Partiti e magistratura: le responsabilità di entrambi nella “Giuristocrazia” di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 15 dicembre 2019 Alcune riflessioni dopo l’ennesimo scontro frontale tra politica e magistratura. Un’analisi a margine dell’inchiesta riguardante la Fondazione Open vicina a Matteo Renzi, per capire quali sono le responsabilità dei partiti e quali quelle dei togati, quali quelle del legislatore e quali quelle del potere giudiziario. Questa vicenda, in fondo, può essere anche l’occasione per superare definitivamente l’incubo del finanziamento ai partiti che ci perseguita da Mani Pulite: si può tornare a parlare di finanziamento pubblico o si può regolare il lobbying come avviene negli U.S.A così da garantirne la trasparenza. Soprattutto si potrebbe finalmente dare piena attuazione al dettato costituzionale con una regolamentazione dei partiti politici che assicuri la democraticità interna degli stessi. “Avendo la politica cessato di essere vera e buona, vale a dire giusta, anche la giustizia svierà e diventerà politica. […] E poiché il potere giudiziario si trova in rapporti più stretti e intimi che non ogni altro con la società, poiché tutto mette capo o può metter capo a processi, sarà per l’appunto il potere giudiziario a essere chiamato a uscire dalla sua sfera legittima, per esercitarsi in quella ove il governo non è potuto bastare.[…] Alla giustizia è stato imposto […] di abbandonare infine il suo seggio sublime per discendere nell’arena dei partiti”. L’analisi è di François Guizot e riguarda la Francia del 1800 (François Guizot, Giustizia e politica, a cura di Carlo Vallauri, Gangemi Editore, pagg. 16 e 17) ma spiega molto bene quanto successo in Italia negli ultimi decenni. La politica (per debolezza, incapacità, crisi di rappresentanza e di fiducia) ha abdicato al proprio ruolo di guida della società in favore della magistratura: è la “Giuristocrazia” (termine coniato dal canadese Ran Hirschl), si affidano alla magistratura decisioni che spetterebbero alla politica (ad esempio sulle questioni di bioetica). Se tale fenomeno non è certo un’esclusiva italiana, ciò che caratterizza il nostro Paese è il peculiare rapporto tra politica e magistratura. Il delicato equilibrio tra poteri dello stato è saltato minando il principio della divisione dei poteri. Il problema è esploso con Tangentopoli e con l’abolizione dell’immunità parlamentare classica, contraltare previsto dai costituenti rispetto all’indipendenza della magistratura. Da più di 25 anni assistiamo allo stesso stanco canovaccio che si ripete ad ogni scandalo, ad ogni arresto di un politico: la fuga di notizie, l’abuso della carcerazione preventiva, la presunzione di colpevolezza, la gogna mediatica. Sempre uguali sono le reazioni alle inchieste: chi dichiara di “aver fiducia nella magistratura” e chi critica le “inchieste ad orologeria”. Sempre uguale il gioco delle parti: amici dell’indagato ad invocare la presunzione d’innocenza, avversari pronti a cavalcare e strumentalizzare i fatti. Proprio questo è uno dei principali errori commessi dalla politica: cadere nella facile tentazione di utilizzare le inchieste a fini elettorali, sperando nell’aiuto giudiziario per sconfiggere l’avversario anziché sconfiggerlo alle urne, senza comprendere che nessuno è immune dalle inchieste. Copione che si sta ripetendo a margine dell’inchiesta riguardante la Fondazione Open vicina a Matteo Renzi, nuovo atto (troppo facile scommettere che non sarà l’ultimo) dell’opera che va in scena da anni. Qui non si parlerà del merito della vicenda, sia perché non si conoscono gli atti sia perché non si vuole prendere parte al processo anticipato, ci si limiterà ad alcune considerazioni generali sui rapporti tra politica e giustizia. Se una prima ondata di antipolitica, legata a Tangentopoli, portò all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ora si corre il rischio di criminalizzare e demonizzare anche il finanziamento privato. Una democrazia però ha dei costi, i partiti hanno dei costi. I partiti sono lo strumento democratico ed indispensabile tramite il quale tutti i cittadini possono concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 Costituzione). L’inchiesta può essere un’occasione per ripensare il finanziamento alla politica: si può tornare a parlare di finanziamento pubblico o si può regolare il lobbying come avviene negli U.S.A così da garantirne la trasparenza. Soprattutto si potrebbe finalmente dare piena attuazione al dettato costituzionale con una regolamentazione dei partiti politici che assicuri la democraticità interna degli stessi. Questo è il compito che spetta alla politica che dovrebbe intervenire prima che le inchieste della magistratura dettino l’agenda. Vi è un altro interessante spunto di riflessione sollevato dall’Avvocato Cataldo Intrieri su Linkiesta (https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/29/open-fondazione-matteo-renzi-magistrati/44559/ ). La Procura di Firenze, mediante l’interpretazione estensiva di una norma amministrativa introdotta dalla c.d. Spazza-corrotti che equipara le fondazioni ai partiti politici, ha considerato “le prime soggette come i secondi alle disposizioni delle Leggi 195/74 e 659/81 che puniscono l’illecita e non dichiarata erogazione di denaro e di utilità oltre che a “ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali” anche a “favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative”. Applicazione retroattiva che pone un evidente problema di compatibilità con il principio di legalità. Ha quindi pienamente ragione Marco Taradash nel dire che il potere delle Procure è frutto delle leggi votate dal Parlamento che hanno fornito tanti e tali strumenti. Sull’onda di una fantomatica “emergenza corruzione”, negli ultimi anni sono state approvate leggi che hanno aumentato le pene dei reati contro la P.A., introdotto nuove fattispecie di reato fumose (come il traffico di influenze illecite contestato proprio nell’inchiesta sulla Fondazione Open) ed esteso ai reati contro la P.A. strumenti eccezionali previsti per i reati più gravi (dall’estensione del regime delle misure di prevenzione all’inserimento nel catalogo dei reati ostativi per l’accesso alle misure alternative). E’ il populismo penale: si crea una nuova emergenza mediatica alla quale si risponde allargando il perimetro del diritto penale che invece dovrebbe essere l’extrema ratio. L’eccezione diviene regola, le garanzie dell’indagato vengono considerate un salvacondotto per il colpevole. Se dopo decenni di inchieste, arresti e scandali, la corruzione continua ad esistere, si ha la prova dell’inefficacia della sola repressione penale a risolvere un problema che ha cause profonde e merita soluzioni politiche. Solo la limitazione della burocrazia e dell’intervento dello Stato nell’economia può ridurre il rischio di fenomeni corruttivi. Torniamo, quindi, alle parole di Guizot. Il problema non è solo la politicizzazione della magistratura, visione ormai obsoleta e superata. Il tema principale è quello dei rapporti e dell’equilibrio tra poteri. La politica deve riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità senza cercare capri espiatori o nemici esterni. Cartabia, Presidente della Corte Costituzionale. Evviva di Franco Corleone L’Espresso, 15 dicembre 2019 Ci sono molte ragioni per essere lieti della elezione all’unanimità di Marta Cartabia alla Presidenza della Corte Costituzionale non solo perché è la prima donna ma anche per il ruolo che ha avuto in importanti decisioni. Ricordo che nel febbraio 2014 ero presente all’udienza che doveva decidere della incostituzionalità della legge criminogena Fini-Giovanardi sulle droghe. Avevo convinto Giovanni Maria Flick a rappresentare come avvocato le ragioni di chi aveva combattuto contro l’approvazione di quella scelta proibizionista e punitiva; Flick era stato il mio ministro della Giustizia quando ero sottosegretario e aveva avuto il merito di scegliere al vertice dell’Amministrazione Penitenziaria prima Michele Coiro e poi Alessandro Margara. Relatrice della questione assai delicata era proprio Marta Cartabia e ascoltammo con attenzione la sua esposizione che ci convinse dell’esito positivo della decisione. Credo che anche in altre sentenze il suo contributo sia stato decisivo, in quella sull’Ordinamento Penitenziario in riferimento alla salute mentale e in quella sull’ergastolo ostativo. Una iniziativa straordinaria del presidente Lattanzi è stata quella della visita di alcune carceri da parte dei giudici della Corte; l’esperienza emozionante è stata tradotta in un film trasmesso dalla Rai e uno dei commenti più ricchi di sensibilità e intelligenza è stato proprio quello di Marta Cartabia. In tempi in cui c’è chi propone di eliminare il reato di tortura, di riaprire i manicomi e di tornare a pene draconiane per consumatori e detentori di sostanze stupefacenti illegali, è un segno di speranza che la civiltà del diritto abbia convinta cittadinanza nel Palazzo della Consulta. “Beni confiscati, ora rivoluzione” di Davide Parozzi Avvenire, 15 dicembre 2019 Il responsabile dell’Agenzia nazionale di Milano, Giarola: adesso c’è prima l’assegnazione poi il progetto. L’iter va capovolto e noi siamo pronti ad aiutare piccoli Comuni e terzo settore a trovare anche i fondi. Un triangolo virtuoso. Tra il Terzo settore, le Istituzioni e chi ha i fondi. E obiettivo? Arrivare ad una gestione dei beni confiscati alla criminalità che sia più efficiente, flessibile e in grado di rispondere a tutte le esigenze. Come? Anticipando, se così si può dire, il momento della scelta della destinazione del bene. In questo modo chi ne farà richiesta potrà subito partire per realizzare il progetto. Così il responsabile dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati della sede di Milano, Roberto Giarola sta attuando le direttive del Prefetto Frattasi, nuovo direttore dell’Agenzia. Da qualche mese alla guida dell’ufficio, Giarola, un passato ai vertici della Protezione Civile, vuole rendere i tempi più rapidi. Con due obiettivi: primo non lasciare che i beni restino inutilizzati a lungo o che i progetti falliscano. Secondo, mostrare a tutti che la destinazione “buona” funziona. Dottor Giarola, come nasce questa idea? Nasce da una condizione oggettiva: in carico all’agenzia c’è un grandissimo numero di immobili. Che normalmente l’agenzia offre a chi fa richiesta singola con una manifestazione di interesse o invece in forma aggregata convocando una conferenza di servizi per proporre una serie di beni agli enti territoriali o all’Agenzia del Demanio (che coordina le amministrazioni statali). Gli enti, una volta entrati in possesso del bene, lo assegnano, con bando, a chi ne fa richiesta per destinarlo a un uso sociale. Tutto questo scarica sull’ente locale, però, cui si assegna un bene l’onere di trovare in un soggetto gestore nel vastissimo mondo del terzo settore. Ora, un Comune come Milano ha strutturato questo processo, ma enti più piccoli che, magari, condividono il segretario generale o l’ufficio tecnico con altri, sono in difficoltà. Senza contare che le stesse associazioni di volontariato passano da realtà molto ampie - pensiamo alla Caritas ambrosiana - a esperienze piccolissime. Allora tutto questo insieme di elementi ci porta a dire che dire che se non rendiamo conoscibili e usufruibili i beni destinati direttamente agli utilizzatori potenziali rischiamo di trovarci con un problema grande. Ovvero che chi prende il bene poi non sa bene a chi e come assegnarlo. E quindi come intervenite? Innanzitutto facendo in modo che ci siano informazioni accessibili e fruibili utili alla valorizzazione del bene e alla sua gestione. Faccio un esempio: se diamo un appartamento chi lo prende deve sapere quanto dovrà pagare all’anno di spese di condominio. Per evitare brutte sorprese. E poi deve essere in grado di gestirlo. Pochi giorni fa appena fuori Milano è ripartita un’esperienza positiva in un luogo sequestrato alle cosche. La prima volta, la cooperativa che aveva preso in carico il bene era stata costretta a chiudere. Ora, sono 3 le cooperative coinvolte e il progetto, con gambe più solide, è ripartito. Invece, per realtà del Terzo Settore più ampie, il problema è proprio l’opposto. Con fondi a disposizione e capacità di gestire progetti importanti, potrebbero arrivare a richiedere non un singolo bene, ma gruppi interi. Ecco l’idea è proprio questa. Evitare che ci siano fallimenti o ritardi attivandoci per creare occasioni di confronto tra esperienze e know-how in questo campo. A partire dai finanziamenti Forse la sfida più difficile. Certo. Anche perché molti enti interessati, soprattutto quelli piccoli, non sanno dove reperire i soldi necessari per riadattare i beni. Ad esempio Regione Lombardia ha un fondo cui si può accedere per finanziare progetti di riutilizzo dei beni confiscati. L’anno passato furono pochissime le richieste. Regione ha rivisto le procedure del fondo e noi vogliamo pubblicizzare al massimo opportunità del genere. Possiamo sollecitare progetti e mettere in contatto chi ha un’idea con chi potrebbe aiutare a realizzarla. Senza contare che, talvolta, i patrimoni sono confiscati solo in parte. E chi lo ottiene magari si trova a convivere a pochi metri dal vecchio proprietario. Con tutto quello che ne consegue anche in termine di progettualità. Una sorta di agenzia di servizi. Quello che importa è che il bene non resti inutilizzato. Sarebbe un tradimento della legislazione antimafia e un segnale pessimo sia verso i malavitosi che verso i cittadini. Alcuni colleghi che lavorano in Agenzia appartengono alle forze dell’ordine e in passato hanno contribuito, con le loro indagini, a rendere possibili i provvedimenti di confisca adottati dai Giudici. E’ importante anche per loro vedere che i loro sforzi non sono stati inutili. La riforma rimandata della giustizia che frena gli investimenti stranieri di Enrico Cisnetto Il Messaggero, 15 dicembre 2019 “Causa che pende, causa che rende”, recita un vecchio proverbio su cui forse può sorridere qualche avvocato, ma non certo l’economia italiana paralizzata dalla giustizia lumaca. Il governo ha