presunzione di pericolosità che lo sosteneva, sono state accolte da un coro di sdegno che, dai magistrati ai politici, dai giornalisti agli opinion leader più impegnati su mafia e terrorismo, è giunto fino alla gente comune. Pochi hanno compreso che quelle pronunce suonano come una sveglia per un paese che è andato via via smarrendo la simmetria tra responsabilità colpevole e sanzione, che pure distingue la democrazia dai regimi. In un quarto di secolo la pericolosità sociale è diventata la vera fonte di legittimazione dell’afflittività penale, dilagando a macchia d’olio e finendo per sostituire la prova con il sospetto. Nei codici, nella giurisprudenza e nell’opinione pubblica. Nel caso dell’ergastolo ostativo, essa è assunta con una presunzione automatica: anche se non più parte dell’associazione criminale, anche se non più in contatto con i suoi ex soci, anche se affrancato moralmente e redento, è “pericoloso” chi all’epoca dei fatti non abbia collaborato con il pm. Perché il tempo della vita per lui si è fermato per mano della giustizia. Caro Alessandro, c’è un riflesso sociale di questa ideologia giudiziaria. La si coglie per esempio nel dibattito sulla concessione del reddito di cittadinanza agli ex brigatisti, censurata dalla gran parte della stampa italiana come uno scandalo. Non ha fatto eccezione l’opinion leader che pure rappresenta il simbolo di un certo buonismo politically correct, Massimo Gramellini. Nella sua rubrica sul Corriere della Sera, intitolata “Il caffè”, ha scritto senza alcun dubbio di stare dalla parte del giusto: “Con le mie tasse preferirei che si finanziassero le vittime, non i carnefici, compresi quelli che si atteggiano a vittime”. “E allora dite che un’assassina può morire di fame, lei e tutta la sua stirpe”, gli ha risposto dalle colonne del Foglio Massimo Adinolfi, costretto ad ammettere un’amara realtà: “Nessuno ha il coraggio di sostenere che un aiuto economico a una persona agli arresti domiciliari e con due figli a carico non è affatto una cattiva misura. Non si trova uno straccio di parlamentare, ma neanche un magistrato, che prenda in faccia il vento dell’impopolarità e dica: forse è giusto, forse ha senso, forse può servire”. Chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero unico che racconta il nostro tempo. Caro Vittorio, mi chiedo perché questo accada. Perché la giustizia, debordando dai limiti della sua umana finitezza, è diventata la più grande leva di risarcimento sociale che la democrazia italiana conosca. Tu calchi le aule dei tribunali e della Cassazione, ma frequenti anche da docente e da giurista quelle universitarie, dove si fa la dottrina e dove migliaia di studenti si formano alla conoscenza e al sentire di ciò che davvero è legge. Com’è accaduto che il tuo sapere abbia smesso di portare la sua saggezza e il suo equilibrio nella società? Com’è accaduto che una parte di esso si sia piegato alla tentazione di usare questa potenza simbolica, che l’idea di giustizia porta con sé, per fini che con la giustizia hanno poco a che vedere, e un’altra parte se ne sia stata rannicchiata in un’astensione prudente e rassegnata, rinunciando a sfidare il senso comune? Ricordo che, ormai quarant’anni fa, quando incontrai il diritto penale in un’aula dell’Università di Bari, la prescrizione era anzitutto una risposta dell’ordinamento al divenire della condizione umana, per la quale si cambia nel tempo. Lo era stata, del resto, anche per quei giuristi fascisti che pure con il codice Rocco avevano fatto strame delle garanzie. La progressiva perdita dell’interesse punitivo da parte dello stato e la progressiva diluizione dell’allarme sociale destato dal reato erano in relazione potenziale con l’idea che, dietro l’imputazione del “reo”, c’è sempre la condizione unica e irripetibile di un uomo. Che potrebbe non essere domani ciò che è stato ieri. Tanto da rendere la funzione rieducativa della pena non solo inattuale, perché la rieducazione in ipotesi potrebbe essersi già compiuta, ma addirittura controproducente, poiché disincentivante rispetto al recupero della legalità. Chi oggi ancora ragionasse, tenendo questi punti fermi nel dibattito pubblico, si sentirebbe come un marziano, dovendo constatare un ribaltamento radicale del ruolo della prescrizione. Il cui stop finisce per diventare il rimedio di un sistema malato e al tempo stesso la sua fonte di legittimazione, secondo un paradigma di questo tipo: la propaganda giustizialista proietta e amplifica nella società una domanda di giustizia risarcitoria che essa stessa non può soddisfare. Nello iato che si apre tra le aspettative di giustizia crescenti e la limitatezza delle risposte che il sistema può fornire, l’imprescrittibilità rappresenta la garanzia di un’afflittività compensativa. Che eterna l’azione penale in chiave punitiva e dimostra che, in qualche modo, il giustizialismo ha una sua ragione di esistere. Perché dispone di una pena accessoria che, di fronte alla macchina ingessata dell’ordinamento giudiziario, ai suoi ritardi, alle sue asimmetrie e ai suoi privilegi, restituisce al processo la funzione di giusta pena che ogni ideologia giustizialista da sempre gli assegna. Sul presupposto che, a prescindere da una condanna, tutti siamo potenzialmente colpevoli. Si compie così il paradosso per cui la giustizia diventa la più potente macchina di dolore umano non giustificabile. Mi chiedo e ti chiedo, Vittorio, era ineluttabile che ciò accadesse? Caro Alessandro, le cose stanno esattamente come tu le descrivi, nostro malgrado. Il diritto penale, da tempo esposto ai venti della politica, nell’età del populismo sta subendo una regressione illiberale e autoritaria, dove la pena viene ormai intesa come autentico strumento di vendetta sociale, una risposta truculenta e cieca disancorata da ogni istanza di razionalità e da ogni equilibrio di proporzionalità e, purtroppo, sempre più distante da ogni afflato di umanità. Ti sei accorto della degenerazione del discorso pubblico, su questi temi? Se il lessico della politica si è ormai ridotto a cinquanta parole, quello della politica in materia penale ne conta ancora meno: punire ancora, punire di più, certezza della pena intesa come certezza del carcere, carcere inteso non come luogo di recupero o di risocializzazione del reo - come impone la nostra Costituzione - ma come luogo di marcescenza del colpevole. Le reazioni veementi dopo la pronuncia della Corte costituzionale sull’illegittimità dell’ergastolo ostativo ne sono triste testimone. E in questo vocabolario asfittico e truce si riaffacciano persino pene inumane e degradanti, come la castrazione chimica, nella civilissima Europa dell’illuminismo giuridico, e nell’Italia di Beccaria. Il dibattito attuale sulla riforma della prescrizione si iscrive esattamente in questo contesto, avanzando a colpi di slogan, con la consueta banalizzazione che incalza ogni riforma trainata da questa forma di “oclocrazia punitiva”, o sospinta dal “sano sentimento dei social network”, o dalla Procura della repubblica di Facebook. Il vessillo che accompagna questa rutilante “campagna morale” ha le sembianze accattivanti della lotta all’impunità, e del sostegno alle vittime del reato. Argomenti indubbiamente suadenti, che offrono un altare su cui si è disposti a sacrificare diritti e garanzie secolari, consegnando “all’ergastolo processuale” chi ha la ventura di capitare sotto il radar della giustizia penale. Se questa riforma entrerà in vigore, gli indagati e imputati - anche chi paradossalmente è stato assolto in primo grado - saranno “imputati per sempre”, “eterni giudicabili”: trattati di fatto come “presunti colpevoli” giacché li si abbandona alla morsa punitiva dello stato senza termine. Il modello sembra quello di una giustizia infinita, con pretese assolutistiche, simile alla giustizia divina, non certo alla giustizia degli uomini: fiat iustitia et pereat mundus. Chissà se di questo passo arriveremo a riesumare il processo ai defunti, come nel Medioevo. Come sai, contro la riforma della prescrizione si è schierata, unanime, non solo la maggioranza degli avvocati penalisti italiani, ma anche numerosissimi e autorevoli professori di diritto, anche non penalisti, e molti magistrati, altrettanto autorevoli e rappresentativi. Ma la riforma va avanti, imperterrita, con l’incedere cieco che solo il sonno della ragione può spiegare. Poco importa, infatti, misurare questa soluzione - l’imprescrittibilità di fatto dopo la sentenza di primo grado, di condanna o anche di assoluzione - con l’attuale condizione di cancrena della giustizia penale italiana, dove i diversi gradi di giudizio si misurano in anni - spesso molti anni - e non in mesi, come nei restanti paesi europei. Poco importa se questa ricetta non si addice a un paese dove già si punisce moltissimo, perché i reati vigenti sono diverse decine di migliaia, e dove si persegue moltissimo, perché centinaia di migliaia sono le persone sottoposte a indagine, che dopo la sentenza di primo grado resteranno - da domani - eterni giudicabili. Poco importa se una simile riforma sbilancerà gli equilibri dello stato di diritto, destabilizzerà le sue conquiste liberali, emancipando la pretesa punitiva dello stato da ogni limite, e trasformando i cittadini in sudditi di un Leviatano che può disporre sine die delle loro vite, assoggettandole a sequestro processuale sine die. Poco importa, anche, se questa riforma non risolverà il problema che si prefigge di curare, visto che la stragrande maggioranza delle prescrizioni - oltre il 70 per cento - si “consumano” in primo grado, e di queste la più parte nella fase delle indagini preliminari. Poco importa, ancora, se le Corti d’appello - già oggi vessate da un carico abnorme - rischieranno il collasso, investite da un numero di procedimenti non più filtrato da quello che, oggi, è l’unico meccanismo deflattivo di una qualche significatività. Poco importa, infine, se questa riforma non soddisferà le richieste di giustizia delle vittime, né le loro pretese risarcitorie, perché il presumibile allungamento dei tempi processuali non darà le risposte celeri e certe che chi subito un reato e patito un danno giustamente e doverosamente si attende. Caro Vittorio, è proprio sulla tempistica che la riforma mostra il suo volto propagandistico e scopre le bugie che l’accompagnano. