Il 4bis arriva in Commissione Antimafia dopo la sentenza della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2019 Audizioni per un’attività conoscitiva delle conseguenze della decisione sulla ostatività. In questi giorni la commissione Antimafia presieduta dal Nicola Morra sta svolgendo audizioni per un’attività conoscitiva delle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 della Consulta. Parliamo della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se vi sono elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione al sodalizio criminale e il pericolo di un ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Una sentenza che ha fatto discutere, tanto da allarmare il governo e in particolare proprio il presidente Nicola Morra. Un’attività conoscitiva, quella della commissione Antimafia, che servirà per suggerire un cambiamento della norma del 4bis, ma addirittura anche l’ipotesi di mettere mano al discorso della competenza territoriale della magistratura di sorveglianza. Nella giornata di mercoledì è stata ascoltata la presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Maria Antonia Vertaldi, la quale ha difeso la sentenza della Consulta nella sua interezza, ricordando che la discrezionalità del magistrato è stata ben parametrata attraverso rigidi criteri di valutazione. Ha invece voluto denunciare la campagna stampa, anche da parte di alcuni suoi colleghi, che “ha creato un allarme ingiustificato che non fa altro che acuire il disagio e il senso di insicurezza percepito dalla società”. Le vere problematiche, secondo Vertaldi, è invece il fatto come molto spesso arrivano ai magistrati di sorveglianza le relazioni in ritardo e anche incomplete, tanto da costringere, loro malgrado, a rinviare la decisione della concessione dei benefici o meno visto che mancano gli elementi necessari per emettere un giudizio. È stato ascoltato anche Sebastiano Ardita, presidente della Commissione Sorveglianza del Csm, pm antimafia, ex capo dell’ufficio detenuti del Dap, il quale invece, dopo aver comunque ribadito che la sentenza della Consulta non deve creare allarmismi, ha comunque detto che sentenze del genere rischierebbero di rendere meno rigida la legislazione dell’antimafia e dare percezione alla mafia di un cedimento da parte dello Stato. Il consigliere Csm evoca persino la presunta Trattativa Stato - mafia: “Le istituzioni politiche troppo spesso hanno preferito la strategia del contenimento, che si è spinta fino alla trattativa tra Stato e mafia, rinunciando all’annientamento del fenomeno mafioso, tanto auspicabile quanto distante dall’essere adottato”. Ricordiamo che c’è una sentenza ancora non definitiva, quindi ancora non si può dare per assodato che la trattativa ci sia stata. Sicuramente, come diversi giuristi hanno cercato forse invano di dire, è che il rispetto della Costituzione non può essere interpretato come un cedimento alla mafia. Ardita, a proposito della competenza territoriale, ha proposto di concentrarla come accade attualmente con il 41bis. Su quest’ultimo punto, però, non si trova d’accordo il capo del Dap Francesco Basentini, ascoltato anche lui in commissione, spiegando invece che “tra le soluzioni a cui si può pensare c’è quella di affidare la competenza sui permessi premio non al semplice magistrato di sorveglianza ma all’organo collegiale del tribunale di sorveglianza”. Sempre in Commissione Antimafia è intervenuto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, esprimendo “preoccupazione” per l’ipotesi che la “dissociazione potrebbe essere valutata positivamente” ai fini della concessione dei permessi, “mentre l’esperienza ci ha detto il contrario”. Una preoccupazione legittima se effettivamente la dissociazione diventasse un elemento fondamentale ai fini della valutazione per la concessione dei permessi. Però, come la sentenza stessa della Consulta ci ricorda, “la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi”. De Raho: “No ai permessi-premio con sola osservazione del detenuto” Ansa, 13 dicembre 2019 Il percorso penitenziario non basta, servirebbero task force. “È certo che la sola osservazione penitenziaria di per se non potrà mai essere considerata elemento indicativo della rieducazione perché occorre qualcosa in più che ci faccia pensare alla risocializzazione. Non solo buona condotta, progressione del percorso rieducativo e trattamentale, tutto questo non sarebbe sufficiente: il soggetto mafioso, ‘ndranghetista e camorrista è diverso da tutti gli altri criminali, osserva le regole all’interno del carcere, è un soggetto intraneo alle istituzioni. Il mafioso e il camorrista hanno un rapporto rispettoso delle istituzioni, lo strumento della violenza lo usa come extrema ratio solo nei confronti di alcuni soggetti per dare segnale della propria presenza, altrimenti non usa violenza”. Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, intervenendo davanti alla Commissione parlamentare antimafia sul regime di cui all’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario e le conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale. “Mafia, ndrangheta camorra nel carcere non danno adito a minimi problemi. Gli episodi che ci sono stati sono riconducibili a fatti ben precisi altrimenti la regola è rispettare le istituzioni”, ha detto De Raho, il quale ha chiarito che per i permessi premio ai mafiosi “occorre la sussistenza di elementi che dimostrino l’interruzione di rapporti con la criminalità, e questo deve emergere con chiarezza. La preoccupazione è che nel momento in cui va fuori per un permesso il detenuto riprenda nello stesso modo gli stessi comportamenti”. “Il regime detentivo di coloro che sono al 41bis e in Alta sicurezza è tale da consentire loro di scambiare informazioni nel gruppo di socialità, formato da 3 detenuti. Come si scelgono, chi sono?”. Individuare detenuti appartenenti a criminalità diverse, come si è fatto finora, “potrebbe determinare alleanze: si nota ultimamente che Cosa nostra lavora con la ‘ndrangheta e questa con la camorra o tutte e tre insieme” per alcuni reati, come l’importazione di cocaina e altro. Insomma, “si comincia e riflettere sulla composizione di questi gruppi”. “Una riforma che corrisponde all’orientamento della Corte Costituzionale vorrebbe che ci fossero le risorse adeguate affinché coloro che dovessero godere del permesso premio possano essere monitorati in modo molto dettagliato, senza sfuggire mai all’attenzione dello stato. Sarebbe necessario muovere task force capaci di monitorare: questo richiede investimenti risorse un impegno importante”, ha concluso De Raho. Napoli, ex narcotrafficante diventa Garante. Rebibbia vietato alla presidente della Onlus di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2019 Sandra Berardi, presidente dell’Associazione Yairaiha, non è stata autorizzata a partecipare a una iniziativa giovedì scorso nel carcere romano. Da una parte un ex narcotrafficante che non solo si è riscattato nella vita, ma si è attivato per migliorala anche agli altri ed è stato da poco eletto dal sindaco Luigi De Magistris di Napoli, come garante locale dei detenuti. Dall’altra la presidente di un’associazione che ha compiuto visite nelle carceri e portato all’attenzione delle istituzioni vicende gravi, come il presunto pestaggio all’interno del carcere di San Gimignano, che si è vista negare dall’amministrazione penitenziaria l’autorizzazione per partecipare ad una iniziativa del carcere di Rebibbia. La prima vicenda riguarda Pietro Ioia, ed è la dimostrazione vivente che anche un ex criminale non solo non è marchiato a vita, ma può anche ricoprire un ruolo istituzionale importante come quello di garantire i diritti