licenziato un disegno di legge delega di riforma del processo civile - con il passaggio da tre riti a uno, sanzioni a chi intraprende “cause temerarie” e una generale riduzione dei tempi - ma purtroppo, oltre ad essere lo strumento della delega per sua natura piuttosto lento, dopo dieci giorni sembra già finito nel dimenticatoio. Eppure, lo scenario disastroso suggerirebbe un altro approccio. Solo nel 2018 i processi protratti oltre i limiti della ragionevole durata (tre anni in primo grado, due in appello, uno in Cassazione) erano saliti a 968 mila dei quali 345 mila nel penale e623 mila nel civile. Soprattutto, si azzarda la cancellazione della prescrizione, dimenticando che l’80% dei processi si conclude senza nemmeno arrivare al primo grado (condannando così l’inquisito ad anni di attesa e pubblico ludibrio) e che i tempi dei procedimenti continuano ad essere troppo alti prima di tutto nel civile, settore fondamentale per le imprese. In media, infatti, un’azienda deve aspettare 1.120 giorni per rientrare di un credito, a fronte dei circa 500 giorni in Spagna e Germania. Ci dice la Commissione europea che per arrivare al primo grado si contano in media 514 giorni, contro i 282 degli spagnoli e i 196 dei tedeschi. In pratica, a noi serve il doppio del tempo per regolare un contenzioso, rendendo qualunque transazione commerciale più rischiosa, qualunque investimento più incerto, ogni impresa più aleatoria. Di conseguenza, economia bloccata e crescita strozzata. Secondo la Banca Mondiale, una riduzione del 10% dei tempi dei processi equivarrebbe a un più 2% di dimensione delle imprese. Ma ora siamo al 157 esimo posto su 183 paesi per velocità della giustizia. Il che si traduce in bassi investimenti stranieri, spaventati dall’incertezza del diritto. Tanto è vero che ogni anno dall’estero arrivano nel Regno Unito 45 miliardi, 30 in Francia, 20 in Spagna, ma in Italia solo 5. Della stessa opinione è la Banca d’Italia, secondo cui una giustizia civile più efficiente potrebbe valere circa 18 miliardi l’anno di maggiore crescita. Tanto più che il costo del processo è intorno ad un terzo del valore della causa, che ci vogliono mille giorni per avviare il primo grado di una causa civile, dieci anni per chiudere un fallimento e nove per i casi di giustizia tributaria. Con il risultato che sono quasi 9 milioni i procedimenti pendenti a fronte di circa 7 milioni di nuovi processi aperti ogni anno. Tanto che il Consiglio d’Europa ci invita ad “assicurare una ragionevole durata dei procedimenti”. Richiesta, per ora, rimasta inevasa. Ma bisogna invertire la rotta, per evitare che la (mala) giustizia blocchi ancora lo sviluppo. Ceccanti non vuole che pm e polizie “battezzino” le indagini di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2019 Per il senatore del Pd “l’etichetta” favorirebbe l’accusa. Da Mani pulite a Mafia capitale. “Vetro nero”, “Onda blu”, “Ombre”. A scorrerne i nomi, per restare alle meno celebri, si potrebbe pensare ai finalisti dello Strega o alle uscite natalizie in sala. E invece, per la fortuna di chi fa i titoli sui giornali, ormai da anni gli organi di polizia giudiziaria e le Procure consegnano alla stampa inchieste con nomi degni delle agenzie pubblicitarie. Evocativi, ma non troppo. Spesso inglesi. Mai troppo lunghi e quasi sempre d’effetto, come a rimanere impressi a lode e gloria di chi quella inchiesta se l’è sudata e ora può finalmente renderla pubblica con un l’abito buono da talk show. Ciò che però è manna per i media non piace a tutti, tanto che qualche giorno fa il deputato del Pd Stefano Ceccanti ha presentato una interrogazione ai ministri della Giustizia e dell’Interno per chiedere un intervento contro le denominazioni thriller delle inchieste, a suo dire lesive persino di alcuni principi Costituzionali: “Da diversi anni - si legge nel testo depositato alla Camera, a firma anche del 5 Stelle Paolo Lattanzio - è invalsa la prassi da parte di alcuni settori della magistratura inquirente e di alcune autorità di polizia giudiziaria di denominare operazioni e indagini da essere condotte con nomi in codice ad effetto, facendo uso di termini evidentemente scelti con cura al principale scopo di influenzare l’opinione pubblica e suscitare il consenso sociale intorno alle ipotesi accusatorie”. Secondo Ceccanti, dunque, il nome scelto avrebbe un peso sulla percezione dell’inchiesta, naturalmente a sfavore degli accusati: “Ciò sembra dar luogo ad un vero e proprio marketing delle indagini giudiziarie e con l’assecondare forme inopportune di spettacolarizzazione, anche in considerazione dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa e della comunicazione via social, tutto ciò finisce con l’alterare l’equilibrio tra accusa e difesa e con l’attentare ai diritti delle persone coinvolte; il tutto, a giudizio dell’interrogante, in violazione di norme a partire dall’articolo 111 della Costituzione”. Il riferimento è al principio dell’equo processo e ai pari diritti di accusa e difesa, che Ceccanti ritiene in pericolo tanto da chiedere ai ministri “se intendano assumere iniziative, anche di carattere normativo, per disciplinare la materie, anche valutando che siano attribuiti nomi in codice con valenza esclusivamente pratica e interna”. Bando quindi a “Mondo di mezzo” e “Mafia Capitale” (due appellativi per una sola inchiesta), agli “Angeli e demoni” di Bibbiano, alla “Mensa dei poveri” in cui è stata di recente coinvolta la forzista Lara Comi. Perfino a “Mani Pulite” (Tangentopoli ha invece il copyright di un cronista di Repubblica, non della Procura), espressione già utilizzata da Sandro Pertini per invocare moralità nelle istituzioni ma resa celebre nel 1992 dall’inchiesta che spazzò via la Prima Repubblica. Titoli troppo irrispettosi, secondo Cercanti, troppo da salotto televisivo pomeridiano. E chissà come la prenderebbero, le Procure, una simile restrizione, data la raggiunta raffinatezza di certe trovate “di marketing”, come direbbe l’interrogante dem. Alcune inchieste sembrano pezzi della cinematografia italiana in bianco e nero. Tipo “Ossessione”, che infatti è un film di Luchino Visconti de11943 ma è anche un’indagine sul narcotraffico calabrese; oppure “Ombre Nere” (sull’estrema destra), “Ampio Spettro” (sui clan pugliesi), tutta roba da Michelangelo Antonioni. Chi ha meno fantasia ricorre invece a schemi consolidati, forse un po’ stantii ma comunque efficaci: Last bet, Last travel, Last banner, Last generation, Last minute. Esistono tutte, per non dire dei chissà quanti altri “Last” ancora coperti da segreto in giro per l’Italia. Meno fastidio dovrebbe forse dare a Ceccanti un altro grande classico delle Procure, ovvero i nomi riferiti alla mitologia o comunque al mondo antico, sobri stratagemmi di riservatezza. Ci sono Perseo, Heracles e Chimera (contro le cosche calabresi), Ippocrate (scandalo sanitario in Sardegna) e Tallone d’Achille (giro di cocaina in Abruzzo), molto più altisonanti di quel filone che, pur raccontando storie drammatiche, restituisce nomi quasi da lido della Versilia: Villa Paradiso, La Fenice, Tramonto. L’orticaria di Ceccanti, se ne abbiamo intese le parole, si aggrava però quando le Procure cedono al fascino del best-seller, quello con copertina rigida e il nome dell’autore scritto enorme, in giallo, molto più evidente del titolo. Qualche esempio? Terminator, Criminal Drinks, Black Shadow, Tela di Ragno. Inchieste e processi preziosi per cui i pm spesso meritano gratitudine, ma con nomi in effetti fin troppo spettacolarizzanti. Eventuali sceneggiatori interessati possono prendere nota. La nuova legittima difesa può salvare (anche) i già condannati di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2019 La Cassazione e il caso di un uomo che sparò al ladro in fuga: ci sarà un nuovo processo grazie al “grave turbamento”. Giovanni Capozzo, di Napoli, ha ucciso un ladro che aveva tentato di entrare in casa sua. Condannato in appello per omicidio colposo per eccesso di legittima difesa, ora potrebbe essere assolto. La Cassazione ha infatti annullato la condanna con rinvio a un altro collegio della Corte d’Assise di Appello di Napoli: deve riesaminare il caso alla luce della nuova legge sulla legittima difesa, approvata ad aprile, con l’ex maggioranza giallo-verde. Al centro della decisione della Cassazione, che ha depositato le motivazioni in questi giorni, c’è il concetto del “grave turbamento” attorno al quale ruota la legge voluta dalla Lega e votata anche da M5s. Per comprendere la decisione della Suprema Corte riassumiamo in breve i fatti che hanno portato a questa sentenza, la prima dopo l’approvazione della nuova legge. Una notte d’estate, un ladro prova ad entrare in casa Capozzo dal balcone della stanza dove dormono i figli. Capozzo sente i movimenti, si insospettisce, fa rumore. Il ladro, a sua volta, si allarma e si rifugia in giardino. Capozzo lo scorge egli spara addosso 5 colpi, uccidendolo. Butta pure il corpo in un fiume. Quando viene scoperto, confessa l’accaduto. Per i giudici di primo grado è omicidio doloso. Il 27 novembre del 2018,1a Corte d’Assise d’Appello di Napoli conferma la condanna ma derubrica il reato in omicidio colposo per eccesso di legittima difesa. Condannato, anche in Cassazione, per occultamento di cadavere. Nel ricorso, gli avvocati Ercole Di Baia e Luigi Iannettone, tra l’altro, appellandosi al principio del favor rei, chiedono che i fatti ora siano valutati alla luce della nuova legge sulla legittima difesa. Proprio su questo punto ottengono una parziale vittoria: annullamento con rinvio. La terza sezione penale della Cassazione nelle motivazioni prima di tutto ribadisce che non si può sparare a un ladro che entra in una proprietà privata se non sta mettendo in pericolo le persone o non sta tenendo un comportamento tale da richiedere una reazione preventiva. E a questo proposito, ricorda la giurisprudenza della Cedu a Strasburgo: “Le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto”. Quindi, anche con la nuova legge non sempre c’è legittima difesa. La Cassazione chiarisce che vige ancora il principio risalente al codice Rocco della doverosa proporzione tra offesa e difesa ma la legge di aprile rafforza il principio di autodifesa che già si era fatto largo in una prima modifica del 2006. Secondo la nuova legge c’è “sempre” legittima difesa quando si spara (o si usa un altro mezzo) per difendere se stessi o altre persone o “i beni propri e altrui quando non vi è desistenza evi è pericolo di aggressione”. Cioè se il ladro non fugge e vi è il rischio di una violenza. Fin qui l’interpretazione sarebbe dettata da fatti solo pressoché oggettivi. Ma con la nuova normativa, il lavoro dei giudici diventa scivoloso, si potrà assistere a sentenze di tipo opposto per fatti simili perché, nel caso di eccesso colposo nella legittima difesa, non è più punibile, come ha preso atto la Cassazione, se chi ha ucciso un ladro è mosso “da stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”, solo per la paura dell’aggressione personale odi chi gli è vicino. Non per i beni. Ecco perché si spiega la decisione della Cassazione, di annullo con rinvio. Sulla base della nuova legge, i giudici di Napoli dovranno stabilire se l’imputato “pur eccedendo i limiti imposti dalla necessità” abbia ucciso “per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, piuttosto che soltanto dei beni, poiché la nuova causa di non punibilità opera soltanto nel primo caso”. E se sì, “se abbia agito in stato di minorata difesa ovvero di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Le due condizioni per essere assolti. La Cassazione ricorda che i giudici di merito hanno “rimproverato all’imputato di aver aperto il fuoco contro l’uomo che si era allontanato dal balcone (ma non dal domicilio), piuttosto che limitare l’uso dell’arma a scopo dissuasivo, esplodendo soltanto colpi in aria”. Ma allo stesso tempo, nota ancora la Cassazione, i giudici che hanno condannato l’imputato, scrivono che agì “in stato di turbamento per difendersi... nella concitazione indotta dall’imminenza dell’indesiderata intrusione in casa, specificamente dove dormivano i figli minori”. Quindi, anche nella vecchia legge aveva un peso il concetto di azione mossa da “grave turbamento” ma adesso, nelle condizioni appena spiegate, non c’è la punibilità. Un concetto fluido, “un elemento psicologico”, come lo definisce la Cassazione, con il quale i giudici devono avere a che fare e che potrà essere come una fisarmonica: si può allargare o si può stringere. Dipende dall’interpretazione. Calabria. L’Osservatorio regionale sulla violenza di genere presenta il primo rapporto ildispaccio.it, 15 dicembre 2019 “Politica e agenzie educative in grave ritardo, serve un cambio di passo”. Una prima fotografia del fenomeno della violenza sulle donne in Calabria è quella che si presenterà il prossimo 16 dicembre nella sala Calipari del Consiglio regionale della Calabria. Lo annunciano Mario Nasone e Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, organismo voluto dal Consiglio regionale come strumento per approfondire la conoscenza di questa vera e propria emergenza sociale che, in Calabria, anche alla luce di complesse dinamiche, si presenta con aspetti ancora più preoccupanti. La conoscenza diventa, pertanto, un passaggio importante per costruire un sistema di monitoraggio del fenomeno che sia quanto più possibile valido per contrastarlo. Un modo per accendere i riflettori su una condizione sociale che è stata finora sottovalutata e trascurata, anche a causa della mancanza di dati utili a documentarne l’estensione e la gravità. Un rapporto che farà emergere anche i gravi ritardi con i quali la politica e le agenzie educative hanno, ad oggi, affrontato la problematica della violenza sulle donne. La presentazione del rapporto sarà, quindi, l’occasione per sensibilizzare le istituzioni e tutta la comunità calabrese che avrà così modo di conoscere le buone prassi intraprese. L’incontro si aprirà con una lettura scenica di una lettera di una delle tante calabresi, diventate donne-simbolo contro la violenza, Maria Antonietta Rositani, la quale, dal letto dell’ospedale di Bari