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado dovrebbe impedire ai corruttori, rei per antonomasia del processo mediatico, di farla franca lucrando l’impunità sulle lunghezze della causa, con una tattica dilatoria attribuibile ai difensori. La casistica della prescrizione, che riguarda il 10 per cento dei processi, dimostra invece che l’estinzione del reato per decorso del tempo dipende dall’inefficienza della risposta giudiziaria. Anzitutto perché, come tu giustamente fai notare, nella maggior parte dei casi la prescrizione interviene nella fase delle indagini preliminari, prolungatesi in misura abnorme, e comunque prima della sentenza di primo grado. In secondo luogo perché essa è inversamente proporzionale alla capacità organizzativa di tribunali e corti. A questa conclusione è giunta un’indagine conoscitiva, ampiamente ignorata, commissionata dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando quattro anni fa e condotta dal capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, Mario Barbuto. Lo studio partiva da una domanda: perché alcuni tribunali hanno performance buone e altri no? La risposta che è giunta dall’analisi dei dati sfata la vulgata che fa corrispondere più prescrizioni a organici carenti di giudici e cancellieri: ci sono buone performance in tribunali con crisi di personale e pessime performance in tribunali che sono quasi a regime. Vuol dire che non c’è una corrispondenza biunivoca fra carenza di risorse e deficit di risposta giudiziaria. Allo stesso modo non esiste relazione tra performance e indice di litigiosità, che stima in un dato territorio la percentuale delle cause per ogni 100.000 abitanti. Ci sono tribunali in cui la litigiosità è molto alta con ottime performance, altri dove è bassa con pessime performance, e viceversa. Vuol dire che l’accumulo di prescrizioni è diretta conseguenza solo del modello organizzativo degli uffici giudiziari. “La chiamano leadership - disse Barbuto nella sua audizione parlamentare -, è una parolaccia che ai miei colleghi e a tutto il mondo dalla magistratura non piace per niente. Possiamo chiamarla anche in un altro modo, ma in ogni caso intendiamo la capacità di organizzazione”. C’è poi uno studio dell’Università Statale di Milano, pubblicato sul sito lavoce.info, che sfata un altro luogo comune: e cioè che la velocità sia nemica della qualità delle sentenze. La ricerca mette a raffronto la durata media delle cause in tutti i tribunali italiani con il cosiddetto tasso di riforma, e cioè la percentuale di pronunce riformate tra il primo grado e l’appello, e tra l’appello e il giudizio di Cassazione. Tale indice è assunto come misura inversamente proporzionale della fondatezza e della qualità dell’offerta giudiziaria: più è basso, più sono le sentenze inattaccabili e, quindi, migliori. La sorpresa viene dal fatto che l’indice non è in relazione con la velocità dei processi. Tant’è vero che due tribunali molto diversi come Trento, primo per rapidità delle pronunce, e Salerno, ultimo nella medesima classifica, hanno lo stesso tasso di sentenze riformate. Vuol dire che si possono fare processi rapidi, lavorando con efficienza e scongiurando l’aumento delle prescrizioni. Che, perciò, non sono in relazione con la tattica dilatoria dei difensori, ma piuttosto con l’efficienza dei singoli magistrati e dell’intero sistema giudiziario. A questo punto fermare il tempo della prescrizione, anziché affrontare le vere cause che la originano, significa voler ignorare la realtà e scaricare tutti i mali della giustizia sull’imputato. Che resta, a prescindere dalla sua presunta innocenza o, piuttosto, dalla sua stessa colpevolezza, il soggetto più debole del sistema. Non ti pare, caro Vittorio, che la riforma mascheri dietro la propaganda giustizialista il più feroce, ancorché subdolo, autoritarismo? Caro Alessandro, anche qui sono, per la gran parte, d’accordo con le tue osservazioni. Aver anteposto l’entrata in vigore del “blocco” della prescrizione alla riforma del processo, che ne dovrebbe assicurare la durata ragionevolmente breve, è una inversione di metodo davvero sorprendente - per usare un eufemismo - sul piano logico e assiologico. È incongrua sul piano logico, perché si pospone la risoluzione della patologia principale - ossia la irragionevole durata dei processi - all’eliminazione di quello che oggi, nostro malgrado, rappresenta l’unico antidoto di sistema, ossia la prescrizione dei reati dopo che l’imputato è rimasto per molti anni “in attesa di giudizio”. Ed è un assurdo sul piano assiologico - ossia sul piano dei valori - perché è come chiedere ai cittadini una liquidazione anticipata dei loro diritti - quasi a mò di caparra - a fronte della contro-promessa che un giorno, forse, questa quota di diritti gli sarà restituita in altra forma. Il tutto “salvo intese”, ovviamente. Si pensi a una macchina dotata di un motore potentissimo, perché tale è il potere punitivo dello stato, “una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello stato-apparato” - per usare le parole della nostra Corte costituzionale - capace di porre “perennemente in soggezione l’individuo” (sentenza n. 200 del 2016): di fronte a questa macchina ultrapotente, oggi si chiede di eliminare l’unico freno rimasto a tutela dei cittadini e dei loro diritti dicendo che un giorno, forse, saranno introdotti limiti di velocità, o sarà depotenziata la cilindrata del motore. Pazienza se intanto chi sarà imputato per un qualsiasi reato - che alla fine potrebbe risultare colpevole ma anche innocente, e che si presume tale sino a sentenza definitiva - sarà costretto a salirci sopra, provando l’ebbrezza di un processo senza fine, anche se è stato assolto in primo grado. A questo riguardo, anche l’argomentazione secondo la quale gli effetti di questa riforma illiberale si produrranno solo tra alcuni anni - che suona quasi come una excusatio non petita - appare davvero risibile, e rappresenta uno dei tanti “falsi miti” che aleggiano su questo tema. Come ha scritto Oliviero Mazza, infatti, non la penserà così chi verrà arrestato il 1° gennaio 2020, e sarà processato per direttissima il giorno dopo: assolto o condannato, dal 2 gennaio 2020 l’eventuale giudizio di impugnazione cadrà nel limbo degli eterni giudicabili. Con buona pace anche dell’altro slogan, secondo il quale la prescrizione sarebbe un salvacondotto per gli imputati “furbi” che hanno maggiori possibilità economiche, e un espediente nelle mani dell’avvocato “chicaneur”: peccato che il rinvio chiesto per un impedimento dell’avvocato, se concesso, è disposto a prescrizione sospesa. Hai ragione, dunque: la riforma del processo penale, dei suoi tempi e di molte disfunzionalità che attualmente lo caratterizzano, dovrebbe essere non solo la priorità, ma la condicio sine qua non per affrontare secondo ragionevolezza il tema della prescrizione. E in questa prospettiva le rilevazioni su efficienza organizzativa, sul rapporto tra produttività dei diversi uffici e qualità delle sentenze - pur con tutta la cautela necessaria - dovrebbero essere considerate con attenzione. Ricordando che anche la giustizia penale è un servizio, e la sua efficienza si misura sempre, anche, dalla capacità di creare valore pubblico, e dalla fiducia che in questo servizio e in chi lo amministra ripongono i cittadini. Oggi i dati statistici dicono che questa fiducia, in Italia, sia ai minimi storici, con percentuali tra le più basse nel contesto europeo: e solo uno sguardo miope e demagogico può pensare di accrescerla eliminando, di fatto, la prescrizione. Così la tecnologia ha reso inutili il processo e il ruolo della difesa di Pieremilio Sammarco* Il Tempo, 16 dicembre 2019 Intercettazioni, esami del Dna, informatica: ormai le prove si formano prima del dibattimento. Il processo giudiziario dei nostri giorni è profondamente mutato rispetto a ciò che è stato sino alla fine del secolo scorso. Il primo ventennio del nuovo secolo ci ha consegnato una rappresentazione del tutto diversa della forza punitiva della legge e del suo braccio giudiziario. Oggi pressoché tutti i casi processuali portati all’attenzione dei media ci raccontano che l’iniziativa giudiziaria si avvia dopo che l’attività investigativa ha prodotto una mole di documentazione probatoria basata principalmente sull’impiego della tecnologia: si pensi alle intercettazioni telefoniche e ambientali attuate con le più sofisticate e agguerrite tecniche che non risparmiano nemmeno un sospiro del controllato di turno. Telecamere potentissime e invisibili installate in luoghi pubblici o uffici, cimici posizionate nelle automobili, nelle abitazioni o nei luoghi di ritrovo dei soggetti controllati, microfoni che si attivano a distanza che registrano conversazioni anche lontane, che