delle persone private della libertà. Un compito delicato visto le gravi criticità che riguardano gli istituti penitenziari napoletani. Ioia da anni che si batte per i diritti dei detenuti e fu il primo a denunciare le presunte violenze che si sarebbero perpetrate all’interno del carcere di Poggioreale, nella cosiddetta cella zero. Chiamata così perché non numerata, liscia, e dove alcuni reclusi hanno denunciato di aver subito percosse da alcune guardie penitenziarie. Oggi è in corso un processo che stabilirà se tali violenze ci sono state o meno. Ioia, d’altronde, è diventato da tempo un punto di riferimento per i familiari dei detenuti, raccogliendo numerose denunce, soprattutto riguardanti il discorso dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari, compreso la denuncia di malati gravi e incompatibili con l’ambiente carcerario. Il neo garante locale dei detenuti ha promesso che non solo si occuperà dei detenuti, ma intenderà parlare anche per il corpo della Polizia Penitenziaria che è sotto organico. Poi c’è la storia di Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha che si occupa principalmente dei detenuti, facendo emergere situazioni che altrimenti sarebbero rimaste confinate all’interno delle quattro mura carcerarie. La Berardi ha fatto sapere pubblicamente che ha appreso di non essere stata autorizzata a partecipare ad una iniziativa di giovedì scorso nel carcere di Rebibbia. “Dispiaciuta - spiega la presidente dell’associazione Yairaiha - perché ero stata invitata dai detenuti, orgogliosa perché l’amministrazione penitenziaria rigettando la richiesta della mia partecipazione, non ha fatto altro che dare conferma della giustezza delle lotte e delle denunce che faccio con l’associazione Yairaiha”. Il motivo della mancata autorizzazione, secondo quanto spiega Sandra Berardi, si baserebbe sui suoi “numerosi carichi pendenti”. “Sono decine di denunce e procedimenti aperti per lotte sociali mica altro - spiega Berardi -. Carichi pendenti che non spuntano ieri ma il fatto che oggi li abbiano notati come ostativi è segno dei tempi”. Due anni fa per una iniziativa analoga, sempre a Rebibbia e sempre con gli stessi “carichi pendenti”, fu autorizzata, così come l’anno scorso. Ora invece la presidente di Yairaiha, che fino a poco tempo fa aveva anche accompagnato l’ex parlamentare europea Eleonora Forenza, si è vista negare l’autorizzazione Garante per i diritti dei detenuti sotto attacco: è “contro la Polizia penitenziaria” di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 13 dicembre 2019 In questi giorni montano gli attacchi di alcune organizzazioni sindacali di Polizia penitenziaria contro il Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale: attacchi contro la persona che ricopre questo ruolo, Mauro Palma, ma il cui obiettivo appare quello, più ampio, di sopprimere un ruolo fondamentale in tutti gli ordinamenti democratici. Il Garante è un organismo statale indipendente, nominato dal presidente della Repubblica, che ha il compito di monitorare tutti i luoghi di privazione della libertà (carceri, stazioni di polizia, centri di detenzione per migranti, Rems, voli su cui si effettuano i rimpatri forzati, i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori ecc.). In Italia si è arrivati all’istituzione di questa figura nel 2013, sull’onda delle riforme successive alla “sentenza Torreggiani”, con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti che avevano luogo nelle sue carceri. L’obbligo di introdurre un meccanismo nazionale indipendente di prevenzione è previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, atto che l’Italia ha ratificato nel 2012: un passo importante, che ha posto l’accento sul valore della prevenzione piuttosto che sull’attivazione a seguito di denunce, e che ha rafforzato la fiducia in una piena attuazione degli articoli 13 e 27 della Costituzione. Gli attacchi sono iniziati dopo che il Garante aveva espresso perplessità su un video “promozionale” dell’addestramento della polizia penitenziaria e aveva chiesto informazioni in merito al ministro della Giustizia. Perplessità che sono state definite “contro la polizia penitenziaria” dal Sappe, cui ha dato immediato seguito il leader della Lega Matteo Salvini. Molte organizzazioni per i diritti umani hanno sottoscritto una dichiarazione che condanna gli attacchi nei confronti di Palma, ribadendo la fiducia nei suoi confronti e dell’intero collegio del Garante. Tra queste: Antigone, A Buon Diritto Onlus, Arci, Associazione 21 luglio, Cittadinanzattiva, Asgi, Certi Diritti, Rete Lenford - Avvocatura per i diritti Lgbti, Progetto Diritti, Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, Cir-Consiglio Italiano per i Rifugiati e Amnesty International Italia. *Portavoce di Amnesty International Italia “La cultura conquista, non salva: solo il detenuto può salvare sé stesso” di Paolo Conti Sette del Corriere, 13 dicembre 2019 Lo scrittore Edoardo Albinati insegna ai detenuti: “Sensibili a Dante e Machiavelli”. Ha cominciato le lezioni nel carcere di Rebibbia nel 1994 e oggi segue due classi di istituto tecnico industriale: “Ci sono insieme i 18enni e gli anziani, il rapinatore romano e lo spacciatore del Maghreb. Non avete idea di quanti lettori forti”. “Stiamo scoprendo insieme l’Inferno di Dante. E si sono appassionati. Certo, c’è la bellezza formale della poesia, ma anche la crudezza, la violenza senza schermi della visione dantesca. Caronte che batte i dannati col suo remo, Minosse che si arrotola con la coda per indicare a quale girone assegnarli, i golosi accovacciati nel fango e nella sporcizia... Chi ha alle spalle una vita come la loro, forse capisce l’Inferno, per istinto, meglio di un liceale quindicenne”. Ai detenuti, ebbene sì, piace Dante. Lo racconta un insegnante e scrittore, Edoardo Albinati - premio Strega 2016 con “La scuola cattolica”, grande successo in Italia e tradotto in numerosi Paesi - che dal 1994 ha scelto di insegnare Lettere nel penitenziario di Rebibbia, sezione staccata dell’Istituto tecnico industriale von Neumann di Roma: “Prima lavoravo in un tecnico agrario della periferia romana. Lo dico per scherzo ma nemmeno poi tanto: invece che questi mezzi delinquenti, pensai dopo qualche anno che insegnavo lì, tanto vale affrontare quelli veri, quelli che lo sono sul serio, e chiesi il trasferimento a Rebibbia...”. La scoperta dell’Inferno - Da letterato, conosce bene il peso delle parole: “Loro sono lì, in prigione, hanno commesso delitti, hanno rubato e fatto violenza. Quasi tutti ne sono pienamente consapevoli. Poi ci potrebbe essere anche qualche innocente...”