dove si trova ricoverata da tantissimi mesi e da dove sta combattendo la sua battaglia per la vita, ha voluto inviare a tutti noi il suo messaggio di denuncia e di coraggio. A commentare i dati, a presentare esperienze e proposte su come migliorare il sistema di prevenzione e protezione, parteciperanno ricercatori, magistrati, forze dell’ordine, centri antiviolenza, operatori sociali e rappresentanti delle istituzioni politiche nazionali e regionali. Il programma dei lavori, che si svolgeranno c/o la sala Calipari del Consiglio regionale Lunedi 16 Dicembre con inizio alle ore 15, prevede i saluti di Nicola Irto Presidente Consiglio regionale della Calabria, Massimo Mariani Prefetto di Reggio Calabria, Luciano Gerardis Presidente Corte d’appello, il Molise, Maurizio Piscitelli Ufficio scolastico regionale. I lavori saranno introdotti daMario Nasone, coordinatore Osservatorio regionale sulla violenza di genere, la lettura scenica della lettera di Maria Antonietta Rositani sarà affidata a Walter Cordopatri della scuola regionale di recitazione, la presentazione del rapporto sarà curata da: Giovanna Vingelli, ricercatrice dell’Unical, Domenico Tebala dell’Ufficio territoriale Istat. Previsti gli interventi di Antonio Gioiello del Centro Fabiana Luzzi Corigliano, Maurizio Vallone Questore di Reggio Calabria, Giuseppe Battaglia Comandante provinciale carabinieri Reggio Calabria, Giovanna Petrocca Questore di Cosenza, Maria Grazia Muri vice-presidente Ordine Regionale Assistenti Sociali, della Sen. Valeria Valente Presidente commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del femminicidio, Coordina i lavori Caterina Ermio componente osservatorio regionale sulla violenza di genere e le conclusioni saranno affidate a Giovanna Cusumano vice coordinatore osservatorio regionale sulla violenza di genere. E’ stato richiesto all’ordine regionale degli assistenti sociali e degli avvocati di Reggio Calabria l’attribuzione di crediti formativi. Ai partecipanti sarà consegnata pubblicazione rapporto che contiene anche contributi su buone prassi e documentazione delle attività dell’osservatorio. Napoli. “Progetto IV Piano”, a Poggioreale un aiuto per chi è tossicodipendente Redattore Sociale, 15 dicembre 2019 Realizzato dalla regista Cristina Mantis e prodotto dal gruppo Gesco, un docu-film racconta la storia dello spazio collettivo di attività socio-riabilitative interno al carcere e rivolto alle persone detenute e con problemi di tossicodipendenza. Sarà presentato in anteprima nazionale nel carcere di Poggioreale lunedì 16 dicembre 2019 alle ore 9,30 il docu-film realizzato dalla regista Cristina Mantis e prodotto dal gruppo Gesco, che racconta la storia del Progetto IV Piano rivolto alle persone detenute e con problemi di tossicodipendenza. Il Progetto IV Piano realizza da cinque anni un centro diurno socio-riabilitativo all’interno della Casa Circondariale di Poggioreale, ponendosi l’obiettivo generale di attuare la legge nazionale che garantisce ai detenuti le stesse prestazioni offerte ai cittadini liberi. È promosso dal Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro con la sua Unità Operativa Semplice Dipartimentale Strutture Intermedie in collaborazione con la Uos Serd Area Penale e in stretta integrazione con la Direzione della Casa Circondariale di Poggioreale e con il gruppo Gesco. Il Progetto IV Piano ha delineato uno spazio collettivo di attività socio-riabilitative diverse all’interno della Casa Circondariale che ha la funzione di contenere la sofferenza legata alla privazione della libertà riempiendo lo spazio vuoto della detenzione. Da oltre cinque anni nel Padiglione Roma il Progetto realizza laboratori di animazione artistica di tipo socio-riabilitativo (teatro, scrittura, sport, musica, giardinaggio, apprendimento della lingua per i migranti) con i detenuti che presentano problematiche di dipendenza e gestisce uno sportello per l’implementazione delle misure alternative alla detenzione. Il Progetto offre anche l’opportunità di rielaborare la propria esperienza e di progettare un programma in una comunità terapeutica esterna più adeguato ad affrontare le problematiche individuali, con l’obiettivo di modificare i comportamenti a rischio legati all’uso di droghe che hanno spinto a commettere il reato. Il docu-film sottolinea bene l’attenzione particolare dedicata nell’ultimo anno del progetto IV Piano alle relazioni affettive implementando gli incontri tra i detenuti e i loro familiari in aree della Casa Circondariale rese più “umane”, come quella denominata “il giardino di dentro”, uno spazio antistante il Padiglione Roma che è stato attrezzato, con la collaborazione attiva della Polizia Penitenziaria, con grandi aiuole con la finalità di realizzare uno spazio verde dentro il carcere. Il film di Cristina Mantis restituisce il racconto di una strategia complessa condivisa dalle istituzioni pubbliche napoletane, penitenziarie e sanitarie con il concorso delle risorse del terzo settore, che ha sperimentato, realizzando importanti risultati, un modo innovativo di lavorare nell’area della penalità rivolta alle dipendenze. La presentazione sarà l’occasione per far conoscere la proposta di una nuova e più ampia riconfigurazione del Progetto IV Piano frutto del confronto tra il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria, il Direttore della Casa Circondariale e il Dipartimento Dipendenze con la sua Uosd Strutture Intermedie. Interverranno: Antonio Fullone, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria; Maria Luisa Palma, Direttore della Casa Circondariale di Poggioreale; Ciro Verdoliva, Direttore Generale della Asl Napoli 1 Centro; Riccardo De Facci, Presidente Nazionale del CNCA; Samuele Ciambriello, Garante Regionale dei Detenuti; Luigi Romano, Presidente Regionale dell’Associazione Antigone; Cristina Mantis, regista; Sergio D’Angelo, Presidente del gruppo di imprese sociali Gesco; Stefano Vecchio, Direttore del Dipartimento Dipendenze Asl Napoli 1 Centro. Parteciperanno Marinella Scala, Responsabile Progetto IV Piano e Uosd Strutture Intermedie; Adriana Pangia, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; Giulia Leone, Direttore del Padiglione Roma; Caterina Butera, Responsabile Uos SerD Area Penale; rappresentanti di Amnesty international. Napoli. Caso Ioia, così Salvini infanga un motivo di vanto per lo Stato di Manuela Galletta giustizianews24.it, 15 dicembre 2019 Può una persona redimersi dagli errori commessi? Può una persona, che ha scontato la sua pena e si è perfettamente reinserita nella società, essere giudicata per ciò che è diventata e non guardata sempre e solo attraverso la lente del pregiudizio? La risposta ad entrambe le domande è ovviamente affermativa. Eppure c’è un ex ministro che non si fa scrupolo nel riservare parole cariche di odio e di disprezzo verso un uomo la cui “colpa” di oggi è quella di avere ottenuto, per volere del sindaco di Napoli, l’incarico di Garante dei detenuti. L’ex ministro in questione è Matteo Salvini, leader della Lega. Il bersaglio del suo livore è Pietro Ioia, tornato in libertà nel 2002 dopo 22 anni di reclusione per traffico di stupefacenti e negli ultimi 18 anni impegnato nel sociale senza mai incappare in alcun nuovo guaio con la giustizia. “Sono stato nel carcere di Poggioreale e ho ascoltato chi grida al mondo la vergogna e lo schifo per la nomina di uno pseudo-garante di detenuti con una carriera da spacciatore di morte alle spalle - sono state le parole di Salvini nella conferenza stampa convocata ieri, venerdì 13 dicembre, dopo la visita nel penitenziario partenopeo finalizzata esclusivamente a dialogare con gli agenti della Penitenziaria - Mettetevi nei panni di un agente che ogni giorno si confronta con una popolazione di 2mila delinquenti e si ritrova a dovere essere sottoposto al giudizio e all’umore di uno che è stato condannato ad anni ed anni di carcere, grazie a quel genio di De Magistris”. Ora, la nomina di Pietro Ioia a Garante dei detenuti del Comune di Napoli - al pari di ogni altra nomina - può legittimamente essere disapprovata e anche criticata. Ci si può legittimamente chiedere se quella di de Magistris sia stata la scelta più giusta. Tuttavia esibire con tale naturalezza parole come “vergogna e schifo” non significa disapprovare: vuol dire denigrare, insultare. Denigrare e insultare un uomo per ciò che è stato una quarantina d’anni fa, prima di entrare in prigione, dove ha pagato il conto con la giustizia e dove - anche grazie all’amministrazione penitenziaria e agli agenti della Penitenziaria - ha cominciato quel percorso che gli ha consentito, una volta uscito di galera, di dare un calcio al suo oscuro passato. Ma per Salvini Pietro Ioia non merita alcuna seconda occasione. Per Salvini Pietro Ioia è ancora “quello che è stato condannato ad anni ed anni di carcere”. Come se tutto quello che è venuto dopo la condanna, non è mai esistito. Come se il nuovo Ioia, in questi ultimi venti anni, non sia esistito. Ci soffermeremmo anche a spiegare all’ex ministro perché questo approccio è sbagliato, ma soprassediamo perché convinti che la polemica montata contro Ioia sia volutamente strumentale e per questa ragione la scelta delle sue parole è ancora più odiosa. Non da oggi Matteo Salvini si è presentato come paladino delle forze dell’ordine. Non da oggi Matteo Salvini ha provato a dividere il mondo in buoni e cattivi, facendo intendere di essere dalla parte da lui presentata come “giusta” e gettando in questa cerchia le basi per il consenso elettorale cui attingere all’occorrenza. E, allora, era inevitabile che Salvini interpretasse i sentimenti dei sindacati della Penitenziaria (che hanno duramente attaccato Ioia) procedendo con la fucilazione di Ioia a mezzo stampa. Un gioco strumentale e disgustoso, che si sta consumando sulla pelle di una persona che è riuscita - e questo le fa onore - a rimettersi nei binari della legalità dopo avere pesantemente deragliato. Un gioco vergognoso che, per paradosso, getta fango finanche su quello che dovrebbe essere presentato, con vanto, come un successo dello Stato civile di diritto: il recupero e il reinserimento di un detenuto nella società. Napoli. Il Sindaco De Magistris: “Garante detenuti? Strumentalizzata nomina Ioia” askanews.it, 15 dicembre 2019 Visita Salvini a Poggioreale? “Chiedo al ministro Bonafede se un leader politico può tenere un comizio in un carcere”. Per il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, sulla nomina da parte del comune di Napoli di Pietro Ioia, ex detenuto, come garante dei detenuti “c’è stata anche un po’ troppa strumentalizzazione politica” e che la decisione, invece, dovrebbe essere vista come “un messaggio che chi ha sbagliato può diventare testimone di giustizia”. “Non capisco perché viene data una lettura di contrapposizione a questa nomina che invece va proprio nella direzione della composizione di quelli che sono anche stati dei conflitti sociali. - continua il primo cittadino che poi commenta anche la visita di venerdì da parte del leader della Lega, Matteo Salvini nel carcere di Poggioreale, a Napoli, per protestare contro la nomina di Ioia - Non mi è mai capitato di vedere che un leader politico, ex ministro dell’Interno vada a fare un comizio in un carcere. Chissà cosa ne pensa il ministro della Giustizia di tutto questo perché non mi sembra una cosa proprio normale. Bisogna capire chi ha consentito questo, chi ha cavalcato e chi pensa di utilizzare delle funzioni per attaccare il sindaco di Napoli”. Infine si sofferma sulla richiesta al ministro Bonafede da parte dei sindacati della polizia penitenziaria di impugnare l’atto da lui firmato: “Facessero quello che vogliono, non capisco tutta questa preoccupazione, io sto dalla parte della polizia penitenziaria, dalla parte di Pietro Ioia, dalla parte della giustizia e dalla parte di quelli che hanno sbagliato e vogliono non sbagliare più. Vedo troppa strumentalizzazione politica, si dovrebbero abbassare un po’ i toni altrimenti comincio a pensar e che qualcuno ha paura del garante dei detenuti”. I Radicali: “Serve impegno di tutte le forze politiche per agenti e detenuti” All’indomani della visita di Matteo Salvini nel carcere di Poggioreale, per testimoniare la propria vicinanza alla polizia penitenziaria, i Radicali per il Mezzogiorno Europeo sono tornati a esprimersi sia in difesa della nomina di Pietro Ioia a Garante dei detenuti per la città di Napoli che sulle condizioni del maggior carcere partenopeo. In particolare, è intervenuto l’avvocato Raffaele Minieri, leader dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo e membro della direzione nazionale di Radicali Italiani. Minieri ha rivendicato come i Radicali, a partire da Marco Pannella, abbiano sempre posto in evidenza non solo le condizioni di vita dei detenuti ma anche quelle di lavoro della polizia penitenziaria. I Radicali, alla luce della visita di Salvini, lanciano la sfida alla politica affinché questa provveda a sanare le numerose criticità che albergano nel carcere di Poggioreale e annunciano nuovi ingressi nelle carceri cittadine per i prossimi giorni. Queste le parole di Raffaele Minieri: “Il primo effetto positivo della nomina di Pietro Ioia è l’attenzione che finalmente la politica tutta rivolge a Poggioreale. Si tratta di una struttura che ha bisogno di impegno di tutte le forze politiche. Sono anni che denunciamo il sotto organico della polizia penitenziaria, l’inadeguatezza delle piante organiche, le difficoltà concrete vissute dagli agenti che si trovano spesso costretti a supplire alla carenza di educatori o a trovare soluzioni per la scarsità di risorse sanitarie per i detenuti. Pannella ha testimoniato da sempre il vero interesse per le condizioni degli agenti. È stata l’unica voce a denunciare il numero elevatissimo di suicidi fra gli agenti. Speriamo che la vicinanza testimoniata dal Senatore Salvini alla polizia penitenziaria si traduca in un impegno effettivo in tal senso perché migliorare le condizioni di tutti gli operatori del carcere (agenti, educatori, medici, etc.) vuol dire migliorare le condizioni dei detenuti. Il secondo dato positivo è che le