consegnano alla preistoria le apparecchiature utilizzate ai tempi di Mani Pulite (si pensi alle grottesche intercettazioni del bar Mandara di Roma nel 1996). Oltre a questi dispositivi, si utilizzano sempre più frequentemente programmi software che si inseriscono nei computer degli indagati per trasferire agli agenti di polizia giudiziaria tutto ciò che è registrato o custodito al suo interno; vi è la possibilità tecnica di superare qualunque blocco o password inseriti dal proprietario del dispositivo, computer o cellulare che sia e di risalire, con l’ausilio di perizie tecniche, al contenuto di conversazioni e perfino di sapere quali pagine web sono state visitate in precedenza dall’utente. Nemmeno il principio della segretezza e inviolabilità della corrispondenza, riconosciuto come una delle libertà fondamentali dell’individuo, è salvo: secondo la Cassazione, l’e-mail, cioè la posta elettronica che tutti noi inviamo e riceviamo, nonostante si chiami appunto “posta elettronica”, non è qualificabile come corrispondenza ma è considerata un documento e come tale oggetto di apprensione e di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria e quindi fonte di prova. La tecnologia si utilizza anche per compiere esami su materiale genetico per ricavare il Dna di un soggetto indagato quale prova definita scientificamente inoppugnabile; e accade anche che queste analisi, così rilevanti ai fini del decidere, vengano effettuate senza contraddittorio, cioè senza la presenza di un perito di parte nominato dalla difesa, come nel caso Bossetti. Grazie a tutti questi potentissimi strumenti della tecnica, quando si chiudono le indagini, l’accusa ha costituito una tale mole di prove (intercettazioni, fotografie, filmati, documenti, corrispondenza, Dna) che il dibattimento, unico luogo che in base alle disposizioni processuali è deputato alla formazione della prova in giudizio, diventa un orpello inutile. E la difesa dell’imputato non ha i mezzi per contrastare ciò che viene prodotto a carico del suo assistito e, per dare un senso al suo ruolo, finirà per limitarsi a consigliare il patteggiamento, un rito abbreviato, o ad aiutare l’accusa a individuare altri correi per ottenere uno sconto di pena. Il processo, inteso nella sua fase dibattimentale, oggi ha perso il suo significato: tutto è già evidente e compiuto agli occhi del giudice e l’attività difensiva viene considerata priva di interesse ed allora, in quest’ottica, si comprendono anche le sconcertanti parole di qualche ex magistrato che propone l’abolizione del grado di appello, tanto ormai tutto si consuma nelle indagini preliminari dove la giustizia assume la fisionomia di un Leviatano, la mitologica e terribile creatura dalla spaventosa ed inarrestabile potenza. *Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo Berlusconi parla di garantismo, ma a me sembra più una richiesta di impunità per i ricchi di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2019 Presentando la segreteria regionale di Forza Italia a Milano, Silvio Berlusconi parla di giustizia penale con i toni del garantista. Ma il suo non è - e non è mai stato - autentico garantismo. Il garantismo è una filosofia penale nobile, che ha le proprie radici in Cesare Beccaria e, più di recente, nelle opere di Luigi Ferrajoli. Il garantismo costituzionale e penale è una forma di protezione dei deboli dai forti. È un modo di intendere il diritto penale quale protezione della persona dai poteri selvaggi. Il garantismo si fonda sull’uguaglianza vera, profonda, autentica delle persone di fronte alla legge, nonché sulla loro protezione dallo Stato. Il finto garantismo berlusconiano ha inquinato il discorso pubblico sulla giustizia per un paio di decenni, impedendo un dibattito equilibrato. Non era garantismo, ma previsione di ipotesi di impunità per i più protetti, per i già garantiti. Sostanzialmente era una richiesta di immunità penale per i ricchi e di severità per i poveri, i tossicodipendenti, gli immigrati, i già esclusi. La legge Cirielli - detta “salva-Previti” e al tempo qualificata anche come “ammazza-Gozzini” - approvata ai tempi di Berlusconi al potere era il manifesto di una tale idea di giustizia di classe. Venne a codificare una doppia giustizia: da un lato quella inefficiente, lenta, colma di garanzie procedurali, inefficace nei confronti dei colletti bianchi. Dall’altro una giustizia inesorabile, rapida, inclemente, senza speranza per i poveracci. Il discrimine era il reddito. A seconda delle disponibilità economiche, dell’appartenenza a una classe sociale o della provenienza geografica, erano previsti processi differenziati e modalità di carcerazione più o meno dure. Oggi, come in quel 2005, le carceri sono piene di persone nei confronti delle quali il processo è rapido, duro, inclemente. Siamo a 61mila detenuti, con un tasso di affollamento di circa il 120%. Oggi Berlusconi cita gli Stati Uniti d’America quale modello cui riferirsi. Non un buon modello, se si ha a cuore il garantismo. Quello vero, quello democratico, quello costituzionale, quello solidale. Gli Stati Uniti presentano uno dei tassi di detenzione più alto al mondo: 700 detenuti ogni 100mila abitanti, un tasso sette volte superiore a quello italiano. La maggior parte dei detenuti proviene dalle periferie urbane, con una sovra-rappresentazione sociale di neri e ispanici che non hanno soldi per pagare qualunque tipo di cauzione. Quest’ultima è un’opportunità per soli ricchi. Codifica, sin dall’inizio della vicenda penale, una differenza di trattamento in base al censo. Tutto ciò premesso, rimane il fatto che all’interno del modello garantista, quello autentico e pulito da opportunismi personali, la custodia cautelare in carcere deve restare un’opzione residuale, eccezionale. Il processo deve essere pronto, rituale e scandito da tempi certi. La prescrizione non deve rincorrere i tempi delle inefficienze processuali ma deve essere funzionale a mettere la parola fine alla giustizia, che non può durare in eterno. Dunque, non è allungando all’infinito i tempi della prescrizione che si rende un buon servizio alla giustizia. Anzi. Ci sono tuttavia delitti che per propria natura necessitano di tempi più lunghi di prescrizione. Penso ai crimini dei potenti, alla corruzione e anche alla tortura. Non di rado accade che la denuncia della persona torturata possa avvenire solamente quando essa non si trova più nelle mani dello Stato (o che un meccanismo di corruzione emerga solo con un cambio al potere). Non è un caso che il diritto internazionale richieda che i crimini contro l’umanità, ivi compresa la tortura, siano imprescrittibili. Il diritto penale deve funzionare da scudo per i meno garantiti. Il modello americano, evocato da Berlusconi, ha prodotto l’internamento di massa dei poveri. Non è un modello garantista, nel senso costituzionale del termine. *Coordinatrice associazione Antigone Cartabia, giurista europea di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 dicembre 2019 I commenti alla elezione di Marta Cartabia a presidente della Corte costituzionale hanno prevedibilmente e giustamente sottolineato il fatto nuovo - la prima volta - della presidenza di una donna. Tuttavia la professoressa Cartabia non è stata eletta perché donna o nonostante sia donna. Le ragioni della sua elezione vanno cercate nel prestigio che le qualità sue e del suo lavoro le hanno assicurato tra i colleghi giudici della Corte. Si comprende allora che vi siano stati anche commenti che si sono concentrati sul suo profilo professionale e personale. Quei commenti meritano a loro volta di essere commentati. È stata richiamata l’alta qualità del suo profilo di giurista, costituzionalista di impronta internazionale, caratterizzata per il continuo impegno nello studio dei diritti umani, capace di mobilitare attorno a sé l’interesse di molti studiosi della materia. E quindi, naturalmente, con forte carattere europeo. Accanto a ciò che riguarda la sua professionalità, alcuni commenti si sono addentrati sul piano personale, indicando che la nuova presidente è cattolica. E noto infatti il suo appartenere al mondo cattolico e il suo condividere il complesso di valori che in quell’ambito di manifestano. Non è priva di interesse l’attenzione che è stata data a questo elemento, che si potrebbe pensare appartenga solo al privato della persona. Ogni giudice è ovviamente portatore di idee, partecipa a gruppi e comunità che si ritrovano attorno a valori, giudizi, programmi, speranze relative alla cosa pubblica. L’idea del giudice neutro, vuoto di idee è fuori della realtà. Ed è pericolosa perché nasconde la verità. Una verità non negativa, ma anzi capace di arricchire il confronto di idee attorno a questioni così cariche di rinvii a valori sociali ed etici, come sono quelle che spesso affrontano i giudici. I giudici ordinari come i giudici costituzionali. Con un limite ovvio, che ogni posizione culturale, politica, religiosa sia-accompagnata da quella tolleranza per le opinioni diverse, che consente di mantenere e rendere vive società pluraliste come quella italiana e quelle europee. Per i giudici poi opera sempre il metodo giuridico dell’argomentare e motivare le soluzioni che essi adottano o propongono ai colleghi del collegio giudicante. Vi sono regole e limiti che sono propri del ragionamento giuridico nel trattare le leggi scritte e i precedenti. Quelle regole e quei limiti fanno sì che le sentenze si distinguano da ogni altra decisione che sia assunta dai poteri pubblici. Esclusi dunque gli estremismi, i settarismi