L’attacco assurdo di Salvini ai Garanti dei detenuti di Stefano Anastasia* Il Riformista, 14 dicembre 2019 Il sovraffollamento è intollerabile, servirebbe uno sforzo comune per affrontare la crisi delle carceri, ma alcuni Sindacati di Polizia e il leader della Lega preferiscono alimentare la polemica contro i Garanti e per la nomina di Ioia a Napoli. Chi conosce e frequenta le carceri italiane sa bene che la situazione è molto delicata: il sovraffollamento penitenziario è arrivato di nuovo ai limiti della tollerabilità, i detenuti ne soffrono, i lavoratori anche. Servirebbe uno sforzo straordinario di tutte le istituzioni per contenere gli ingressi in carcere. per facilitarne le uscite, per ottimizzare le risorse umane e finanziarie nel perseguimento dei fini costituzionali della pena. Servirebbe un’adeguata sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Invece alcune organizzazioni sindacali, e ieri anche il segretario della Lega Matteo Salvini, non trovano di meglio che alimentare una pretestuosa polemica contro i garantì dei detenuti: contro il Garante nazionale, reo di aver esposto le proprie legittime considerazioni su un video istituzionale che non valorizza le specifiche competenze professionali della Polizia penitenziaria e la rappresenta impropriamente come una fucina di corpi speciali destinati a funzioni militari; contro il Sindaco di Napoli, reo di aver nominato Garante di quella città un ex-detenuto. Tralasciamo l’inconsistenza delle critiche. Naturalmente il Garante nazionale ha competenza sui percorsi formativi del personale penitenziario. e dunque anche sugli strumenti di cui a tal fine si dota l’Amministrazione competente: noi garanti sappiamo bene che la prima condizione per la tutela della dignità dei detenuti e per il perseguimento dei fini costituzionali della pena è la qualificazione professionale degli operatori penitenziari, a partire dagli agenti che vivono gran parte della loro giornata lavorativa in sezione, a diretto contatto con i detenuti, con le loro problematiche e i loro bisogni. D’altro canto. Pietro loia, il neo-garante Napoletano. non è il primo e forse non sarà l’ultimo dei nostri colleghi con una passata esperienza detentiva. Ha ragione il Presidente della Camera Fico. quando ricorda che “è giusto dare una occasione a chi ha scontato la sua pena e completato la fase rieducativa”: è quanto prescrive la Costituzione. Certo, questo non significa che tutti gli ex-detenuti possano o abbiano le capacità per fare i garanti, ma se il loro percorso ne ha testimoniato le competenze e l’attitudine, perché un simile incarico gli deve essere precluso? Sulla base di quale titolo discriminatorio? Ma lasciamo perdere. dunque, le polemiche strumentali. Piuttosto preoccupa la abusata e stucchevole contrapposizione tra poliziotti e detenuti. Perché i detenuti hanno i Garanti e i poliziotti no?, ci si chiede. Perché hanno gli avvocati e i poliziotti no? È banale rispondere che i primi hanno commesso (o sono stati accusati di aver commesso) dei reati abbastanza gravi da costringerli in carcere, mentre i poliziotti sono funzionari dello Stato a cui sono affidate delicate responsabilità pubbliche? E perché i poliziotti dovrebbero essere assistiti da garanti e avvocati? Non gli bastano le rappresentanze sindacali? Quale parallelo si può fare tra queste due condizioni? Non si rende conto, chi lo fa, che in questo modo equipara i poliziotti ai detenuti, e che in questa equiparazione c’è la condivisione della degradazione che i detenuti istituzionalmente subiscono? È questa l’idea che Salvini e quei sindacati hanno dei poliziotti penitenziari? I Garanti dei detenuti, a livello locale come a livello nazionale, nascono con l’intento di contribuire in via informale alla tutela e alla promozione dei diritti di persone che sono costrette. seppur legittimamente, in una condizione di particolare vulnerabilità. Sì, è vero, in qualche caso ci è toccato segnalare all’Autorità giudiziaria competente maltrattamenti che sarebbero stati commessi nei confronti delle persone detenute (se così è stato, non siamo noi a deciderlo: come Garanti siamo garantisti sempre), ma assai più frequentemente interveniamo a raccomandare soluzioni alle doglianze dei detenuti che vanno incontro anche alle esigenze del personale penitenziario. a partire da quello di polizia. Questo è il nostro lavoro e il nostro impegno, dalla parte dei detenuti, certo, per il perseguimento dei principi e delle finalità costituzionali in materia di privazione della libertà e di esecuzione della pena, quegli stessi principi che motivano il lavoro e l’impegno degli operatori penitenziari, cui va il nostro ringraziamento per l’abnegazione con cui concorrono ad affermarli. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà “Il Corano non va toccato”. Ecco il manuale per la Polizia penitenziaria di Giuseppe De Lorenzo Il Giornale, 14 dicembre 2019 Pubblicato il “Sillabo”. Un documento per “contrastare il radicalismo” in carcere e “conoscere l’Islam”. È indirizzato agli agenti penitenziari. Immaginate di essere un poliziotto e di osservare in cella un uomo farsi crescere la barba, pregare Allah rivolto verso la Mecca, predicare i dettami del Corano agli altri detenuti. Come fate a capire se può diventare pericoloso oppure sta solo seguendo i rigidi dettami imposti dalla religione? Difficile, eppure di enorme importanza. In Italia infatti il rischio di radicalizzazione in carcere è alto: il caso di Anis Amri (il terrorista di Berlino passato dalle patrie galere) è solo un esempio. Per questo, per “conoscere l’islam” e “contrastare il radicalismo” jihadista, è nato un Sillabo sulle usanze musulmane destinato agli agenti che vivono a contatto con i carcerati. Il documento, redatto dall’Università l’Orientale di Napoli, è ricco di informazioni sulla fede e sui costumi dei Paesi a maggioranza musulmana. L’obiettivo è quello di superare “la convinzione” che l’Islam sia una “religione essenzialmente violenta e socialmente pericolosa” (e forse per questo farà discutere), per “rimuovere una serie di pregiudizi” e permettere alle forze dell’ordine di accorgersi se un detenuto mostra eventuali atteggiamenti di radicalizzazione. Per scriverlo, il gruppo di ricerca - guidato dal prof. Michele Bernardini - ha realizzato incontri con il personale delle carceri per capire “i problemi, di maggiore o minore entità, che insorgono” dietro le sbarre: “Si va dall’assolvimento dei riti, al pudore; dall’uso del Corano, all’alimentazione; dal modo di pregare, a quello di gestione del denaro”. C’è per esempio un capitolo interamente dedicato al Corano, “parola increata di Dio”, e un box con le indicazioni su come maneggiare il libro sacro. “Deve essere trattato con molto rispetto”, può essere toccato solo da chi “ha compiuto le abluzioni formali” (difficilmente, dunque, un poliziotto) e deve essere “riposto in un luogo pulito e dignitoso, mai sul pavimento o in bagno”. “Per molti - si legge - un non musulmano non può toccare o maneggiare il testo coranico in arabo”. L’agente inoltre dovrà ricordarsi che il Corano non può essere gettato come normale spazzatura, ma di solito viene avvolto in un panno e seppellito. Oppure abbandonato in un corso d’acqua. Una versione del Sillabo è stata pubblicata sul sito del progetto europeo Train Training (di cui il ministero della Giustizia italiano è capofila) nato per valutare “il rischio specifico di radicalizzazione sia in prigione che in contesti di libertà vigilata”. Dovrebbe permettere agli agenti di capire meglio le abitudini dei detenuti musulmani, il dress code, i rituali di preghiera, la famiglia patriarcale, il ruolo della donna e quei dettami dalla religione che devono essere rispettati pure dietro le sbarre. Per distinguere radicalismo da pratica religiosa, il poliziotto deve sapere, per esempio, come e quando un musulmano prega. È nota ai più la pratica di utilizzare un tappetino, quella di togliersi le scarpe e di rivolgersi alla Mecca. Ma non molti sanno che “non devono essere presenti fattori” di disturbo, come “foto o immagini, voci e suoni, musica”. Cosa non semplice, in un carcere. E soprattutto “l’orante non deve essere interrotto se non per gravi motivi”. Su Ramadan e cibi vietati, le indicazioni sono diverse. “Nel mese sacro - si legge - per un musulmano in contesto non islamico può essere utile ricevere un calendario con gli orari delle preghiere”. Meglio non mangiare o bere in presenza di chi sta praticando il digiuno. Per quanto riguarda il menu c’è da considerare che maiale, cane e asino sono considerati impuri e non possono essere mangiati (haram). Lo stesso dicasi per gli uccelli rapaci, i serpenti, gli insetti, i crostacei e gli invertebrati con conchiglia. Le altri carni (se macellate secondo il rituale) sono halal, ma guai a ingoiare animali morti, il sangue o il vino. Se poi un cibo è stato contaminato, il detenuto musulmano potrebbe rifiutarlo: lo strutto, per esempio, “fa diventare proibita una vivanda anche se è stato solo usato per ungere la teglia in cui è stata cotta”. Nel Sillabo viene riservata particolare attenzione al salafismo, la corrente che mira “all’istituzione di un sistema islamico che richiami quello della fase iniziare dell’Islam”, cui appartengono i movimenti jihadisti come al Qaeda e Isis. I salafiti richiedono agli adepti abiti particolari: alle donne viene imposto di “coprire interamente il corpo, incluso il volto” (da tenere a mente, in caso di perquisizione), mentre i maschi non possono lasciare scoperta l’awara, cioè la parte del corpo tra ombelico e ginocchia, nemmeno di fronte ad altri uomini. C’è poi la questione barba lunga e baffi tagliati: come successo negli Stati Uniti (dove un detenuto si era opposto alla richiesta del direttore di accorciare la barba per motivi igienici), anche la peluria può diventare motivo di tensioni. Tutti questi fattori (culturali, religiosi, rituali) vanno tenuti a mente per valutare l’eventuale adesione ad un gruppo radicale del detenuto. Per questo, il Sillabo dovrebbe “dare un contributo alle politiche europee per la formazione degli operatori penitenziari e degli agenti di polizia” nella “identificazione di comportamenti violenti di stampo jihadista”. Un nuovo strumento per la lotta al terrorismo che minaccia l’Europa. Stigmatizzare i criminali ne impedisce la rieducazione di Lucrezia Tiberio lintellettualedissidente.it, 14 dicembre 2019 Nel sistema carcerario italiano - complici le leggi riempi-celle e il conseguente sovraffollamento - è carente la rieducazione dei detenuti. Ma stigmatizzare un uomo che commette un reato come criminale a vita fa sì che lui stesso non creda più nel proprio recupero e reinserimento sociale: è la teoria dell’etichettamento, oggi più attuale che mai. Le carceri italiane, secondo il rapporto dell’associazione Antigone al 30 aprile 2019, ospitano 60.439 detenuti, ben ottomila in più rispetto a tre anni e mezzo fa, con un tasso di affollamento che sfiora pericolosamente il 120%. Al di là dei dati numerici, comunque allarmanti, viene da chiedersi quale sia la causa di questo aumento delle condanne, considerato che il numero dei reati commessi dal 2017 è in calo. L’equazione, non esattamente logica, per cui si commettono meno reati contro la persona ma aumentano le condanne e le pene irrogate sono sempre più severe, costringe a una riflessione sulla percezione della criminalità e la stigmatizzazione dei delinquenti. Parte del problema scaturisce senza ombra di dubbio dal dibattito politico, che sempre di più si impegna per far sentire i cittadini in un paese pericoloso e senza possibilità di proteggersi dai “criminali”, spesso identificati nelle minoranze etniche che popolano le periferie delle città. L’alimentazione di queste pulsioni ansiogene e aggressive inevitabilmente fa pensare agli elettori di doversi difendere, anzi, di doverlo fare solo con le proprie forze. Ne è prova incontrovertibile, per esempio, la recente riforma della legittima difesa di cui all’articolo 52 del codice penale, che, seppur in linea di stretto diritto non muta radicalmente l’istituto, adottando delle modifiche alla sola difesa domiciliare, è stata il manifesto dei nuovi movimenti sovranisti. La riforma, acclamata dai media come una sorta di vittoria rivoluzionaria, tenta di imitare il modello statunitense senza riuscirci davvero, almeno a livello giuridico: nonostante, infatti, i cittadini che hanno messo in atto questa sorta di giustizia privata vengano descritti pubblicamente come eroi e supportati da movimenti politici, saranno comunque sottoposti a un procedimento penale e, il più delle volte, condannati per eccesso di legittima difesa. La necessità di individuare un bersaglio, un nemico, spacca letteralmente in due la società tra buoni e i cattivi, tra coloro che rispettano la legge e i criminali. L’altra causa di questa deriva populista è l’incapacità della collettività di osservare la realtà nel suo contesto storico e culturale, che ha come conseguenza la formazione di una sorta di giudizio morale, totalmente arbitrario, nei confronti di chi commette un reato. Prestando anche un breve sguardo alla situazione economico-sociale delle periferie delle grandi città, e non solo, ci si accorgerà che è proprio qui, a causa della mancanza di attività ricreative, di infrastrutture, di servizi e di occupazione regolare, che si moltiplicano le possibilità, soprattutto per la fascia più giovane di popolazione, di inserirsi nel contesto criminale. Questi individui, tuttavia, non sono considerati, per esempio, ragazzi cresciuti in ambienti difficoltosi, intrinsecamente vicini alla delinquenza e alla sopravvivenza tramite espedienti: sono solo criminali. E probabilmente lo saranno per il resto della propria esistenza, fuori dalla società. Rappresentano il cosiddetto indice di allarme sociale, purtroppo anche all’interno delle aule di tribunale. La meritevolezza della pena, cioè il principio cardine del diritto penale anche a livello comunitario, viene disatteso tutte quelle volte in cui vengono irrogate pene altissime e severe o misure cautelari eccessivamente gravose, quasi a voler dare un segnale all’esterno. Centinaia di ragazzi, spesso stranieri, vengono rinchiusi in celle con cinque o sei letti, senza una corretta e attenta valutazione della prova, del contesto famigliare che li costringe ad affidarsi ad un avvocato d’ufficio, e soprattutto senza alcun supporto di tipo psicologico. Una volta fatto il primo ingresso nell’ambiente carcerario, dovrebbe attivarsi quel meccanismo previsto da un diritto costituzionalmente garantito: la rieducazione. Il reinserimento sociale degli individui che hanno commesso dei reati fa parte del più ampio e civile principio di solidarietà collettiva che lo Stato ha il dovere di garantire ai propri cittadini, considerandoli tutti uguali nella propria dignità. Eppure ciò sembra impossibile, sia a causa del sovraffollamento e della conseguente carenza di personale nelle carceri, sia a causa della stigmatizzazione esterna che fa sempre più pensare alla teoria criminologica dell’etichettamento. Il pensiero contenuto in “Outsiders, Saggi di sociologia della devianza” di Howard Becker, sociologo simbolo della scuola di Chicago, nato nel lontano 1928, si rivela più attuale che mai: l’identità e la condotta degli individui sono determinate da classificazioni etero-determinate. La “labelling theory” nasce dall’assunto secondo il quale gli individui potenti, privilegiati, della società definiscono alcuni comportamenti e alcuni reati come sintomo di devianza, di distanza dalla società “buona”. Etichettando questi individui come “outsider” fanno in modo che questi interiorizzino la stessa etichetta. Tale assunto pare ancora più logico e aderente alla realtà odierna se si pensa che solo alcuni reati godono di una pessima reputazione: il giovane ragazzo di periferia trovato in possesso di sostanza stupefacente ai fini di spaccio e l’evasore fiscale o il funzionario corrotto non sono entrambi “outsider”: solo il primo viene percepito come causa di allarme sociale, come soggetto da allontanare e punire per il maggior tempo possibile, perché nocivo e pericoloso per la collettività. Etichettare degli individui in quanto