omissioni sulle condizioni di sovraffollamento e di degrado assoluto di alcuni padiglioni, sull’assenza di sufficienti fondi per attività di recupero e per la sanità dimostrano la necessità di un punto di vista diverso e di una voce capace di raccontare e spiegare come vivono i cittadini detenuti, cioè la necessità di un Garante come Pietro Ioia. Nei prossimi giorni torneremo a visitare gli istituti penitenziari della città metropolitana di Napoli per continuare a sollecitare le istituzioni e la politica a prendersi carico della situazione carceraria a prescindere dalla polemica politica in vista delle elezioni regionali in Campania”. Avellino. L’inferno delle carceri irpine: 1.200 detenuti tra sovraffollamento e abbandono di Flavio Coppola orticalab.it, 15 dicembre 2019 Operatori allo stremo e non un solo psicologo Carlo Mele, garante dei detenuti della provincia di Avellino, rilancia l’allarme per quella che ormai è una vera e propria emergenza quotidiana: “Non sono più istituti di pena, ma una vera Babilonia. Nessun reinserimento, zero assistenza e istruzione al palo: in una cella di 20 metri dormono anche in 6”. Aggressioni, problemi sanitari, infiltrazioni di sostanze stupefacenti o telefoni cellulari sono sempre di più all’ordine del giorno nelle carceri irpine. L’ultimo episodio, solo l’altro giorno, ha visto protagonista un detenuto che ha aggredito ben tre agenti. Perché? Da una parte, per il sovraffollamento sempre più grave dei tre carceri di Avellino, Ariano e Sant’Angelo dei Lombardi; dall’altra, per la carenza pesante di personale. Nel mezzo, poi, si colloca drammaticamente la carenza di attività formative e persino di assistenza sanitaria, anche e soprattutto psichica. Non ha problemi, il Garante dei detenuti della provincia di Avellino, Carlo Mele, a definire il sistema penitenziario locale “una totale Babilonia”. Lo si può capire fin troppo facilmente leggendo i numeri. Il carcere di Bellizzi, realizzato per contenere 450 detenuti, ne ospita 600. Si tratta del carcere maggiore, che in più padiglioni ospita detenuti di tutti i tipi e per tutti i reati. Anche le donne. “In celle grandi al massimo venti metri quadrati - denuncia Carlo Mele - possono abitare anche 5 o 6 detenuti. C’è un tavolo e un bagnetto, e a volte bisogna fare i turni per decidere chi sta in piedi e chi sul letto”. Un fatto, questo, per il quale l’Italia è di nuovo sotto la lente dell’Unione europea. Una barbarie. Ad Ariano l’esasperazione del personale è tale che è già stato programmato uno sciopero per la fine del mese. Qui i detenuti dovrebbero essere 300, e sono 380. Per il 90 per cento si tratta di giovani provenienti dal Napoletano. E poi c’è la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, con 150 detenuti, per i quali sono previsti percorsi lavorativi. Se le carceri implodono letteralmente “il personale - ricorda Carlo Mele - è ridotto al lumicino. Chi va in pensione non viene sostituito. I ricambi non ci sono e gli operatori, per gran parte, hanno un’età avanzata. Il concorso nazionale per 1200 nuovi ingressi in fase di definizione, ma i problemi sono gravi e impellenti”. I percorsi per il reinserimento e le prestazioni sanitarie, poi sono una vera e propria chimera. Anche qui, mancano i professionisti e i fondi. “L’istruzione non viene svolta perché le classi non si formano. - denuncia ancora Mele - Talvolta gli insegnanti si trovano di fronte a classi vuote. E’ un vero e proprio caos organizzativo”. L’emergenza più grave è probabilmente quella dei servizi sanitari. In particolare per le cure psicologiche. “Moltissimi ragazzi, quasi sempre con problemi di droga, sono abbandonati a se stessi. - ricorda il garante - In tutte e tre le carceri irpine non c’è un solo psicologo. Un fatto clamoroso, che spesso concorre a determinare i ricorrenti episodi di violenza”. Per legge, gli operatori psichiatrici dovrebbero svolgere nelle carcere un minimo di 15 ore a settimana. “Ma siamo al massimo a due visite al mese”. Il massimo dei disagi si verifica nella struttura di Ariano. Una situazione, insomma, non più sostenibile, che fa delle carceri irpine una vera e propria polveriera. “I nostri appelli - conclude il garante dei detenuti - al ministero della Giustizia, ormai, vengono sottoscritti anche dai direttori delle carceri. Ma il silenzio è assordante. Così organizzati, i penitenziari non svolgono più alcuna funzione rieducativa”. Monza. Recupero dei detenuti, il Rotary sostiene il progetto monzaindiretta.it, 15 dicembre 2019 Recupero dei carcerati: questo il tema affrontato al Golf Club nel Parco di Monza. Un incontro organizzato da Rotary Monza con la partecipazione della Dott.ssa Pitaniello, Direttrice della Casa circondariale di Monza, e della Dott.ssa Lucia Scarpa che ha portato la sua testimonianza sui risultati ottenuti con la partecipazione dei carcerati alla “Maratona di lettura dell’Odissea”, iniziativa nata in collaborazione con il Liceo Zucchi. In questa occasione il Rotary Monza ha donato 5.000 Euro alla Casa circondariale del capoluogo brianzolo a sostegno delle attività di reintegrazione dei reclusi. La Casa circondariale di Monza nasce nel 1992. Ad oggi ospita circa 650 detenuti di sesso maschile appartenenti al circuito di media sicurezza: tra questi vi sono collaboratori di giustizia, ma anche persone affette da dipendenze e numerosi detenuti stranieri, circa il 40%. Attualmente la struttura è in fase di trasformazione. L’obiettivo è ospitare 200 detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza (condannati per reati di criminalità organizzata) e riaprire la sezione femminile per includere circa 90 donne. Sarà inoltre aperta una falegnameria e anche gli alloggi del personale penitenziario saranno soggetti a lavori di adeguamento. Durante l’incontro, la Dott.ssa Pitaniello ha esordito affermando che l’opinione pubblica è poco informata riguardo la realtà penitenziaria italiana e l’emarginazione in cui versano i carcerati una volta rientrati a far parte della società civile. La Pitaniello ha quindi ricordato che l’articolo 27 della Costituzione non va dimenticato e che è essenziale per la nostra società riabilitare le persone recluse affinché una volta uscite di prigione possano integrarsi e svolgere un lavoro e una vita onesti. Per fare ciò, lo studio del corretto percorso riabilitativo è fondamentale. Deve essere ben strutturato, a partire dal reato commesso, condizione essenziale per far intendere al detenuto la gravità dello sbaglio compiuto e indirizzarlo quindi verso un’attività che possa dare nuovo senso alla sua vita sia dal punto di vista personale, sia lavorativo. Spesso purtroppo il sovraffollamento delle strutture carcerarie non permette di adottare percorsi riabilitativi idonei a tutta la popolazione carceraria. Ciò che si propone di fare la Casa circondariale di Monza è di portare all’attenzione di tutti un nuovo e ambizioso progetto che punta all’inserimento lavorativo dei detenuti come occasione di recupero sociale. Le attività messe in campo sono molteplici. La prima si basa sui rapporti di collaborazione con ditte esterne dove i carcerati possono recarsi per imparare nel concreto un nuovo mestiere. Diverse sono le professioni tra cui scegliere: dal servizio di lavanderia, all’attività di assemblaggio di componenti metallici, fino al lavoro in pasticceria, sartoria o anche pelletteria. Oltre alle convenzioni con le aziende, la Casa circondariale di Monza offre ai reclusi la possibilità di imparare un impiego direttamente da un gruppo di insegnanti specializzati in diversi campi. Da non dimenticare l’importanza delle attività culturali che rappresentano un fattore determinante nell’ambito del progetto di reinserimento. La Dott.ssa Pitaniello ha sottolineato come la cultura sia capace di fornire gli strumenti necessari per comprendere meglio sé stessi e raggiungere così una maggiore consapevolezza, per riflettere sugli errori commessi, in vista di un futuro migliore. Oggi circa il 60% dei detenuti del carcere di Monza partecipa a un progetto teatrale che permette loro di intraprendere un percorso di reale cambiamento interiore. L’obiettivo è migliorare i rapporti all’interno dello stesso sistema carcerario e allo stesso tempo creare un dialogo tra “interno” ed “esterno”, grazie a momenti di incontro con la comunità. L’intervento della Dott. Scarpa ha poi messo in luce la sinergia nata tra gli studenti del Liceo Zucchi, coinvolti nella Maratona di lettura dell’Odissea del 18 ottobre scorso, e i detenuti che hanno preso parte al progetto. Commenta così l’impegno, il Presidente Rotary Monza Mario Fontana: “Continuiamo a sostenere iniziative di valore per il territorio e perseveriamo nel supportare le persone, tutte le persone, senza distinzioni. Le carceri vengono spesso dimenticate e i detenuti lasciati senza possibilità di riscatto. Non possiamo e non dobbiamo dimenticarci di loro.” Non è la prima volta che il Rotary Monza sostiene iniziative che coinvolgono il mondo delle carceri, dell’inclusione e della cultura. Lo scorso 25 ottobre, insieme ai distretti Rotary 2041 e 2042, è andato in scena al Teatro Manzoni di Monza un concert show realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione Milano Opera e dall’associazione Eventi di Valore all’interno del “Laboratorio artistico del Musical”. Uno show portatore di valori positivi espressi dai detenuti attraverso il loro percorso di cambiamento e di ravvedimento a favore del progetto di eradicazione della poliomielite End Polio Now. Dichiara il Presidente Rotary Distretto 2042, Giuseppe Navarini: “Mi congratulo con il Rotary Monza per la splendida iniziativa che sta sostenendo. Quello delle carceri è un tema a cui prestiamo grande attenzione e che cerchiamo di supportare in ogni modo possibile. Sono certo che il contributo dato a questo nuovo progetto, in corso alla Casa circondariale di Monza, porterà a un sincero e positivo cambiamento per il territorio”. Rimini. “Al Fresco”: in carcere i detenuti fanno saponi, prodotti per beneficenza di Andrea Oliva Il Resto del Carlino, 15 dicembre 2019 Il progetto della Caritas in collaborazione con la casa circondariale ha creato una linea di cosmesi I materiali commercializzati nella nuova bottega dell’associazione in Corso Giovanni XXIII. Per Natale regalati un sapone di Marsiglia per stare “Al fresco”, come i detenuti delle carceri che lo hanno confezionato con le proprie mani. Non manca l’ironia a chi si è messo d’impegno tra le mura della Casa circondariale di Rimini, ed ha preparato dei prodotti che possono oggi essere venduti nell’atelier della Caritas, in centro storico. A rendere possibile il progetto è stata la collaborazione tra Caritas, Comune di Rimini e Casa circondariale. In carcere le giornate possono essere lunghissime, o il tempo scivolare via. Quello che si può fare è evadere, ma con la mente, ed è quanto è avvenuto, spiegano dalla Caritas. “Creatività, gesti e profumi, hanno permesso di evadere con la mente e hanno ispirato i partecipanti a organizzare una raccolta fondi da destinare a progetti virtuosi presenti nel territorio”. Nulla è stato lasciato al caso. I prodotti sono stati realizzati con materia prime naturali, vegetali e olii essenziali. La produzione è avvenuta sotto la guida di Perla Urbinati, naturopata e appassionata di cosmetici e saponi naturali. I detenuti hanno così iniziato a seguire gli insegnamenti per produrre saponi da utilizzare per il bucato, come avveniva un tempo, ed anche per il corpo, alla calendula o alla lavanda. A dire il vero la linea di cosmesi “Al Fresco” è molto più completa e propone anche burro cacao all’arancia, deodorante spray e dentifricio. Nella produzione si è tenuto in conto anche il rispetto dell’ambiente e di conseguenza il riutilizzo di materiali destinati alla discarica o peggio a inquinare. I saponi di Marsiglia per il bucato sono stati realizzati grazie al riciclo ‘creativo’ di olii da cucina. I prodotti si troveranno in commercio da “Lazzaro”, il nuovo atelier della Caritas, termine coniato dal vescovo Francesco Lambiasi, che si trova in Corso Giovanni XXIII. Le offerte per portarsi a casa uno dei prodotti confezionati dai detenuti partiranno da 2 euro. Come accade in ogni vera storia natalizia, anche questa vicenda trabocca di solidarietà. Non ci sono solo i detenuti che offrono in dono il frutto del proprio impegno. Le offerte raccolte da “Lazzaro” andranno a chi si spende ogni giorno per gli altri. “Si è deciso - spiegano dalla Caritas - di devolvere l’intero ricavato al progetto Magnifici Lettori Volontari di Rimini, un gruppo di uomini e donne di età e lavori diversi ma accomunati dalla volontà di mettere a disposizione il proprio tempo e voce a sostegno dei piccoli pazienti dell’ospedale di Rimini e delle loro famiglie”. I lettori si dedicano in particolare ai reparti di Chirurgia pediatrica, Pediatria, Oncologia pediatrica e Terapia intensiva neonatale dell’ospedale Infermi di Rimini. Il ricavato servirà ad acquistare nuovi libri e formare nuovi lettori. Alghero. Gramsci Festival, l’ex ministro Flick al convegno su “Costituzione e carcere” buongiornoalghero.it, 15 dicembre 2019 “Dignità e speranza sono le due colonne d’ercole con le quali deve essere trattato il tema del carcere”. Lo ha sostenuto venerdì sera Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, nel corso del convegno a tema “Costituzione e carcere” realizzato per l’International Gramsci Festival, in un luogo altamente simbolico come la Torre Aragonese di Ghilarza, una volta adibita proprio a luogo di detenzione. L’ex ministro della Giustizia ha parlato con parole semplici e profonde di fronte a un pubblico numeroso (anche in piedi), non facendo mistero dell’amarezza per il clima con il quale si stia trattando in Italia il tema Giustizia. Nel ricordare i contenuti del film-documentario di Fabio Cavalli, la cui proiezione stasera (14 dicembre) chiuderà l’intera kermesse, Flick ha affermato che, proprio ora che la Corte Costituzionale ha deciso di visitare le carceri entrando dalla porta, la Costituzione sta rischiando di uscirne dalla finestra. “Chi dice di volerla cambiare, spesso non l’ha nemmeno letta - ha scherzato il