. A Rebibbia segue due classi, le più eterogenee del mondo: “Chi entra in galera può avere poco più di 18 anni come essere ormai anziano, c’è il rapinatore romano accanto all’omicida, lo spacciatore che viene dal Maghreb o il ladro occasionale. C’è chi resterà con noi per anni, magari ottenendo il diploma finale di Perito tecnico industriale. O chi invece viene improvvisamente tradotto in un altro carcere, molto spesso durante la notte, e così tu la mattina fai l’appello e gli altri ti dicono che lo hanno trasferito, impossibile sapere dove, e se mai lo incontrerai di nuovo. Poi c’è anche chi muore senza rivedere la libertà”. Non è sempre facile trovare quel minimo comun denominatore che diventi un motivo di interesse trasversale: “Ma come dimostra l’esperimento di Dante, siamo di fronte alla prova provata che la letteratura rende accessibili i temi e i sentimenti più forti”. “Verso per verso, come faceva Benigni in tv” - Dante è difficile, come lo spiega ai suoi detenuti? “Si comincia con la spiegazione più classica e paziente, verso per verso, poi viene la lettura filata, un po’ come faceva Roberto Benigni in tv, e infatti ogni tanto ci godiamo una sua puntata in dvd. Ma l’Inferno sembra fatto apposta per attirare la loro attenzione. L’orrenda fine riservata agli infami, cioè, ai traditori, il peggiore dei peccati nel codice di chi è recluso in carcere, crea una totale assonanza. Ma hanno successo altri autori. Per esempio, Machiavelli, i cui precetti per impadronirsi del potere potevano ripugnare a una brava donna come mia madre, scandalizzata da tanta brutalità, i detenuti invece lo capiscono, fin troppo bene! E la famosa, dolorosa poesia dell’esilio di Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai, risuona per alcuni di loro come lo specchio della loro vita... Chissà se davvero ci torneranno mai, a casa”. Tante tipologie di alunni - Ma chi sceglie di seguire le lezioni in carcere? “C’è chi vuole riprendere studi interrotti anni prima. O chi vede nei corsi l’unico modo per uscire dalla cella e per incontrare persone non legate all’universo del carcere, professori e professoresse che vengono dall’esterno, e non i soliti avvocati, le solite guardie, e gli altri carcerati...”. In classe i detenuti si comportano mediamente come normali alunni: “A parte qualche caso di esibizionismo criminale, le storie personali restano fuori dalla lezione. I detenuti sono di solito molto discreti, ecco, può capitare semmai che parlino dei processi in corso. Qualche volta ho chiesto loro, come tema in classe, di raccontare il giorno del loro arresto, e ne venivano fuori episodi drammatici con qualche risvolto ironico o addirittura comico”. I mafiosi e “il professore” - Per qualche anno, Albinati ha insegnato all’Alta Sicurezza, ovvero a detenuti per mafia, ‘ndrangheta e camorra: “Per ragioni ovvie, si tratta di persone più strutturate e inquadrate gerarchicamente. Lì ero sul serio “il professore”, la mia laurea contava qualcosa, e loro gli alunni. Con i detenuti comuni è diverso, il rapporto è più fluido. Ma anche lì capita che si svelino molti lettori “forti”, che passano da un libro all’altro e riescono a superare le trappole che il carcere tende alla possibilità di concentrarsi: il frastuono continuo, la cella sovraffollata con la tv sempre accesa, bollente d’estate e gelida d’inverno. C’è chi legge tanto, più di quanto si pensi”. È mai capitato che il suo corso di italiano abbia cambiato la vita di qualche detenuto? “Mi pare un intollerabile peccato di orgoglio pensare che il mio lavoro abbia cambiato la vita di qualcuno... o addirittura l’abbia salvata. Ecco, i pompieri, loro sì che salvano le esistenze umane! Certo, qualcuno riesce a modificare la propria vita, magari riflettendo sulle esperienze in carcere, dove la scuola è una delle poche cose buone: ma l’avrà fatto grazie alle sue forze”. “La galera mi ha insegnato ad agire con prudenza” - E come è cambiata la sua, di vita, Albinati? “Beh, la galera mi ha insegnato ad agire con maggiore prudenza, a pormi obiettivi modesti ma concreti. Direi che ho imparato a limitare il danno, a ridurre quanto è possibile la sofferenza, aumentando le possibilità anche minime di gioia”. Un contrappasso interessante: lo scambio tra due mondi distanti genera mutamenti paralleli. Però una scuola resta una scuola, e Albinati lancia un appello: “Ogni mattina deve succedere “qualcosa”, qualcosa di nuovo. Ogni mattina è irripetibile, in carcere come nella scuola normale. Troppo spesso noi professori ci limitiamo a “preparare”, a “introdurre” o “indicare obiettivi”. Sì, ma, finita un’ora di lezione, dovremmo chiederci: oggi è “successo” qualcosa con i ragazzi? Bisognerebbe saper acchiappare l’uccello al volo mentre passa, qui e ora”. Insegnante prima di tutto - Ma oggi, Albinati, lei si sente più scrittore o più insegnante? I suoi libri le hanno assicurato successo, un vasto pubblico... “Io mi sento prima di tutto un insegnante. È il mio lavoro fisso, il mio status burocratico: dipendente del ministero della Pubblica Istruzione, che mi paga lo stipendio. Anche se costa parecchia fatica, non riesco, e forse non riuscirò mai a identificare la scrittura come un “lavoro”, piuttosto un’arte o una passione. O uno sfogo. Dunque io sono prima un professore di lettere, e poi uno scrittore”. Nascono legami di affezione con gli alunni? Albinati si fa ancora più serio: “Per carattere e anche perché mi sembra giusto così, ho un atteggiamento distaccato, forse temo si leghino troppo a me e io di legarmi a loro. Mi dimostrano rispetto, curiosità, talvolta ammirazione, anche competizione. Li sento vivi insieme a me. Affetto? Non sono il tipo da meritarmelo...”. Dietro le sbarre di Salvatore Torre* Il Foglio, 13 dicembre 2019 Quando sono nato mio padre era in carcere, quando è nata mia sorella era in carcere, e quando è nato mio fratello, otto anni dopo, mio padre era ancora in carcere. Ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa. Era uno sconosciuto, ma per me era dio. Mio padre era sempre in carcere e quando non era in carcere era latitante e, quando non era latitante, era con qualcuna delle sue femmine, e quando non era con queste era con i suoi compari. Insomma, mio padre lo si vedeva poco a casa e solo perché la legge gli imponeva di rientrare ogni sera (un’imposizione che lui mal gradiva, pertanto, il più delle volte si dileguava). Era poco presente nelle nostre vite e non ho molti ricordi di lui, quelli che ho non sono belli e qualcuno, raro, riconduce anch’esso a un senso di tristezza e di delusione. Un giorno che mi trovavo nella piccola piazza del paese, lo vidi spuntare a bordo di una motoretta. Lo guardai con aria implorante, credo, visto che dopo avermi superato si fermò e con un cenno della testa mi invitò a montare in sella. Feci uno scatto, con il cuore gonfio di gioia gli allacciai le braccia intorno ai fianchi e mi strinsi a lui. Non potevo credere che fosse vero! Infatti, un centinaio di metri più in là, mio padre si fermò di nuovo, si girò verso di me e mi disse: “Scendi”. Solo questo. Sperai che ci ripensasse e che tornasse indietro, ma non lo fece, né allora né mai. Quel papà era inarrivabile. Eppure, era un dio, per me. Per questo ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa, una porta, un armadio, un tavolo, intanto spaccavo anche le nocche delle mie mani. E poi piangevo. Piangevo e odiavo ferocemente quegli sbirri che lo avevano arrestato, anche se quando era libero lo vedevo meno di quando si trovava in carcere. Ho visitato le carceri di mezza Italia per andare a trovarlo. Più tardi ne avrei conosciute e ancora ne sto conoscendo altre, perché a mia volta detenuto. I miei primi ricordi sono legati al carcere di Messina. Mia madre e io, sempre insieme. Il tragitto sul treno fino a Messina, poi un altro autobus e ancora un pezzo di strada a piedi, spediti verso il nostro uomo. L’attesa nella sala d’ingresso del carcere era noiosa, a volte esasperante, dipendeva dal mio stato d’animo e dalla presenza o meno di altri bambini. E poi tutti quegli sbirri, che detestavo… il loro pronunciare i nostri nomi quasi gridando, le loro chiavi che sbattevano di continuo aprendo e chiudendo porte; i loro imperativi mentre attraversavamo i corridoi e i cancelli che ci portavano alla sala colloquio, uno stanzone diviso a metà da una lastra di marmo, che quando mi ci sedevo sopra, mi congelava il sedere. All’interno solo degli sgabelli, null’altro. Con mamma prendevamo sempre posto all’angolo della sala. Immagino che volesse proteggere in qualche modo quel nostro momento d’intimità familiare. Tutti rimanevano in silenzio sino all’arrivo dei nostri familiari detenuti. Allora, la sala diventava un vociare confuso e incomprensibile. Mio padre