tali, stigmatizzandoli, equivale a tracciare in anticipo il loro futuro, considerandoli come un peso per i cittadini “per bene” e facendo aumentare esponenzialmente in questi soggetti il pensiero che la loro vita sarà inevitabilmente influenzata dal crimine. Atteso che solo chi detiene il potere e si rivolge alla collettività ha la facoltà di plasmare queste etichette e cucirle addosso ad alcuni dei propri cittadini, è proprio da qui, dal mondo politico e giudiziario, che deve mutare la visione di devianza. Non esistono comportamenti, in assoluto, deviati. Chi commette un reato, specie se frutto di malcontento e povertà, è prima di tutto un cittadino che va giudicato secondo i principi del giusto processo e reinserito all’interno della società, al pari degli altri individui. Una società moderna e democratica cresce e sviluppa il proprio senso di umanità includendo tutti e utilizzando lo strumento della sanzione penale esclusivamente come “extrema ratio”. Via la prescrizione, Conte difende la legge Bonafede: “Resta, ma ci saranno correttivi” di Alessandro Farruggia Il Giorno, 14 dicembre 2019 I penalisti attaccano: si rischiano processi infiniti con danni a vittime e imputati. Contrarie le opposizioni e Italia Viva. Il Pd tenta di mediare per evitare la crisi. L’ultima mina sepolta sul percorso di guerra del governo Conte bis si chiama prescrizione. La riforma voluta da Bonafede, che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, è una misura radicale e, se non bilanciata da contrappesi, giustizialista. “C’è il rischio di processi infiniti - osserva il professor Filippo Sgubbi, ordinario di diritto penale all’università di Bologna - con danni non solo per gli imputati ma anche per le vittime, perché dovendo celebrare tutti i processi i tempi in corte penale si allungheranno inesorabilmente”. È osteggiata dai penalisti, da Forza Italia, dalla Lega, da FdI, Italia Viva e dallo stesso Pd che però è più cauto per non far cadere il governo. La difendono solo i pentastellati e una parte della magistratura. Se non si arriverà a una modifica, il governo rischia. E Conte, che lo sa, ieri ne ha parlato. “Ritengo la norma sulla prescrizione che prevede lo stop dopo il primo grado - ha detto ad “Accordi e disaccordi” sul Nove - assolutamente compatibile con la Costituzione, ce l’hanno anche altri ordinamenti. Ma detto questo, da giurista, stiamo lavorando per introdurre delle norme diciamo correttive. Senza mettere in discussione la norma, introducendo delle garanzie per la durata”. Quello a cui pensa Conte è qualcosa di molto simile alla prescrizione processuale - un limite tassativo per ogni fase processuale, oltre il quale scatta il proscioglimento - che vorrebbe il Pd e non è sgradita a Forza Italia. Lunedì ci sarà un vertice di maggioranza su questo, e un testo è già pronto. “Così com’è - osserva Carmelo Miceli, deputato Pd - lo stop alla prescrizione dopo il primo grado è incostituzionale e non si può non intervenire. Si potrebbe farlo da subito per l’appello e la fase delle indagini preliminari e monitorare diciamo per un anno il primo grado, dove la riforma Orlando del 2018 ha congelato per 18 mesi la prescrizione. Se sarà il caso, potremo poi intervenire anche lì”. L’ipotesi di una prescrizione processuale per appello e indagini preliminari - una “prescrizione processuale” parziale - è tra quelle alle quali pensa Conte, ma ci sarà da convincere Bonafede. Il centrodestra sente odore di pastrocchio. E affila le armi. “Se la soluzione sarà pasticciata - osserva Enrico Costa di Forza Italia, che fu viceministro alla Giustizia nel governo Renzi - faremo ricorso alla Corte Costituzionale. La prescrizione processuale sarebbe una soluzione anche efficace, se fosse per tutti i gradi di giudizio. La proponemmo anche noi. Ma non credo che Bonafede sarà disponibile”. “Questa prescrizione, che è un ergastolo processuale - prosegue Costa - scarica sui cittadini le inefficienze della giustizia. Perché questo è il punto. Lo stesso Bonafede decise di posporre l’entrata in vigore perché nel frattempo si sarebbero approvate riforme per rendere più rapidi i processi. Peccato che in Parlamento nel frattempo non si sia visto nulla. Lo stop alla prescrizione sarebbe tombale, i processi infiniti con danno anche per le vittime. Il che è inaccettabile e non lo permetteremo”. “Abolire la prescrizione significa accettare il principio che possa esistere un processo senza fine. E trasformare il processo in una persecuzione”, disse nei giorni scorsi Renzi. E lo stesso Zingaretti, che pur confida in un accordo, chiede “un compromesso per evitare di stare tutta la vita sotto processo. La linea del Piave è la tempistica”. Prescrizione processuale quindi, ma il problema è, anche fosse, come sarà declinata. Tenendo presente che il diavolo è spesso nei dettagli. Dibattito sulla prescrizione, senza tempi certi sui processi rischio barbarie di Franco Vazio Il Riformista, 14 dicembre 2019 Il tema dell’abrogazione della prescrizione coinvolge tutti e non va liquidato con frasi di stile. Le vittime del reato e gli assolti non possono attendere in eterno. La bozza della riforma del processo penale proposta dal ministro Bonafede e a cui abbiamo lavorato in questi mesi, è un progetto moderno e ambizioso; potrebbe efficacemente affrontare i tempi della Giustizia e, senza scalfire le garanzie della difesa, costruire davvero quel “giusto processo” scritto in Costituzione. Uso il condizionale perché una cosa è scrivere una norma, altro è verificare la sua efficacia. Per questa ragione liquidare il tema relativo alla sostanziale abrogazione della prescrizione con frasi di stile non mi convince e non mi trova d’accordo. Pochi parlano, per esempio, delle gravissime conseguenze a cui andrebbero incontro le vittime del reato che avessero deciso di costituirsi parte civile qualora, dopo una sentenza di primo grado, i tempi del processo fossero dilatati. Le vittime sarebbero legate ai tempi eterni di un processo che non finisce mai, di una sentenza definitiva che tarda ad arrivare; e non potrebbero ottenere giustizia neppure trasferendo l’azione in sede civile, perché anche in tale caso la loro azione sarebbe sospesa. Esistono devastanti conseguenze che colpirebbero chi, assolto in primo o secondo grado, dovesse attendere una sentenza definitiva dai tempi non prevedibili; per costoro persisterebbero in modo inaccettabile impedimenti, conseguenze negative e ostative per concorsi, per trovare un lavoro, per la loro carriera, per rapporti e concessioni con lo Stato, per la vita politica e amministrativa. Esiste poi il sacrosanto diritto del cittadino di sapere, in tempi ragionevolmente brevi così come afferma l’art. 111 della Costituzione, chi sia colpevole o innocente, per poter scegliere e difendersi. “Abrogare” la prescrizione dopo la sentenza di I grado, sia essa di condanna, sia essa di assoluzione, senza aver verificato l’efficacia sul campo della “riforma del Processo penale” potrebbe tradursi in una vera barbarie giuridica. Per queste ragioni, prima di avere acquisito tale la certezza, è necessario fissare dei termini che impongano di celebrare in tempi ragionevolmente brevi i giudizi di appello e di Cassazione, pena l’estinzione del processo, e prevedere che l’abrogazione della prescrizione dopo la sentenza di I grado non valga anche per chi sia stato assolto. Non è una battaglia identitaria, ma la difesa di principi e diritti tutelati dalla nostra Costituzione, sulla cui lesione appare complesso trovare mediazioni. Sono persuaso che il presidente del Consiglio Conte e il ministro Bonafede che - come tutti noi - hanno ben chiare le sfide della Giustizia, sappiano privilegiare la sostanza e i diritti dei cittadini rispetto alle battaglie di una parte politica, che seppur comprensibili, restano comunque di parte e non di tutti. La beata ignoranza di Bonafede, il ministro che vuole demolire la giustizia di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 dicembre 2019 A “Porta a porta” ha dimostrato di non conoscere la differenza tra dolo e colpa. Un’altra prova di inettitudine del ministro che con la sua riforma vuol mandare in frantumi la civiltà giuridica. È quel che si dice un salto di qualità. Perché il ministro Bonafede (ministro, santo cielo...) si era bensì esibito in prove plurime di sconsolante inadeguatezza, per esempio sciogliendo le briglie al suo italiano accidentato e mandandolo a far danno su qualsiasi argomento, in coppia con l’altra vergogna nazionale, l’avvocato del popolo che non c’è verso di tirargli fuori una frase libera da qualche insulto alla decenza grammaticale: o quando si metteva a far gara di travestimento con il ministro dei pieni poteri contro le “zingaracce”, e vestito da secondino filmava e metteva in musica l’arrivo del condannato da far marcire in galera. Ma questa volta è peggio. Disinibito non più solo nel quotidiano esercizio di esemplare macellazione della nostra lingua, o nel mettersi le penne oscene di quello che fa la ruota davanti alla turba forcaiola e compiaciuto si offre di appagarne la pretesa di sangue, questa volta il signor ministro della Giustizia si è lasciato andare a considerazioni - per dirla con l’Ordine degli avvocati di Palermo, che giustamente gli ha fatto le pulci - “del tutto errate dal punto di vista tecnico-giuridico”. E una definizione soffice, e comprensibilmente protocollare, per quanto anteposta a una inflessibile richiesta di dimissioni: perché il ministro Bonafede, che sta apparecchiando una riforma gravemente rivolta a frantumare il poco residuo di civiltà giuridica di questo Paese, ha dato prova in questa occasione (l’altra sera, da Bruno Vespa) di non conoscere nemmeno la differenza tra dolo e colpa. Un’ignoranza inescusabile già se a dimostrarla è una matricola un po’ zuccona, ma che rappresenta un’onta insopportabile per l’avvocatura, per la Nazione, per le istituzioni della Repubblica se si celebra nelle dichiarazioni di un parlamentare col potere di governo in materia di giustizia. Non si dice che un ministro debba per forza essere persona di illustre dottrina, ma qui si discute della riprova ennesima di una inettitudine sfrenata, e che pretende di mettere sigilli su cosine da nulla come i diritti delle persone, la libertà degli individui. Roba che dovrebbe aver speranza di non essere amministrata da chi, letteralmente, non sa nemmeno di che cosa parla. Né si può dire che la beata ignoranza di cui fa mostra il ministro Bonafede determini qualche sua incapacità, che cioè quel suo non saper nulla neppure dei principi elementari delle cose sottoposte al suo governo si ponga a ritenzione della sua disinvoltura riformatrice: anzi, quell’assenza di cognizione gli spiana davanti un deserto su cui posare i binari di una giustizia ferrata, coi procuratori della Repubblica officiati a capitreno. E non si sa se tutto questo faccia con dolo o con colpa: ma lo fa, e tanto basta ad alimentare un diritto di denuncia che vorremmo - questo sì - senza prescrizione. Il vero scandalo non è la gaffe di Bonafede, ma il giornalismo devoto alla forca di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 14 dicembre 2019 Nientedimeno, il Ministro Bonafede si dovrebbe dimettere per essere inciampato sul tentativo di spiegare in modo semplificato perché i reati colposi sono meno gravi dei dolosi, e per conseguenza i termini di prescrizione più brevi. Mi permetto di ricordare che alcune tra le peggiori riforme del diritto e del processo penale degli ultimi decenni recano la firma di Ministri che avrebbero avuto titolo e capacità di scrivere dotte monografie sul dolo e sulla colpa. E che sono stati altresì Ministri dì Giustizia ingegneri, periti industriali ed altri personaggi all’oscuro di ogni cognizione basilare del diritto, senza che nessuno ne chiedesse perciò le dimissioni (e che magari hanno fatto anche meglio dei colleghi giuristi). Il Ministro Bonafede troverà sempre sulla sua strada i penalisti italiani impegnati con tutte le forze ad impedire, per quanto possibile, che prenda piede la svolta populista e giustizialista che egli intende imprimere - e purtroppo sta imprimendo - al Paese. Siamo stati - da ultimo - una settimana in piazza, con la nostra maratona oratoria per la verità sulla prescrizione, a gridarlo in ogni modo; non ci occupiamo di correggere le bozze dei suoi monologhi. Piuttosto, invece che di insorgere guardando la pagliuzza, cerchiamo di non perdere di vista la trave che abbiamo non nei nostri occhi, ma davanti ai nostri occhi certamente. Lo scandalo è la informazione, è il giornalismo di questo Paese quando si occupa di giustizia penale. La vulgata populista e giustizialista gode, non certo da pochi anni e con rarissime e virtuose eccezioni, di una protezione totale, di un ossequio supino e servile, di una presunzione di infallibilità pressoché fideistica: l’intervista di Vespa a Bonafede si iscrive in questo percorso consolidato dei nostri talk show di informazione. Da Giovanni Floris a Lilli Gruber, da Corrado Formigli a Bruno Vespa, la parola d’ordine sembra essere una sola: di prescrizione ed in generale di giustizia penale parlano solo alcuni magistrati, i giornalisti del Fatto Quotidiano o di Repubblica e il Ministro di Giustizia, tutti e sempre rigorosamente senza contraddittorio. La voce del dottor Davigo è la voce della verità: ciò che egli racconta su come funzioni il processo penale, di quali siano le ragioni del suo collasso, di come funzioni la prescrizione nel nostro ed in altri Paesi, è oro colato. Guai anche solo ad immaginare che possa essergli opposta una opinione contraria, guai a chiedergli conto di numeri e statistiche ufficiali che possano mettere in dubbio la ineccepibilità della sua narrazione. È strabiliante la pervicacia con la quale Floris e Formigli chiamino lui e solo lui a parlare di giustizia penale, di recente soprattutto di prescrizione, più e più volte, e sempre in ascolto devoto, senza una sola obiezione, ma anzi solo tributando continui applausi di consenso e di entusiasmo. È stupefacente la incrollabile fiducia che la Gruber nutre nelle opinioni di Marco Travaglio sul processo penale, al punto da non avere mai, dico mai il riflesso di opporgli qualcuno che non la pensi come lui, fosse anche solo per curiosità. Recentemente quest’ultima ha invitato tre persone nella stessa trasmissione a parlare di prescrizione: Travaglio, Carofiglio e Giannini di Repubblica. Tutti d’accordo a sostegno della riforma Bonafede, erano così annoiati dopo esserselo detto tre volte che poco è mancato cominciassero a parlare di calcio o di cucina, per disperazione. Ecco, occupiamoci della professionalità di costoro, della loro attitudine a studiare essi per i primi i problemi della giustizia penale, i numeri, le statistiche, le principali e divergenti opinioni; occupiamoci di questa inconcepibile, deliberata scelta di affidare ad una sola voce - quella del più becero ed ossessivo populismo giustizialista - l’informazione della pubblica opinione, piuttosto che fare le pulci su come il Ministro Bonafede parli del dolo o della colpa. Dobbiamo immaginare e realizzare iniziative mirate a rendere il più possibile evidente questo scandalo della voce unica, della narrazione unica, della deliberata e scientifica manipolazione della informazione televisiva volta ad alimentare e fortificare sentimenti di indignazione indispensabili per cementare il consenso verso questa ossessione populista e giustizialista che da anni avvelena il nostro Paese e la nostra democrazia. La Maratona Oratoria è stata un primo, fondamentale passo in questa direzione. Questa deve essere la strada del nostro impegno civile, l’obbiettivo verso il quale convogliare ogni nostra energia: non facciamoci distrarre dal folklore. *Presidente Unione camere penali italiane Bonafede e il reato doloso di Vincenzo Vitale L’Opinione, 14 dicembre 2019 Facoltà di Giurisprudenza di una qualunque Università italiana. Esami di Diritto penale circa l’elemento soggettivo del reato. Domanda del docente: “Mi parli del reato doloso”. Risposta dello studente: “Quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo, e quindi diventa un reato colposo, ha termini di prescrizione molto più bassi”. Letterale. Replica del docente: “Innanzitutto, impari a parlare correttamente in italiano: avrebbe dovuto dire “del reato” e non “il reato”. E dovrebbe dotare il suo “ha termini di prescrizione” di un soggetto riconoscibile, cosa che invece non ha fatto. Inoltre, se lei pensa - come pare lei pensi, e sempre ammesso riesca a pensare - che la mancata prova del dolo trasformi il reato in colposo, allora si accomodi pure e vada a casa a studiare la differenza fra dolo e colpa nella struttura del reato. Infine, non si presenti qui al prossimo appello, fra un mese o due. Torni invece alla prossima sessione di esami, fra tre o quattro mesi, il tempo che le ci vorrà per capirci qualcosa. Perché adesso lei ha le idee molto confuse. Arrivederci e buona fortuna”. Questo il probabile dialogo che sarebbe tessuto in sede di esami fra un normale docente di Diritto penale e uno studente incapace di comprendere la differenza fra dolo e colpa, al punto da dare per scontato che se non si riesca a provare il dolo, allora il reato, da doloso che era, diventa colposo, godendo ovviamente di un più breve termine di prescrizione. Esempio. Se un Tizio è imputato per diffamazione - reato doloso - e del dolo non si raggiunga la prova, non assistiamo alla trasformazione di tale reato doloso in reato colposo, semplicemente perché la diffamazione colposa non esiste come reato, non c’è. Lo stesso dicasi per tutti i reati dolosi: una legge di trasformazione automatica del reato da doloso in colposo, in caso di mancata prova del dolo, esiste solo nella mente degli studenti davvero asini, quelli che non sospettano neppure che fra reato doloso e reato colposo a cambiare radicalmente è proprio la struttura ontologica del reato, senza che si possa ipotizzare una sorta di automatismo metamorfico. Certo, un omicidio che poteva sembrare dapprima volontario - cioè doloso - dopo le necessarie indagini, potrà essere derubricato in omicidio colposo o preterintenzionale, ma non si dà trasformazione di un reato in un altro, quasi fossero vasi comunicanti. Si tratta invece di reati diversi, perché ciascuno suppone una condotta diversa, la quale, se nasce dolosa, dolosa rimane. Se colposa, lo era fin dall’inizio e non lo è diventata certo strada facendo. Per ciò che riguarda la lingua italiana, meglio lasciar perdere senza approfondire. Va però rilevato che queste affermazioni sopra criticate sono state pubblicamente proclamate non da uno studente confuso o da uno che non capisce nulla di leggi e pandette, non essendovi tenuto per la professione che esercita - come potrebbe essere per esempio un medico o un ingegnere - ma dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. E allora bisogna constatare con vera preoccupazione che probabilmente il nostro è il solo Paese del mondo in cui chi ricopra quella carica fondamentale per il buon funzionamento dell’esecutivo ed anche del potere legislativo, dopo aver pronunciato tali assurdità, nel corso di una popolarissima trasmissione televisiva come “Porta a Porta”, rimane ancora al suo posto, come nulla fosse accaduto. Eppure, molto, moltissimo - e di assai grave - è accaduto. Che infatti un ministro dica pubblicamente cose del genere fa rizzare i capelli sulla testa, a chi appena ne capisca; se poi si tratta addirittura, come in questo caso, del ministro incaricato di organizzare, coordinare, legiferare in tema di amministrazione della giustizia, siamo davvero perduti. Senza timore di esagerare, la nostra perdizione di italiani - alla quale sembriamo destinati almeno fino a quando questo Governo si sarà dimesso - sta non solo nel fatto che Bonafede dica quelle cose, ma, ancor più, nella circostanza che le dica senza rendersi conto di ciò che dice e che poi - dopo che qualcuno glielo abbia fatto notare - non ne tragga le debite conseguenze, lasciando libera la poltrona che occupa, ma anzi restandole aggrappato ad ogni costo. L’Ordine degli avvocati di Palermo, inorridito, ha chiesto ufficialmente le dimissioni del ministro, ma questi non ha neppure replicato. Non so se per la pubblica opinione sia abbastanza chiaro come e quanto sia preoccupante che un ministro della Giustizia affermi durante una trasmissione televisiva l’esistenza di una legge di trasformazione dei reati - da dolosi a colposi - come si trattasse di una cosa ovvia e risaputa. Sarebbe come se il ministro della Salute - clinico medico - affermasse tranquillamente che per curare il raffreddore occorrono gli antibiotici: la comunità scientifica ne reclamerebbe subito le dimissioni. Ottenendole. In questo caso invece, niente dimissioni. Niente ripercussioni. Nulla di nulla. Bonafede non comprende allora che ogni rapporto di natura politica, basandosi su un dato eminentemente fiduciario, ha bisogno di essere coltivato ed alimentato proprio dalla e nella fiducia dei governati nei confronti del governante. Ma come si potrà nutrire la necessaria fiducia da domani in poi in un ministro, che, pur essendo avvocato, si lasci andare a simili affermazioni che palesano una incresciosa ed imbarazzante superficialità giuridica e culturale? Anche perché - come accade purtroppo in tali casi - un retro-pensiero fa capolino, occhieggiando da un angolino della mente, sospingendo a chiedersi: questo è ciò che si sa e che si è ascoltato da parte di milioni di spettatori, trattandosi di una nota trasmissione televisiva. Ma quando nessuno ascolta, quando Bonafede rimane chiuso nelle monumentali stanze del ministero, quando colloquia soltanto con la ristretta cerchia dei suoi collaboratori, cosa sarà capace di dire, senza che alcuno la sappia? E ancora. Quando Bonafede pensa, cosa e come pensa in punto di diritto? Spero allora che mentre egli mediti in quei luoghi ministeriali che furono abitati in passato da insigni giuristi - Aldo Moro, Guido Gonella, Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, per ricordarne solo alcuni - i fantasmi di costoro possano apparirgli, per ammonirlo a lasciar perdere, a liberare la poltrona che fu da loro occupata, perché il paragone non regge. Se il vuoto della politica che si ritrae è riempito dai giudici di Sergio Valzania Il Dubbio, 14 dicembre 2019 In assenza di rivali, il magistrato guadagna il consenso popolare e dà soluzione a problemi che i partiti non risolvono. Ho trovato di grande pregio l’analisi sviluppata da Angelo Panebianco sul Corriere. Partendo dalla probabile cancellazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, anche nel caso di assoluzione piena dell’imputato, lo studioso bolognese individua nell’allargamento progressivo e apparentemente inarrestabile del potere giudiziario il tratto caratteristico della trasformazione politica in corso nelle democrazie occidentali, che in Italia sarebbe in fase particolarmente avanzata. Più debole mi pare la conclusione, se così si può dire, che finisce con il responsabilizzare i giudici per la situazione che si è venuta a creare e per il suo progressivo aggravarsi, che in concreto arriva a mettere in discussione le fondamenta delle libertà borghesi, ancorché garantite dalla Costituzione. Il fatto che essa stabilisca all’articolo 111 che “la legge assicura la ragionevole durata del processo” non sembra impensierire politici e giuristi che si sono sbracciati per bloccare le riforme proposte da Renzi, nella modalità legittima della modifica costituzionale e in molti casi molto meno incisive di quanto non sia la pura e semplice abolizione della prescrizione dopo il primo giudizio, non accompagnata dagli strumenti di correzione del processo promessi all’atto dell’approvazione della legge. Come sostenuto da quasi tutti i politologi classici infatti, quello giudiziario è il più debole dei poteri statuali, inferiore in efficacia sia al legislativo che all’esecutivo. Le leggi di proposta parlamentare approvate sono sempre di meno. Nella concorrenza dei poteri sono con evidenza le componenti politiche a disporre degli strumenti di maggiore efficacia, potenzialmente utili a condizionare quella giudiziaria, che vive all’interno del sistema normativo disegnato dal parlamento, costretta dalla sua stessa natura ad agire con la tecnica del caso per caso e priva del controllo dei meccanismi base del potere statuale, dal tesoro agli esteri, dal lavoro alla fiscalità. Se il peso sociale della magistratura aumenta e quello della politica diminuisce la responsabilità è per larga parte della seconda, che non riesce a darsi la legittimità sufficiente a esercitare la propria funzione in modo pieno. Nel sistema italiano del dopoguerra l’organizzazione del consenso era effettuata dai partiti politici, mentre i rapporti internazionali certificavano la loro legittimazione a dirigere la società, indirizzando le risorse e tenendo in equilibrio i comparti sociali. Scomparsi i partiti di massa, crollata la partecipazione elettorale, cancellata ogni organizzazione del consenso non agganciata alle presenze televisive, più adatte a suscitare il dissenso violento e viscerale, fallito il tentativo di sviluppare nel web forme sostitutive di democrazia diretta, come dimostrato dai 27.273 votanti sulla questione decisiva della forma del rapporto tra M5S e Pd, la politica si dissolve e nel vuoto di potere viene surrogata dalla struttura pubblica di maggiore efficienza e credibilità presente nel Paese. Se la politica si ritrae, non gestisce le scelte che le sarebbero proprie, dal fine vita alla gestione della cittadinanza per gli immigrati, dalla tutela dei diritti fondamentali alla lotta alla criminalità, non riuscendo neppure a stabilizzare il sistema elettorale, non diciamo della riforma della giustizia, l’incapacità di realizzare la quale nonostante la maggioranza schiacciante che pure ha avuto spinge Berlusconi fuori dal novero degli statisti, è necessario che qualcun altro se ne occupi. Meno funziona la democrazia, in qualunque modo la si voglia intendere, maggiore è la credibilità del sistema proposto da Platone nella Repubblica: affidare il potere ai filosofi. Come sceglierli? Ovviamente tramite concorso e per cooptazione, ossia nel modo nel quale sono selezionati, con serietà e rigore, i magistrati. In assenza di rivali competitivi nella capacità di guadagnarsi il consenso popolare, ossia di acquisirne a sufficienza per strappare loro qualche brandello di potere, è del tutto normale, e politicamente giusto, che siano loro a indirizzare le scelte principali del nostro paese e che a loro si ricorra per sopperire ad ogni emergenza. Pretendendo addirittura che facciano funzionare le acciaierie, che questo è il significato della frase di Di Maio “Porteremo in tribunale la Arcelor Mittal”. La politica debole abdica e i pm colmano il vuoto di Pierfrancesco De Robertis Il Giorno, 14 dicembre 2019 Dopo anni di scontri, le toghe allargano sempre di più la loro sfera d’influenza. Due inchieste aperte nel giro di qualche settimana contro la Lega di Matteo Salvini, quella sulla renziana fondazione Open. Tutte con ipotesi di reato ampiamente da verificare, almeno da quanto è dato conoscere, visto che le polemiche sugli incroci pericolosi tra voli di stato e impegni elettorali sono comuni ai politici di ogni epoca ma l’inchiesta è scattata solo stavolta, visto che la seconda indagine sulla Lega è per la storia dei 49 milioni che credevamo in qualche modo conclusa, visto che sulla fondazione Open niente è emerso oltre che finanziamenti effettuati per bonifico e regolarmente denunciati. Dall’unica tra le fondazioni politiche che, peraltro, presenta i bilanci, al contrario di quasi tutte le altre che nascondono nei cassetti la propria contabilità. Non un soldo in nero, non un’intercettazione imbarazzante, niente. E senza voler cedere alla tentazione di un retroscenismo d’antan, non è possibile non cogliere in tutto questo un rinnovato acutizzarsi dello scontro tra una parte della classe politica e una parte della magistratura. Più che altro non è possibile non cogliere un accrescimento anomalo del potere che la magistratura inquirente ha raggiunto. L’entrata in vigore a gennaio di una riforma della prescrizione che consegnerà le nostre esistenze all’eterno ricatto dei tribunali, o alle loro inefficienze, chiude il cerchio aperto con la codifica nel 2012 di un altro reato graditissimo ai magistrati, quello di traffico d’influenze, varato guarda caso durante il governo dei tecnici. Senza contare le continue violazioni del segreto d’ufficio, queste sì che nessuno persegue, che vanno immancabilmente a colpire gli indagati o chi sta per esserlo. Tipo le notizie riservate sul prestito della casa di Renzi, in possesso a pochissimi e nel cassetto da almeno un anno, venute alla ribalta proprio in concomitanza della notizia dell’inchiesta Open, o la somministrazione anche in questo caso chirurgica delle carte delle ultime inchieste: poco dopo che giovedì mattina Matteo Renzi aveva terminato il suo intervento al Senato su politica e giustizia, ecco che filtravano ad alcuni giornali le carte del decreto di sequestro per Open. Niente di particolare quanto a contenuti, ma sufficienti a coprire mediaticamente l’evento romano. In tutto questo la politica è sostanzialmente silente. Una parte è ovviamente complice. Cosciente della propria debolezza, si affida alla forza dei pm. I grillini sanno di essere deboli, ma facendosi alfieri della repubblica delle procure recuperano un loro spazio di manovra. Innanzitutto non sono toccati dalle inchieste, se non per qualche vicenda minore e tutto sommato prontamente passata agli archivi (vedi Roma), poi restano al centro della scena, loro e gli alfieri mediatici che li rappresentano. In un anno e mezzo al governo, il Movimento Cinque Stelle ha fatto retromarcia in pratica su tutto, dalla Tav, al Tap al Mes, e solo sulla prescrizione ha minacciato la crisi. Bonafede inanella gaffes su gaffes, ma nessuno lo mette seriamente in discussione. Il Partito democratico balbetta, ogni tanto ha qualche sussulto garantista, ma sostanzialmente si allinea ai grillini. Più che altro è tutta la politica a non mostrare un segno di reazione, anche quando tutti comprendono le coordinate dell’attacco in corso. Nel momento in cui si mette in dubbio la legalità di ogni forma di finanziamento tanto che si perquisisce all’alba chi ha regolarmente sovvenzionato una fondazione, tutti i partiti dovrebbero in qualche modo preoccuparsi. Invece niente, tutti zitti, dietro alla convenienza del momento, che è quella di indebolire un avversario politico, o alla paura di qualche rappresaglia. Nonostante che di dieci politici che incontri, dieci ti dicano che sulla storia di Open Renzi ha ragione, poi in Senato in pochi hanno assistito al dibattito, e in ancor meno hanno preso la parola per difendere il collega-avversario. Il Pd è rimasto muto. La politica può in sostanza solo piangere sé stessa. Il potere non è stato strappato dai giudici con la violenza, è sempre stato ceduto dai politici. Accadde nel ‘93, quando a furor di popolo fu abolita l’immunità parlamentare, il primo dei tanti cedimenti alla repubblica dei pm a quel tempo rappresentata dal pool Mani pulite. I cui componenti, ricordiamolo per inciso, una volta smessa la toga hanno fatto carriera nelle file della sinistra: Tonino Di Pietro fu candidato dai Ds al Senato nel Mugello, Gerardo D’Ambrosio divenne senatore dei Ds, Gherardo Colombo fu nominato nel cda della Rai da associazioni d’area Pd, Elena Paciotti presidente dell’Anm in quegli anni cruciali fu poi. europarlamentare Pds. È accaduto anche in seguito, quando le toghe hanno occupato spazi non propri: quando hanno creduto di poter decidere la strategia industriale del Paese era perché la politica non ne aveva elaborata una, quando hanno preso spazio sul fine vita è perché non esisteva una legge, quando adesso i pm vogliono intervenire sul finanziamento è perché la normativa sui partiti e sui loro finanziamenti è ancora una volta lacunosa. Un circuito vizioso da cui a questo punto è difficile uscire. Retribuzioni non dignitose, la rivolta dei Giudici di pace: sciopero dal 6 gennaio La Repubblica, 14 dicembre 2019 Dopo l’ultimo incontro con il ministro Bonafede, i magistrati onorari scrivono una lettera al Guardasigilli: “Chiediamo solo la tutela del nostro futuro” Giudici di pace sul piede di guerra dopo l’ultimo “insoddisfacente” incontro