giurista. Secondo Flick, si sta rapidamente passando dal principio per cui “la legge non ammette ignoranza”, a quello per il quale “l’ignoranza non ammette legge”. E la politica in questo ha una grossa responsabilità. Il tema carcere andrebbe trattato con molto più equilibrio: “Se da un lato anche il peggior delinquente una volta condannato ha diritto di vedere rispettata la propria dignità, dall’altro, se viene meno la speranza di un futuro libero, si passa dalla pena alla tortura”. Più volte è stato citato il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato), ma è stato anche specificato quanto sia doveroso dare attuazione anche agli articoli 2 e 3, che prevedono pari dignità sociale anche per i detenuti. Nella visione di Flick il tema carcere presenta tre paradossi. Il primo è quello dell’ergastolo, perché se la pena non finisce si leva la speranza e non si consente la rieducazione. Il secondo riguarda il sovraffollamento, che rende la vita impossibile. Basti pensare che la Corte di Strasburgo ha condannato due volte l’Italia per trattamento inumano dei detenuti. L’ultimo paradosso è rappresentato dal fatto che - nonostante la pena di morte sia stata abolita anche dai codici militari - in carcere si continui a morire. E si muore talvolta per violenza subita ma molto più spesso per suicidio, sia da parte dei detenuti che del personale. Nel dirsi soddisfatto per l’elezione di una donna a presidente della Corte Costituzionale, per la prima volta nella storia, il giurista ha elencato tra i vari esempi di non parità sociale gli ebrei, i migranti e le donne, aggiungendo a questi la categoria dei detenuti. Durante l’incontro, moderato dall’avvocato Antonello Arru, sono intervenuti anche Antonello Spada, presidente dell’Unione Regionale degli ordini forensi della Sardegna, Aldo Luchi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari e Giuseppe Conti, presidente dell’Ordine degli avvocati di Sassari. “Credo che nel momento in cui si riapre la casa di Gramsci, una persona che in carcere ha vissuto e ha sofferto, ed è morta non appena è uscita, in nome della libertà e delle proprie idee - ha affermato in conclusione Flick - sia importante riflettere su queste tematiche per capire quanto oggi sia urgente riaprire un dibattito sul carcere, che sembra essere stato abbandonato e dimenticato di fronte alle esigenze della sicurezza”. L’Igf è organizzato dalla Fondazione Casa Museo Antonio Gramsci e dal Comune di Ghilarza, con il supporto di Ras, Fondazione di Sardegna e Isre, e il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, l’Icom, la Fihrm, l’Ambasciata del Sudafrica in Italia, e la collaborazione di numerosi enti, istituzioni e associazioni. Padova. Un killer, un panettone e il dono di cambiare di Marco Pozza ilsussidiario.net, 15 dicembre 2019 In carcere lavorare cambia la vita. Lo conferma la pasticceria del carcere di Padova. Storie che narrano di ricette e resurrezioni. L’ho beccato, alla lettera, con le mani in pasta: stava impastando il lievito nella pasticceria del carcere. Le sue mani somigliavano a quelle di un musicista sulla tastiera, di un pittore sulla tela, di un artista all’opera. Dalle mani, poi, sono risalito al volto: mi pareva familiare pur non avendolo mai incrociato, terribile pur inerme. L’ho fissato, ho abbassato lo sguardo, l’ho rimirato. Si è accorto del mio sospetto: “Sono io” mi ha confermato con un anticipo di sorriso. Era proprio lui, dunque: l’uomo di una spietatezza feroce, un killer di quelli fatti bene, l’angoscia di una città in preda a rabbia e paura. Erano passati più di vent’anni dai misfatti, ma la sua faccia è rimasta legata a quelle gesta omicide e lerce. Con in mano la pistola, ha portato la morte in casa degli altri e la vergogna in casa sua. Dopo decenni passati nella gattabuia della galera, le mani sono le stesse. A mutare è stata la destinazione d’uso di quelle mani: “Memorizzale - mi sono detto -: mani che ieri hanno procurato morte possono diventare mani che, domani, daranno vita alla bontà”. Le mani, a volte, sono rivelazioni: alcune ti aprono finestre, altre sono delle finestre. Mettere le proprie mani in buone mani: questo è. I panettoni sfornati da loro nella galera di Padova (“I dolci di Giotto”) sono storie che narrano storie: di ricette e risurrezioni, di scorribande e ripensamenti, di vecchi agguati e sorprese inedite. Di convivenze impensate: “Com’è possibile che una bestia diventi angelo?” borbotterà qualcuno. È l’identico mistero che abita nell’incontro tra zenzero, mandarino e gelsomino: è arte dei pasticceri far convivere i diversi sorprendendo il palato. È sfida di chi educa riusare il passato per produrre futuro, nel presente. Succede come con la pesca, l’albicocca e la lavanda: una nasce per terra, le altre in alto, sui rami. Quando si mettono in cooperativa tra di loro, nasce un sodalizio sensuale. Quando li vedo all’opera - tra impasti, degustazioni, confezionamenti - mi pare d’essere dentro un’officina: ci sono storie dietro quelle mani, ci sono finali di storie, anche nuovi inizi. Quelle mani sono un ciclo di (ri)produzione infinito. Una manutenzione di mani: arrivano mani usate che, come con le auto d’epoca, vengono restaurate per rimetterle in circolazione: il loro valore, alla prova dei fatti, certe volte quintuplica. Lavorare i dolci, in carcere, è doppio lavoro: lavorando la materia si lavora la propria storia. Il fatto è semplice da apparire scontato: impastando il buono si diventa buoni, lavorando sul bello si diventa tali. “Sono fastidiosi come la mosca sul naso”, mi disse un giorno un signore parlando dei carcerati. Quella mosca è un’annunciazione: Giotto, quand’era a bottega da Cimabue, dipinse una mosca sul naso di una figura creata dal grande maestro. Che si accorse dello scherzo solo dopo aver fatto più volte il gesto con le mano per mandarla via, tanta era la perfezione artistica di quella mosca. Nel fastidio, certe volte, s’annuncia il genio. Certi pensieri nascono che sono muti: ci penseranno le mani, una volta fatta la manutenzione, ad raffigurarli con arte. Assurdo? Chiedete conferma al palato. Piacenza. Un volume per i detenuti: l’appello natalizio delle librerie Coop liberta.it, 15 dicembre 2019 Aprire le porte del carcere ai libri per far uscire persone migliori. L’appello natalizio a donare volumi e opere letterarie alla casa circondariale di Piacenza arriva dalle Librerie Coop del centro commerciale Gotico. In questi giorni, infatti, le responsabili del negozio stanno invitando i propri clienti a donare uno o più titoli alla biblioteca delle Novate, con l’obiettivo di favorire la diffusione della cultura dietro le sbarre e l’interazione della società con i detenuti. Chiunque può regalare un’occasione di lettura e rieducazione semplicemente appoggiando un libro su uno scaffale apposito all’interno del punto vendita. Si tratta di una campagna di sensibilizzazione più ampia, intitolata “Più Lib(e)ri - Dona un libro al carcere”, alla quale partecipano anche Libreria Fahrenheit 451, Bookbank Libri d’Altri Tempi, Libreria Internazionale Romagnosi e Mondadori Bookstore. Lasciando un “libro sospeso” nelle librerie piacentine che aderiscono all’iniziativa durante il periodo natalizio, si contribuirà ad arricchire la biblioteca della casa circondariale. Velletri (Rm). “Camera con vista”, primo concorso letterario in favore dei detenuti ilclandestinogiornale.italiasera.it, 15 dicembre 2019 La Camera Penale di Velletri, in collaborazione con il Carcere veliterno, ha indetto la prima edizione del concorso letterario in favore dei detenuti intitolato: “Camera con vista”. “Attraverso i racconti, le poesie e i disegni - annunciano i proponenti -tocchiamo l’intimità più profonda di chi è attualmente ristretto presso l’Istituto carcerario e che accetta di condividere la propria condizione e sofferenza con l’esterno. Il ricavato della raccolta sarà devoluto in favore dei primi tre classificati nonché per le iniziative culturali in favore dei detenuti. La premiazione si svolgerà il 9 gennaio 2020 alle 15,30 presso la Casa Circondariale di Velletri. Faranno parte della giuria personaggi del mondo della cultura, del giornalismo, della politica, della avvocatura e della magistratura: Rita Bernardini, Edoardo Albinati, Maria Antonietta Vertaldi, Francesco Maesano, Valentina Angela Stella, Marco Anselmi, Alessandro Gerardi, Federica Marmo, Brunella Libutti, Francesco Lodise, Lia Simonetti, Sabrina Lucantoni. L’evento sarà seguito da Radio Radicale. Per l’acquisto del libricino, il cui ricavato sarà devoluto alle iniziative culturali in favore dei detenuti, scrivere all’avvocato Sabrina Lucantoni: s.lucantoni@gmail.com Padova. I volontari per ricucire l’Italia di Mauro Giacon Il Gazzettino, 15 dicembre 2019 “Il paese ha bisogno di una nuova religione civile”. A marzo i giovani realizzeranno progetti socialmente utili. “Io non so se l’Italia ha veramente bisogno dell’uomo forte. Ma so che di sicuro ha bisogno di relazioni fra le persone. Ed è questa la nostra missione per quest’anno: ricucire insieme il Paese. Partendo dal lavoro dei volontari che è lo stesso dappertutto, in Veneto come in Sicilia. Ho scritto anche al papa chiedendogli di venire a visitarci”. Così Emanuele Alecci, presidente del Centro servizi volontariato ha introdotto la presentazione ufficiale di Padova capitale europea del volontariato scettro ereditato da Kosice in Slovacchia dopo essere stato fra gli altri di Londra e che l’anno prossimo sarà consegnato a Berlino. La città vanta un palmarès illustre fin dai tempi di Civitas, che è rinato quest’anno con Solidaria. Ma la sua forza sono le 6.400 organizzazioni di volontari, sentinelle di un vero esercito del bene. Persone che di solito lavorano in silenzio ma che questa volta vogliono farsi sentire. L’obiettivo - “Vogliamo essere il luogo che fa partire il lavoro per la comunità che verrà”. Un manifesto politico nel senso più alto del termine. Che sarà declinato in centinaia di manifestazioni, già duecento quelle in programma. La prima fra il 7 e il 9 febbraio sarà una tre giorni che accoglierà anche il presidente della Repubblica Mattarella chiamato a testimone “dei sogni e dei progetti del volontariato italiano e di chi ha voglia di interessarsi della cosa pubblica, del bene comune. Un modo di ricostruire il Paese che ha bisogno di una nuova religione civile, e questa la può fondare solo il volontariato”. I temi - Non solo parole. Da mesi circa quattrocento persone stanno lavorando a sbozzare i temi che saranno declinati nelle manifestazioni dal 2020 fino al 2022 per costruire un modello operativo da esportare alle città. “Vogliamo partire con un grande progetto di coinvolgimento di Padova ad ogni livello, dai cittadini ai giovani. È uno schema che può fare da collante ad un nuovo modo di vivere la comunità”. Impossibile? Invece no. In sala oltre al sindaco Sergio Giordani e al vice Arturo Lorenzoni era presente il senatore Antonio De Poli. Un suo emendamento al Senato per destinare 500mila euro agli eventi è stato votato oltre le appartenenze. De Poli sarà uno dei 50 ambasciatori di Padova capitale europea. Personaggi, ma anche volontari e associazioni. Gli incontri - Saranno centinaia gli appuntamenti. Padova è già reduce dal Festival della cultura paralimpica e dalla Giornata della generatività sociale. Fra le maggiori del 2020 il secondo grande appuntamento sarà 20.020 ore di solidarietà. In tre fine settimana di marzo i giovani saranno chiamati ad impegnarsi per progetti socialmente utili in tutta la provincia. Dalla primavera all’autunno 7 eventi per 7 tavoli presenterà il lavoro di 400 cittadini referenti di imprese, associazioni di categoria, sindacati, università, scuole, enti pubblici e media con proposte al Paese sui legami fra volontariato e tessuto economico. Ad esempio il Dipartimento di diritto privato dell’Università e la Fondazione Cariparo che sostiene Padova capitale dal 31 gennaio presenteranno i venerdì del terzo settore, un percorso di alta formazione giuridico-economica sugli aspetti della Riforma. Solidaria - Dal 21 al 27 settembre aprirà Solidaria, interazione fra realtà profit e non profit, 50mila presenze quest’anno. E in chiusura la festa regionale del volontariato veneto saturerà di stand e di pubblico Prato della Valle e le piazze. In autunno appuntamento su come Rigenerare la solidarietà nei territori in preparazione con 30 personalità del mondo scientifico. Sempre in autunno il Festival che unisce i festival, ovvero gli 8 festival che si occupano a livello nazionale di economia sostenibile riuniti a Padova. Chiusura il 5 dicembre, si spera nel nuovo centro congressi con la Giornata internazionale del volontariato e visita-studio delle realtà padovane rivolta a 50 volontari e operatori europei. Torino. Saranno chiusi tutti i campi rom di Andrea Rossi La Stampa, 15 dicembre 2019 Sarà seguito il “modello Moi”. Entro Natale via le baracche in Germagnano, poi tutti gli altri insediamenti. In cambio, percorsi di inclusione: casa, formazione, inserimento al lavoro. Il “modello Torino”, quello che ha permesso di affrontare con successo un’emergenza trascurata per anni come l’occupazione delle palazzine all’ex Moi, non è finito in soffitta. Non è evaporato nemmeno con la vittoria in Regione della Lega, portatrice di un programma che più che all’inclusione guarda alla stretta legalitaria. Anzi, proprio con la Lega è arrivata la liberazione definitiva e rapida dell’ex villaggio olimpico. E ora con la stessa Lega il modello usato all’ex Moi viene riproposto sui campi rom dalla stessa alleanza istituzionale: Comune di Torino, Regione, Prefettura e Diocesi. Manca, rispetto a via Giordano Bruno, la presenza di Compagnia di San Paolo. Entro Natale le 36 persone che ancora abitano nel campo autorizzato di via Germagnano usciranno dalle baracche. A gennaio toccherà a un pezzo dell’insediamento in strada dell’aeroporto. Il percorso sarà molto simile a quello che ha portato rifugiati e richiedenti asilo fuori dall’ex Moi: uno sgombero dolce, in cui la legalità si accompagna a percorsi di inclusione che prevedono abitazioni, formazione e inserimento lavorativo. “Le azioni devono essere