ideologici, per natura loro intolleranti, la varietà di posizioni è un dato che merita apprezzamento non solo nella società, ma anche tra i giudici. Ed anzi, quando si tratta dei diritti e delle libertà delle persone, hanno particolare pregio le posizioni minoritarie. Poiché, in materia, sono le minoranze ad avere particolare bisogno di tutela. Della nuova presidente della Corte costituzionale è stata anche indicata la netta impronta europeista che emerge dai suoi studi. Si tratta di un carattere naturale, in un Paese da oltre mezzo secolo membro dell’Unione europea e da millenni artefice della cultura e della storia d’Europa. Quando si tratta dei diritti e delle libertà, un dato significativo della (irreversibile) unità europea è l’irrilevanza delle frontiere statali. Le opinioni che si confrontano su tanti temi, spesso molto sensibili, non hanno un carattere nazionale. Ho avuto la possibilità di constatarlo alla Corte europea dei diritti umani, ove tra un giudice e l’altro emergono sintonie e comuni sentire, che riflettono appartenenze culturali che poco o nulla derivano dalla nazionalità del giudice. Il lavoro che i giudici svolgono nella camera di consiglio serve a confrontare e armonizzare le opinioni diverse. Così giudici laici di inclinazione illuminista o cattolici, cristiani riformati o ortodossi, ecc., espressione tutti di importanti elementi della storia e della attualità europea, si parlano e lavorano insieme. E nel dialogo, con tolleranza e reciproco rispetto, superano deleteri conflitti. Alla luce della sua apertura europea, quasi si volesse però suggerirne una posizione di parte, l’aver segnalato l’orientamento cattolico non restringe quindi il respiro culturale della presidente. Si tratta di uno dei fondamentali filoni della storia d’Europa, che, insieme agli altri, la rende ricca e speciale. Tenuità del fatto: per applicare la non punibilità il giudice è tenuto a motivare di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 12 ottobre 2019 n. 42892. In tema di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. Lo stabilisce la Cassazione con la sentenza n. 42892 del 2019. Ai fini dell’apprezzamento circa l’applicabilità dell’articolo 131-bis del codice penale, ha osservato la Corte in parte motiva, occorre accertare, tra l’altro, che il fatto illecito non abbia generato un contesto concretamente e significativamente dannoso con riguardo al bene tutelato dalla norma incriminatrice. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede, dunque, una valutazione complessa in relazione alle modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo e richiede una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità del caso concreto. Proprio sulla base di queste premesse, la Cassazione ha annullato con rinvio per difetto di motivazione la sentenza di non doversi procedere per il reato di lesioni conseguenti a infortunio sul lavoro addebito al datore di lavoro motivata sulla scorta del concorso causale della vittima, del permanere di conseguenze invalidanti limiate (8% tabella Inail), del lieve grado della colpa, desumibile anche dalla circostanza dell’ottemperanza all’adeguamento di sicurezza e dell’intervenuto risarcimento. Secondo la Corte, infatti, in tal modo, il giudicante, da un lato, si era limitato a evidenziare elementi privi dì particolare rilevanza rispetto alla valutazione richiesta ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale - quali il concorso causale della vittima, la sopravvenuta ottemperanza all’adeguamento di sicurezza e l’intervenuto risarcimento del danno - e, dall’altro aveva apoditticamente affermato il permanere di conseguenze invalidanti “limitate” e ritenuto “lieve” il grado della colpa, senza adeguatamente spiegare da quali elementi tratti dal caso concreto oggetto di giudizio derivassero valutazioni di questo tipo in ordine alla esiguità dell’offesa arrecata alla vittima in conseguenza dell’infortunio. L’attenuante della minore gravità nei reati sessuali. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2019 Reati contro la persona - Reati sessuali - Fattispecie di minore gravità - Valutazione giudiziale - Parametri. Nell’ambito delle ipotesi di reati sessuali (sia in quelle di atti sessuali con minori di cui all’art. 609-quater c.p., come pure in quelle di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.), le fattispecie di minore gravità, soggette a più mite trattamento sanzionatorio, sono valutate dal giudice del merito che procede ad un apprezzamento globale del fatto, in cui rilevano i mezzi, le modalità di esecuzione, il grado di coartazione esercitato sulla vittima del reato, le condizioni fisiche e psicologiche della stessa, anche in relazione all’età. La natura globale del giudizio non implica una valutazione di tipo compensativo tra tutti gli elementi positivi e negativi, ma presuppone che la minore gravità sia accertata in riferimento a tutti gli elementi della fattispecie, sì da essere esclusa per la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 27 novembre 2019 n. 48184. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà personale - Violenza sessuale - In genere - Atti sessuali con minorenne - Attenuante della minore gravità - Criteri di valutazione - Giudizio di merito - Sindacato di legittimità - Esclusione. In tema di atti sessuali con minorenne, ai fini del riconoscimento dell’attenuante della minore gravità prevista dall’art. 609-quater, comma quarto, cod. pen. compete al giudice di merito, con valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità, determinare quale sia il grado di compressione del bene giuridico, comparando tra di loro gli elementi negativi e positivi, con riferimento al grado di coartazione esercitato, alle condizioni psicofisiche, in relazione all’età e al danno anche psichico arrecato al minore. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 ottobre 2018 n. 48377. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà personale - Violenza sessuale - In genere - Atti sessuali con minorenne - Riconoscimento dell’attenuante della minore gravità - Rilievo di condotte successive al compimento degli atti sessuali - Esclusione. In tema di atti sessuali con un minorenne, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-quater, quarto comma, cod. pen., deve farsi riferimento alla valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età; non è, pertanto, ostativa a tal fine la condotta violenta tenuta dall’imputato dopo la consumazione del reato, trattandosi di condotta successiva al compimento degli atti sessuali in quanto tali. (In applicazione del principio la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di merito che avevano ritenuto ostativa al riconoscimento dell’attenuante la circostanza che l’imputato, alcuni giorni dopo il compimento degli atti sessuali, aveva tentato di sottrarre la minore alla madre con violenza, nonostante l’assenza di costrizione fisica nel compimento degli atti sessuali e l’esistenza di un iniziale consenso della vittima, divenuto stabile nell’ambito di una relazione duratura con l’imputato). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 ottobre 2017 n. 46461. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà personale - Violenza sessuale - Atti sessuali con minorenne - Attenuante della minore gravità - Parametri di valutazione - Relazione sentimentale con la vittima - Rilevanza ai fini del diniego dell’attenuante - Sussistenza - Ragioni. In materia di reati sessuali con minorenne, ai fini del riconoscimento dell’attenuante per i casi di minore gravità, di cui all’art. 609-quater, comma 4, cod. pen., costituisce elemento negativo di valutazione la circostanza che gli atti sessuali si inseriscano nell’ambito di una “relazione amorosa” con il minore, essendo tale situazione indice, da un lato, di una sostanziale prevaricazione ai danni della vittima e, dall’altro, della ripetizione degli atti sessuali per un considerevole lasso di tempo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 14 luglio 2017 n. 34512. Bari. “Collegamail”, comunicazioni più rapide per i detenuti di Giuseppe Abbatepaolo* gnewsonline.it, 16 dicembre 2019 Per i detenuti della Casa Circondariale di Bari corrispondere con l’esterno del carcere sarà ora più veloce. Il progetto “Collegamail” permetterà infatti di inoltrare e ricevere entro ventiquattr’ore e su un unico indirizzo di posta elettronica le comunicazioni che quotidianamente sono scambiate dalle persone recluse con l’esterno. Nata col supporto del Garante regionale dei detenuti, l’iniziativa si ripromette di tutelare il diritto alla comunicazione costituzionalmente garantito e ridurre la distanza del detenuto con la comunità di appartenenza: quindi non soltanto con la famiglia e con gli affetti più cari, ma anche con gli avvocati difensori e qualunque altro soggetto pubblico o privato ritenuto meritevole d’interesse. Il progetto, che sarà curato dalla società cooperativa “Radici Future Produzioni”, è stato presentato mercoledì scorso a Bari, nella sede della Presidenza della Regione Puglia, da Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, insieme a Leonardo Palmisano, presidente della cooperativa, Valeria Pirè, direttricee della Casa Circondariale di Bari, Guglielmo Starace, presidente della Camera Penale, e Pietro Rossi, garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. La convenzione stipulata tra la società di gestione del progetto con la Direzione dell’istituto barese e il Provveditorato regionale di Puglia e Basilicata, prevede un periodo sperimentale di sei mesi, potendo comunque già vantare il ragguardevole primato di porsi come capofila del genere in un carcere del Meridione d’Italia. Il provveditore Martone ha sottolineato che destinatari del servizio sono “tutti i detenuti di media sicurezza che, tramite la sottoscrizione di un abbonamento, potranno mantenere vivi i contatti con la famiglia e interloquire con la società esterna, i difensori, i medici, ecc. Il mondo della comunicazione globale ha abbattuto tutti i confini e allora perché, con la giusta attenzione ai presidi di sicurezza, non offrire questa possibilità anche alle persone private della libertà personale?”