arrivava sempre per ultimo, pareva lo facesse a posta a farmi aspettare più di tutti. A me che non vedevo l’ora di vederlo. Ciononostante, non ricordo un suo abbraccio. Un abbraccio vero voglio dire, solo quelli formali, con la stretta di mano e i baci sulle guance, prima di sedersi, l’uno di fronte all’altro, divisi da quel bancone di marmo. (…) Mio padre. Quest’uomo parlava con gli occhi, parlava a tutti con quegli occhi penetranti e freddi, anche con me. Bastava un’occhiata per capire se dovevamo parlare o stare zitti, se muoverci o stare fermi. Io cercavo in questo, come in tutto, di emularlo, lo facevo con i miei compagni di gioco, poi con quelli di strada e più tardi con quelli di malavita. Volevo però, più di tutto, il suo rispetto. Ma da lui sembrava non fosse possibile avere nulla, neanche questo. Era talmente irrigidito e imprigionato dentro quella sua figura di malavitoso tutto d’un pezzo, che non poteva permettersi alcuna attenzione per gli altri, neppure per i figli. (…) Una volta, mio padre, dopo avere sorbito il caffè assieme a due malavitosi, mi posò una mano sulla spalla, tenendomi seduto sulla poltrona al suo fianco. A me diceva, senza dire una sola parola, che dovevo imparare ad ascoltare e a capire restando in silenzio; a quegli altri, di guardare bene che aveva un figlio e che questo stava crescendo. In quel frattempo Mimì, un giovane disadattato della mia contrada, e io, ci accorgevamo l’uno dell’altro. Due solitudini che s’incontravano: lui ventenne ed eroinomane, io dodicenne e figlio di un malavitoso, ci saremmo compensati di quell’affetto che ci mancava, restando amici fino alla morte. Io sarei stato carcerato a vita, lui assassinato, per vendetta contro di me, due anni dopo il mio arresto. La verità è che avevamo poche possibilità di essere altro da ciò che eravamo, di finire diversamente: era scritto nella storia del nostro ambiente sociale. *Ergastolano, autore del libro “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri” (Libreria Editrice Vaticana, 174 pp., 10 euro), dal quale è estratto il testo. Nessuno nasce criminale di Simona Maggiorelli Left, 13 dicembre 2019 Cappi e manette… e c’è anche chi evoca la ghigliottina! Avanza il partito trasversale dei giustizialisti capeggiato della destra leghista e illiberale alla continua ricerca di capri espiatori. Una destra che, “immemore” dei 49 milioni fatti sparire dal partito fondato da Bossi, vuole spedire nei lager libici i migranti “colpevoli” di non esser morti nel Mediterraneo e vuole richiudere, quelli che sono riusciti a salvarsi, nei centri di detenzione italiani per periodi sempre più lunghi. Una recente sentenza del tribunale civile di Roma (che ha accolto il ricorso dell’Asgi e di Amnesty) ha stabilito che i respingimenti sono illegali e chi li subisce ha diritto a vedersi risarcire il danno, ma soprattutto ha il diritto di presentare domanda di protezione internazionale nel Paese da cui è stato respinto. E ancora, a proposito di illegalità, nel solco della legge Bossi-Fini (che ha sdoganato l’equazione xenofoba “immigrato = delinquente”), i decreti legge Salvini su sicurezza e immigrazione, violano l’articolo 10 della Costituzione sull’asilo, i trattati internazionali a partire dalla Convenzione di Ginevra sui diritti umani, nonché storiche leggi del mare. Ma ancora si attende dal Conte II quel segnale di discontinuità che era stato promesso con l’accordo di governo fra Pd e M5s. È trascorsa anche la Giornata internazionale dei diritti dell’uomo 2019 e nulla è stato fatto né detto di positivo in questo senso da esponenti di governo e dal premier stesso che, mesi addietro, conveniva che si dovessero almeno recepire i rilievi del Capo dello Stato sui provvedimenti firmati da Salvini e divenuti legge. Ed è tutto un tintinnar di manette nella retorica grillina che accompagna il varo della riforma della prescrizione, che entrerà in vigore il prossimo gennaio, in coda alla cosiddetta legge spazza-corrotti. Che cosa comporta? In pratica al termine del primo grado di giudizio il meccanismo della prescrizione non funziona più. “In presenza di una sentenza di primo grado non vi è più scadenza alla durata del processo”, denuncia il costituzionalista Giovanni Russo Spena. Si dilatano così a dismisura i tempi dei processi, che già in Italia hanno durata pari al doppio della media europea. E se è vero che proprio grazie all’istituto della prescrizione possiamo solo scrivere che Andreotti trattò con la mafia fino al 1980, è altrettanto vero che “la durata ragionevole del processo è u principio costituzionale. E dunque “il fine processo mai” è incostituzionale”. Sulla riduzione della durata dei processi la riforma Bonafede non dice nulla di chiaro e di definito. Chi è imputato rischia di esserlo a vita e sarà più difficile per le vittime essere risarcite, come spiega Cesare Antetomaso (Giuristi democratici) in questo sfoglio particolarmente ricco di contributi autorevoli. Come quello dell’avvocato Felice Besostri che insieme a Maurizio Turco, segretario del Partito radicale sta preparando un’azione giudiziaria in favore della durata ragionevole dei processi. Turco sta anche portando avanti una iniziativa per un referendum sul taglio dei parlamentari, passato lo scorso ottobre (anche con il sì del Pd) con gran tripudio dei grillini che per l’occasione hanno rispolverato tutta la loro retorica anti casta. Ma ben vedere c’è poco di cui essere contenti visto che, a fronte di un piccolo risparmio (che si sarebbe potuto ottenere tagliando gli stipendi dei Parlamentari) questa riforma costituzionale riduce gravemente la rappresentanza. Inoltre, ad un mese dalla scadenza dei termini, non si parla di referendum confermativo (previsto dalla Costituzione quando è in ballo una legge di riforma della Carta). Perciò con la tesoriera Irene Testa, il segretario del Partito radicale ha deciso di scrivere al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedergli “di intervenire con estrema urgenza, per ripristinare il diritto sottratto ai cittadini della Repubblica ad essere informati”. Colpisce che tutto questo non abbia fin qui suscitato una discussione pubblica ampia e adeguata, dal momento che parliamo di norme che mettono in discussione principi cardine sanciti dalla Costituzione antifascista, come la durata ragionevole del processo, appunto, e che toccano anche la funzione della detenzione che deve essere rieducativa, volta al recupero della persona e non vendetta. Come scrive la penalista Valentina Angeli su questo numero di Left, “i costituenti sapevano che il fascismo si può annidare in ogni espressione ed esercizio del potere pubblico, di cui il potere giudiziario è massima espressione, poiché, attraverso il processo penale, può legittimamente comprimere quegli stessi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, principalmente quello alla libertà personale”. Di più. L’avvocato Angeli suggerisce con questa sua lettura profonda dei principi costituzionali che nella nostra Carta si può leggere in filigrana un’idea del cittadino come persona a tutto tondo, scevra dall’ideologia religiosa che ci vorrebbe tutti irrimediabilmente segnati dal male, in quanto figli di Caino. La violenza non è innata nell’essere umano e i costituenti, che pure avevano vissuto il fascismo, con grande spessore umano e intelligenza, l’avevano compreso. Giustizia, non vendetta di Giulio Cavalli Left, 13 dicembre 2019 È la goduria del tintinnare delle manette. Un minus “atavico”, lucido, incorreggibile di chi solo con la vendetta riesce ad avere la sensazione di sfiorare la soddisfazione. Nei ruoli mischiati della politica di questi ultimi anni, qui dove tutto è diventato confuso perché