finalizzate al ripristino della legalità e dall’altro all’inclusione sociale delle minoranze etniche interessate”, si legge nel testo approvato martedì scorso dalla giunta Appendino, che già nel 2017 ha avviato un progetto per il superamento dei campi. L’accordo ne è una evoluzione e nasce anche dalla collaborazione con il ministero dell’Interno, che attraverso la Prefettura ha stanziato 250 mila euro per questo primo intervento cui si aggiungono i 300 mila euro della Regione. Il prefetto Michele Di Bari, capo del dipartimento per l’Immigrazione, l’ha di fatto battezzato come un esperimento pilota che potrebbe poi essere applicato in altre realtà. Anche gli strumenti sono gli stessi dell’operazione all’ex Moi: la Città dovrà nominare un project manager, figura di esperienza e competenza che sarà incaricato di fare da regista e coordinare tutti gli interventi. Dal canto suo la Città dovrà occuparsi delle bonifiche delle aree liberate. La Regione fornirà risorse e l’accesso a programmi già esistenti di formazione civico-linguistica, integrazione e lavoro. La Prefettura stanzierà altre risorse a avrà funzioni di coordinamento. Infine la Diocesi fornirà abitazioni per ricollocare le persone oltre alle sue strutture e ai suoi progetti. Una task force che ricalca da vicino - anche nella suddivisione dei compiti - il modello Moi. E lo fa anche nell’obiettivo: coniugare sicurezza e accompagnamento. Il tutto mantenendo l’alleanza istituzionale anche con la Regione a trazione leghista. Inutile dire che al governo regionale interessa raggiungere gli obiettivi della legge approvata a ottobre, vale a dire “la chiusura totale e definitiva dei campi in Piemonte”, spiega l’assessore alla Sicurezza Fabrizio Ricca. Per arrivarci, la Regione ha ottenuto tempi più rapidi ma ha accettato che l’impianto complessivo non venisse stravolto, almeno a Torino. Altrove, dipenderà dai sindaci dei comuni interessati: in Piemonte ci sono 19 campi autorizzati con circa 2.200 persone. “Quello di Torino è l’inizio di un percorso”, spiega Ricca. “Ho chiesto al prefetto Palomba di coordinare gli altri prefetti piemontesi per replicare questo schema in tutti i comuni nei quali esistono insediamenti rom per arrivare a superarli nel più breve tempo possibile”. Milano. Gli artisti della Scala insieme ai detenuti. “Fuori dal coro” per i bambini poveri di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 15 dicembre 2019 Gli artisti del Coro della Scala e i detenuti del Coro della Nave di San Vittore. Insieme. Per beneficenza. In un concerto-spettacolo di Natale intitolato “Voci fuori dal coro” che avrà luogo alle 21 di martedì nell’Auditorium Fondazione Cariplo, in largo Gustav Mahler, con la partecipazione degli attori del Macrò Maudit Teater. La serata, promossa e organizzata dalla Fondazione Cariplo e dall’associazione “Amici della Nave”, servirà a raccogliere fondi per l’accesso alle cure dentali dei bambini di Milano che vivono in condizioni di povertà. E l’iniziativa si unisce alle tante attività del “Programma QuBì - La ricetta contro la povertà infantile”, attivato a portato avanti dalla stessa Fondazione Cariplo per contrastare la povertà di oltre 20 mila minori in città. La campagna di raccolta fondi è attiva su “For Funding”, la piattaforma digital di Intesa Sanpaolo che sostiene il progetto con le Fondazioni Vismara, Romeo ed Enrica Invernizzi, Fiera Milano e Snam. Per partecipare alla serata basta andare su forfunding.it e cercare “Progetto QuBì”, dopodiché fare una donazione e registrarsi: sarà poi sufficiente dare il proprio nome una volta arrivati all’ingresso. La collaborazione a questa iniziativa da parte dei coristi della Scala, a titolo totalmente volontario così come quella del loro maestro Bruno Casoni, è nata dopo l’esperienza dello scorso aprile, un’esperienza durante la quale il teatro più famoso del mondo aprì le sue porte - e il suo palco - ai detenuti del reparto per una interpretazione fianco a fianco di “Va’ pensiero”. Ora, a dieci giorni dalla Prima e nonostante il fitto calendario di repliche e prove per gli spettacoli successivi, gli artisti della Scala hanno trovato il tempo e la volontà di andare a provare dentro il carcere di San Vittore per la preparazione di questo spettacolo che sarà arricchito dai testi scritti dai detenuti stessi - interpretati dalle voci di Macrò Maudit - e dalle fotografie di Ludovica Sagramoso. La campagna di raccolta fondi sarà comunque attiva fino al 31 gennaio. Dunque c’è ancora tempo. Per raggiungere i bambini che anche in una città come Milano non riescono ad accedere al dentista il programma attiverà le 23 ricette QuBì attive in 25 quartieri della città: una rete di prossimità che coinvolge più di 600 organizzazioni non profit, i servizi sociali, la cittadinanza attiva, e che finora ha raggiunto su vari fronti diversi 60mila persone. “Il concerto Voci fuori dal Coro - sottolinea il presidente di Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti - è un’iniziativa speciale perché è nata dal desiderio di persone che vivono in carcere di fare qualcosa per chi ha bisogno, un gesto che lancia un messaggio molto potente. Persone di condizione, se vogliamo, così distante come detenuti e artisti di uno dei teatri più prestigiosi del mondo si sono unite per aiutare i bambini che a Milano vivono in povertà. Un tema cittadino - ha aggiunto Fosti - che riguarda tutti. Il nostro impegno è cercare di ridurre queste distanze, fino a colmarle”. “Per tutte le persone che si sono impegnate in questa iniziativa - ha detto Eliana Onofrio, che è la presidente dell’associazione Amici della Nave - fare qualcosa a favore del prossimo è una grande esperienza di crescita. Grazie di nuovo a tutti coloro che l’hanno resa possibile”. Tra questi Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore: “Stiamo parlando di un percorso nel quale crediamo molto. La pena come momento in cui ricostruire l’uso del proprio tempo e il carcere come luogo aperto, di scambio, finalizzato al rientro nella società. Attraverso il lavoro, l’arte, la bellezza. In questo caso, con l’arricchimento di uno scopo benefico in cui i detenuti non chiedono ma danno”. Trani (Bat). In carcere l’inaugurazione del nuovo spazio ludico “Magikambusa 2.0” traniviva.it, 15 dicembre 2019 Attività e laboratori per i bambini accompagnati da personale qualificato. Presso la Casa Circondariale maschile di Trani è stato inaugurato il nuovo spazio ludico “Magikambusa 2.0”, progetto vincitore del bando Orizzonti Solidali dell’anno 2018, promosso dalla fondazione Megamark. Il progetto “Magikambusa 2.0”, gestito dall’associazione “Paideia”, è protagonista di una nuova rinascita, grazie ai fondi stanziati dalla fondazione Megamark e dal cofinanziamento ricevuto da parte dell’ufficio del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il progetto nasce nel 2013, con la vittoria del bando regionale Principi attivi 2012; nel corso di questi anni l’associazione ha incontrato molte difficoltà per autofinanziarsi, ma grazie alla generosità dei privati, dell’ufficio del garante dei diritti dei detenuti e dei minori e anche a campagne di crowd-funding, “Magikambusa” ha continuato a garantire i propri servizi ai suoi piccoli utenti. Oggi l’associazione ha potuto allestire un nuovo spazio ludico, confortevole e ricco di nuovi giochi, all’interno del quale i bambini possono trascorrere il loro tempo, accompagnati da personale qualificato (educatrici e psicologhe) che organizzano attività ludiche e ricreative, laboratori manuali e garantiscono il supporto necessario. Con l’auspicio di sensibilizzare e diffondere gli obiettivi del progetto, l’associazione ha organizzato una conferenza stampa invitando i rappresentanti della Fondazione Megamark, le istituzioni pubbliche del comune di Trani e San Ferdinando di Puglia, della Regione Puglia, il Garante dei diritti dei detenuti co-promotore dell’iniziativa, il direttore della Casa Circondariale di Trani e la responsabile del Progetto Magikambusa 2.0. Le sardine, anticorpi tra la rete e la piazza di Luciano Floridi L’Espresso, 15 dicembre 2019 Dopo la manifestazione di Bologna del 14 novembre, e quelle seguenti, si parla molto del Movimento delle Sardine. Le interpretazioni si susseguono, i posizionamenti si moltiplicano, come i tentativi di mettere le Sardine nella propria scatoletta preesistente (“sono di...”), per farsele amiche a sinistra, o sminuirne e magari condannarne l’importanza a destra. Vizi da politichetta di tutti i colori, che concepisce solo i suoi schemi. È in realtà una bella manifestazione di resistenza diffusa, contro il degrado politico ormai insopportabile, che merita rispetto intellettuale, non mera appropriazione o polemica d’interesse. Per esercitare questo rispetto, bisogna cercare di capire meglio come mai tante persone, anche così diverse per età, ceto, cultura, e provenienza geografica, sono disposte a partecipare a civili manifestazioni di protesta in tante piazze italiane e non solo, anche sotto la pioggia, anche se deluse dalla politica, a volte per la prima volta in vita loro. Le Sardine non sono un branco a caccia di fama multimediale, di uno spazio partitico, di una qualche rappresentatività politica, o di una ipotetica candidatura. Sono un banco a difesa della Costituzione e di una politica in grado di raggiungere compromessi senza compromettersi, fatta di confronti onesti, informati, competenti, educati, e ragionevoli sulle vere questioni che preoccupano le persone: dall’educazione alla sanità, dal lavoro alla pensione, dalla sicurezza sociale alla protezione dell’ambiente. Chiedono alla classe politica di fare il suo lavoro decentemente, per migliorare il presente e progettare il futuro. Oggi sembra chiedere la luna. Che si sia arrivati a questo punto indica quanto sia malata la politica. Ma è per questo che è sciocco o furbino obiettare che le Sardine non hanno un programma propositivo. È come dire che gli anticorpi non hanno una funzione salutare. Meglio interpretare le Sardine come la risposta immunitaria della società civile contro malattie che non è disposta a sopportare: il sovranismo, il populismo, il razzismo e la xenofobia, l’intolleranza, il negazionismo (dal riscaldamento globale alle atrocità nazi-fasciste), i rigurgiti fascisti, la litigiosità, l’incompetenza e la corruzione di troppi, la comunicazione violenta, maleducata e faziosa di molti. Chi obietta che si tratta solo di un “movimento di protesta” confonde il non volere la politica, che è uno sterile rigetto apolitico fine a se stesso, con il volere che la politica sia una cosa seria e proficua, che è una richiesta di riforma e un gesto di fiducia verso quanto è possibile fare tutti insieme, come società, contro la rassegnazione collettiva. Si può accettare che “va tutto male” e rimboccarsi le maniche, non che “non c’è niente da fare” e farsi gli affari propri. Le Sardine non vogliono fare politica, vogliono che si faccia Politica. Chi risponde che questo è pur sempre fare politica non ha torto, ma sbaglia nel pensare che allora deve essere un certo tipo di politica. È una richiesta di buona Politica, non il tentativo di soddisfare tale richiesta politicamente. Quindi le Sardine sono pro-Politiche non a-Politiche. Per questo non si incontrano in luoghi storici, non sfilano per strada, ma si stringono in piazza, nell’agorà, il luogo democratico per eccellenza. E per organizzarsi usano la rete, mostrando che Internet non serve solo a manipolare l’opinione pubblica demagogicamente dall’alto, ma resta uno splendido strumento di condivisione di idee e coordinamento sociale dal basso. Questa modalità di protesta pacifica e quasi pacifista, senza bandiere e senza proclami, attraverso non il dire ma il mostrare che siamo tutti sulla stessa piazza-barca, che possiamo prosperare solo tutti insieme, come tutti insieme rischiamo di affondare, ha richiesto un’innovazione comunicativa. L’espressione flash mob nasce nel 2003 per indicare un assembramento intenzionale ma inaspettato di persone in uno spazio pubblico, reso possibile dal coordinamento occasionale dell’azione di gruppo, di solito attraverso Internet. Qualcuno si è stupito e ha esaltato l’unione tra Facebook e la piazza come una straordinaria novità. La verità è che la separazione tra digitale e analogico, tra online e offline è degli anni Novanta. Facebook è nata nel 2004. Gli organizzatori del flash mob di Bologna sono trentenni che vivono da tempo on-life. La fine di un flash mob è quello di sorprendere e attrarre l’attenzione pubblica con la sua stessa esistenza e significatività. Non rimanda ad altro, come un comizio, ma è il suo stesso contenuto, come una canzone. Insistere nel chiedere quale sia il “vero” messaggio vuol dire non aver mai sentito parlare di McLuhan: l’evento è il messaggio (the medium is the message), fine. Questo è importante, perché oggi controbattere certi temi è, per usare un detto inglese, come lottare con un maiale: si finisce solo per sporcarsi e inoltre il maiale si diverte un mondo. Ingaggiare un dibattito serio sull’emergenza immigrazione”, per esempio, rischia di legittimarla come una posizione degna di essere discussa e di concentrare l’attenzione di tutti sui temi sbagliati. Si aggiunge rumore, distraendo ulteriormente l’opinione pubblica dalle cose serie, e facendo così un favore a chi vuole monopolizzare l’attenzione su simili temi. Pessima mossa, ma resta il problema: se non ci si impegna, come ci si può difendere? Le Sardine hanno identificato una modalità, elegante: la co-presenza in piazza come segnale dirompente per criticare senza legittimare, per dare a tutte le persone che non ne possono più di politichetta e anti-politichetta la possibilità di un gesto di dissenso educato contro le malattie di cui soffre tutta la politicaccia. Con il valore aggiunto di far parlare i giornalisti di qualcosa di diverso dai soliti temi cari alla politicaccia stessa. I cattivi politici non vedono l’ora che si smetta di parlare di Sardine e si riprenda a parlare di loro. Come diceva Oscar Wilde, l’unica cosa peggiore del parlar male di me e che non si parli di me. Acronimizzare “Sardine” non ha senso e va contro