. Per la direttrice Pirè “questa possibilità concessa alla persona reclusa non può che lenire e alleviare il momento dell’isolamento nella struttura carceraria, testimoniato dal fatto che per lo più la corrispondenza è costituita da “lettere d’amore” che, al pari dei libri con poesie d’amore, allentano le tensioni e permettono ai ricordi di riaffiorare, sia pure in maniera mediata”. Il servizio sarà attivo dal lunedì al venerdì e consentirà di recapitare grazie a “Collegamail” la corrispondenza da e verso il carcere entro 24 ore con la scansione delle lettere dei detenuti scritte a mano di proprio pugno e variamente indirizzate ai propri centri d’interesse. *Referente per la comunicazione del Provveditorato Puglia e Basilicata Firenze. Riscaldamento guasto a Sollicciano, da Regione e Misericordie 400 coperte toscana-notizie.it, 16 dicembre 2019 Quattrocento coperte inviate da Regione e Misericordie per alleviare il disagio dei detenuti del carcere di Sollicciano a Firenze, a causa di un guasto all’impianto di riscaldamento. L’iniziativa del presidente della Regione Enrico Rossi, che si attivato assieme alla Protezione civile regionale e la Alla federazione Regionale delle Misericordie della Toscana. “Duecentocinquanta coperte arriveranno grazie alla Protezione civile regionale ha detto Rossi e altre centocinquanta dalle Misericordie, grazie all’interessamento del presidente Corsinovi. Sappiamo tutti qual la situazione di disagio che vivono i detenuti nella maggior parte delle strutture penitenziarie italiane per cui ci chiediamo cosa stia facendo il ministro Bonafede per migliorare una situazione molto delicata, essendo, Sollicciano come il resto delle carceri italiane, strutture che ricadono nella sua competenza”. Il presidente Rossi ha inoltre annunciato che sabato prossimo, 22 dicembre, far visita al carcere fiorentino insieme al garante regionale per i diritti dei detenuti Franco Corleone. Genova. “La barchetta rossa e la zebra”, nuovi spazi a misura di bambino lavocedigenova.it, 16 dicembre 2019 Inaugurazione il 20 dicembre alle 11.30 nella Casa circondariale Pontedecimo. “La barchetta rossa e la zebra”, col patrocinio del Comune di Genova, intende contrastare la povertà educativa minorile e favorire la relazione tra figli e genitori detenuti nelle Case circondariali Marassi e Pontedecimo di Genova: Inaugurazione il 20 dicembre alle 11.30 nella Casa circondariale Pontedecimo di Genova. In questi nuovi e colorati spazi i figli delle mamme detenute nella Casa circondariale di Pontedecimo potranno svolgere molte attività ludico-formative con la supervisione degli educatori, in attesa d’incontrare il proprio genitore. Contestualmente agli spazi di Pontedecimo sarà riqualificata anche la struttura San Donato nel centro storico di Genova in cui i minori, figli dei detenuti, potranno svolgere attività di doposcuola, laboratori ed altre attività ludico-formative. I lavori di riqualificazione concludono l’iter di ristrutturazione degli spazi dedicati ai minori previsti dal progetto e seguono quelli già inaugurati, lo scorso dicembre, nella Casa circondariale Marassi. È un progetto selezionato dall’Impresa sociale con i bambini, promotore e partner principale è la Fondazione Francesca Rava Nph Italia, capofila è “Il cerchio delle relazioni”; sviluppato in sinergia con l’amministrazione penitenziaria locale e le associazioni territoriali del terzo settore: la cooperativa sociale “Il Biscione”, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro medico psicologico pedagogico “LiberaMente”, Arci Genova e Ceis Genova. Durante l’inaugurazione interverranno il sindaco di Genova Marco Bucci, Luca Villa (presidente del Tribunale dei minori), Giacomo Guerrera (garante infanzia al Comune di Genova), Isabella De Gennaro (direttore Casa circondariale Pontedecimo di Genova); Martina Colombari sarà la madrina d’eccezione. Catania. Legalità e giustizia sociale, gli studenti di ricordano Francesca Morvillo di Serena Guzzone strettoweb.com, 16 dicembre 2019 A pochi giorni dall’anniversario di nascita di Francesca Morvillo, l’Istituto Regionale Francesca Morvillo organizza una giornata di riflessione sul tema, coinvolgendo gli studenti delle scuole medie di Catania. A conclusione della giornata la premiazione del concorso “Giovani speciali che muovono la scuola”. Giovani, legalità e giustizia sociale. Questi i temi al centro dell’evento “Giovani speciali che muovono la storia”, che si svolgerà domani 16 dicembre, negli spazi dell’Istituto Ardizzone Gioeni, coinvolgendo gli studenti delle scuole medie di Catania in un viaggio tra coraggio e lotta alle Mafie per ricordare la nascita di Francesca Morvillo. Unica donna magistrato ad essere uccisa nel nostro Paese, tra le prime a vincere il concorso di magistratura, Francesca Morvillo non era soltanto la moglie del Giudice Falcone ma una donna che credeva fortemente nel potere della giustizia sociale e nella battaglia contro la violenza mafiosa. “Per sedici lunghi anni Francesca Morvillo lavorò alla Procura dei minori di Palermo, entrando in contatto con tantissimi bambini, che proteggeva, ascoltava e con cui cercava di instaurare un rapporto fiduciario. Francesca lavorava affinché le carceri non si riempissero, soprattutto di minori”, dichiara Maria Isabella Di Quarto, dirigente scolastica dell’I.R.I.S.S Morvillo di Catania, promotore dell’iniziativa, realizzata in collaborazione con Fondazione Ebbene, l’associazione Unicef e con il patrocinio della Regione Siciliana e dell’Università degli Studi di Catania. “In occasione del 30° anniversario della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia - continua - il nostro Istituto ha scelto per la quarta edizione di bandire un concorso rivolto agli studenti delle scuole secondarie di 1° grado. Il tema “Giovani speciali che muovono la storia” è finalizzato a stimolare una riflessione costruttiva sull’importanza dei giovani nelle società di tutti i tempi. Molti ragazzi, infatti, hanno profondamente segnato la Storia, rivoluzionato abitudini, mentalità e mobilitato coscienze, contribuendo al progresso e al rinnovamento del loro tempo e delle epoche successive”. Gli studenti avranno la possibilità di confrontarsi, a partire dalle 9.00, con Istituzioni, rappresentanti delle Organizzazioni e testimonial sulla necessità di valorizzare il protagonismo proprio dei giovani e stimolare la loro partecipazione civica per ridisegnare una Sicilia libera. Saranno Presenti il Sindaco del Comune di Catania Salvo Pogliese, il Presidente di Fondazione Ebbene Edoardo Barbarossa, il Commissario straordinario dell’Ipab Gioeni Giampiero Panvini, i Presidenti Regionali e Provinciali dell’Unicef Vincenzo Lorefice e Ambra Picasso, il docente Antonino Terzo, che ha collaborato alla realizzazione della mostra “La Grande guerra e l’Università di Catania, la fotografa e blogger Giada Pappalardo. Ad arricchire la giornata le testimonianze della Comunità Papa Giovanni XXII e le performance musicali del Coro “Santa Venerina Pueri”, che ricorderanno Giuseppe Letizia, il primo bambino ucciso dalla mafia. In chiusura l’Assessore alla Pubblica Istruzione e madrina del concorso Barbara Mirabella e il Direttore Agenzia 17 del Monte dei Paschi di Siena, partner dell’evento, Gianluca Chiofalo, premieranno i vincitori del concorso “Giovani speciali che muovono la storia”. La giornata è uno degli Eventi Towards di “Economy of Francesco”, l’appuntamento di Assisi voluto da Papa Francesco, che riunirà 500 giovani provenienti da tutto il mondo per la costruzione di un’economia del bene comune come antidoto all’economia criminale. Siena. “Diciassette storie per diciassette Contrade”, presentazione del libro dei detenuti sienafree.it, 16 dicembre 2019 Si terrà martedì 17 dicembre alle ore 17,30, nella Sala delle Lupe di Palazzo Pubblico di Siena, la presentazione del libro scritto dai detenuti della Casa circondariale di Siena dal titolo “Diciassette storie per diciassette Contrade”. All’appuntamento, aperto alla cittadinanza, l’assessore al Sociale Francesca Appolloni, il direttore del Carcere Sergio La Montagna, il Rettore del Magistrato delle Contrade Carlo Rossi, il curatore dell’opera Michele Campanini e rappresentanti dei gruppi dei piccoli delle Contrade. La pubblicazione ispirata ai simboli araldici delle Contrade nasce grazie al supporto di Michele Campanini, professore di Lettere, che ha raccontato ai detenuti di S. Spirito cosa è, e cosa rappresenta il Palio. Un racconto avvincente quello di Campanini che ha stimolato i detenuti a regalare diciassette storie ai bambini di Siena. Fiabe che prendono spunto dagli animali dell’araldica contradaiola. “Storie fantastiche - come scrive Campanini nella prefazione - ma con richiami a Siena e alle sue tradizioni, nate da un laboratorio di scrittura iniziato per caso e durato quasi un anno, che ha portato alla creazione di racconti