piatto, senza valori e senza contenuti la destra con la bava alla bocca (quella che si definiva garantista e almeno su questo punto sembrava irremovibile) ha tentato di riportare il concetto di giustizia indietro di secoli. E in qualche modo ha fatto breccia. Sia chiaro, è un lavoro che parte da lontano e che ha parecchie colpe anche dalla parte del centrosinistra: dopo Tangentopoli è rimasta nel Paese una scia di veleno che hanno raccolto in molti, per farne materiale infiammabile da propaganda elettorale e il muro del garantismo (che ormai mica per niente è diventata un’offesa, quasi indicibile) sembra definitivamente abbattuto. In principio fu Travaglio che provò a convincere ampie fette di popolazione che la corruzione, il malaffare e le mafie fossero solo materie per Procure e che la politica dovesse sdraiarsi emettendo solo irretita indignazione: il direttore de Il Fatto quotidiano insiste nel provare a convincerci che la soluzione sia arrestare tutti i corrotti, tutti i corruttori, tutti i mafiosi e chiudere tutto in un bel sacchetto dell’indifferenziata da buttare nel cassonetto. Quando qualcuno ha provato a controbattere proponendo letture più sociali e storiche dei fenomeni criminali è stato bollato come un difensore dei cattivi. Punto. Fine. Sciò. Antonino Di Pietro (che ultimamente in molte interviste si dice pentito di avere piegato la politica alla semplice attività della magistratura) ha incarnato perfettamente il ruolo dell’angelo vendicatore in difesa degli italiani: come non poteva essere credibile l’uomo che aveva tenuto alto il nome del pool di Mani Pulite? E senza accorgersi, mentre la folla plaudente godeva delle sevizie ai presunti criminali, abbiamo cominciato a perdere diritti un po’ tutti e l’alfabetizzazione del carcere come luogo rieducativo e di reinserimento nella società è diventato roba da anteguerra, fisime da buonisti. “In galera!” è l’urlo della gente che abbaia per sputare una vendetta travestita da giustizia e “in galera!” è stato l’urlo liberatorio per chi si era convinto di avere trovato una soluzione rapida, efficace e indolore per riparare tutti i mali del Paese. Su quell’urlo il Movimento 5 stelle (che da Travaglio in fondo nasce, raccogliendone le tesi in materia di giustizia) ha spinto ancora di più sull’acceleratore: mentre urlavano “onestà!”. In fondo stavano semplicemente promettendo di punire dolorosamente i colpevoli. Fino a che, ovviamente, i colpevoli sono diventati loro. A quel punto è cambiato tutto e, come al solito, sono diventati garantisti. Eh sì, perché tutti i colpevoli sono garantisti ma la civiltà di un Paese si misura sul trattenersi dal randello da parte degli innocenti. Proprio così: se è vero che Berlusconi ha usato un finto garantismo per proteggersi da tutti i suoi processi è altresì vero che nessuno a sinistra ha mai avuto la forza e il coraggio di alzare la voce per aprire un dibattito sereno sulla bassezza della vendetta come agire politico. Schierarsi contro l’idea del carcere come castigo, come ritorsione, in palese violazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione, dovrebbe essere un principio politico per tutti quelli che hanno a cuore i diritti ma il consenso elettorale è troppo allettante per alzare la voce. Provate a contare quante volte vi capita di sentire un politico di primo piano (e mica solo Salvini) che si augura “il carcere e buttare via le chiavi” frugando in qualche notizia di cronaca. Provate a chiedere che venga rispettata l’idea originaria della detenzione così come pensata dai nostri padri costituenti: vi diranno che siete amici dei criminali, che difendete il malaffare, che odiate gli italiani e altre cose così. Il pensiero diffuso (tutto rancore e punizione) è un muro difficile anche solo da scalfire. Poi, negli ultimi anni, hanno preso piede anche gli odiatori di destra (capeggiati, ca va sans dire, da Salvini e Meloni) che hanno trovato nel carcere (sempre inteso come punizione finanche corporale) il metodo legittimo per vomitare razzismo ed esasperazione: in carcere qualcuno che ruba una mela (soprattutto se è straniero), in carcere chi tocca i bambini, senza prove senza aspettare il processo, in carcere i ladri di polli (perché vengono a casa nostra) e così via. Carcere come soluzione definitiva e onnicomprensiva. Carcere per tutti. Un giustizialismo che non è nient’altro che un metodo per tenere alto l’odio che serve per riempire i propri partiti di voti: un continuo instillare paura (anche se non reale e semplicemente percepita) che chiede un pugno sempre più duro, un pugno sempre più forte. l’allarme sociale utilizzato come spinterogeno propagandistico vuole inevitabilmente che la vendetta venga legalizzata e addirittura allenata: ogni vittima passata sotto ai denti della destra è diventata una miccia per sdoganare violenza. E non è un caso che a Macerata Traini abbia pensato di farsi giustizia da solo ritenendo perfino la galera un mezzo troppo tiepido per punire i (presunti criminali). Ma la giustizia vista come vendetta è un mostro che non si sfama mai e così oggi siamo arrivati al tribunale del popolo che ritiene colpevole qualcuno perché si vede dalla faccia o perché la sua etnia e il suo credo religioso sono oggettivamente sospetti; ci si augura che i nemici politici vengano arrestati (mica sconfitti, no, arrestati) per avere giustizia e addirittura si invoca un tribunale in grado di punire gli atteggiamenti ritenuti non patriottici e anti italiani. Il cerchio si chiude: si è partiti da Tangentopoli e si è arrivati a sospettare e diffidare di tutto e di tutti. Come quello Zanni del Mistero Buffi) di Dario Fo che vittima della propria fame finisce per mangiarsi. Ma sai che soddisfazione punire, perfino con il rischio di punirsi come vittime collaterali. Sfidiamo la demagogia populista in nome di Antigone di Giovanni Russo Spena Left, 13 dicembre 2019 Con l’abolizione della prescrizione che entra in vigore il primo gennaio 2020, salvo che in alcuni casi, una sentenza di condanna o di assoluzione può intervenire anche dopo decenni. Ma per la Cassazione nessuno può essere ritenuto “eternamente giudicabile”. Vi sono temi fondanti lo Stato di diritto che andrebbero sottratti ai semplicismi propagandistici, demagogici, identitari da parte delle forze politiche. Lo è certamente l’istituto della prescrizione che ha, sullo sfondo, la difficile dialettica di sempre tra autorità e libertà, tra diritti e potere; in definitiva, tra giustizia e politica. La durata ragionevole del processo è principio costituzionale. Il “fine processo mai” è, quindi, incostituzionale. Spesso, peraltro, in Italia (ma non solo), temi giurisdizionali diventano terreno di scontro tra poteri dello Stato e tra magistratura e politica. Sono crollati governi. Di recente, il governo Berlusconi e, per motivi parzialmente diversi, il governo Prodi. E anche oggi forte è la fibrillazione tra i partiti della maggioranza (alla ricerca di espedienti che permettano, sul tema, un fragile equilibrio). Ma è aspro anche il dibattito nella stampa, nell’opinione pubblica. Quale è la pietra dello scandalo? Dal primo gennaio 2020, per una legge fortemente voluta dal ministro della Giustizia del governo Lega M5s (lo stesso ministro dell’attuale governo), in presenza di una sentenza di primo grado non vi è più scadenza alla durata del processo. Il decorrere abnorme del tempo non porta più alla prescrizione. È stato eliminato l’alibi con il quale imputati eccellenti si sono “salvati” nel processo e dal processo (Berlusconi, Andreotti, ecc.) o ci troviamo di fronte ad una incostituzionale torsione giustizialista? Di Maio, con la ben nota enfasi propagandistica un po’ banale, parla di “svolta rivoluzionaria” contro i “potenti”. E, dall’altra parte, il Pd parla di M5s “forcaiolo” e Zingaretti sbotta “così non si può andare avanti”. Non a caso la stessa “riforma Bonafede” prevede un accorciamento dei tempi dei processi con una durata massima di sei anni. Ma questi meccanismi strutturali modificativi del percorso processuale non sono per nulla definiti. Il tema va sottratto alla propaganda. Riguarda la dignità stessa dell’imputato e dell’indagato. Ed è un dilemma sofferto per noi giuristi garantisti. Quello di dover scegliere tra l’ingiustizia di lasciare impunito un colpevole e la somma ingiustizia di lasciar marcire in galera un possibile innocente. La legge Bonafede, invece, taglia il nodo attuando un paradosso giuridico: salvo che in alcuni casi, una sentenza di condanna o di assoluzione può intervenire anche dopo decenni. La legge Bonafede è incostituzionale ma anche inefficace ed inutile; se è vero che, come affermato dal Consiglio superiore della magistratura e dal procuratore generale presso la Cassazione, il sessanta per cento delle prescrizioni matura nelle fasi delle indagini. Le quali, venendo meno la prescrizione, fattore comunque di velocizzazione, rischiano di avere una durata ancora maggiore dei procedimenti. Nella legge Bonafede non vi sono nemmeno i correttivi proposti dalla Commissione Gratteri (insediata nel 2014 ndr). E nemmeno gli istituti, felicemente sperimentati, del processo tedesco. Io non nego, sia ben chiaro, che la prescrizione appaia iniqua all’opinione pubblica, scossa dal fatto che, spesso, i Berlusconi e gli Andreotti di turno se la sono cavata attraverso meccanismi dilatori, sottrazione ai processi, ottimi avvocati. In quei casi la prescrizione è stata assimilata all’impunità. Ma noi dobbiamo tentare di risalire al fondamento costituzionale del processo giusto e breve. Il trascorrere del tempo incide sulla capacità punitiva del processo o no? l’Amputato, l’indagato sono sempre uguali a se stessi anche dopo anni? Uguali rispetto al momento in cui hanno commesso il crimine? La stessa Corte di Cassazione ha argomentato che nessuna persona può essere ritenuta “eternamente giudicabile”. Il “diritto all’oblio” fa parte dell’imperfezione della giustizia. Non si può fermare il tempo. Perché dietro quel tempo vi è una persona. Il trascorrere del tempo porta anche all’affievolimento dell’interesse dello Stato alla sanzione. Lo stesso delitto, con il passare del tempo, non è uguale a se stesso. Anche nella percezione della società. Non a caso vi sono reati espressamente non prescrivibili, come la strage e il genocidio. Perché colpiscono lo spirito di comunità in maniera indelebile, feriscono la filosofia stessa dello stare insieme. Per orientarci, in definitiva, all’interno dei nostri dilemmi garantisti, partiamo sempre dalla concezione costituzionale della pena. Nel nome di Antigone, sfidiamo la demagogia populista, andiamo controcorrente. Prescrizione. Tutti i difetti di una riforma inutile e dannosa di Cesare Antetomaso Left, 13 dicembre 2019 Chi è imputato rischia di esserlo a vita e sarà difficile per le vittime essere risarcite. Il blocco della prescrizione è un rimedio che non risolve i problemi della giustizia italiana. Anzi, li aggrava. Mettendo a rischio la legalità repubblicana mentre all’orizzonte si intravedono tentazioni da Ancien Régime. Conversando con colleghe, colleghi e soprattutto clienti, siano essi persone offese dal reato od imputati, prevale la sensazione che il dibattito politico sulla riforma della prescrizione sia per lo meno surreale. A fronte dei tanti autentici mali che affliggono la nostra giustizia penale, l’unica risposta che arriva dall’attuale esecutivo (o comunque da buona parte di esso) è infatti quella di protrarre tendenzialmente all’infinito la durata dei processi. Con buona pace non solo di chi è condannato a restare imputato a vita (magari sebbene innocente), ma anche delle parti civili (e delle vittime in genere) che vedono allontanarsi sempre più il momento e la possibilità di un sia pur minimo ristoro del danno. In tutto ciò, la cosa che più lascia sgomenti è che lo stesso ministro Alfonso Bonafede pare dimenticare che la disciplina di questo istituto ha già subito, con la legge del suo predecessore Orlando n. 103 del 2017, una modifica sostanziale, per cui la prescrizione rimane sospesa per tre anni dopo la sentenza di primo grado. Con tempi di estinzione del reato che si aggirano, giusto per fare qualche esempio, sui 29 anni per una rapina aggravata, sui 10 anni e mezzo per una resistenza a pubblico ufficiale, sui 18 anni per una corruzione: dunque, tutt’altro che brevi. Evidentemente, però, la tentazione di condurre in porto l’ennesima, deleteria norma manifesto da dare in pasto a un elettorato per il quale il carcere non è più extrema, bensì unica ratio, è talmente forte da obnubilare le coscienze. Eppure lo scopo della norma è chiaro: determinare l’estinzione dei reati (a esclusione di quelli puniti con la pena dell’ergastolo) e la cessazione dei processi allorquando questi non giungano a sentenza definitiva entro un congruo lasso temporale dai fatti. Ciò, proprio per evitare l’irragionevolezza di un processo eterno che per sua natura finirebbe per diventare farsesco, se solo si pone mente alla sostanziale impossibilità di un accertamento attendibile a distanza di anni e magari lustri dai fatti, quando i ricordi dei testimoni sono divenuti labili - se ancora in vita - e le tracce del reato si sono deteriorate. O anche al venir meno o comunque all’attenuarsi dell’interesse dello Stato a punire, pure in ragione di cambiamenti intervenuti nella personalità del colpevole, che rendono controproducente l’applicazione di una pena, che invece nell’immediatezza poteva essere efficace, come giustamente ha sostenuto Livio Pepino. In questo senso, la prescrizione è un principio di civiltà giuridica, come tale non accantonabile per via di malfunzionamenti dell’amministrazione della giustizia. Con la legge n. 3 del gennaio di quest’anno, la precedente maggioranza di governo ha invece previsto che, dal primo gennaio 2020, la prescrizione smette di operare dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione. Ma il conflitto apertosi all’interno dell’attuale maggioranza, con la protesta di tutta l’avvocatura e l’insofferenza di alcuni settori della magistratura, è destinato con ogni probabilità a mutare questo quadro. Certo, il fenomeno della cancellazione di processi per reati di rilevante allarme sociale per via della prescrizione è tutt’altro che edificante. Ma il rimedio proposto, alla faccia di tutti i proclami demagogici che lo accompagnano non risolve il problema. Anzi. Se solo si osservano i dati del ministero della Giustizia, si scopre che il 75% circa dei processi si prescrive ancor prima di giungere alla sentenza di primo grado (fonte Sole 24 Ore). Con il risultato che appena il 3% (!) dei processi trattati annualmente sarebbe interessato dalla riforma. Di più. Con questa riforma, l’imputato di reati minori (magari già assolto in primo grado) vedrà aumentare a dismisura i tempi del proprio processo, che dovrà fare spazio a quelli per i reati più gravi. Peraltro, l’avanzata del populismo penale e dunque il fenomeno del panpenalismo, per cui ogni conflitto sociale, ogni comportamento ritenuto non conforme a quello della generalità dei consociati deve trovare risposta esclusivamente in una sanzione penale, ha fatto sì che, anziché procedere verso un’ampia depenalizzazione, si siano viceversa introdotte nuove fattispecie di reato ed elevate le pene per molti reati già presenti nel codice penale e nelle leggi speciali. Con ciò, generando una proliferazione