l’approccio immunologico. Il termine è nato accidentalmente, dall’espressione “stretti come sardine”. Meglio lasciarlo come un modo per identificare un’ampia reazione civile contro il populismo sovranista. Altrimenti si inizierà a litigare se la S possa stare per “Sostenibilità” o “Solidarietà”, o la A per “Accoglienza” o “Amicizia”. Il termine “Sardine” è ben scelto. Nel 2014, pubblicai un testo in cui introducevo il concetto di protezione della privacy di gruppo argomentando che ciascun individuo pensa di essere speciale, come Moby Dick, ma in realtà quasi tutti siamo sardine. Ogni sardina teme che il populista stia cercando di pescare proprio lei. Ma il populista non è interessato alla sardina, cerca di pescare tutto il banco. È quindi il banco che deve essere protetto, per salvare ogni sardina. Un’etica che si rivolge a ciascuno di noi come se fossimo tutti Moby Dick è lusinghiera, ma deve essere aggiornata urgentemente. A volte l’unico modo per proteggere l’individuo è proteggere il gruppo al quale appartiene. In conclusione, resta la domanda più difficile: che cosa si può fare ora che gli anticorpi sembrano contrastare i malanni peggiori della politica? Alla lavagna, le opzioni sono tre. Si può riformare un partito esistente, per farlo diventare Politico. Sembra impossibile, qualunque sia la scelta di partenza. Si può trasformare il Movimento delle Sardine in un partito. Sembra contraddittorio, qualunque sia la speranza di arrivo. O si può creare un partito nuovo, non basato su qualche velleità individualistica, ma che si faccia portavoce e coordinatore di tutte le esigenze di buona politica che ormai da anni sono espresse da tanti movimenti diversi. Sembra utopistico, ma si sa, le Sardine tendono a essere ottimiste. Ricatti e venti ore di lavoro al giorno. Il caporalato “made Nord Italia” di Massimo Franchi Il Manifesto, 15 dicembre 2019 Piemonte, al via il primo processo nel settentrione. A giudizio sei imprenditori e un caporale per aver sfruttato venti lavoratori stranieri. Il primo processo per caporalato al Nord si è aperto venerdì a Cuneo. Sei imprenditori agricoli e un caporale rinviati a giudizio per lo sfruttamento perpetrato nei confronti di oltre 20 lavoratori nella zona di Saluzzo. Al tribunale di Cuneo si è tenuta l’udienza preliminare. A chi pensa ancora che il caporalato sia un fenomeno limitato al sud, i racconti dei ragazzi - quasi tutti centro africani provenienti da Costa d’Avorio, Mali, Guinea, Burkina Faso, e un solo albanese - farà facilmente cambiare idea. “Molti di loro lavoravano di giorno nei campi a raccogliere la frutta e la notte in una cooperativa in quella che loro chiamano “la raccolta dei polli” - spiega l’avvocato di parte civile Valentina Sandroni che assiste due lavoratori iscritti alla Flai Cgil. Alcuni lavoravano anche 20 ore al giorno, dormendo solo due ore prima di essere svegliati per essere portati allo stabilimento. Oppure che uno dei lavoratori si è sentito chiedere di pagare 304 euro per poter avere il Cud da presentare per il rinnovo del permesso di soggiorno: la cifra era pari ai contributi che l’azienda doveva versare per riconoscere le ore in più che naturalmente non aveva pagato al ragazzo nonostante ne lavorasse molte di più”. L’inchiesta della procura di Cuneo guidata dal procuratore capo Onelio Dodero è partita nel luglio del 2018 e ha portato ad un arresto e due misure cautelari lo scorso maggio. È stata ribattezzata “Momo”, dal soprannome del caporale del Burkina Faso che teneva i legami con le aziende agricole a conduzione familiare: la Gastaldi, specializzata in raccolta della frutta (a Saluzzo negli ultimi anni è decollata la coltivazione di lamponi e mirtilli) e la cooperativa Monviso con lo stabilimento Gfb per il trattamento di polli e conigli: le persone rinviate a giudizio sono tutti parenti delle due famiglie. Sia il caporale che gli imprenditori rischiano dai 5 agli 8 anni di carcere perché al reato di caporalato vanno aggiunte la aggravanti di violenza e minacce. L’inchiesta ha accertato tutti i crismi del reato di caporalato: utilizzo illegale di manodopera, il riconoscimento di salari difformi dai contratti nazionali e provinciali di settore, la violazione continua dei diritti fondamentali della persona, l’alterazione del corretto funzionamento del mercato del lavoro favorendo un sistema di concorrenza sleale tra imprenditori, la sottoposizione a controllo. “Ieri in aula si è discusso molto rapportando la situazione descritta ai casi più noti di caporalato avvenuti in Calabria, Campania o basso Lazio. Ma il tentativo di sostenere che questo caso sia meno grave perché le condizioni dei lavoratori erano migliori va contrastato duramente: innanzi tutto non si era mai sentito parlare di 20 ore di lavoro al giorno e poi, se il contesto sociale è diverso, uguali sono le modalità di sfruttamento dei lavoratori”, sottolinea l’avvocato Sandroni. Molti dei lavoratori sono stati contattati e sindacalizzati attraverso il Pas (Prima accoglienza stagionali), la ex caserma di Saluzzo che dà loro rifugio, nata nel 2018 dopo la sollecitazione della Caritas locale con l’intervento di Regione Piemonte, Consorzio Monviso Solidale, Caritas, Cgil e Cisl, fondazioni bancarie e aziende. “Abbiamo aperto uno sportello al Pas e in questo modo siamo entrati in contatto con più lavoratori potendo aiutarli: per esempio nessuno di loro sapeva che poteva richiedere la disoccupazione”, racconta Davide Masera, segretario della Cgil di Cuneo, che nella prossima udienza di marzo si costituirà parte civile nel processo assieme alla Flai Cgil. “La nostra azione - continua Masera - ha portato ad un aumento dei contratti di lavoro nel collocamento di Saluzzo di ben il 25 per cento. È un dato clamoroso che si dovrebbe ripetere anche nel 2019: significa che la legalità è aumentata nel nostro territorio e che i lavoratori migranti hanno più diritti”. Droghe. Torna l’allarme overdose: “Sono drogato, ora voglio smettere”. di Andrea Senesi Corriere della Sera, 15 dicembre 2019 Le telefonate al numero verde del Comune di Milano. Attivo da due mesi: sos anche per farmaci, alcol, gioco e la nuova schiavitù dalla tecnologia. Chiamare in Comune per segnalare la propria o altrui dipendenza. Il numero verde era stato (ri)attivato sull’onda della scandalo di Rogoredo, il parco della droga al margine della città e soli da pochi mesi tornato ad apparente normalità. SostieniMi è il servizio di contrasto alle dipendenze partito a inizio ottobre per mettere a disposizione una linea telefonica (335.1900536), un indirizzo mail (helplinedipendenze@gmail.com) e una chat con l’obiettivo d’intercettare il bisogno di chi vive direttamente o indirettamente un problema di dipendenza. Dalle sostanze ma non solo. Anche se la tragedia di venerdì sera a Brugherio, con la morte di una copia per overdose, ha rimarcato l’emergenza droga. Perché dopo due mesi di attività il primissimo bilancio del centralino restituisce una fotografia per certi aspetti inattesa. Tra ottobre e novembre 2019 il servizio ha gestito 150 contatti. A chiedere aiuto sono soprattutto i diretti interessati (72 per cento), mentre negli altri casi si tratta di familiari (genitore, partner, fratello/sorella o altro parente). La prima sorpresa è che meno della metà delle domande denuncia una dipendenza da eroina, cocaina o altre sostanze: “solo” il 40 per cento denuncia una dipendenza da droghe, il resto si divide tra farmaci (20 per cento), ludopatie e gioco d’azzardo (20 per cento) e solo al quarto posto l’alcol (15 per cento). Ma si sono registrati anche tre casi di sedicenti dipendenze da “nuove tecnologie”. Giovani schiavi, in pratica, del proprio cellulare o del computer. Un’assoluta e preoccupante novità. Commenta l’assessore al Welfare Gabriele Rabaiotti: “La nostra è un’iniziativa che non vuole sovrapporsi ai servizi già presenti, ma aiutare in termini di primo ascolto e orientamento chi sta affrontando un qualsiasi tipo di dipendenza”. “Nei primi due mesi - continua l’assessore Rabaiotti - abbiamo riscontrato un grande bisogno non espresso e dunque la necessità di intervenire con ancora più convinzione, soprattutto per far emergere le dipendenze che ancora oggi non vengono riconosciute come tali e quindi denunciate, come per esempio quella dalle nuove tecnologie. Sono stati solo tre i casi intercettati, ma pensiamo che il potenziale bacino di utenza sia molto più grande e abbia bisogno di un intervento proattivo di sensibilizzazione. Essendo questo un fenomeno che interessa sempre più giovani e giovanissimi, è inoltre allo studio la realizzazione di profili social del servizio, in modo da riuscire a intercettare chi a questo mondo si è approcciato da poco”. Il servizio è ora gestito dal Centro Ambrosiano di solidarietà (Ce.A.S.) - selezionato dal Comune attraverso un avviso pubblico - era stato ideato e annunciato dal precedente assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino. Da Palazzo Marino si dicono estremamente soddisfatti dei primi riscontri. “I contatti - spiegano tecnici e operatori - sono aumentati percentualmente di molto da un mese con l’altro (+60 per cento) e le tre telefonate al giorno di media sono da considerarsi un inizio incoraggiante, considerate le diffidenze e le reticenze tipiche di chi è alle prese con questi problemi. “E mediamente - sottolineano ancora dall’assessorato - riusciamo a tenere agganciate le persone che chiamano: chi si rivolge a noi sceglie poi di ricevere un sostegno vero e di avviare un percorso di recupero”. Stati Uniti. “Il suprematismo bianco fa più morti del terrorismo islamista” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 15 dicembre 2019 Esistono molte similitudini con gli jihadisti. A partire dall’uso della violenza. E dovremmo trattarli allo stesso modo. Parla l’ex agente speciale Ali Soufan. Lo scorso 10 settembre, un giorno prima dell’anniversario dell’attentato contro le torri gemelle Ali Soufan, ex agente speciale che ha investigato casi di terrorismo internazionale altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti e l’attacco alla Uss Cole, oltre agli eventi legati proprio all’11 settembre, ha parlato alla House Committee on Homeland Security (Comitato della Camera sulla Sicurezza Interna). Il tema del suo intervento sulle minacce legate al terrorismo globale non era focalizzato solo sullo stato dei gruppi jihadisti, ma sull’evoluzione del suprematismo bianco. Dice Soufan nel suo intervento: “Non è solo il terrorismo jihadista a minacciare gli Stati Uniti. […] I suprematisti bianchi sono stati responsabili di tre volte più morti negli Stati Uniti rispetto agli islamisti. […] Da Pittsburgh a Poway, da El Paso a Charlottesville, l’estremismo suprematista affligge regolarmente gli Stati Uniti, e questa minaccia non ha una natura solo locale ma sta manifestando le sue caratteristiche transnazionali”. Proprio in settembre, la sua organizzazione, il Soufan Center, che si occupa di fornire risorse, ricerche e analisi legate a problemi di sicurezza globale e minacce emergenti ha pubblicato un report dal titolo: “L’ascesa transnazionale del violento movimento suprematista bianco”. Secondo lo studio, più di 17 mila persone provenienti da 50 Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno viaggiato in Ucraina negli ultimi anni per combattere sia per le forze pro-ucraine che per quelle russe. Nel vostro rapporto affermate che esistono similitudini tra il suprematismo bianco e gli jihadisti? “Se osserviamo come si sta sviluppando il suprematismo bianco notiamo parallelismi con l’evoluzione dei gruppi jihadisti nella seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta: come gli jihadisti, i suprematisti bianchi giustificano l’uso della violenza come autodifesa intrinsecamente necessaria a combattere la violenza degli avversari. Entrambi i gruppi utilizzano spesso metafore nei loro scritti propagandistici che riflettono la convinzione che le società cui appartengono siano sotto assedio e che solo la violenza possa fermare gli “invasori”. Gli jihadisti, identificano i nemici nell’Occidente che cerca di distruggere l’Islam mentre gli estremisti suprematisti bianchi temono il multiculturalismo, l’immigrazione che porterebbe a quella che definiscono l”islamizzazione” della società. La violenza diventa così mezzo della “guerra ideale” che conducono ma anche modello per reclutare altri sostenitori. E finisce per generare identità. La minaccia alla propria identità che questi gruppi percepiscono li rende uno lo specchio dell’altro”. I combattenti di cui parlate sono estremisti di destra, suprematisti bianchi che viaggiano in Ucraina seguendo un percorso che ha delle analogie con il movimento dei combattenti jihadisti in Siria... “L’Ucraina è per i suprematisti proprio quello che la Siria è stata negli anni recenti per gli jihadisti. E svolge la funzione che prima ha assolto l’Afghanistan. L’Ucraina ha un effetto galvanizzante, è un luogo di reclutamento, addestramento, combattimento e finanziamento e i suprematisti vi si recano per combattere sia su lato russo che su quello ucraino. La maggior parte dei foreign fighters in Ucraina proviene dalle regioni più prossime, Bielorussia, Germania, Georgia. Non è diverso da quello che abbiamo vissuto con l’Isis. Uno dei gruppi di destinazione è il Battaglione Azov, una forza filo ucraina che ha reclutato attivamente combattenti stranieri, motivati da una ideologia neonazista. A dimostrazione del carattere transnazionale della minaccia, proprio il Battaglione Azov ha relazioni con i membri della divisione Atomwaffen, e non i sostenitori statunitensi di The Rise Above Movement (Ram), gruppo descritto dall’Fbi come “organizzazione estremista suprematista bianca” basata nel Sud della California”. Anche le parole usate dai gruppi suprematisti raccontano una prossimità con i gruppi jihadisti... “Sì, i gruppi suprematisti stanno anche mutuando una narrazione del mondo dai movimenti jihadisti. Un’organizzazione basata negli Stati Uniti ha adottato, come nome per una piattaforma social che collega vari elementi di estrema destra, il nome The Base, la base. La base era il nome selezionato da Osama bin Laden