con il ministro della Giustizia Bonafede del 4 dicembre scorso. Sul tavolo le richieste che da anni i giudici di pace presentano ai vari governi che si avvicendano: in particolare il riconoscimento dello status di lavoratori con tutte le guarentigie a questi dovuti e una retribuzione degna e dignitosa. E una nuova astensione dalle udienze, dopo quella dal 25 al 29 novembre, è stata indetta dalle associazioni Angdp (Associazione nazionale giudici di pace) e Unagipa (Unione nazionale giudici di pace). Sarà un blocco solo parziale nel periodo compreso fra il 6 gennaio al 1° febbraio 2020. Durante l’astensione, saranno garantiti i servizi essenziali secondo le modalità e nei limiti previsti dai codici di autoregolamentazione. In una lunga lettera al ministro, i giudici di pace sottolineano la loro delusione e “l’amarezza dettata dalla constatazione del tempo perduto nella speranza di ricevere giustizia da chi ci chiede di garantire giustizia. La delusione è alimentata in maniera esponenziale dalla consapevolezza che anche questo ministro utilizza lo spettro delle esigenze contabili per dissimulare la volontà di non cambiare nulla”. Tale, secondo i giudici di pace, sarebbe una modifica al sistema dettato dalla legge Orlando che non tenesse conto degli spunti offerti dalle associazioni, su pochi ma essenziali punti ben noti. In pratica, si legge nella lettera, il progetto di riforma non si discosta affatto dalla previsione di spesa che fu del precedente ministro Orlando: “Cambiare per nulla modificare. Questo è l’atteggiamento ministeriale che, dopo aver ridotto unilateralmente “al ribasso” uno stiracchiato accordo su punti base di riforma, ha lasciato la clausola “salvo intese” vuota. Appare evidente - continua la lettera - la volontà di lasciare che il tracollo della Orlando faccia il suo corso dal 2021, ritoccando qua e là un impianto che rimane invariato, a tutto detrimento di una categoria sfruttata in alcuni casi sino alla morte, senza un ringraziamento se non meramente di facciata”. “Si faccia chiarezza sul perché l’attenzione dei governi sia sempre rivolta ai precari ma mai ai magistrati onorari, respingendo al mittente ogni legittima richiesta di tutela del diritto al proprio futuro e alla giusta retribuzione con un rifiuto fondato sempre su falsi problemi”. “Certamente - si conclude la lettera - la magistratura onoraria non intende subire passivamente giustificazioni pretestuose e non si volta oggi dall’altra parte a pretendere il giusto trattamento dopo decenni di servizio, dopo le ore e la vita sacrificate al servizio dello Stato”. Ai giudici di pace giunge l’appoggio dell’Anm che già un anno fa aveva auspicato che potessero essere reperiti i necessari finanziamenti, “peraltro stimati in cifre di non particolare impatto sul bilancio dello Stato”. Natale, Polizia penitenziaria e beneficenza: tutte le iniziative del Triveneto di Marina Caneva* gnewsonline.it, 14 dicembre 2019 La comunità penitenziaria, da sempre animata da grande spirito di solidarietà nei confronti delle fasce più deboli della collettività, durante i giorni che precedono le festività natalizie dà fondo a tutte le proprie energie per realizzare numerose iniziative di beneficenza. Molte quelle promosse in questi giorni dalle Direzioni degli istituti penitenziari del Triveneto. Nella Casa Circondariale di Udine, per onorare la memoria del giovane figlio di due colleghi della Polizia Penitenziaria, vengono organizzati annualmente un pranzo e una lotteria il cui ricavato viene devoluto in beneficenza. Quest’anno è stato utilizzato per allestire la sala giochi del reparto pediatrico dell’Ospedale di Latisana. Ieri alcuni agenti, con un’autovettura di servizio scortata da 4 motociclisti del gruppo Motor day di Udine travestiti da Babbo Natale, hanno trasportato e consegnato ai responsabili della struttura ospedaliera i giocattoli acquistati grazie alle sottoscrizioni. Un gesto che ha fatto felici i piccoli pazienti e i loro genitori che, in segno di gratitudine, hanno voluto posare con gli agenti per le foto ricordo. Sono stati inoltre acquistati un divano a sette posti, un frigorifero e una lavatrice per una casa famiglia che ospita donne e bambini maltrattati e una canoa per la scuola di canottaggio di San Giorgio di Nogaro. Il “battesimo” della nuova attrezzatura è avvenuto l’8 dicembre scorso durante una festa organizzata dalla struttura. Presso la Casa di Reclusione femminile di Venezia alcune copertine, realizzate a mano da un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di Padova, sono state donate ai bambini ospiti del reparto di custodia attenuata per detenute madri. Due detenute in permesso premio parteciperanno inoltre, il 18 dicembre prossimo, al concerto presso il Teatro La Fenice e il giorno seguente il pranzo di Natale verrà offerto a tutte le detenute grazie al contributo delle associazioni del privato sociale e delle cooperative che collaborano alla realizzazione delle attività trattamentali. La Casa Circondariale di Trieste vede il personale di Polizia Penitenziaria ormai da diversi anni protagonista dell’iniziativa S. Nicolò si mette in moto, a favore dei bambini assistiti dai centri di accoglienza cittadini; inoltre, la Direzione ha aderito a un progetto che, con l’Associazione Nati per Leggere, promuove letture a favore dei figli dei detenuti durante l’attesa per i colloqui e la donazione di libri. L’istituto triestino organizza la raccolta sia di fondi, da donare ai detenuti indigenti, che di capi di abbigliamento per la popolazione ristretta maschile e femminile. Il pranzo di Natale con le detenute della sezione femminile viene realizzato con la collaborazione della Comunità di S. Egidio. Anche la Casa Circondariale di Padova ha avviato un’iniziativa di solidarietà, a favore dei bambini ricoverati presso il Centro oncologico pediatrico dell’Ospedale di Padova, tramite un’associazione già attiva nel settore. *Marina Caneva è la referente per la comunicazione del Provveditorato del Triveneto Napoli. Nuovo Garante dei detenuti, l’ira di Salvini: faremo ricorso di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 14 dicembre 2019 A Poggioreale con gli agenti penitenziari: “De Magistris non sa fare il sindaco, ricorreremo contro la nomina di Ioia”. “Pronti a cancellare il reato di tortura”. “Cancellare dal codice penale il reato di tortura, “che sta diventando - scandisce Matteo Salvini - un’arma in mano ai delinquenti e un cappio intorno al collo dei poliziotti”. Il segretario della Lega torna a Napoli, e lo fa stavolta da leader di un’opposizione che d’ora in poi promette di non fare sconti a nessuno. Un ritorno all’indomani della scelta del sindaco di nominare Pietro Ioia, un pregiudicato, garante per i detenuti. “Una decisione - dice Salvini - che grida vendetta davanti agli uomini e a Dio”. Il segretario della Lega torna a Napoli, e lo fa stavolta da leader di un’opposizione che d’ora in poi promette di non fare sconti a nessuno. Salvini decide di tornare nel capoluogo campano all’indomani della scelta del sindaco Luigi de Magistris di nominare Pietro Ioia, un pregiudicato che ha peraltro scontato i suoi debiti con la giustizia, garante per i detenuti. “Noi - afferma al termine della visita nel carcere di Poggioreale - proporremo la cancellazione del cosiddetto reato di tortura che sta diventando un’arma in mano ai delinquenti e un cappio intorno al collo dei poliziotti”. Salvini varca i cancelli del carcere più sovraffollato d’Europa alle 11 in punto. Il suo unico impegno, in questa visita lampo a Napoli, si concentrerà sull’incontro con il personale amministrativo della casa circondariale, ma soprattutto con gli uomini della Polizia Penitenziaria “dai quali - spiega - ho raccolto una richiesta di riconoscimento della dignità per ciò che tra mille difficoltà riescono a fare ogni giorno”. All’interno della casa circondariale il leader leghista parla, ma soprattutto ascolta le ragioni degli agenti, e il loro stato d’animo che trasuda frustrazione e senso d’impotenza di fronte alle carenze di organico che li costringe a turni massacranti. La sovraesposizione della stragrande maggioranza dei baschi blu è rappresentata plasticamente dalla foto che alcuni agenti della Polpen mostrano all’ex ministro dell’Interno: un’istantanea scattata in ospedale - ad Avellino - dopo l’ennesima aggressione subìta dalle divise ad opera di alcuni reclusi che li ha aggrediti addirittura a colpi di macchinetta per il caffè: in quella foto si vede una delle vittime mentre gli vengono applicati dieci punti di sutura al cranio. Politicamente parlando, la venuta a Poggioreale di Salvini ha un obiettivo ben preciso. La Lega farà ricorso “in ogni sede possibile e immaginabile” alla nomina di Pietro Ioia a garante dei detenuti da parte del Comune di Napoli. E in conferenza stampa, al termine della visita al carcere, arriva l’affondo: “A Poggioreale - sono parole del leader leghista - c’è una situazione che va al di là del drammatico: ad oggi ci sono 500 detenuti in più e 150 agenti in meno, a causa dei pensionamenti. La decisione di nominare Ioia a Garante dei detenuti grida vendetta davanti agli uomini e a Dio: perché non si può dare tale incarico a un signore che è stato spacciatore di morte, e che ogni giorno spara a zero contro gli uomini e le donne che vestono una divisa e che in carcere devono fronteggiare mille difficoltà, anche a rischio della propria pelle. Ioia, a giudizio di Salvini, “non può essere al di sopra delle parti. La Lega farà ricorso in ogni sede possibile e immaginabile. Capiamo la confusione di De Magistris, ma ci auguriamo che abbia finito di fare danni a Napoli ed in Campania. Tra lui e il sindaco di Roma Virginia Raggi non si capisce chi ha fatto peggio”. A stretto giro giunge la replica di de Magistris: “Non capisco tutto questo astio nei confronti della nomina di Ioia. Facciamolo lavorare. Lo valuterò da come si comporterà e trovo vergognoso che un ex ministro si rechi in carcere a fare un comizio giudicando e valutando la nomina di una persona che deve garantire i diritti dei detenuti”. Sul caso fa sentire la propria voce anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che dichiara: “Se una persona ha fatto il suo percorso scontando la sua pena, è giusto poi dargli le stesse opportunità di tutti, perché la pena è ai fini rieducativi lo dice la nostra Costituzione”. Salvini promette: “Tornerò a Napoli, al Vasto, dove mi risulta che i controlli delle forze dell’ordine si siano allentati da quando ho lasciato il Viminale. Verrò per incontrare la gente, le mamme, il parroco e le persone perbene. Oggi stesso telefonerò al prefetto chiedendo di rinforzare i presìdi, perché non si può allentare la presa su un quartiere in difficoltà”. Intanto ieri il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha annunciato che lunedì sarà a Napoli, in Prefettura, per presiedere il comitato dell’ordine pubblico. Napoli. Fico replica a Salvini: chi ha pagato il proprio debito deve avere giuste opportunità di Simona Brandolini Corriere del Mezzogiorno, 14 dicembre 2019 Da una parte Matteo Salvini, dall’altra l’arci-avversario Roberto Fico. Che lo rintuzza pure sul Garante dei detenuti, Pietro Ioia, nominato dal sindaco metropolitano Luigi de Magistris. “Se una persona ha fatto il suo percorso negli istituti penitenziari, scontando la sua pena, è giusto poi dargli le stesse opportunità di tutti, perché la pena è ai fini rieducativi lo dice la nostra Costituzione”. Poi il presidente della Camera aggiunge: “So che Ioia è tornato riabilitato nella società così come dice la nostra Costituzione. Per il resto non commento le visite nelle carceri da parte di parlamentari. La Costituzione dice che la pena è sempre rieducativa, quindi quando si è pagato il proprio conto con la giustizia sei una persona libera di poter ricostruire la propria vita”. Scelta e nomina che rivendica de Magistris: “Non avevo dubbi sulla nomina di Pietro Ioia e, dopo la levata di scudi di Salvini, credo di aver fatto una cosa molto buona e quindi lo ringrazio: grazie Salvini”. Il leader nazionale della Lega ha annunciato anche che il suo partito “si opporrà in tutte le sedi a tale nomina”, il sindaco commenta: “Non so a quali sedi si riferisca Salvini visto che si tratta di una nomina che spetta al sindaco che può nominare chi ritiene. La critica di Salvini può essere legittima, può non essere d’accordo visto che siamo in democrazia”. C’è poi il tema dell’addio ai 5 Stelle dei due senatori campani Ugo Grassi e Francesco Urraro. Entrambi entrati ufficialmente nella Lega, cosa che ha mandato su tutte le furie il capo politico pentastellato Luigi Di Maio. “Non commento i passaggi di parlamentari ad altri schieramenti - dice Fico. Posso solo dire che se si pongono dei problemi vanno risolti e si possono risolvere in altri modi, non mi sembra il modo adatto. Ma è un’opinione personale”. Ora, ogni volta che c’è un passaggio il Movimento 5 Stelle invoca le dimissioni e il vincolo di mandato. Incostituzionale. Tant’è che arriva la frenata del presidente della Camera: “Ho sempre detto che non metterei mano alla Costituzione ma piuttosto ai regolamenti di Camera e Senato, per cercare di sfavorire un certo tipo di comportamento”. Chieti. Un lavoro dopo il carcere con il progetto “Detenzione Creativa’“ di Francesco Colagreco chietitoday.it, 14 dicembre 2019 Illustrato qieri mattina nella sede della Curia diocesana a Chieti, il progetto “Detenzione creativa” che ha visto protagonisti alcuni detenuti del carcere di Chieti. Il progetto è il frutto del lavoro della Caritas Diocesana di Chieti-Vasto che dispiega in due parti: la prima a Chieti e vede coinvolti i detenuti della Casa Circondariale di Chieti attraverso corsi formativi nell’ambito della ristorazione, la seconda a Vasto in cui sono coinvolti ex detenuti della Comunità Papa Giovanni XIII di Vasto gestiti dalla Cooperativa sociale “Recinto di Michea” sempre di Vasto, nell’ambito della produzione di prodotti agricoli biologici. Il progetto realizzato a Chieti grazie ai Fondi Cei dell’otto per mille, è stato chiamato “Detenzione Creativa” per “sottolineare il desiderio e l’auspicio - direttore della Caritas Chieti-Vasto, Don Luca Corazzari - che quest’opera segno possa essere una occasione per i detenuti, che sono i protagonisti, a non lasciarsi vincere dalla loro condizione ma a saper reagire secondo quello spirito di intelligenza e di originalità”. Il progetto ha avuto il suo inizio nel mese di settembre: dieci detenuti (6 uomini e 4 donne) di 32-33 anni hanno seguito un corso di formazione regionale nell’ambito della ristorazione. La parte teorica del corso è stata realizzata all’interno delle aule della Casa Circondariale di Chieti, mentre la parte pratica nei locali del Villaggio della Speranza coordinata da Suor Vera. “Un’esperienza che accompagnai detenuti in un processo di riabilitazione - ha detto l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte - e che è fonte di rispetto e dignità umana”. Dello stesso avviso il neo direttore della casa circondariale di Chieti, Franco Pettinelli che si è detto “colpito positivamente della tanta disponibilità di questo territorio e - ha aggiunto Pettinelli - spero che qualcuno dei nostri detenuti riuscirà a rientrare nel mondo del lavoro”. Nel pomeriggio di oggi (alle 14), nella Casa Circondariale di Chieti i detenuti che hanno frequentato il corso sosterranno gli esami finali, e conseguiranno così una qualifica a livello regionale che permetterà loro di avere maggiori possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro. Inoltre, i detenuti più meritevoli, saranno assunti con dei contratti di tirocini formativi nelle aziende che operano nell’ambito della ristorazione (tra cui una è la “Food Service” oggi rappresentata dal direttore tecnico, Angela De Massis), per un periodo massimo di un anno. I tirocini saranno retribuiti dalla Caritas diocesana per mezzo dei Fondi Cei dell’otto per mille. Bologna. Le “cinevasioni” per un carcere più umano e civile Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2019 Non è soltanto un’opera buona, cioè un atto di generosità e solidarietà, quella che ha deciso di compiere Rai Cinema nei confronti dei detenuti. È