di processi e un consequenziale aumento dei tempi del dibattimento. Già oggi, per esempio, non è infrequente che in Corte d’appello si rinviino processi per omicidio stradale di anno in anno, approfittando dell’allungamento dei termini di prescrizione. Non è allora difficile immaginare i guasti che la riforma potrebbe provocare: su chi per ottenere un lavoro deve esibire il certificato dei carichi pendenti, o su chi, magari per via di una denuncia pretestuosa o di un Pm innamorato della propria tesi accusatoria, deve convivere per anni con il terrore di una condanna ingiusta, mentre la collettività lo stigmatizza come reietto. Si dice poi: senza la speranza nella prescrizione, si ridurrebbero le impugnazioni. Ma anche questa è una considerazione che può fare solo chi è digiuno di esperienza processuale, se non proprio in malafede. Le impugnazioni rimarrebbero esattamente le stesse e più o meno per gli stessi motivi per cui vengono proposte oggi. Per ottenere l’assoluzione, il riconoscimento di un’attenuante, una riduzione della pena, la concessione di una misura alternativa o anche solo per rinviare l’evento nefasto: a muri’ e a pava’ ce sta semp’ tiempo, come usa dire a Napoli. In realtà, non esiste un rimedio miracoloso per risolvere le lungaggini della giustizia penale (come d’altra parte in nessun altro campo, sebbene ai populisti faccia comodo sostenere il contrario). Inserimento dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (che precede il rinvio a giudizio) tra gli atti che interrompono la prescrizione; depenalizzazione di tutti quei reati che intasano le aule dei tribunali senza alcuna ricaduta positiva sui drammi che vorrebbero contrastare (a cominciare da una profonda riforma della disciplina degli stupefacenti e di quella dell’immigrazione); abolizione dell’appello per motivi di merito in caso di assoluzione in prima istanza; semplificazione delle motivazioni delle sentenze, sono solo alcuni degli interventi - in buona parte già individuati dalle varie commissioni ministeriali - che possono aiutare a uscire dal guado se coordinati tra loro. Tutto questo presuppone però un mutamento di paradigma culturale, mentre all’orizzonte si intravvedono tentazioni di Ancien Régime per cui il giudice dovrebbe essere unicamente bouche de la loi. Ecco, allora, che occorre denunciare con forza che il vero nemico del diritto e della legalità repubblicana è oggi chi, propugnando il processo infinito, esprime in realtà il disprezzo per il valore epistemologico del processo, della sua matrice accusatoria e degli apporti di sapere delle parti. Scriveva il barone di Montesquieu, nel suo celeberrimo Spirito delle leggi quasi trecento anni or sono: “Se esaminate le formalità della giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà”. La verità, vi prego, sulla prescrizione di Valentina Stella Left, 13 dicembre 2019 Dal “fine pena mai” al “fine processo mai”. Il blocco della prescrizione è solo l’ultima spia di una mentalità forcaiola molto diffusa in Parlamento. L’idea del giudizio perenne e del carcere come vendetta nega la possibilità di trasformazione dell’individuo e va contro la Costituzione. Il presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza, smonta punto per punto tutte le bufale che tengono in piedi la riforma abrogativa della prescrizione: “Si tratta di una delle più riuscite ed efficaci operazioni di manipolazione informativa” Circa un migliaio di avvocati penalisti di tutta Italia per sei giorni si sono alternati ad un microfono in piazza Cavour a Roma per dire no alla riforma abrogativa della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, voluta fortemente dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Ideatore della maratona oratoria è stato il presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, Giandomenico Caiazza: “È la prima volta che si è organizzata una forma di protesta di questo tipo tra gli avvocati. l’Aspirazione mi è venuta grazie a Marco Pannella che la ideò circa 25 anni fa per una campagna referendaria”. L’obiettivo dei partecipanti è stato quello di dire finalmente la verità sul tema della prescrizione che, a detta di Caiazza, è stato contraddistinto “da una delle più riuscite ed efficaci operazioni di manipolazione informativa che sia dato ricordare”. La verità passa anche attraverso le storie di persone che sono rimaste imprigionate nelle catene della giustizia per decenni, vedendo spesso le loro vite sconvolte. Un avvocato ha raccontato che quando era al liceo due persone sono finite a processo con l’accusa di essere pedofili. Il processo è durato talmente tanto che in appello sono state difese da quello stesso avvocato che intanto aveva terminato la scuola, si era laureato ed aveva fatto la pratica. La vicenda si è conclusa con una assoluzione ma i due imputati hanno confessato che in un momento di massimo sconforto avevano pensato di farla finita. Otto anni invece ci sono voluti perché una dirigente comunale, sottoposta a processo per turbativa d’asta, venisse assolta in primo grado “perché il fatto non sussiste”. Poi c’è un ex dipendente di Poste italiane che viene arrestato nel 1997 con l’accusa di essere basista di due rapine, rimane in custodia cautelare per un anno, nel 2004 viene condannato a 6 anni di reclusione e solo nel 2011 assolto in appello con la formula piena. Ci sono voluti quattordici anni per mettere fine a tutto. Un’altra storia è quella di un giovane studente di giurisprudenza che al secondo anno di università viene beccato con 30 grammi di marijuana e mandato a processo: dopo 4 anni e 3 mesi viene assolto perché il giudice riconosce l’uso personale, il pm non si arrende e fa appello, e dopo circa 3 anni viene assolto nuovamente; intanto si è laureato ma non ha potuto partecipare a concorsi pubblici perché aveva carichi pendenti. Senza la minaccia della prescrizione processi del genere non si sarebbero nemmeno conclusi. Queste vicende, batte duro Caiazza, dimostrano che “qui è in gioco il diritto di ciascuno di noi a non divenire sudditi di una giustizia penale che ci possa dire: dispongo di te e della tua vita per tutto il tempo che riterrò necessario. La prescrizione è l’unico strumento che riequilibra una patologia che è tra le più gravi: quella di un processo penale che dura tempi irragionevoli”. Tuttavia alcuni, soprattutto i pentastellati, in primis Alessandro Di Battista, obiettano che la prescrizione è uno strumento per salvare i ricchi e i potenti, come Berlusconi, Andreotti, De Benedetti. Una tesi che Caiazza rifiuta con forza: “La verità che abbiamo comunicato, spero in modo definitivo, è che questa narrazione della prescrizione come strumento dei furbi e dei potenti per farla franca è vergognosa. Un istituto giuridico non si giudica da chi ne ha beneficiato, ma dai principi di diritto che esso salvaguarda. E se pure fosse, che rilievo può mai avere un elenco di quindici o venti o anche cento persone “potenti” in un complesso di molte centinaia di migliaia di persone di ogni ceto e classe sociale che, nello stesso arco di tempo, hanno beneficiato della prescrizione, per qualificare quell’istituto uno strumento di salvaguardia dei potenti?”