per il suo gruppo: tradotto in arabo è, appunto, Al Qaeda. La propaganda serve a esporre la propria ideologia e ad avvicinare nuovi sostenitori. Per gli jihadisti sono i video di martirio e decapitazione, per i suprematisti bianchi è lo streaming degli attacchi, come nel caso di Christchurch, l’attacco in Nuova Zelanda. Prima della carneficina l’attentatore pubblicò un lungo manifesto di 74 pagine in cui aveva razionalizzato il suo massacro come una protesta contro la “sostituzione etnica”, cioè l’idea che i musulmani stessero cercando di cancellare la cultura bianca europea. Difendeva l’idea di combattere la sua “guerra santa” per purificare la società, esattamente come gli jihadisti. Questi manifesti, le dirette, l’esaltazione della violenza, l’uso in generale delle piattaforme internet come strumento di diffusione del messaggio, servono ad avvicinare le parti più vulnerabili della società”. Nel rapporto sostenete che “giocare sulle paure per monetizzare l’odio e la discordia è un grande affare”. Quali sono i principali modi di finanziamento del suprematismo bianco? “Non essendo considerati gruppi terroristici i suprematisti bianchi hanno modi trasparenti e legali di finanziamento. Sia il crowdfunding che le criptovalute sono un metodo diffuso di finanziamento per i gruppi suprematisti. Molti hanno sfruttato le piattaforme social per creare contenuti e cercare finanziamenti attraverso sistemi di pagamento che facilitano le transazioni peer-to-peer (P2p). Non è possibile quantificare con precisione la portata del potere finanziario dei gruppi suprematisti ma possiamo ritenere che sia molto significativa e che essi abbiano potuto avvalersi di donatori che condividono la loro ideologia”. Come ricordava, il suprematismo bianco è responsabile di più morti in America che gli attacchi terroristici di matrice jihadista dopo l’11 Settembre. Per anni, l’Fbi ha generalmente descritto gli estremisti violenti di destra o come “razzisti” o come “terrorismo domestico”, e gli estremisti violenti ispirati da gruppi militanti islamici come al Qaeda e lo Stato islamico come “terrorismo internazionale”... “Sfortunatamente l’America non ha trattato per lungo tempo il suprematismo bianco come ha trattato la minaccia dei gruppi jihadisti. Ha molto a che fare con la politica e molto con la nostra percezione del pericolo che questi gruppi rappresentano. Ma dobbiamo cominciare a relazionarci diversamente con questa minaccia. Lo scorso 30 ottobre il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha detto al Congresso che i neonazisti americani pesano sempre di più a livello internazionale e ha affermato che gli estremisti siano motivati da ragioni razziali e confermato i reclutamenti on line e i viaggi di addestramento. Recentemente l’Fbi ha arrestato, in Kansas, un soldato con l’accusa di condividere le istruzioni di fabbricazione di bombe su Facebook. Ha dichiarato in Tribunale di essere stato guidato da un ex soldato dell’esercito che era andato a combattere a fianco di un gruppo estremista in Ucraina, Craig Lang, un ex soldato dell’esercito statunitense che nel 2016 si sarebbe unito a Right Sector, un gruppo paramilitare nazionalista ucraino di estrema destra, impegnato nella lotta contro i separatisti russi. È solo una delle conferme della minaccia terroristica interna”. In un recente articolo che ha scritto per il New York Times sostiene che dal 2001 un lungo elenco di persone sia stato incriminato con l’accusa di sostenere materialmente gruppi terroristici vicini ad Al Qaeda, ma che per il terrorismo interno le accuse di sostegno economico, materiale sono impossibili perché - lei scrive - “non esiste un meccanismo per designare gruppi terroristici domestici in quanto tali e le accuse di terrorismo interno sono più difficili da dimostrare e comportano sanzioni inadeguate alla gravità del reato”... “Sì, anche l’attentatore di Oklahoma City, Timothy McVeigh, il caso più grave di terrorismo domestico nella storia della nazione, non è stato accusato di alcun reato di terrorismo. Quello che auspichiamo è che l’Fbi segua il modello inglese, sulla scia dell’ MI5, rispettando le libertà costituzionali ma aggiornando la legislazione post 11 settembre per equiparare i gruppi terroristici locali e quelli stranieri. Solo così le forze dell’ordine potranno monitorare adeguatamente i gruppi e fornire prove ai pubblici ministeri”. In questi mesi abbiamo assistito alla presunta morte di Hamza Bin Laden e alla morte di Abu Bakr al Baghdadi. Cosa rappresenta la morte di Baghdadi per Isis e in cosa è diversa dalla morte di Osama Bin Laden per le sorti di Al Qaeda? “Dal punto di vista dell’ideologia, questi gruppi non si esauriscono con la morte del leader, non dobbiamo confondere la morte del capo con la fine del messaggio. In passato la morte di Bin Laden ha dimostrato di avere rafforzato Al Qaeda anziché indebolirla. E non perché Zawhahiri sia un leader migliore di lui, ma perché gli eventi in Siria e in Iraq hanno dato al gruppo un’opportunità di rafforzare il proprio messaggio, il reclutamento e l’azione. E soprattutto di raccogliere il vantaggio che i disordini e i vuoti politici hanno dato ai fondamentalismi. Pensare di aver sconfitto - attraverso la morte del leader - i fattori che contribuiscono allo sviluppo e alla diffusione di una ideologia è pura illusione. Negli ultimi vent’anni le politiche antiterrorismo si sono rivelate un boomerang. Se non facciamo attenzione ai complessivi aspetti geopolitici del gruppo rischiamo di non riuscire a prevedere cosa accadrà. Penso che al momento della morte di Bin Laden Al Qaeda fosse pronta alla transizione, il tentativo era esattamente attraverso Hamza bin Laden, il figlio prediletto di Osama. Per l’Isis è tutto diverso, molti numeri due dell’organizzazione sono stati uccisi, e molti sostenitori non sanno nemmeno chi sia il nuovo Califfo, non sanno il vero nome, non conoscono il suo volto. Isis tornerà a operare con modalità insurrezionali, forse i gruppi, Isis e al Qaeda, si avvicineranno o si coordineranno, come stanno facendo nel Sahel”. Molto è cambiato nel nord est della Siria negli ultimi mesi, l’offensiva turca in Rojava, e la decisione di Istanbul di cominciare a deportare i foreign fighters e le loro famiglie. Cosa si aspetta? “Stiamo chiedendo a gran voce ai governi occidentali di definire una linea, abbiamo visto cosa è accaduto dopo l’Afghanistan, molti Paesi non volevano accettare indietro i propri cittadini che avevano combattuto. Non dobbiamo e non possiamo ripetere i medesimi errori. Allora il mondo si accorse in ritardo di avere un problema con il reclutamento del fondamentalismo islamico, se ne accorse l’11 settembre. È un fenomeno già visto, ed è esattamente ciò cui stiamo assistendo con i foreign fighter e le loro famiglie nel nord est della Siria e in Iraq. Se non capiamo come fare, chi debba essere processato, chi vada aiutato con progetti di deradicalizzazione vedremo un film già visto. Tenere i bambini in questi campi profughi significa alimentare inesorabilmente la possibilità che siano terreno fertile di un reclutamento futuro. Io credo che il sistema giudiziario dei Paesi europei sia solido abbastanza per poter far fronte al problema, se ci voltiamo dall’altra parte, senza potenziare il sistema giuridico o i percorsi di deradicalizzazione, passerà del tempo, i detenuti usciranno di prigione - qualcuno di loro è già fuggito - e immaginate cosa significherà quando saranno sparsi per il mondo, cercando un altro luogo che unifichi il loro messaggio, e cercheranno di colpire i loro governi, i Paesi da cui provengono e che li hanno rifiutati, le loro comunità di origine. Abbiamo l’opportunità di trovare una soluzione ora e i governi europei non possono abdicare questa responsabilità verso i propri cittadini. Soprattutto sulla riabilitazione dei bambini. Non farlo significa alimentare i problemi del futuro. Iraq. La campagna di terrore contro i manifestanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 dicembre 2019 “Prima ci sparavano addosso durante le manifestazioni, ora ci aspettano sotto casa. Inutile fuggire, tanto sanno dove abitiamo”. Nelle ultime due settimane in Iraq numerosi manifestanti sono stati uccisi, rapiti e fatti sparire, nella maggior parte dei casi mentre rientravano nelle loro abitazioni dopo aver preso parte alle proteste. Altri sono scampati a tentati omicidi. Dopo 450 morti e più di 20.000 feriti dal 1° ottobre, nel paese è in corso una vera e propria campagna di terrore contro chi scende in piazza o promuove e sostiene le proteste. L’obiettivo delle autorità irachene, lungi dal porre freno alle forze di sicurezza e indagare sull’ondata di uccisioni e rapimenti, è di spargere paura per impedire ulteriori manifestazioni. Dopo la denuncia dei giorni scorsi di Human Rights Watch, arriva ora quella di Amnesty International, che ha raccolto e diffuso le testimonianze di nove attivisti, manifestanti e parenti di attivisti scomparsi a Baghdad, Karbala e Diwaniya. Ecco due di queste storie. L’8 dicembre un noto attivista di Kerbala, Fahem al-Tai, è stato assassinato da sconosciuti. L’11 dicembre a Baghdad è stato ritrovato il corpo di un altro attivista, Ali Najm al-Lami, membro dell’Unione degli scrittori iracheni e del Partito comunista. Sempre l’11 dicembre l’attivista per l’ambiente Salman Khairallah Salman è scomparso nel quartiere al-Kadhmiyah di Baghdad, dove si era recato per acquistare tende per i manifestanti di piazza Tahrir. Dopo due giorni i suoi parenti hanno appreso che potrebbe essere trattenuto in un centro di detenzione all’interno dell’aeroporto al-Muthana. Una buona notizia è arrivata per fortuna nella mattinata di ieri: il fotografo 24enne Zaid al-Khajafi, tra i più attivi nel pubblicare sui social media le immagini delle manifestazioni, è ricomparso a casa, da dove era stato rapito il 6 dicembre. Afghanistan. Dalla prossima settimana via 4 mila soldati Usa di Giordano Stabile La Stampa, 15 dicembre 2019 La decisione di Trump dopo la ripresa dei colloqui con i Taleban. Donald Trump annuncerà la settimana prossimo il ritiro di “oltre 4000 soldati” dall’Afghanistan. Il contingente sarà ridotto a circa 8 mila uomini prima della fine dell’anno. L’annuncio è stato anticipato da funzionari della Casa Bianca a media americani e arriva in concomitanza con la ripresa dei colloqui di pace fra Stati Uniti e Taleban, condotti dall’inviato speciale Zalmay Khalizad. Il ritiro sarà un combinazione di ridispiegamento di alcune unità e mancato rimpiazzo di altre di ritorno negli Usa per la normale rotazione. Missione antiterrorismo - La scorsa settimana il capo degli stati maggiore, generale Mark Milley, ha spiegato al Congresso che la missione potrebbe essere trasformata in una più modesta operazione “anti-terrorismo”, quindi basata soprattutto su forze speciali, senza dispiegamenti su tutto il territorio. Il contingente potrebbe essere ridotto ad alcune centinaia di uomini, dai circa 13 mila attuali. Il segretario dalla Difesa Mark Esper ha confermato che Washington rimarrà concentrata sulla “lotta al terrorismo” mentre i colloqui di pace con i Taleban vanno avanti. Nel Paese ci sono anche cellule di Al-Qaeda e dell’Isis. Esercito locale inefficiente - Dei 13 mila soldati oggi presenti, 5 mila sono impegnati in missioni anti-terrorismo, mentre gli altri svolgono mansioni di addestramento e assistenza alle truppe afghane. Le forze di sicurezza governative si sono però finora mostrate molto carenti, nonostante una presenza occidentale che dura oramai da 18 anni. Ieri altri 23 soldati afghani sono stati uccisi da un commando di talebani infiltrati nella base militare di Qarabagh, nella provincia sud orientale di Ghazni. L’inefficienza e la corruzione di polizia ed esercito locali sono stati anche denunciati dagli “Afghanistan Papers” pubblicati dal Washington Post. Gli Afghanistan Papers - Il titolo è un riferimento ai “Pentagon papers” pubblicati nel 1971 dal New York Times e che contribuirono a mettere fine al conflitto in Vietnam. Il Wapo ha raccolto 2300 documenti, soprattutto attraverso interviste riservate. Ha condotto una lunga battaglia per poterli pubblicare e si è appellato al Foia, il Freedom of Information Act per ottenere il permesso. Il quadro che emerge è soprattutto di menzogne, improvvisazione e una volontà prolungata di nascondere la verità all’opinione pubblica. Dal 2001 775 mila soldati statunitensi hanno prestato servizio in Afghanistan. Oltre 2300 sono morti, 20.589 sono rimasti feriti. Secondo il Costs of War Project alla Brown University, il governo americano ha speso 978 miliardi di dollari, un conto che non include le spese per contractor e di agenzie minori. Mille miliardi “buttati via” - I risultati sono sconfortanti. “Che cosa abbiamo ottenuto con questo sforzo da mille miliardi di dollari?”, si chiede Jeffrey Eggers, ex Navy Seal e consigliere alla Casa Bianca con i presidenti George W. Bush e Barack Obama. “Dopo la sua uccisione - continua - mi sono detto che Osama bin Laden probabilmente sta ridendo dalla sua tomba in fondo all’Oceano considerando quanto abbiamo speso in Afghanistan”. Un generale a tre stelle, Douglas Lute, ammette invece che “ci manca la comprensione fondamentale del Paese, non sappiamo che cosa stiamo facendo”. Per Douglas, che è stato “zar” della guerra in Afghanistan con Bush e Obama, gli Stati Uniti “non hanno la più vaga idea di quello che stanno cercando di ottenere”. Corruzione e droga - Anche i rapporti sulla ricostruzione del Paese, delle sue forze di sicurezza, sono stati sistematicamente falsati. Esercito e soprattutto polizia non sono in grado di controllare il territorio, come si può constatare sul terreno e come spiega un altro alto ufficiale al Wapo: “Un terzo dei poliziotti sono o drogati o infiltrati dei talebani”, gli altri sono “ladri ossessivi” che “hanno rubato talmente tanto carburante dalle basi americane da puzzare in permanenza di benzina”. Con queste premesse forse l’unica prospettiva è quella tracciata da Trump e cioè un accordo con i Taleban per ritirare le truppe e lasciarsi alle spalle la “tomba di tutti gli imperi”, come viene chiamato l’Afghanistan.