anche un atto educativo e rieducativo che può contribuire al reinserimento del condannato nella società, secondo lo spirito e la lettera della Costituzione. Mentre la politica si accapiglia sulla riforma della prescrizione, cercando di conciliarla con la ragionevole durata del processo, la consociata del servizio pubblico dona 700 film alla Casa circondariale di Bologna per aprire una videoteca all’interno del carcere, d’accordo con la direttrice Claudia Clemente. Un piccolo gesto concreto, di grande valore morale, che può costituire un esempio da replicare magari in altri istituti di pena. Se ne occupa l’associazione “Cinevasioni” e il calembour del nome esprime bene l’idea di “far evadere” metaforicamente i detenuti con la fantasia e il divertimento, per rendere più umana la loro permanenza in cella. L’auspicio è che con l’aiuto di Fantozzi & C. possano tornare a vivere nella società, una volta scontata la pena, con una disposizione d’animo più civile e corretta. Ed è proprio ciò che corrisponde all’interesse della collettività, per evitare che escano dal carcere più delinquenti di quando sono entrati. Con questa iniziativa, la società cinematografica guidata da Paolo Del Brocco ottempera a quel ruolo di servizio pubblico che spesso la Rai tradisce e rinnega. E conferma una volta di più che anche l’intrattenimento, oltre all’informazione e alla cultura, può essere istruttivo e pedagogico. La forza della comunicazione, varcando i cancelli delle carceri, è in grado di rompere temporaneamente l’isolamento del detenuto, per non relegarlo nell’emarginazione e per favorirne la reintegrazione. Naturalmente, non basta una videoteca per raggiungere questo obiettivo. Occorre innanzitutto ridurre il sovraffollamento nei penitenziari e assicurare condizioni di vita più dignitose per i detenuti. E sarebbe opportuno che anche in Italia, come avviene in tanti altri Paesi europei, fossero previsti tempi e spazi per la loro affettività: finora il diritto alla sessualità viene applicato attraverso i permessi-premio per chi ha già scontato un terzo della pena e ha dimostrato una buona condotta, ma riguarda una piccola percentuale della popolazione carceraria. Sono 31 su 47 gli Stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale per i diritti umani, in cui sono autorizzate con procedure particolari le visite in carcere di mogli, mariti, compagne e compagni: dalla Francia all’Olanda, dall’Austria alla Svizzera, dalla Finlandia alla Norvegia, fino alla Russia. E anche nella cattolicissima Spagna è consentito il sesso in cella con il partner che frequenta regolarmente i colloqui settimanali. Nel Parlamento italiano, giacciono due progetti di legge che prevedono la realizzazione, all’interno dei penitenziari, di spazi riservati all’intimità familiare e coniugale. La proposta è stata rilanciata dagli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una commissione di esperti insediata dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. Ma finora è rimasta lettera morta. Non si tratta, evidentemente, di introdurre il lassismo nelle carceri. Né tantomeno di allentare il rigore e la severità del regime carcerario. Al contrario, si tratta di renderlo più umano ed efficace nella prospettiva della rieducazione contemplata dalla Carta costituzionale. Bollate (Mi): Detenuti-stilisti nel nome di Leonardo di Roberta Rampini Il Giorno, 14 dicembre 2019 Ago, filo, creatività e voglia di riscatto: in mostra a Milano gli abiti realizzati nel laboratorio del carcere di Bollate. In Ecuador, suo Paese d’origine, collaborava con diversi teatri per la realizzazione dei costumi di scena. Detenuto nel carcere di Bollate da alcuni anni, Cristian ha deciso di mettere a disposizione la sua vena artistica coinvolgendo altri detenuti in un laboratorio sartoriale dietro le sbarre. Ago, filo, creatività, passione e voglia di riscatto. E ora anche una mostra. Fino al 5 gennaio a Palazzo Morando a Milano, nell’ambito della rassegna d’arte “Leonardo prigioniero del volo”, si possono ammirare dieci abiti realizzati dai detenuti del carcere di Bollate, accanto agli abiti realizzati dagli allievi “liberi” dell’istituto Teatro della Moda. Vere e proprie “sculture di tessuto” ispirate al genio di Leonardo, pezzi unici, la cui realizzazione sposa la finalità artistica e sociale. Tutti gli abiti esposti (trenta) saranno infatti messi all’asta a sostegno della Casa Sollievo Bimbi, il primo hospice pediatrico in Lombardia per l’accoglienza di minori gravemente malati e il sostegno alle loro famiglie: la struttura è stata aperta ad aprile 2019 da Vidas, associazione che offre gratuitamente cure e assistenza ai malati inguaribili. “Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto dalla scorsa primavera: l’idea era quella di avvicinarci a Leonardo, raccontandone, attraverso stoffe e tessuti, l’ardire del sogno del volo”, spiega Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico del carcere di Bollate. I detenuti coinvolti nel progetto sono quelli del settimo reparto, “sex offenders”, ed ex appartenenti alle forze dell’ordine. Il laboratorio sartoriale ha mosso i primi passi nel maggio 2018, i detenuti spronati da Cristian hanno iniziato producendo manufatti con pasta di sale e biancheria per la casa. Poi l’idea di organizzare un mercatino per la vendita dei loro prodotti artigianali e la decisione di devolvere gli incassi all’associazione “Doppia Difesa” fondata da Michelle Hunziker e dall’avvocato Giulia Bongiorno con lo scopo di aiutare le donne maltrattate. È solo l’inizio. L’anno dopo il ricavato del mercatino viene donato all’associazione “L’altra metà del cielo”, ben 8.000 euro che serviranno per costruire nuovi spazi per donne con figli vittime di violenza e abusi. E poi arriva il 500esimo anniversario della morte di Leonardo. È stata proprio di Cristian l’idea di realizzare degli abiti ispirati alle opere del grande Genio per celebrare la creatività leonardesca in ogni suo aspetto. La direttrice Cosima Buccoliero ha approvato l’idea, da quel momento in poi Cristian e gli altri detenuti fanno il resto coinvolgendo la Manifattura Ratti di Luino che ha donato il tessuto per realizzare gli abiti. Oltre ai detenuti, Cristian ha coinvolto anche il direttore del Teatro della Moda, Alessandro D’Ambra, che partecipa alla mostra con gli abiti degli allievi e altri artisti stranieri. “Per alcuni detenuti l’approccio con la macchina da cucire è stato facile, per altri meno, ma il laboratorio che resta aperto fino a sera è un momento di socializzazione, si ricama, si taglia e si parla - racconta Cristian - ora il mio sogno è quello di riuscire a creare un know-how della sartoria. Per ora è tutto amatoriale e da autodidatti, ma sarebbe bello se qualcuno con le competenze professionali potesse dare lezioni di sartoria per formare i detenuti impiegati nel laboratorio”. Oltre a creare abiti, tra cui ricami con tanto di tombolo, i 35 detenuti impegnati nel progetto realizzano anche stampe con serigrafia. Un lavoro di squadra, la voglia di cambiare, tanto che Cristian ha creato l’associazione “Catena in movimento” per promuovere e sostenere progetti sociali. Benevento. Avviata l’attività di volontariato dei detenuti della Casa circondariale gazzettabenevento.it, 14 dicembre 2019 È quanto stabilisce un protocollo d’intesa siglato alla presenza del presidente, Marilisa Rinaldi, tra il Tribunale beneventano, l’Ufficio di Esecuzione penale esterna, la Casa circondariale e la Croce Rossa Italiana. L’obiettivo, secondo quanto evidenziato dal presidente del Tribunale Rinaldi, è quello d’implementare e sostenere l’attività di collaborazione con i soggetti sottoscrittori per il sostegno delle attività e degli interventi a favore della popolazione detenuta e dei soggetti in misura alternativa alla detenzione. Il protocollo è stato possibile grazie alla collaborazione della Croce Rossa Italiana, sezione di Benevento con il suo presidente Raffaele Tangredi, da sempre attiva nella realizzazione dei percorsi di volontariato, sia come esperienza di socialità a favore delle fasce deboli, sia come inserimento o reinserimento sociale sia come misura alternativa alla pena. “La Cri - si legge nella nota inviata alla Stampa - ha pertanto reso possibile l’indispensabile supporto burocratico e assicurativo. Il Tribunale, la direttrice dell’Ueep Marisa Bocchino, il direttore della Casa circondariale, Gianfranco Marcello e la Croce Rossa Italiana ritengono opportuno sviluppare forme di collaborazione e concorso a tutela dei soggetti in esecuzione penale, bisognevoli di interventi di sostegno sociale per educare la rispetto degli altri e dei loro diritti, valore imprescindibile di una civile convivenza regolata e disciplinata dalla legge. Secondo la normativa vigente in materia, i detenuti e i soggetti in misura alternativa possono, infatti, essere assegnati a prestare la propria attività a titolo gratuito e volontario nell’esecuzione di progetti pubblica utilità in favore della collettività da svolgersi nelle pubbliche amministrazioni, enti e organizzazioni di assistenza sociale e volontariato”. Pordenone. La vita prima, durante, dopo il carcere di Maria Luisa Gaspardo ilpopolopordenone.it, 14 dicembre 2019 Testimoni raccontano ai ragazzi il “Castello”. All’auditorium Concordia 1.500 studenti del Leo-Majo in Assemblea. Un’assemblea del tutto particolare quella del liceo Leopardi Majorana di venerdì 6 e sabato 7 dicembre presso l’auditorium Concordia a Pordenone. Ha coinvolto tutte le classi dei tre indirizzi per un totale di circa 1500 ragazzi. Il tema trattato: “La vita prima, durante, dopo il carcere”. Venerdì 6 dicembre ore 8.15: il Concordia è affollato di classi prime e seconde. Luigi Guerzi per tutti i rappresentanti dei ragazzi al Consiglio d’Istituto (gli altri sono Federico Magris, Elisabetta Testa e Teresa Zanetti) spiega che d’ora in poi prima dell’assemblea si farà un sondaggio per scegliere il tema da trattare. Ringrazia i presenti e in particolare per la collaborazione Giovanna De Maio volontaria dell’Associazione “Carcere e Comunità” nata nel 1991 in ambito Caritas diocesi di Concordia Pordenone. Sul palco del Concordia don Piergiorgio Rigolo, cappellano del carcere di Pordenone, Flavio B, ex detenuto, la psicologa Sara Mirone, le mamme Luciana e Ludovica, la volontaria Angela, Suor Giselda delle Elisabettine, Alessandro Castellari rappresentante di Oasi 1 e Giovanna De Maio. In altri incontri succedutosi sarà presente anche il direttore del carcere di Pordenone Alberto Claudio Quagliotto. Flavio B. - La parola passa a Flavio B, ex detenuto della casa circondariale di Pordenone. È desideroso di poter lanciare un messaggio ai ragazzi: “Stare in carcere non è bello, c’è sovraffollamento, in una cella - poi si corregge - in una camera da sei si sta in otto. Alcuni finiscono in carcere per errori giudiziari. Molti sono stranieri scappati dalla propria patria perché non avevano di che sopravvivere”. Parla di sofferenza: “Una persona che finisce in carcere può perdere tutto, lavoro, affetti. Io sono fortunato, la mia famiglia mi ha seguito, la mia mamma è qui. Ci sono persone con bambini piccoli che non vedranno più”. Flavio invita i giovani “padroni dei social” a farsi portavoce della condizione di vita nelle carceri e di cosa succede a una persona che diventa carcerato. “Voi sarete i nuovi avvocati, i nuovi giudici teniamo aperto il dialogo”. Spezza una lancia a favore degli assistenti (le guardie di polizia penitenziaria) al carcere, che non è un collegio né un “Castello” (come è usualmente chiamato per il suo antico ruolo). “Sono persone di cuore, pur mantenendo il proprio status di assistenti”. La psicologa - La psicologa Sara Mirone, che opera a Pordenone e in regione, è molto chiara. Invita i ragazzi a comportarsi in modo da tenersi lontano dal carcere: attenti all’uso dello smartphone. La famiglia e la scuola insegnano le regole che servono a darci il senso del rispetto degli altri. La propria libertà finisce dove inizia quella dell’altro. Tutti abbiamo delle responsabilità. Fino alla maggiore età la responsabilità ricade sui genitori, poi ciascuno sarà responsabile di sé stesso, di tutto quello che farà. “Iniziate fin d’ora a rispettare le regole verso voi stessi e gli altri. Voi Vorreste infrangere, capire il senso del limite. Dovete saper aspettare che qualcosa che vorreste arrivasse oggi arrivi più in là. Non siate incapaci di aspettare, di coltivare un desiderio. Non cercate scorciatoie. Bisogna saper attendere. Quanto più aspetto tanto più grande sarà la gioia nell’ottenere ciò che desidero. Coltivate il dialogo e se i genitori non sono disponibili si può cercare aiuto altrove, al consultorio, da un religioso. Telefonate, dite che avete bisogno di parlare. Coltivate la musica, lo sport, ciò che di positivo offre il territorio, ognuno di voi dovrà trovare la sua strada. Non infrangete le regole. Il carcere è necessario in molti casi, se c’è infrazione della libertà altrui, ma voi cercate l’equilibrio, sappiate conoscervi a livello psichico e fisico, siate responsabili, i timonieri di voi stessi, non dipendete dai social”. Mamma Luciana - Luciana, mamma di un ragazzo che ha commesso un omicidio, fatica a parlare e preferisce leggere una lettera in cui ringrazia commossa i volontari. Poi invita ad evitare le scelte sbagliate con gli amici. Si pagano a caro prezzo. Suor Giselda - Suor Giselda, delle Elisabettine, un “mito” positivo per tanti: “Mi commuove vedervi tutti qui. Ho iniziato il mio operato con i migliori ragazzi delle parrocchie, poi al Cedis con i tossici e poi il carcere, dove mi sento a casa. È importante mettersi di fronte alla persona, ascoltare il suo vissuto, il suo desiderio di vita. Si intravvede una luce, come un germoglio per andare verso una strada nuova. Non sono molto dolce, ma sono convinta che ogni persona deve trovare il gusto di una vita serena”. Sandro Castellari - Sandro Castellari: “26 anni fa ho iniziato corsi di giardinieri per carcerati. Non serve fare formazione - mi hanno detto i carcerati - perché nessuno ci assume. Mettiamoci insieme. È nata nel 1995 una cooperativa sociale. Il momento più difficile è quando esci dal carcere, senza famiglia, senza lavoro. Il 70% torna in carcere. In cooperativa sono passati in 200, quelli ritornati in carcere si contano sulle dita di una mano”. Giovanna De Maio - Dopo alcuni dati forniti sulle carceri regionali, sui reati per uso di sostanze e violenze di genere in forte aumento in questo momento, parla Giovanna De Maio che invita a riflettere sui detenuti, sull’uomo che non è la sua colpa, sul peccatore che non è il suo peccato. “Ognuno ha una luce dentro. Anche in cella c’è solidarietà, si divide il mantello. È importante la rieducazione, fornita dalle istituzioni e dai volontari. Vi auguro di non sbagliare mai. È giusto che una persona paghi, ma il carcere è duro”. Roma. “Il Vangelo dentro”, la Lettera Apostolica di Papa Francesco per i detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 14 dicembre 2019 L’incontro tra i vertici del Dicastero per la Comunicazione e i detenuti del carcere di Rebibbia che partecipano agli appuntamenti con “Il Vangelo dentro” in questo periodo d’Avvento. Ai reclusi è stata consegnata la Lettera Apostolica di Papa Francesco sul presepe, “Admirabile signum”. Le voci dei detenuti che passano ogni domenica mattina in radio finalmente diventano volti in cui è disegnata la sofferenza, ma anche occhi in cui brilla la speranza nutrita dalla fede. Diventano anche mani, da stringere forte, e corpi da abbracciare, come fratelli. È questa l’esperienza che hanno fatto nel carcere romano di Rebibbia il Prefetto del Dicastero per la Comunicazione Paolo Ruffini e il Direttore editoriale Andrea Tornielli che per la prima volta hanno varcato la soglia della casa di reclusione e incontrato gli ospiti che partecipano all’edizione natalizia de “Il Vangelo dentro”. Un desiderio fortissimo, quello di conoscersi, da entrambe le parti, che finalmente è divenuto realtà. “La misericordia è per tutti” - Visitare un carcere è un’esperienza che smuove qualcosa nel profondo di noi stessi, suscita domande a cui non sempre si può dare una risposta, se non con la fede. Il motivo, secondo