unici nei quali confluiscono anche culture e tradizioni lontane. Non si parla mai di Siena, ma la città in qualche modo è presente in ogni racconto. Un laboratorio di scrittura che è diventato, in parallelo, laboratorio di pittura grazie a Monica Minucci che ha dato continuità, con i colori, alle fiabe scritte, per arricchire il testo con splendide illustrazioni”. Un vero e proprio percorso di integrazione per conoscere, e quindi capire la città. “L’inclusione - come dice l’assessore Appolloni - può avvenire attraverso la conoscenza. La conoscenza della realtà dove si vive, dove si intrecciano rapporti, dove, un domani, si cercherà un’occupazione, perché lo svantaggio sociale, alla base di molte devianze, nasce proprio dalle differenze culturali che entrano in conflitto quando non si hanno gli strumenti del sapere, quelli che portano al rispetto del “diverso” e a una convivenza civile. Un ringraziamento, quindi, al direttore La Montagna per la scelta ed adozione di strategie tese alla riduzione del disagio sociale che non solo ha ricadute efficaci sui detenuti, ma anche sulla collettività tutta, perché un detenuto che ha avuto la possibilità di imparare, di apprendere, di essere informato sulle peculiarità della realtà in cui si trova a vivere, forse ha più possibilità di inserirsi e di essere accolto”. Milano. “Il mio canto libero con la Scala”, il Coro dei detenuti alla Verdi di Simone Bianchin La Repubblica, 16 dicembre 2019 Il Coro dei detenuti di San Vittore insieme ai professionisti di quello della Scala insieme per i bambini. L’appuntamento per unire le forze con la musica e col canto, per contrastare e scacciare via la povertà aiutando concretamente, è l’iniziativa benefica in programma alle 21 di domani all’Auditorium di Largo Mahler. Un coro per aiutare i bambini. L’appuntamento per unire le forze con la musica e col canto, per contrastare e scacciare via la povertà aiutando concretamente, è l’iniziativa benefica in programma alle 9 di domani sera (fino alle 23) all’Auditorium di Largo Mahler. In scena il concerto natalizio del Coro dei detenuti della Nave di San Vittore. Con 26 dei 44 carcerati (tutti uomini) che “hanno sentito il desiderio, anche l’urgenza, di fare qualcosa per chi ha bisogno”. Vivono in un reparto speciale al terzo raggio della casa circondariale, gestito da una équipe medica che si occupa delle terapie per le persone con problemi di dipendenze. Un reparto condotto, sin dalla nascita nel 2002, dalla dottoressa Graziella Bertelli, psicologa e criminologa. Anche lei si trova tra i volontari che domani cantano con quei detenuti che hanno ottenuto dal giudice il permesso di uscire. Quasi tutti italiani e tutti in attesa di giudizio. Si stanno esercitando per il concerto dall’estate scorsa, con le prove fissate ogni martedì dalle 14,30 alle 16. E si conferma il salto di qualità artistica: si esibiscono ancora assieme ai professionisti del Coro della Scala e agli attori del Macrò Maudit Teàter (sede in via Grigna 5, un attivo centro di produzioni teatrali, corsi e laboratori). Oltre alle canzoni classiche del periodo (da Jingle Bells a White Christmas, più qualcosa di lirico “Ma è una sorpresa”, dicono), la presenza degli attori si spiega con un’idea: sono chiamati a dare voce e corpo sul palcoscenico ad alcuni racconti inediti, scritti dai detenuti. A dirigere il concerto sarà Bruno Casoni, il responsabile del coro della Scala. Partecipa con trentotto suoi coristi. Ed erano stati loro, lo scorso aprile - dopo il debutto con il coro dei detenuti in occasione del saluto per “fine mandato” di Giuseppe Guzzetti come presidente della Fondazione Cariplo - a proporre di continuare l’esperienza del cantare insieme. L’ingresso domani si apre a tutte le persone che hanno lasciato la donazione per sostenere il programma QuBì - la ricetta contro la povertà infantile, stimata per i casi di oltre ventimila minori che abitano a Milano - promosso da Fondazione Cariplo. Il denaro ricavato con queste donazioni servirà per dare a molti la possibilità di andare dal dentista e potersi curare (non pochi “saltano” le cure per l’impossibilità di sostenerle”. Per ogni donazione compresa tra dieci e venti euro viene inviato un voucher per prenotare un posto al concerto “Voci fuori dal coro”; invece, per ogni donazione uguale o superiore a venti euro vengono inviati due voucher. In entrambi i casi, la serata va prenotata seguendo le indicazioni e il sito al quale collegarsi per effettuare la donazione è www.forfunding.it. Poi arriverà il ringraziamento con l’invito al concerto. Poter portare ciascuno di questi bambini dal dentista diventa concreto anche grazie agli studi dei professionisti che hanno aderito per volontariato: sono realtà non profit che si impegnano per offrire anche giornate di screening per i bambini, e lo fanno nei vari quartieri della città. Massa. Lo chef Alessandro Bandoni cucinerà il pranzo di Natale per il carcere di Vinicia Tesconi lagazzettadimassaecarrara.it, 16 dicembre 2019 Un gesto d’amore che contempla anche le persone che stanno scontando la loro pena nelle carceri. È questa la molla che ha innescato l’iniziativa “ L’altra cucina per un pranzo d’amore” ideata da Prison Fellowship Italia Onlus con la collaborazione di Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del Rns che, quest’anno, è giunta alla sua quinta edizione. L’idea è quella di regalare ai detenuti un pranzo di Natale cucinato da uno chef e servito da personaggi famosi insieme a volontari ai detenuti ed ai famigliari di quelli che vorranno partecipare all’evento. Tredici carceri da nord a sud dell’Italia, per un totale di circa duemila persone che il 18 dicembre condivideranno un momento di gioia nel più puro spirito natalizio e tra queste, per il secondo anno consecutivo ci sarà anche il carcere di Massa. Duecentocinquanta saranno i commensali del penitenziario massese per i quali cucinerà lo chef del ristorante Le Palme di Marina di Carrara, Alessandro Bandoni che ha accolto con entusiasmo l’invito fatto da Don Leonardo Biancalani e che ha risposto ad alcune nostre domande: Non è facile scegliere di fare un’esperienza come questa nel carcere: cosa l’ha spinta ad accettare? “La prima volta che visitai il carcere fu quando avevo 17 anni con la consulta studenti. Poi l’ho visitato di nuovo quando ero presidente della commissione Pari opportunità. Quando Don Biancalani mi ha prospettato questa possibilità non ci ho pensato due volte: ho detto subito sì. Anzi…all’inizio pensavo che fosse uno scherzo e non fosse vero. Ne sono stato felice perché avendo visto come può essere la vita nel carcere ho pensato che con la cucina potevo portare un sorriso a quelle persone.” Come ha formulato il menù? “Ho richiesto una riunione in carcere per sapere quanti erano gli islamici, quanti gli allergici, quanti gli intolleranti. Il mio scopo era fare un menù che potesse essere mangiato da tutti e credo di esserci riuscito al 95 per cento. Il ragù che farò sarà solo di vitella e manzo, senza maiale, per rispetto degli islamici, per chi non può mangiare il pomodoro farò un sugo in bianco e per chi non può mangiare il grano farò qualcosa di adatto ai celiaci. Poi ho voluto anche fare una cosa tipica apuana: il sugo stordellato, che di solito nella nostra tradizione si fa per il pranzo dell’Epifania accompagnando la “ bianca lasagna”. Ovviamente non posso impastare per 250 persone anche perché non saprei dove mettere la pasta, per cui ho optato per i rigatoni con il ragù stordellato. Come secondo farò la polenta con la fonduta valtellinese e una ricetta della madre del mio socio e cioè un crostone di pane passato nel latte e nella farina e poi fritto, con spinaci e carne saltati nel burro. La ricetta avrebbe anche una fetta di prosciutto sulla carne ma per rispetto degli islamici ho scelto di non metterla. Infine, il classico pandoro con la crema inglese come dolce.” Il pranzo avrà anche l’accompagnamento musicale del trio composto da Paolo Biancalani, Roberto Duma e Maurizio Marchini: armonica, voce e violino. Essendo così elevato il numero dei commensali, una parte di questi pranzerà nella mensa del carcere, oppure all’interno della propria cella, secondo la scelta di ciascuno, e una parte parteciperà al pranzo che verrà allestito nella parrocchia di Don Biancalani. La lezione di Dürrenmatt, la giustizia troppo umana non è la verità di Eraldo Affinati Il Riformista, 16 dicembre 2019 Quando scriviamo giustizia dobbiamo usare la maiuscola o la minuscola? Questa domanda, antica e moderna, resta sempre cruciale: la maschera giuridica viene di volta in volta usata come grimaldello per distruggere l’avversario di turno o quale trama tesa a ricostruire le vicende della storia contemporanea. Ma non ci vuole un filosofo del diritto per scindere il lavoro che si svolge nei tribunali da quello che avviene all’interno della coscienza di ognuno. Senza nemmeno aprire, perché ci porterebbe troppo lontano, il libro sacro delle devozioni. Cosa rappresentano le carte processuali, al di là della loro possibile strumentalizzazione? In ultima analisi e nel migliore dei casi indicano la buona intenzione umana tesa al superamento dei conflitti. A ben riflettere: un modo commovente di sistemare le cose. Chi cerchi la verità, credendo sia possibile lasciarsi alle spalle la mediazione e il compromesso, forse dovrebbe dirigersi verso l’altro mondo a cui lo spinge la saggezza popolare. Tale visione amara e sconsolata guidò la poetica di Friedrich Dürrenmatt, scomparso a Neuchâtel nel 1990. In particolare “La