il Prefetto Ruffini, è che “tutti facciamo esperienza del male, ma anche la misericordia di Dio è per tutti, come ci ricorda Papa Francesco”. E la frase “La misericordia di Dio è infinita” è anche impressa sulla parete della cappella dedicata a Santa Maria del Cammino. Al Prefetto non è sfuggita: “Solo grazie alla misericordia del Signore e all’incontro con Lui nella fede si può ricominciare: questa è la testimonianza che ci danno i reclusi, ci ricordano i limiti umani, che sono poi il motivo per cui Dio si è incarnato nel Bambino Gesù”. Ruffini invita, poi, i detenuti, a ricordare il Natale di quando erano piccoli, per recuperare la purezza che è solo dei bambini, e assieme a loro rievoca i propri ricordi, in particolare quello di suo padre che gli spiegava il significato del Natale con le parole di don Primo Mazzolari. “Perché loro sì e io no?” - Perché loro sì e io no? Riprendendo le parole del Papa, questa è, invece, la domanda che si fa il Direttore Tornielli ogni volta che entra in un carcere. Ai reclusi di Rebibbia racconta la sua esperienza nel carcere di Padova e il racconto di un detenuto che lo colpì molto, ricordandogli la pagina evangelica del Figliol Prodigo: questi, infatti, dopo aver fatto tanto male a suo padre, continuava a meravigliarsi di come lui lo abbracciasse ogni volta che tornava a casa in permesso premio. “In carcere più che mai certe pagine del Vangelo si percepiscono vive”, è la sua testimonianza. “Qui il Vangelo risuona più forte” - Gli fa eco padre Matias Yunes, il sacerdote che ha guidato in questo periodo di Avvento le riflessioni dei detenuti partecipanti al progetto “Il Vangelo dentro” e che costituiscono una vera e propria redazione: “Tra queste mura è come se le parole del Vangelo risuonassero più vere”. Anche lui è alla prima esperienza con i reclusi di Rebibbia e il suo bilancio è positivo: “Condividere il Vangelo è sempre qualcosa di bello, ma in carcere diventa un’esperienza unica ascoltare come vada a toccare le corde più profonde del cuore di questi uomini”. Il Vangelo “libera il cervello” - E anche per gli ospiti di Rebibbia che hanno partecipato per la prima volta a quest’iniziativa di evangelizzazione è stata un’esperienza importante: “Il Vangelo mi libera il cervello dai pensieri tristi della mia famiglia lontana e che vedo raramente”, racconta Vincenzo, che sottolinea quanto leggere la Parola del Signore sia come una medicina per l’anima che lo fa “stare tranquillo”. E al Vangelo, come alla sua fede, si sta aggrappando anche Sossio, che un mese fa ha vissuto la terribile esperienza della morte improvvisa della figlia Michela. Un’esperienza resa ancora più straziante dall’impossibilità di stare accanto alla propria famiglia in un momento come questo. La sua testimonianza lascia tutti in silenzio e con le lacrime agli occhi: “Sono dolori che non si possono spiegare - dice - l’unica spiegazione che mi sono dato è che serviva al Signore lassù. Al Signore servono gli angeli”. E a Michela tutta la redazione di Rebibbia de “Il Vangelo dentro” dedica l’edizione dell’Avvento in corso. Napoli. Un docu-film con i detenuti come attori Corriere del Mezzogiorno, 14 dicembre 2019 Spesso sono giovani e alla loro prima volta in carcere. I detenuti con diversi problemi di dipendenza che si trovano nel carcere di Poggioreale costituiscono circa il 30% della popolazione reclusa nella casa circondariale di Napoli e sono tra quelli più a rischio per tendenze all’autolesionismo perché più fragili. A loro si rivolge “IV Piano”, più che un progetto sociale, una piccola comunità all’interno del carcere, frutto di un lavoro di integrazione tra il Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro con la Direzione della Casa Circondariale di Poggioreale e Gesco. Ideato dalla psicologa Marinella Scala, responsabile del centro diurno Palomar, “IV Piano” si trova al quarto piano del padiglione Roma: qui vengono accolti detenuti prevalentemente tossicodipendenti insieme con persone affette da Hiv, sex offender e persone transessuali. Il padiglione è anche la sede del SerD, il Servizio Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro: Poggioreale è uno dei pochi modelli di grande carcere dove c’è un SerD esclusivamente dedicato. Grazie a IV Piano, circa 250 detenuti seguono attività di teatro, scrittura, sport, musica, giardinaggio, apprendimento della lingua (per i migranti), mentre il progetto gestisce anche uno sportello per l’implementazione delle misure alternative alla detenzione. È un progetto di riabilitazione sociale all’avanguardia, ora raccontato anche in un docu-film prodotto da Gesco e firmato dalla regista Cristina Mantis, che sarà presentato lunedì mattina (alle 9,30) all’interno del carcere, con la partecipazione, tra gli altri, del provveditore regionale penitenziaria Antonio Fullone, del direttore dell’Asl Na 1 Ciro Verdoliva, oltre che del direttore di Poggioreale Maria Luisa Palma e dal presidente di Gesco Sergio D’Angelo. Napoli. Mercato nella Galleria Umberto, in vendita le opere dei detenuti Il Mattino, 14 dicembre 2019 Oggi, dalle 9 alle 17, presso la Galleria Umberto I, si terrà la IX° edizione della mostra-mercato “ArtigiaNato in Carcere”. Per il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone: “La manifestazione propone l’esposizione dei manufatti e prodotti artigianali realizzati negli istituti penitenziari della Regione. Obiettivo principale è sensibilizzare l’opinione pubblica dando visibilità alle tante attività laboratoriali che i detenuti svolgono all’interno degli istituti”. Previsti momenti d’intrattenimento e di richiamo per il pubblico e uno spazio per gli interventi istituzionali: dalle ore 9.30 è programmato l’arrivo delle autorità e l’esibizione del Coro dell’I.C. “28 Giovanni XXIII-Aliotta” e del coro scolastico dell’I.C. Statale “Don Milani Aliperti” di Marigliano. Alle ore 11, l’intervento del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello e l’esibizione della cantante Monica Sarnelli, precederà la Banda musicale della Brigata Meccanizzata “Aosta” e la Fanfara del 10° Reggimento Carabinieri che suoneranno brani celebri. Alle ore 12 l’intervento del sindaco, Luigi de Magistris, sarà accompagnato dall’aperitivo offerto dall’Associazione “Scugnizzi” e dai ragazzi di Nisida. Alle 15 l’Unità Cinofila della Polizia penitenziaria effettuerà una dimostrazione pratica con i cani antidroga. Alle 16 la corale “Libentia Cantus” di Ercolano chiuderà la manifestazione, augurando buone feste con medley di canti natalizi. Ferrara. Teresa De Sio e le sue canzoni entrano in carcere di Francesco Monini ferraraitalia.it, 14 dicembre 2019 Nel carcere di Ferrara Teresa De Sio doveva arrivare quindici giorni fa. Una brutta influenza l’ha costretta ad annullare il concerto a favore dei detenuti. Ma ci teneva davvero: sembra abbia avuto lo scrupolo di giustificarsi, inviando tanto di certificato medico alla Casa Circondariale Costantino Satta. Una promessa è una promessa, e ieri pomeriggio (12 dicembre) la grande interprete napoletana ha varcato porte e cancelli del carcere di via Arginone. Ad assistere all’incontro-concerto e ad applaudirla, gli agenti, gli educatori, e naturalmente i detenuti; questi ultimi godevano in via eccezionale di tre ore d’aria (e di musica). Finalmente fuori dalle celle. Prima del concerto per pianoforte e voce, la proiezione di “Crai!”, un bellissimo docu-film, tratto da uno spettacolo ideato una decina di anni fa dalla stessa De Sio insieme al cantautore, scrittore e attivista politico Giovanni Lindo Ferretti, che mette in scena e racconta gli ultimi rappresentanti della tradizione popolare dei Cantori di Puglia. Poi Teresa De Sio incomincia a cantare, accompagnata alle tastiere dal pianista Francesco Santalucia. Canta alcune delle sue canzoni più conosciute: la famosissima “Voglia ‘e turnà” (entusiasmo fra il pubblico) e “Chi tene ‘o mare”, un omaggio all’amico scomparso Pino Daniele. Conclude con una canzone nuova, tratta dall’ultimo album “Puro desiderio” che da febbraio porterà in giro per l’Italia. Non è una canzone scelta a caso. Sembra proprio una dedica affettuosa a tutti i carcerati. Si intitola “Mia libertà”. Alla fine (e appena prima degli abbracci e delle foto ricordo), la nuova direttrice del Casa di Detenzione Maria Nicoletta Toscani - arrivata a Ferrara all’inizio di quest’anno - sottolinea come sia importante portare l’arte e la cultura dentro il carcere. E promette: “Questo è solo il primo di un lungo ciclo: abbiamo in programma trentacinque incontri pubblici con tanti docenti dell’Università di Ferrara, titolo della rassegna: Cultura e Libertà”. Quando la vittima dice al carnefice: tu stai peggio di me di Franco Insardà Il Dubbio, 14 dicembre 2019 “Un’azalea in via Fani”, di Angelo Picariello, un viaggio nella riconciliazione tra gli ex terroristi e i parenti di chi, come moro, è morto negli anni della lotta armata. “Il merito di questo libro è di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia. Un’operazione che finora hanno fatto solo l’autore e la vedova Calabresi. In tanti anni dalla morte di mio padre molti si sono interessati alla vicenda, alla sua vita, un po’ troppo alla sua morte, spesso in modo sguaiato, però nessuno si è interessato del dolore che rimane da una parte e dall’altra, quando si chiude un conflitto. Si tratta di una ferita che nessuno ha mai curato. Mi chiedo: perché non curiamo il nostro passato?”. Lo dice Agnese Moro presentando, insieme con Marco Follini, “Un’azalea in Via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terrorismo, vittime, riscatto e riconciliazione” (San Paolo edizioni, 344 pagg. 25 euro), il libro di Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire. La figlia di Aldo Moro sottolinea: “Questo libro è costato anni di lavoro, riflessione, ripensamenti, scrupoli, prudenze e delicatezze. Facendo, soprattutto attenzione che l’esigenza di raccontare non creasse altro dolore. Restituisce i sentimenti e il clima di tutte le persone che partecipano a questo gruppo di dialogo (da cui è nato “Il libro dell’incontro” ndr) tra ex appartenenti alla lotta armata, familiari delle vittime, giovani e altri che ci hanno aiutato. Il merito, però, è di chi ci è venuto a cercare, perché le nostre sono state vite molto solitarie, molto isolate. È stato sorprendente che qualcuno venisse a interessarsi al mio dolore. I conflitti della nostra storia diventano favolette che poi passano alla storia: nella Resistenza ci sono stati i buoni e i cattivi, anche durante il terrorismo c’era una società buona e dei gruppetti di cattivi, usciti dal nulla, che a un certo punto hanno deciso di prendere le armi, con lo Stato incapace di fronteggiarli. Però in un guizzo di democrazia alla fine abbiamo sconfitto il terrorismo. Questa è la favoletta che passerà alla storia. Si tratta, sottolineo, di una favoletta, perché le persone che hanno scelto la lotta armata, come documenta molto bene questo saggio, facevano parte integrante della società e c’erano fior fior di intellettuali che hanno predicato la bontà della scelta di prendere le armi”. E Agnese Moro continua: “Nei miei incontri in giro per l’Italia ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di sé stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore”. E Giovanni Ricci, figlio di uno dei poliziotti assassinati a via Fani, che insieme ad Agnese Moro ha stabilito un rapporto con gli ex terroristi confida: “Si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto” e “nulla attenuerà mai questo”. Quello di Angelo Picariello è un viaggio nelle pagine più nere del terrorismo italiano: dalla strage di Piazza Fontana alla morte del commissario Calabresi, dalla storia di Prima Linea e delle Brigate Rosse fino al rapimento di Aldo Moro. Un percorso difficile, fatto di testimonianze, racconti ed esperienze personali che traccia il quadro di un periodo complicato della nostra democrazia, nel quale una generazione percorsa e dilaniata da un forte malessere in alcuni casi ha trovato uno sbocco nella lotta armata. Il lavoro del giornalista di Avvenire, pur mantenendo una rigorosa ricostruzione storica, si focalizza sui protagonisti senza distinzioni preconcette tra vittime e terroristi e, grazie alla formazione professionale, politica e religiosa dell’autore, ne restituisce la loro umanità e i loro sentimenti. La figura di Aldo Moro è il filo conduttore di “Un’azalea in via Fani”. Una delle lezioni del presidente della Dc è testimoniata da Nicodemo Oliverio, suo allievo alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento: “Aveva incredibile attenzione umana per la persona che traspariva dalla passione con cui spiegava il ruolo emendativo della pena”. Oliverio, alla presentazione del libro, ha ricordato che “l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui”. Picariello ricorda anche la figura di padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio ucciso il 12 febbraio 1980 alla Sapienza, che ha avuto un ruolo fondamentale nelle scelte e nei pentimenti di tanti ex terroristi sia di destra che di sinistra, come Maurice Bignami, ex capo di Prima Linea. Storica, a proposito di questa formazione armata, la conversione “laica” al congresso Radicale del 1987 di Sergio D’Elia, diventato poi animato dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Storie che hanno un comune denominatore: quella umanità emersa in molti di coloro che hanno scontato la loro pena, maturando anche un sincero pentimento, come l’ex brigatista Franco Bonisoli che ha ispirato il titolo del libro. Sì perché è proprio Bonisoli, con il quale Picariello ha da anni un rapporto di amicizia, che nel 2013 arriva a Roma, e chiama il giornalista. Si danno appuntamento in via Fani, dove lui 35 anni prima nel 1978 aveva partecipato al commando che rapì Moro. “Quando arrivai in zona- scrive Picariello - scoprii che c’era appena stato, aveva preferito, alla fine, andarci da solo. Era da poco passato mezzogiorno. Gli chiesi però di tornarci un attimo insieme. Imboccammo così a piedi la strada e subito scorsi a terra, sul marciapiede un vasetto con una piantina, davanti alla lapide in ricordo delle vittime dell’agguato, all’incrocio con via Stresa. “Franco” gli dissi, “è bello che qualcuno ancora si ricordi, dopo tanto tempo”. “Veramente” fu la risposta bruciante, “l’ho appena messa io”. Un gesto che testimonia in modo netto la sua lontananza da quella violenza che aveva caratterizzata la prima parte della sua vita. Una violenza che ha accompagnato l’Italia per oltre un decennio, quella che Sergio Zavoli ha battezzato come “La notte della Repubblica”, e che Angelo Picariello fa iniziare il 19 novembre 1969, quando a Milano fu ucciso l’agente di Polizia Antonio Annarumma, originario di Monteforte Irpino (in provincia di Avellino). Il giornalista di Avvenire ricorda anche i funerali di Annarumma in cui era stato proprio il commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, “a intervenire, ingaggiando un corpo a corpo drammatico, in questura, per sottrarre Mario Capanna al linciaggio degli agenti, furiosi per la sua presenza alle esequie”. Per tanti, in quel pomeriggio l’Italia perse la sua “innocenza”, si legge nel saggio storico, frutto di una lunga ricerca curata dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma, con la prefazione di Agostino Giovagnoli, storico della “Cattolica’“, e i contributi dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante e dell’ex capo dell’antiterrorismo, ed ex sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano che ha collaborato alla ricerca. Un lavoro che parte da Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Brigate Rosse, che “si avvicinò alla lotta armata frequentando proprio sia il Movimento di Cl che il Pontificio istituto missioni estere a Milano, prendendo anche parte con padre Pedro Melesi a un’esperienza missionaria in Brasile”. Semeria, uscito di prigione, “si è sposato in chiesa e ha devoluto i doni di nozze alla missione che da ragazzo visitò con quel religioso che suo malgrado lo avvicinò alle ingiustizie, facendo in qualche modo pace con sé stesso e potendosi impegnare ora per quegli stessi ideali giovanili in una maniera che non prevede la violenza”. E poi ancora Renato Curcio, Alberto Franceschini e tanti altri fino alla colonna avellinese delle Br. Sì, perché Angelo Picariello va a fondo su quello che è un pezzo di storia del terrorismo che ha vissuto da vicino. Lui, militante di Comunione e Liberazione, studente prima e poi giovane consigliere comunale, vive nell’Avellino della metà degli anni Settanta, inebriata dai successi sportivi della squadra di calcio e dall’ascesa politica di Ciriaco De Mita e della Dc di Base. Una città, come si intitola il capitolo dedicato alla sua Avellino, “fra evasione pallonara ed eversione politica”. Dove Maurizio Montesi, un calciatore sui generis arrivato da Roma e tra i protagonisti della promozione in serie A, che Picariello descrive come “legato alla sinistra estrema, tanto regolare in campo quanto sregolato nella vita privata”, alla vigilia di Natale 1978 in un’intervista a Lotta Continua dichiara: “Il tifoso è uno stronzo. Fa il gioco del sistema. Fa il tifo per undici persone con le quali non ha nulla a che spartire”. Un mese prima, l’8 novembre 1978, la borghesia avellinese era stata scossa dall’assassinio a Patrica, in provincia di Frosinone, del procuratore della Repubblica di Frosinone, Fedele Calvosa. La rivendicazione è delle “Formazioni comuniste combattenti” e gli autori sono tre giovani studenti avellinesi: Nicola Valentino, Maria Rosaria Biondi e il suo fidanzato Roberto Capone. Quest’ultimo rimarrà sul campo, ucciso dal “fuoco amico”. Un’altra ragazza irpina, Maria Teresa Romeo compagna all’epoca di Nicola Valentino, sarà tra gli autori, il 19 maggio 1980, dell’assassinio dell’assessore regionale Pino Amato. Ma oltre a loro tre altri irpini hanno conosciuto la lotta armata. Alfredo Buonavita, operaio emigrato a Torino vicino a Renato Curcio sin dall’inizio e fondatore delle Br nel capoluogo piemontese. Gianni Mallardo, coetaneo e compagno di scuola di Picariello, tra i primi a dissociarsi, reclutato dall’altro avellinese Antonio Chiocchi, figura di spicco delle Br campane e braccio destro di Giovanni Senzani, tra i protagonisti del rapimento di Ciro Cirillo e dell’omicidio del commissario Antonio Ammaturo, che ha avviato un percorso di dissociazione nel carcere di Nuoro nel 1983. Ma a mezzo secolo dall’esplosione di Piazza Fontana, che voleva far precipitare il Paese nello scontro e portare, attraverso la strategia della tensione, a una svolta autoritaria, ecco affermarsi, alla fine di un percorso lungo e drammatico, un vasto movimento di riconciliazione fra vittime, ex protagonisti della lotta armata e uomini delle istituzioni. Ed è ancora Franco Bonisoli il protagonista del viaggio di Angelo Picariello. L’occasione è quella della presentazione all’Istituto Sturzo de “Il libro dell’incontro”, nel luglio del 2016, sull’esperienza del gesuita padre Guido Bertagna. Franco Bonisoli è vicino a Giovanni Ricci, figlio di Domenico morto in via Fani. Con loro ci sono anche Agnese Moro e Alexandra Rosati, figlia di Adriana Faranda, la “postina” delle Br. E quel valore emendativo della pena che Aldo Moro aveva voluto nella Costituzione conforta oggi Agnese nel vedere i carcerieri di suo padre cambiati: “Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati”. Ma poi ha scoperto in loro “un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso sé stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuti atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne: perché quella è la realtà. Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme”. E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che “queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza”. L’inverno del nostro scontento di Ugo Intini Il Dubbio, 14 dicembre 2019 Siamo un Paese invecchiato, poco istruito, a crescita zero. Dal 1990 abbiamo perso il t30% del reddito rispetto al resto della Ue. Ancora una volta, il rapporto Censis ha fotografato un’Italia stretta dal pessimismo e soprattutto dall’incertezza. Ma perché mai da decenni continua l’inverno del nostro scontento? Quando si è in mezzo alla foresta, non se ne vedono i contorni. Ci concentriamo pertanto sulle pagliuzze a portata d’occhio, sulle polemiche miserabili che riguardano (ad esempio in questi giorni) misure economiche del tutto ininfluenti. Anche perché il contendere riguarda il 5 per cento di una manovra pari complessivamente a circa 30 miliardi, ovvero all’ 1,7 per cento del prodotto nazionale lordo. Se si esce dalla foresta, fuori dal quotidiano e dal microcosmo rissoso della politica, si vede più lontano nello spazio e nel tempo. E la ragione dell’inverno perenne prima ricordato diventa improvvisamente chiarissima. Anzi, accecante. È una ragione che l’opinione pubblica forse intuisce, forse vagamente conosce, ma non nelle sue dimensioni reali. Guardiamo dunque, anziché le pagliuzze, le travi. All’inizio degli anni 90, l’Italia e la Francia, pressoché con la stessa popolazione, avevano un reddito nazionale quasi uguale: adesso la Francia ci supera di oltre il 30 per cento. Nel 1989, la Germania aveva un reddito pro capite di poco superiore all’Italia: adesso, nonostante abbia assorbito i poveri della parte ex comunista, lo ha superiore del 32 per cento. Nel 1989, gli spagnoli avevano un reddito pari al 65 per cento del nostro: dal 2017, ci hanno superato. Abbiamo perciò perso quasi un terzo del terreno rispetto ai Paesi europei. Per non parlare dello spazio abissale perduto rispetto ai Paesi emergenti che ospitano i due miliardi di cittadini del mondo usciti dalla povertà grazie globalizzazione. Tutti vanno avanti. Noi restiamo al palo. Siamo gli unici che ancora non sono tornati ai livelli precedenti la crisi economica del 2008. E non c’è da stupirsi, perché da tempo l’Italia cresce ogni anno un terzo dell’Europa (che già cresce poco). Quando, agli inizi degli anni 90, si festeggiava l’entusiasmante passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, i celebratori del “nuovo” non immaginavano che si stava aprendo per l’Italia il “trentennio perduto”. Mai i nostri nonni e padri avevano visto niente di simile. Avevano sofferto guerre e tragedie, ma erano sempre andati avanti. Consideravano il progresso (il domani meglio dell’oggi e di ieri) una ovvietà. E si può ben capire. Leggete il libro dell’economista - Gianni Toniolo sui dati storici dello sviluppo italiano. Per un secolo (all’incirca dal 1890 al 1990) abbiamo avuto il periodo della “convergenza”: una Italia arretrata è cresciuta più degli altri, è andata “convergendo” verso gli standard dei Paesi più avanzati e infine li ha raggiunti. Ricordate l’entusiasmo con il quale nel 1990- 91 si festeggiava lo status di super potenza economica mondiale con il sorpasso su Francia e Gran Bretagna (vero o calcolato con qualche forzatura)? Da quel momento in poi, è iniziato il periodo della “divergenza”, che ancora continua in modo catastrofico: l’arretramento dell’Italia rispetto ai Paesi nostri vicini. Come all’indomani dell’unità nazionale, siamo ormai indietro e lontani rispetto al gruppo traente dell’Europa. L’inverno del nostro scontento si alimenta di frustrazione e invidia: invidia dell’Italia nel suo complesso verso i vicini, ma anche degli italiani gli uni contro gli altri. Perché, mentre l’economia ristagna, si aggravano le disuguaglianze all’interno del Paese. Con i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e il ceto medio schiacciato. Lo dice l’indice definito di Gini, che misura appunto le disuguaglianze: tra i principali Paesi dell’Europa continentale, siamo ormai quelli con le maggiori disparità di reddito. E anche questo non aiuta. Lo disse bene Roosevelt, riflettendo negli anni 30 sulle cause della depressione: “Sapevamo che la grande disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza ha grande rilevanza etica e sospettavamo che avesse altrettanta rilevanza economica: ora questo sospetto è divenuto certezza”. Come avviene quando un disastro non è improvviso, bensì matura lentamente negli anni, neppure ce ne siamo accorti. Ma come è potuto accadere? Inevitabilmente, si dà la colpa ai politici. Ma sarebbe riduttivo. Certo, sono precipitati ai livelli che sono sotto gli occhi di tutti. Certo, hanno la responsabilità di promettere assurdità, di propagandare anziché fare, soprattutto di non dire la verità (che molti di loro forse neppure conoscono). Ma anche se fossero degli statisti la crisi non si risolverebbe. Perché le due cause principali (accanto alle tante altre che pure esistono, dall’evasione fiscale all’inaffidabilità della giustizia) sono troppo profonde, strutturali e ineliminabili in tempi brevi. Il padre fondatore del Censis Giuseppe De Rita, intervistato da Repubblica dopo la diffusione del rapporto annuale, alla domanda su quali fossero i problemi più gravi, ha risposto: la demografia e l’istruzione. Come quasi sempre, ha ragione. Vogliamo essere più crudi e anzi provocatori? L’Italia è un Paese di vecchi. Avete mai visto che la vecchiaia sia un motore per lo sviluppo? Che la nostra popolazione sia tra le più anziane, è noto da tempo. Ma c’è qualcosa di meno noto, perché non è “politicamente corretto” sottolinearlo: i giovani sono non soltanto pochi, sono anche (a parte il terzo mondo) i meno istruiti. Lasciamo perdere la qualità dell’insegnamento, sulla quale ad esempio si diffonde in modo feroce Galli della Loggia nel suo ultimo libro “L’aula vuota”. La qualità è sempre opinabile. I numeri no. L’Italia (precedendo il solo Messico) è al penultimo posto tra i Paesi dell’Ocse per numero di laureati (per di più laureati troppo in scienze politiche e troppo poco in ingegneria). La quota di diplomati sul totale degli occupati è il 16 per cento, contro il 33 della media europea. Anche così si spiega che la produttività del lavoro, tra il 2001 e il 2017, sia salita da noi dello 0,4 per cento, contro il 18,5 della Germania, il 15 di Francia e Spagna. Si deve poi aggiungere (a completamento del quadro disastroso) che, a parte la qualità degli occupati, peggio ancora, il loro numero è tra i più bassi del mondo, con percentuali da Nord Africa per quanto riguarda le donne. Cosa si deve dire di più? Un Paese di vecchi, con pochi giovani e per di più poco istruiti non va lontano (e lasciamo perdere che ad andare lontano, ovvero all’estero, sono spesso i giovani più preparati). I bambini, ammesso che nascano, non crescono nell’arco di una legislatura (né arrivano all’Università). Forse anche per questo, i politici preferiscono non occuparsi di iniziative che possono forse dare frutti nei decenni, ma delle polemiche quotidiane. Se la classe dirigente non si vuole occupare dei problemi veri, come si fa? De Rita, nella prefazione al mio libro proprio sulla vecchiaia (“Lotta di classi tra giovani e vecchi?”) ha gettato lì una teoria provocatoria (provocatoria anche, scherzosamente, verso di me che sono laico). Si dovrebbe immaginare - ha osservato - una Italia “guelfa”, guidata cioè, per dirla più alla buona, dai preti (che forse, in mezzo alla irresponsabilità generale, hanno ancora la testa sul collo). Ridotti come siamo, persino i più anticlericali potrebbero rassegnarsi. Ma neppure questo sembra possibile. Da tempo infatti la Chiesa, guidato da Papi stranieri, non se ne occupa. Anzi. Un famoso vaticanista mi diceva scoraggiato qualche giorno fa: “Questo Papa sta alla larga dalla politica italiana, come da una cosa infetta”. Il pugno di ferro contro la droga è solo un autogol di Alessio Scandurra* Il Riformista, 14 dicembre 2019 Il ministro Lamorgese annuncia pene ancora più aspre per gli spacciatori. Ma la repressione non fa diminuire i consumi, ingolfa i tribunali e fa scoppiare le carceri: per infliggere un colpo alle mafie pensiamo piuttosto a legalizzare. Quando siamo arrabbiati a volte alziamo la voce. Talvolta battiamo pure i pugni sul tavolo e di norma la lucidità della nostra argomentazione non ne guadagna. Nei fatti, se la discussione non ne risente, alla fine, quando avremo analizzato tutti gli argomenti sul tavolo, quelli gridati a voce più alta non risulteranno solo per quello i migliori. e in effetti non era per quello che avevamo alzato la voce. L’abbiamo fatto per la tensione, per paura di non essere ascoltati. Per debolezza. È paradossale ma il diritto penale ha una vita simile alle nostre arrabbiature. Questo delicato meccanismo pensato per affrontare nel modo più accorto possibile i fatti più gravi, le controversie che riguardano i temi più delicati per le nostre comunità. viene invocato a gran voce ogni volta che abbiamo una crisi che non sappiamo come affrontare. Di fronte a problemi complessi, che richiedono soluzioni articolate ed equilibrate, è invece facile invocare pene sempre più alte per chi individuiamo come responsabile. La domanda di diritto penale in questi casi è segno di debolezza, del non sapere affrontare un problema al livello della sua stessa complessità. E questa è la storia della lotta alla droga. Stiamo parlando di una delle più importanti industrie del pianeta, sostenuta da attori economici, prevalentemente criminali, che in quanto tali non sono sottoposti a nessuna regola e a nessuno scrupolo in questo particolare mercato. Un fenomeno globale e opaco che condiziona governi e intere economie, ma di cui tutti vediamo soprattutto l’anello finale, lo spacciatore di strada che contratta con il suo cliente. La nostra ansia e incapacità di affrontare quel fenomeno globale, la nostra debolezza, è la misura della severità con cui ci vorremmo abbattere sul suo anello finale. In questa chiave va letta la richiesta di pene sempre più severe per gli spacciatori e in questo quadro è da inquadrare anche la recente dichiarazione del ministro dell’Interno Lamorgese: “Nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell’inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio”. Dobbiamo essere onesti. Decenni di politiche proibizioniste ci consentono di prevedere, ormai senza più margine di errore, che la cosa non servirà assolutamente a nulla. Non calerà il traffico. non caleranno i consumi, non migliorerà l’aspetto delle nostre strade, non andrà via la nostra paura. Smetteranno di accusarci di essere lassisti con gli spacciatori? Probabilmente nemmeno questo, visto che l’accusa non ha nessun fondamento di realtà e dunque può sempre essere reiterata. In Italia, dati alla mano uno dei Paesi più sicuri d’Europa, secondo un’indagine Istat per il 38.2% degli italiani la paura della criminalità influenza molto o abbastanza le nostre abitudini, ed il 46.4% dei cittadini sono poco o per niente soddisfatti del lavoro svolto dalle forze dell’ordine. Tutto questo lo sappiamo perfettamente, eppure la richiesta di pene più severe per gli spacciatori, e non solo per loro, torna periodicamente ad affacciarsi. Eppure oggi in Italia oltre un terzo dei detenuti, più di 20mila persone, è in carcere per violazione della legge sulle droghe e quasi 180mila sono in attesa di un giudizio per la stessa ragione, ingolfando i tribunali e il lavoro della polizia. Una spesa colossale e totalmente inutile visto l’andamento dei consumi, che resta indifferente alle politiche penali anche più severe. Ma c’è un’altra cosa che in fondo sappiamo perfettamente. Sappiamo che solo la legalizzazione restituirebbe più sicurezza ai cittadini. eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa colpire il narcotraffico, sfoltire il carico di lavoro dei tribunali e quello delle forze di polizia. Significa togliere introiti alla criminalità organizzata e assicurarne all’erario, risparmiando peraltro le cifre colossali attualmente destinate alla repressione. E significa migliorare la vita dei consumatori grazie alla presenza di sostanze controllate e al non ingresso nel circuito penale e penitenziario. Anche l’allora Procuratore nazionale antimafia. Franco Roberti, si era espresso a favore della legalizzazione della cannabis e nel 2015 la proposta di legge in materia presentata dall’intergruppo parlamentare guidato da Benedetto Della Vedova aveva raccolto l’adesione di ben 218 parlamentari. Avevano firmato esponenti del Pd. del M5s, di Sel e del gruppo Misto. Sappiamo dunque esattamente cosa fare. ma non abbiamo la forza per farlo. Mentre la debolezza ci spinge di nuovo ad alzare la voce e a battere i pugni sul