promessa”, riedito da Adelphi in una nuova traduzione di Donata Berra (pp.162, 15 euro) esprime, come meglio non si potrebbe, lo scetticismo e il disincanto del grande scrittore svizzero che, non senza malizia, sottotitolò questo libro, pubblicato nel 1958, Requiem per il romanzo poliziesco. Il nucleo tematico prende lo spunto da uno dei più brillanti investigatori di Zurigo, Matthäi. Personaggio indimenticabile di caparbia volontà propositiva. Chi, come lui, non si arrende all’evidenza e vuole scoprire i segreti più reconditi, è destinato a fare una brutta fine. L’esperto poliziotto aveva capito che non era stato l’ambulante von Gunten a uccidere la piccola Gritli Moser, bensì un uomo rimasto sconosciuto: la bambina lo aveva persino disegnato sul quaderno. Tuttavia, soprattutto quando l’accusato si era impiccato, nessuno aveva creduto alle fantasie di Matthäi. Gli stessi suoi colleghi lo avevano messo da parte alla maniera di un arnese inservibile. Il vecchio commissario, per mantenere la promessa fatta ai genitori della povera vittima, secondo cui prima o poi sarebbe riuscito ad arrestare il responsabile, aveva continuato le indagini da solo, arrivando al punto di comprare una stazione di benzina, stabilirsi lì e fingere di essere un semplice pensionato. Il tempo trascorse. Nel tentativo di attirare l’omicida nella trappola, il cocciuto agente non si fece scrupolo di usare come esca un’altra bambina. Il suo progetto si stava realizzando ma un incidente stradale causò la morte del vero colpevole e tutto restò nell’ombra. L’immagine finale di Matthäi farneticante, in preda al delirio senile, chiude il magnifico film che nel 2001 Sean Penn ricavò da quest’opera. È stata l’ultima straordinaria interpretazione di Jack Nicholson. In realtà le pagine conclusive del romanzo rivelano l’identità dell’assassino seriale, un mentecatto protetto dall’anziana moglie, finita anche lei all’ospizio. È come se lo scrittore, narrando l’estrema quasi inconsapevole confessione dell’anziana svanita, ci consegnasse lo scrutinio fallimentare di ogni tentativo di fare luce e chiarezza nel fondo oscuro dell’animo umano. Con tutta la nostra buona volontà, non arriveremo mai a chiudere la pratica. Resterà sempre un assurdo col quale fare i conti, una ferita da accettare, l’enigma irrisolvibile. Sembra quasi che Friedrich Dürrenmatt inizi a ragionare là dove Luigi Pirandello aveva terminato. Ancora oggi, rileggendo questo testo di stringata efficacia, si apprezza la magnifica resa degli ambienti provinciali elvetici, chiusi nella difesa della loro presunta autonomia: in questo senso la figura dell’anziano detective, la cui perspicacia non serve più a nulla, illustra con splendida persuasione stilistica l’inganno a cui sarebbero destinati tutti coloro che volessero ricavare dai propri sistemi logici un’interpretazione plausibile di ciò che accade: “La nostra ragione getta una luce insufficiente sul mondo”. Un manuale di democrazia contro l’odio e per il dialogo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 dicembre 2019 Il nuovo saggio dei coniugi premio Nobel Esther Duflo e Abhijit Banerjee invita a cercare di capire gli interlocutori per arrivare almeno a un “ragionato disaccordo”. Il Mes? Una tenzone tra “servi di Berlino” e “agenti di Putin”. I migranti? Tutti da accogliere o tutti da rispedire in Libia. L’Ilva? Futuro parco giochi o eterna distilleria di veleni... Ma quanto sappiamo davvero del meccanismo europeo di stabilità? Chi conosce il tasso di criminalità e l’apporto alla previdenza sociale determinati dalla presenza degli stranieri in Italia? Qual è il livello di produzione e di occupazione entro il quale la grande acciaieria di Taranto è sostenibile? Bisognerebbe parlarne. Magari senza strillare, in modo da ascoltare (anche) le ragioni degli altri: perché non è detto siano peggiori delle nostre. C’è un libro che, in questi tempi di reciproche scomuniche, dovrebbe stare sul comodino di ogni politico. Si chiama “Good economics for hard times” (Public Affairs 2019, in uscita da Laterza). Possiamo tradurlo con “buona economia per tempi duri”, ma potremmo chiamarlo, più semplicemente, Manuale di democrazia. L’hanno scritto i due coniugi premi Nobel Esther Duflo e Abhijit Banerjee, lei francese, lui indiano, entrambi docenti al Mit di Boston. Affronta, soprattutto in premessa, la decadenza della nostra vita pubblica. Meglio, l’eclissi di quell’elemento che di ogni democrazia è il sale: il dialogo. Il discorso pubblico, scrivono i due professori, è “sempre più polarizzato”, tra sinistra e destra è sempre più “un match di insulti” con “pochissimo spazio per una marcia indietro”. Non vi sembra di vedere scene da talk show nostrano? Non ritrovate la trincea dei famosi valori non negoziabili? Beh, se in Italia ci si picchia a Montecitorio sotto gli occhi delle scolaresche in visita, in America il 61% dei democratici vede i repubblicani come razzisti, sessisti o bigotti e il 54% dei repubblicani chiama i democratici “maligni”. Un terzo degli americani sarebbe deluso se un membro stretto della famiglia sposasse un sostenitore dell’altro partito. Ciò che ci interessa delle grandi questioni è riaffermare “specifici valori personali” (“Io sono a favore dell’immigrazione perché sono generoso”, “Io sono contro l’immigrazione perché i migranti minacciano la nostra identità”). E per supporto ricorriamo a numeri fasulli e letture semplicistiche dei fatti. La sinistra “illuminata” parla in termini “millenaristici” dell’ascesa mondiale della nuova destra, la quale ricambia i pregiudizi. I punti di vista sono “tribalizzati”, non solo sulla politica ma anche sui problemi sociali, tutte questioni che richiederebbero qualcosa più di un tweet. Scrivono Duflo e Banerjee: “La democrazia può vivere con il dissenso finché c’è rispetto da entrambe le parti”. Infatti, il virus discende aggressivo dai politici ai loro supporter. Lo scrittore Gery Palazzotto ha di recente tracciato per Il Foglio una fenomenologia dell’hater nostrano, l’odiatore da social, riportando i verbali di interrogatorio di una nonna (nonna!) di 68 anni, appartenente alla pattuglia che vomitò oscenità web contro Sergio Mattarella quando il capo dello Stato, nel maggio 2018, fermò la nomina del professor Savona a ministro dell’Economia. La signora, che aveva tirato in ballo il fratello del presidente assassinato dalla mafia, si è detta assai pentita, spiegando che era un “periodo surriscaldato da parlamentari Cinque Stelle” per i quali simpatizzava, con Grillo che strillava di qua, Di Battista di là, invocando la piazza... “Non dormo più la notte da quando mi sono resa conto di quello che ho fatto”, ha concluso, svelando un vero sdoppiamento di personalità. La chiave forse sta lì. Nello sdoppiamento, sul quale, al di là della strampalata chiamata di correità, dovrebbero riflettere i primi Mister Hyde della catena, coloro che hanno un ruolo pubblico. Per stare a un caso famoso, fuori da questa forsennata tammurriata collettiva, sarebbe assai improbabile che un dentista bergamasco (Roberto Calderoli) desse dell’orango a una dottoressa di origine congolese (Cécile Kyenge). Ecco, i politici sono i primi chiamati in causa perché il loro sdoppiamento ha un effetto esponenziale, produce legioni di odiatori che, specie in un Paese segnato dall’analfabetismo funzionale quale è il nostro, odiano senza sapere bene perché. La risposta, ci dicono con molto pragmatismo i due Nobel, sta nello spacchettare quel perché. Scoprendo così che dentro, quasi sempre, non c’è nulla. Da scienziati sociali, Duflo e Banerjee si propongono insomma di offrirci fatti empirici di mediazione, che “aiutino ciascuna parte a capire ciò che l’altra parte sta dicendo e quindi arrivi a qualche ragionato disaccordo se non al consenso”. Un’ottica, per tornare ai nostri casi, in cui potrebbe stonare una chiusura irridente alla pur inopinata proposta di dialogo di Matteo Salvini su un tavolo di “salvezza nazionale” per regole condivise. Sarà anche tattica, per sfuggire a un certo isolamento. Suonerà persino bizzarra, venendo da chi ieri si appellava alla Madonna di Medjugorje contro il premier Conte e ancora oggi tiene due profeti dell’Italexit a capo delle commissioni economiche del Parlamento. Ma pure se servisse solo a svelenire il clima, mostrando innanzitutto agli odiatori di ciascuna fazione che esiste una strada diversa, sedersi a quel tavolo non sarebbe inutile. Ambiente. Cop 25, le ragioni di un fallimento di Federico Rampini La Repubblica, 16 dicembre 2019 Tremendo il flop della conferenza di Madrid. Il tempo scarseggia, l’emergenza impone di agire subito per tagliare le emissioni carboniche, o la crisi ambientale diventerà irreversibile e le conseguenze ancora più tragiche. La tentazione è facile, basta leggere il coro di condanne delle Ong ambientaliste. La colpa è dei “soliti sospetti”: Donald Trump e la lobby dell’energia fossile. Questa è una caricatura della realtà. Non aiuta a risolvere i problemi veri. Trump ha responsabilità gravi nel suo negazionismo; l’industria petrolifera e altre che usano l’energia fossile si macchiano di colpe imperdonabili. Ma le cause del disastro sono più ampie. Partiamo da alcuni dati di fatto, spesso ignorati. Ne11992 gli scienziati e i leader del mondo si occuparono di cambiamento climatico alla conferenza di Rio de Janeiro. Da allora ad oggi, anziché tagliare le emissioni, o fermarle, o anche soltanto rallentarne la crescita, è stata immessa nell’atmosfera terrestre la stessa quantità di CO2 che fu generata dall’inizio della