tavolo. *Associazione Antigone Cannabis light, riparte il business. Ma la metà dei negozi ha già chiuso La Repubblica, 14 dicembre 2019 Il ritorno alla legalità dopo l’emendamento alla manovra voluto dai Cinque Stelle. Un negozio su due ha già chiuso e altri si preparano a smobilitare le vetrine. Adesso che la cannabis light è tornata “legale”, dopo l’emendamento dei Cinque Stelle approvato in legge di Bilancio, il mercato della canapa fa i conti con la campagna di sequestri e inchieste dell’ultimo anno. Soprattutto a partire dalla complicata sentenza della Cassazione del 30 maggio 2019 che aveva di fatto vietato la vendita della cannabis light. Un colpo che aveva messo in ginocchio l’intera filiera, a partire dalla coltivazione della canapa, circa duemila aziende agricole, diventate oggi meno di mille. “E su oltre duemila “growshop”, oggi ne restano il 40 per cento in meno, ma di certo un altro 10 per cento chiuderà entro la fine dell’anno”, ammette Luca Marola, fondatore di “Easyjoint”, azienda che gestisce cento punti vendita di cannabis light. “I sequestri a tappeto, che non hanno mai rilevato illeciti se non amministrativi, la campagna di demonizzazione lanciata da Salvini, hanno creato il deserto dentro i nostri negozi. Proprio perché la nostra clientela dice Marola - è fatta di persone tranquille e adulte che non volevano certo essere coinvolte in situazioni a rischio”. Insomma uno sboom. Figlio anche di una crescita tumultuosa di botteghe con la foglia di marijuana disegnata fuori. E dell’altrettanto veloce espansione delle aziende agricole di coltivazione di canapa, duemila soltanto quelle nate tra il 2017 e il 2018. “L’importanza di questo emendamento. aggiunge Marola è non solo aver fissato con chiarezza il livello di tetraidrocannabinolo al di sotto del quale la cannabis è legale, ma anche di aver cambiato il testo unico sulle droghe. Sul quale dovrà essere precisato che con quella concentrazione di Thc, la cannabis non si può ritenere uno stupefacente”. Adesso, come è probabile, il business ripartirà, la domanda c’è, cresce. Perché la canapa in tutte le sue varianti, nel 2018, prima dello stop seguito alle campagne di sequestri e alla sentenza della Cassazione, aveva fatto muovere un mercato stimato in 150 milioni di euro, con circa diecimila persone impiegate nel settore. Non solo. Proprio la coltivazione della canapa ha fatto riaccendere l’interesse verso la terra e l’agricoltura da parte di gruppi di giovani, che hanno fondato aziende e cooperative. “Nessun negozio è stato chiuso perché le forze dell’ordine hanno trovato cannabis diversa da quella legale. A Parma - racconta Luca Marola - gestisco da 18 anni un negozio che vende canapa, un negozio dichiaratamente antiproibizionista. E a ogni nuovo addetto che assumo spiego che noi dobbiamo essere perfetti, dentro la legalità, proprio perché ciò che facciamo ha un valore non soltanto commerciale ma anche sociale”. E soprattutto che esistono sostanze e sostanze. Infatti, dice Marola, “è stata la legge Fini-Giovanardi, che ha fatto saltare la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, a portarci al disastro attuale del policonsumo di droghe da parte dei giovanissimi”. Ok alla cannabis light, ma gli esperti frenano: rischi per i più giovani di Graziella Melina Il Messaggero, 14 dicembre 2019 I medici: “L’abuso di cannabinoidi è tra le cause dei disturbi mentali”. Il nodo dei mancati controlli sulla vendita ai minori. Se gli effetti della cannabis sulla salute degli adulti non sono ancora scientificamente provati, di certo se ad assumerla sono gli adolescenti i rischi per la salute mentale possono essere davvero gravi. “La cannabis, anche a basso livello di thc, ha comunque un contenuto che può essere dannoso, specialmente per gli adolescenti, che hanno un sistema nervoso centrale non completamente sviluppato - spiega Sabina Strano Rossi, tossicologa forense dell’università Cattolica di Roma - Si tratta di una sostanza psicotropa che ha attività al livello del sistema nervoso centrale, anche se la percentuale di principio attivo è bassa”. Il Consiglio superiore di sanità aveva già lanciato l’allarme. “Gli esperti - ricorda la tossicologa - hanno sottolineato che non si può escludere la pericolosità di questa sostanza, e che non ci sono sufficienti studi su classi particolarmente a rischio, quali i giovani, le donne incinte o le mamme che stanno allattando”. Con il recente emendamento, prosegue Strano Rossi, “di fatto si cambia la tabella di appartenenza, il principio attivo della cannabis passa dalla prima alla seconda tabella, ma senza il parere di esperti scientifici”. Resta, inoltre, la confusione tra possibilità di vendita e consumo. “In teoria, l’emendamento parla di possibilità di vendita. Poi, però, nessuno va a controllare l’utilizzo che ne fa chi l’acquista. Ed è significativo che non ci sia una regolamentazione per la vendita della cannabis light ai minori, come invece avviene per l’alcool”. A preoccupare i medici sono soprattutto i più giovani. “C’è una bella differenza se parliamo di uso di cannabis da parte di adulti o di minori - ribadisce Stefano Vicari, responsabile dell’unità operativa complessa di neuropsichiatria infantile al Bambino Gesù - Il cervello dei minori è in forte crescita, raggiunge la sua massima maturazione intorno ai 25 anni. Gli adolescenti hanno quindi un cervello ancora non del tutto pronto a gestire impulsi e stimoli impegnativi dal punto di vista comportamentale”. Gli effetti di una sostanza psicotropa sono dunque devastanti. “Molti studi documentano che l’abuso di cannabinoidi è una delle cause principali della comparsa del disturbo mentale. Anzi - rimarca Vicari - si ritiene che la grande esplosione di disturbi mentali, cui assistiamo oggi, sia legata proprio a un abuso di cannabinoidi, con una serie di altri motivi. La cannabis, tra l’altro, rappresenta il primo fattore di rischio per schizofrenie in adolescenza. E questa patologia non sempre è reversibile”. Dunque, la “distinzione tra droghe leggere e pesanti in adolescenza non ha senso, perché sono tutte sostanze dannose”. Inoltre, “la cannabis è liposolubile, cioè si accumula nel grasso. E il cervello è una palla di lardo. Noi infatti troviamo la presenza di effetti di cannabis anche a distanza di molte settimane”. E purtroppo tra i ragazzi non è più così infrequente. “Al Bambino Gesù, all’emergenza psichiatrica, l’80% dei ragazzi ha una storia di uso di sostanze, in particolare di cannabinoidi”. Libia. Haftar sicuro: “È l’ora zero per Tripoli”. Al-Sarraj: “Solo illusioni” di Roberto Prinzi Il Manifesto, 14 dicembre 2019 Il governo italiano ribadisce il suo appoggio al Gna: “Se cade la capitale ci sarà un’altra guerra civile”. Precipita la situazione in Libia dove il Generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica e capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) ha dato il via all’”offensiva decisiva” per prendere Tripoli. “Adesso è giunto il momento dell’ora zero. Avanzate nostri eroi” ha detto il leader militare in un breve discorso televisivo. Il Generale - che assedia da aprile la capitale libica “per eliminare i terroristi” che sostengono il Governo di Accordo nazionale (Gna) sostenuto dalla comunità internazionale - ha poi provato a tranquillizzare i civili dicendo di aver dato ordine ai suoi soldati “di rispettare le case e le proprietà private”. Le dichiarazioni bellicose di Haftar, che fanno il paio con quelle anti-turche del suo ammiraglio Faraj al-Mahdawi del giorno precedente, certificano che la Libia post-gheddafiana, “dono” della guerra Nato del 2011, scivola sempre più nel baratro. E se il Generale attacca, Tripoli risponde. Prima con il ministro dell’interno Fathi Bishaga: “Siamo pronti a respingere qualsiasi ulteriore folle tentativo da parte del golpista Haftar”. Poi con il premier al-Sarraj che parla di “altro tentativo disperato” del capo dell’Lna perché “non c’è alcuna ora zero ma solo illusioni”. A una “soluzione politica” hanno fatto appello ieri Francia, Germania e Italia che hanno chiesto a tutte le parti libiche e internazionali di smettere di combattere e di rimettere in moto un “negoziato credibile” sponsorizzato dall’inviato dell’Onu Ghassan Salamah. Da Roma, intanto, il ministro degli Esteri Di Maio ha confermato la solidarietà al governo Serraj: “Se Haftar dovesse entrare a Tripoli, si determinerà un’altra guerra civile” ha avvertito, ribadendo l’impegno dell’Italia per la conferenza di Berlino di gennaio “in cui metteremo intorno a un tavolo tutti gli attori per avere il cessate-il-fuoco”. “Non possiamo permetterci di avere una guerra civile alle porte dell’Italia” ha aggiunto, sottolineando del resto come in questi mesi in Libia abbiano terreno facile i gruppi terroristici. A vestire i panni del pompiere sono anche i russi che invitano le parti rivali al “dialogo”. Resta da capire con quale credibilità Mosca - sponsor di Haftar, che nella battaglia di Tripoli è sostenuto anche da alcune centinaia di contractor del gruppo Wagner, sorta di braccio armato del Cremlino attivo negli scenari che Mosca ritiene strategici - chieda di abbassare i toni. L’avanzata di Haftar preoccupa Conte: “In Libia rischiamo un’altra Somalia” di Ilario Lombardo La Stampa, 14 dicembre 2019 L’Unione europea che sgomita nel Mediterraneo affollato di turchi e russi per tornare centrale in Libia e la firma della riforma del fondo salva-Stati quando sarà. Giuseppe Conte si lascia alle spalle due giorni di Consiglio europeo con la sensazione di aver ottenuto quel che voleva. Sul fronte libico, in quella che il premier definisce senza timore “una guerra per procura”, chiede e ottiene un trilaterale con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron, al quale avrebbe dovuto partecipare il premier inglese, se Boris Johnson non fosse impegnato a festeggiare a Londra. Fonti italiane e francesi confermano quanto anticipato ieri dalla Stampa: che i quattro puntano a organizzare, dopo la Conferenza di pace di Berlino, un vertice in Libia anche per fissare platealmente sul terreno la presenza dell’Ue e frenare gli appetiti di Turchia e Russia. Il comunicato congiunto finale segna la trincea europea in nome di una soluzione che, Conte non si stanca di ripeterlo, può essere solo “politica”. Francia, Italia e Germania “esortano tutte le parti libiche e internazionali ad astenersi dall’intraprendere azioni militari, ad impegnarsi genuinamente per una cessazione complessiva e duratura delle ostilità e a riprendere con impegno un credibile negoziato sotto l’egida dell’Onu”. L’obiettivo è il cessate il fuoco, il pieno sostegno all’inviato delle Nazioni Unite Ghassan Salamè e, in vista della Conferenza di pace di Berlino, il pieno coinvolgimento di Unione Africana e Lega Araba. Senza mai citarli i tre leader sfidano Russia e Turchia nel giorno della telefonata tra i ministri degli Esteri dei due rispettivi Paesi intenzionati a “trovare un terreno comune” sulla Libia. Una saldatura che va “evitata a ogni costo” hanno convenuto i leader. E per farlo serve una posizione comunitaria unitaria e intransigente, che superi interessi geopolitici di parte. Sul dossier libico gravano le ambizioni del generale Haftar, a un passo da Tripoli, e pronto alla “battaglia decisiva”. Sul suo ruolo e sul sostegno mai del tutto negato da Parigi sono tornati a confrontarsi Conte e Macron nel colloquio avvenuto in mattinata, all’Hotel Amigo di Bruxelles. Secondo fonti di Palazzo Chigi, il francese sarebbe tornato sulla tesi della propria diplomazia che considera l’azione di Haftar potenzialmente stabilizzatrice per la Libia. Una prospettiva che non esiste, per Conte: “Se Haftar mette piede a Tripoli - è stato il ragionamento del premier - rischiamo di ritrovarci un’altra Somalia”. Una guerra combattuta strada per strada, tra milizie e tribù opposte, come è stata a Mogadiscio. E la “somalizzazione” della Libia è una delle più grandi preoccupazioni dei servizi italiani. Conte è convinto che per poter respingere le ingerenze di Russia e Turchia serve un presupposto politico di pace sul quale nessuno può più nutrire dubbi. E su questo sente di avere dalla sua parte Merkel, in difficoltà nell’organizzazione della Conferenza di Berlino (tra il 15 e il 25 gennaio). Alla fine del colloquio, Conte però incassa altro da Macron e Merkel: la sponda per conquistare una modifica sostanziale nelle conclusioni del Consiglio Ue, nel capitolo Mes, il Meccanismo di stabilità sottoposto a riforma. Conte chiede e ottiene che il negoziato sugli aspetti tecnici “prosegua” e non “venga finalizzato” all’Eurogruppo di gennaio. Così l’Italia guadagna tempo e sposta in là, forse a giugno forse oltre, la firma dell’accordo. Dalla Serbia le granate lacrimogene che uccidono i manifestanti in Iraq di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 dicembre 2019 Quello che venne chiamato l’accordo del secolo, firmato tra Serbia e Iraq nel 2008, sta facendo morti nelle piazze irachene a 11 anni di distanza. Una clamorosa inchiesta della Rete del giornalismo investigativo dei Balcani ha rivelato oggi che parte delle granate M01 e M99 (nella foto) contenenti gas lacrimogeno usate dalle forze di sicurezza irachene contro i manifestanti fanno parte delle forniture previste da quell’accordo ed effettivamente consegnate nel 2009. (altre, usate sempre contro le proteste, sono state fornite dall’Iran). Almeno 20 degli oltre 430 manifestanti morti in Iraq da ottobre sono stati uccisi da quelle granate, di una potenza tale da forare il cranio delle persone colpite. Prodotte per uso militare, il loro peso e la loro velocità moltiplicano l’effetto dell’impatto. Invece di venire lanciate in aria per disperdere la folla, sono state esplose da distanza ravvicinata, puntando direttamente alla testa o al petto. Risulta così smentito il ministro della Difesa iracheno Minister Najah al-Shammari, il quale aveva recentemente dichiarato che quelle granate non erano state importate attraverso canali ufficiali iracheni e aveva anzi incolpato “una terza parte” che cercava di far cadere il governo e alimentare l’instabilità. Vince l’uomo dei militari, l’Algeria scende in piazza Il Messaggero, 14 dicembre 2019 Dalle urne delle boicottate elezioni presidenziali in Algeria, le prime del dopo Bouteflika, è uscito vincitore l’anziano Abdelmadjid Tebboune, il più vicino al passato regime e ai militari tra i cinque candidati in lizza, peraltro tutti contestati dalla piazza perché legati all’opaco e corrotto sistema di potere algerino che i giovani manifestanti volevano abbattere. E subito la protesta ha risposto radunando una marea umana in un corteo ad Algeri e dando un’idea di quello che saranno i prossimi mesi per l’Algeria: “Non ci fermeremo”, si leggeva su uno striscione. Tebboune, ex premier e più volte ministro, ha ottenuto il 58% dei voti delle elezioni svoltesi giovedì, distanziando Abdelkader Bengrina (17%) e gli altri tre concorrenti, ed evitando un ballottaggio. L’affluenza alle urne nel Paese nordafricano è stata solo del 41% (o addirittura del 39%, considerando anche il voto all’estero): la più bassa per un’elezione a più candidati da quando l’Algeria ha conquistato l’indipendenza dalla Francia ne11962. Anche nel 2014, l’anno del contestato quarto mandato dell’allora presidente-autocrate Abdelaziz Bouteflika, dimessosi in aprile su pressione di piazza e militari, c’era stata un’affluenza maggiore (51%). L’astensionismo è parso un effetto del boicottaggio proclamato dall’Hirak, il giovane movimento di protesta che ha spinto i generali a mollare Bouteflika e che non voleva solo elezioni ma anche un radicale cambio del “pouvoir”, il sistema di potere che governa l’Algeria. Pur con una bassa partecipazione, i militari sono però riusciti a far svolgere elezioni già rinviate due volte e ad avere ora un presidente al posto di Bouteflika. Il 74enne rappresentante della vecchia burocrazia algerina era stato il premier meno longevo della storia del Paese: durò meno di tre mesi nel 2017, quando fu prima umiliato in pubblico e poi silurato dal fratello di Bouteflika, Said, reggente di fatto da quando, nel 2013, il presidente era stato colpito da un ictus che gli impediva anche di parlare senza biascicare.