Rivoluzione industriale. Il disastro di questo trentennio è avvenuto prevalentemente in Cina e in India. Era cominciato molto prima che a Donald Trump venisse in mente di fare politica. La Cina è un caso da studiare. Fu applaudita la svolta ambientalista di Xi Jinping, quando nel 2015 decise di unirsi a Barack Obama e così sbloccò gli accordi di Parigi. Sotto la sua guida Pechino si lanciò in un Green New Deal, senza aspettare che il termine diventasse di moda in Occidente. La Cina ha investito così tanto nelle fonti rinnovabili da conquistare il primato mondiale nell’energia solare. Pechino ha ritrovato cieli azzurri come non si vedevano da molti decenni. Però la stessa Cina ha continuato a costruire nuove centrali a carbone; e a esportarne in molti paesi emergenti dall’Asia all’Africa. Infine il “verde” Xi Jinping ha avuto un ripensamento proprio quest’anno. Al primo segnale di rallentamento della crescita cinese ha tagliato gli investimenti nelle energie rinnovabili. Il maggiore produttore cinese (e mondiale) di pannelli solari, è finito in bancarotta. La lezione qual è? Perfino un regime autoritario, dominato da un Uomo Forte con una straordinaria concentrazione di potere, in grado di pianificare su un arco temporale di venti o quarant’anni, alla fine deve fare i conti con il consenso. Xi Jinping teme il risentimento popolare in caso di crisi economica; non vuole che i cortei di Hong Kong contagino Shanghai. Ricordiamo la reazione che ebbe Emmanuel Macron di fronte ai gilet gialli. Il presidente francese si rimangiò la tassa carbonica, una misura ambientalista, dando ragione a chi gli urlava nei cortei: “Tu ti preoccupi della fine del mondo, noi non sappiamo arrivare alla fine del mese”. Cina e India stanno trascinandoci verso un disastro ambientale perché la decresciti felice è improponibile. Purtroppo, nessuno ancora è riuscito a dimostrare che la sostenibilità genera più occupazione e più reddito del capitalismo carbonico. L’Europa si candida a farlo, almeno in apparenza, con il piano verde presentato da Ursula von der Leyen. Anche su quello però abbondano gli equivoci. Si è parlato di centinaia di miliardi di investimenti, ma di soldi veri l’Unione ne mette pochi, aspettandosi che il resto venga dai privati. Inoltre i paesi emergenti sospettano che l’ambientalismo sia la nuova veste politically correct del protezionismo: il Green New Deal di Ursula include una tassa anti-inquinamento sulle importazioni di beni fabbricati generando CO2. Questi sono i dazi di Trump con una verniciata di colore verde. Il tema vero rimane quello del consenso. Trump vinse anche grazie ai voti dei siderurgici e dei minatori, in Ohio e Pennsylvania. Hillary Clinton dava per scontato che per salvare il pianeta quei lavori brutti sporchi e cattivi andassero eliminati; magari riconvertiti ai bei mestieri della Silicon Valley... inventori di app? Trump gli promise la sopravvivenza. Loro non ebbero dubbi. La sindrome siriana in Libia di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 16 dicembre 2019 Prima la sicurezza dell’Europa era delegata agli Stati Uniti, ma il mondo è radicalmente cambiato. Tuttavia a giudicare da certi summit europei sembra che leader e opinioni pubbliche non se ne siano accorti. Se non credessimo che la storia pregressa condizioni il presente, potremmo dire “finalmente, meglio tardi che mai” di fronte all’incontro di pochi giorni fa tra Conte, Merkel e Macron sulla situazione libica. La Libia pone un problema urgente e grave di sicurezza per l’Europa. Parrebbero buone notizie sia la fine delle rivalità che fino a ieri hanno diviso Italia e Francia sia la decisione di Italia, Francia e Germania (a cui presto dovrebbe aggiungersi la Gran Bretagna) di coordinare gli sforzi per favorire una soluzione negoziata che pacifichi e mantenga unito il Paese africano. Ma le apparenze ingannano, la storia passata pesa e spazio per l’ottimismo ce n’è poco. Né per ciò che riguarda il futuro della Libia né per ciò che riguarda (anche al di là del caso libico) la capacità dei governi europei di coordinarsi efficacemente per fronteggiare le crescenti minacce alla sicurezza del vecchio continente. L’incontro fra le principali (im)potenze europee è il segno della loro debolezza. Russi e turchi ci stanno “scippando” la Libia: non solo a noi europei ma anche agli americani, primi responsabili, a causa della loro latitanza strategica, di quanto è già avvenuto in Siria e di quanto si sta replicando in Libia. Ciascuno è schierato dietro il proprio cliente locale (il signore della guerra, generale Haftar, è sostenuto dai russi, e il capo di governo di Tripoli, al-Sarraj è appoggiato dai turchi). Ammesso che sia improbabile, come sostengono gli esperti, che Haftar conquisti Tripoli e il resto del Paese con le armi, restano solo due possibilità: o la guerra civile continuerà ancora a lungo, magari per anni, oppure russi e turchi troveranno un accordo anche sulla Libia (come già sulla Siria) favorendo una soluzione negoziata che metta termine alla guerra civile e che possa soddisfare gli interessi degli uni e degli altri (magari anche con qualche vantaggio per altri Paesi coinvolti, dall’Egitto al Qatar). Nell’uno come nell’altro caso saranno guai per l’Europa. Nella prima eventualità la Libia resterà una porta spalancata a disposizione di trafficanti di esseri umani e di terroristi decisi a colpire i Paesi europei. In caso di soluzione negoziata fra turchi e russi, il controllo su cruciali risorse energetiche nonché il potere di usare i rischi di destabilizzazione dei Paesi europei per ricattarli saranno nelle mani di potenze ostili all’Europa. Non è tale solo la Russia. Lo è anche la Turchia nonostante l’ipocrita tentativo occidentale di fingere che sia ancora un Paese membro della Nato uguale a tutti gli altri. Proprio perché la storia passata pesa, quando si parla di Europa l’attenzione si concentra sempre sui problemi della governance economico-finanziaria e sulle questioni commerciali. Cose importantissime, certamente, sulle quali, peraltro, le divisioni sono oggi in Europa assai forti. Gioca però anche un riflesso antico. C’è stato un tempo in cui l’Europa poteva essere solo “Europa economica” (gli aspetti politici e di sicurezza erano delegati agli Stati Uniti). Il mondo è radicalmente cambiato ma a giudicare da certi summit europei sembra che leader e opinioni pubbliche non se ne siano accorti. Le questioni della sicurezza dovrebbero essere ora il principale assillo dell’Europa, il primo punto all’ordine del giorno in tutti gli incontri nelle sedi europee. Ma gli europei non sono riusciti a trovare una posizione comune nemmeno sulla questione dei foreign fighters (i combattenti islamici di ritorno, molti dei quali pronti a fare scorrere il sangue in Europa). Anche la vicenda Brexit non dovrebbe essere considerata solo per le sue conseguenze economico-finanziarie e commerciali. Il fatto che la prima potenza militare europea (insieme alla Francia) se ne vada dall’Unione certo non le impedirà di collaborare con gli altri europei in materia di sicurezza. Però rende evidente la futilità, non dico di allestire, ma ormai anche solo di ipotizzare, piani per una futura difesa europea. Piani che erano comunque deboli già prima di Brexit: le opinioni pubbliche erano e sono indisponibili a pagare il tanto che dovrebbero pagare per tutelarsi contro le minacce. Brexit ha solo chiuso il discorso. Che fare allora? Gli europei, grazie alla lunga pace di cui godono dal 1945, sembrano pensare che questa sia una condizione naturale, non revocabile, della vita sociale e politica. Immemori della storia pensano che pace e sicurezza - da cui dipendono la libertà, la democrazia, il benessere economico - siano beni acquisiti per sempre. Questa mancanza di realismo contribuisce a spiegare perché gli europei non possano fare a meno dell’Alleanza atlantica. Se saranno gli americani a sancirne definitivamente l’irrilevanza, gli europei si troveranno nudi, inermi. Nel frattempo, i vecchi tic politici sono duri a morire. Il presidente francese Macron dichiara la “morte celebrale” della Nato non solo per scuotere dal torpore americani ed europei ma anche per richiamare implicitamente, a beneficio dell’opinione pubblica francese, l’antica polemica gollista contro l’Alleanza atlantica. Dimenticando che in età bipolare, dominata dalle due superpotenze, il generale de Gaulle potè permettersi il lusso di recitare la parte dell’eretico all’interno del sistema occidentale solo perché quel sistema era forte e vitale, non in coma come oggi. Il neo-gollismo non ha più senso. Chi non ha la forza né la volontà di decidere il proprio destino diventa preda degli appetiti altrui. Già oggi si può constatare, e verosimilmente sarà ancora di più così in futuro, quanto siano disponibili vari Paesi europei a impegnarsi, separatamente, in giri di valzer con i russi o con i cinesi. Facendo finta di non sapere che i prezzi che si pagano nello stabilire rapporti privilegiati con potenze autoritarie diventano, nel lungo periodo, assai alti. Russi e turchi si prendono la Libia, minacce terroriste incombono, predatori affamati circondano la debole Europa. Gli europei più consapevoli dei pericoli si chiedono se i cittadini americani, nelle prossime elezioni presidenziali, premieranno chi pensa che il legame con l’Europa sia nell’interesse degli Stati uniti oppure chi ritiene che sia tempo di abbandonare il vecchio continente al suo destino. In ogni caso, plausibilmente, le decisioni che più contano non le prenderanno gli europei.