. C’è poi un’altra mistificazione che in questi ultimi giorni si sta espandendo sui social ossia che “in Italia c’è la prescrizione perché siamo un popolo di truffatori, mentre all’estero non esiste”. A questo Caiazza replica sottolineando che in Italia i processi durano il doppio della media di tutti i Paesi civili: “Il che rende evidente il motivo per cui altrove non c’è necessità di discutere di prescrizione”. C’è però chi sostiene che le vittime, grazie alla prescrizione, non vengano mai risarcite: “La prescrizione non preclude mai - precisa Caiazza - anzi fa salvi i diritti risarcitori delle parti civili”. Ed è bene ricordare che la prescrizione colpisce i reati bagatellari. “I tempi di prescrizione sono proporzionali alla gravità del crimine. I reati di maggiore allarme sociale si prescrivono dopo molti decenni”. Solo per citare alcuni esempi: per violenza sessuale, dopo 30 anni; per maltrattamenti - verso familiari o conviventi - che causano la morte o per atti sessuali con un minorenne la prescrizione arriva dopo 60 anni; per un sequestro di persona a scopo di lucro, la prescrizione scatta dopo 60 anni; per associazioni di tipo mafioso, dopo 30 anni; per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, dopo 40 anni; per corruzione in atti giudiziari, dopo 30 anni; per associazione atta ad agevolare l’immigrazione clandestina, dopo 30 anni; per omicidio stradale, dopo 45 anni; per omicidio colposo commesso nell’esercizio abusivo di una professione, dopo 25 anni. La prescrizione inoltre non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. A questi numeri si aggiunge un altro dato importante: il 53% delle prescrizioni avviene nella fase delle indagini durante la quale non interviene il legale (dati ufficiali 2017 e primo semestre 2018 della direzione generale di statistica e analisi organizzativa del ministero della Giustizia). L’avvocato Caiazza conclude la nostra intervista definendo “straordinariamente positivo” il bilancio della maratona oratoria: “l’evento ha avuto una ricaduta mediatica e politica senza precedenti. In piazza sono venuti esponenti non solo dell’opposizione ma anche della maggioranza, da ultimo la delegazione di Italia viva, guidata dall’onorevole Maria Elena Boschi. Se non ci fossimo stati noi con questa maratona il tema della prescrizione non sarebbe mai stato percepito nella sua importanza: siamo arrivati ad un passo dalla crisi di governo”. I finti buoni propositi della legge Spazza-corrotti di Felice Besostri Left, 13 dicembre 2019 Da quando è stata approvata la riforma nulla è stato fatto per accelerare i processi. La norma voluta dal M5S, che indebolisce la prescrizione nel processo penale, parte da un’esigenza legittima: garantire la certezza della pena. Peccato che il provvedimento è figlio di mere “scelte d’immagine”. E calpesta diversi articoli della Costituzione. Mi auguro che la mia proposta di un ricorso per l’accertamento del diritto ad un processo in tempi ragionevoli, che tenga conto della presunzione di non colpevolezza e del fine rieducativo della pena, trovi il sostegno dell’avvocatura e dei suoi organismi. Il ricorso è pronto e potrebbe essere presentato anche prima che le norme contestate, quelle che riformano la prescrizione, entrino in vigore il 1° gennaio 2020. Non si tratta di opportunità politica, ma di rispetto della Costituzione. Ma pinna di esaminare i motivi che sorreggono la scelta di elaborare questo ricorso, facciamo un piccolo passo indietro. Mi hanno fissato una risonanza magnetica, importante per la mia salute, presso una clinica privata perché la disponibilità presso una struttura pubblica andava oltre la data già fissata per una visita collegiale di controllo. Con mio sconcerto ho appreso che la struttura in precedenza aveva un altro nome, quello di una clinica dove chirurghi, traditori del giuramento di Esculapio, eseguivano interventi non necessari per bramosia di guadagno ed anche pericolosi, tanto che quattro anziani pazienti avevano perso la vita. Ebbene il processo arrivato per la seconda volta in Cassazione era a rischio di prescrizione per fatti del 2008 e che in appello erano stati sanzionati con l’ergastolo, annullato dalla Suprema corte. Non si può rimanere indifferenti, si può quindi capire che un elementare senso di giustizia provochi disgusto personale ed indignazione popolare. Nel gennaio di quest’anno con la legge n. 3, cosiddetta Spazza-corrotti, la prescrizione era stata di fatto abrogata perché sospesa dalla sentenza di primo grado fino al passaggio in giudicato della sentenza “che definisce il giudizio”, già una prima anomalia perché questa norma ed altre connesse sarebbe entrata in vigore il 1 gennaio 2020, mentre la legge nel suo complesso è entrata in vigore 11 mesi fa. Come al solito il mondo politico e dell’avvocatura si è agitato nell’imminenza della scadenza, in zona Cesarini, per mutuare l’espressione dall’altra grande passione italica, il gioco del calcio. La questione ha acquistato un significato politico strumentale, talmente strumentale che chi aveva approvato le norme nel governo giallo-verde ora critica il governo giallorosa, composto anche da chi, in precedenza, criticava quelle stesse misure. Uno scenario analogo a quello di un’altra sceneggiata, la definitiva approvazione di una drastica riduzione dei parlamentari elettivi da 945 a 600, con il più: elevato rapporto tra abitanti e parlamentari d’Europa, dopo aver avuto quello più. basso. Da un’esagerazione all’altra di segno opposto, come per la prescrizione: dalla prescrizione troppo frequente, addirittura nella fase inquisitoria, alla prescrizione mai, neppure dopo un’assoluzione in primo grado o in appello, in caso di ricorso della procura generale. In questi 11 mesi nessun progresso è stato fatto per accelerare i processi, che pure erano stati preannunciati e che sono imposti dall’art. 111 della Costituzione, che ha recepito la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il quale i procedimenti devono avere una ragionevole durata nell’interesse della società e delle persone coinvolte a qualsiasi titolo, imputati e vittime di un reato, avvocati e pubblici ministeri o giudici. La società si deve difendere dai criminali e la certezza e la tempestività di una pena hanno un effetto deterrente molto maggiore di pene elevate in teoria, ma mai applicate in pratica, le famose grida manzoniane. Noi abbiamo una Costituzione saggia, che recepisce tutti i principi di civiltà giuridica ed è interesse di tutti che siano rispettati, non possiamo sapere cosa la sorte riserbi a noi o ai nostri cari. Tra i principi assumono particolare rilievo quelli enunciati dall’art. 27 della Carta fondamentale: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Viola dunque sia l’art. 3 che l’art. 27 della Costituzione, che la sentenza di primo grado sospenda la prescrizione sia che si tratti di condanna, che di assoluzione, anche nell’ipotesi più ampia per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato. Tra l’altro la sentenza di condanna interrompe la prescrizione, quando si poteva disporre la sospensione a partire dalla conferma della condanna in appello: gli effetti sarebbero stati gli stessi ma senza violare la Costituzione. La funzione rieducativa della pena ha un senso se interviene a breve distanza dai fatti. Se passa un decennio od anche più, o il colpevole ha fatto carriera da criminale e, quindi, non è rieducabile ovvero è diventato un cittadino esemplare: la prima condanna ha raggiunto lo scopo. L’altra vistosa incostituzionalità è che la sospensione, che per definizione è di natura temporanea, non ha un chiaro termine finale, diventa un’abrogazione che non è possibile, perché la prescrizione nel nostro ordinamento giuridico “rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione con formula di particolare ampiezza” (Corte costituzionale, sentenza 115/2018). Per rispetto dell’art. 12 primo periodo delle disposizioni sulla legge in generale, “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Ora, l’intenzione del legislatore di impedire il decorso della prescrizione non consente di alterare il significato proprio della parola “sospensione” e derivati, che indica un arresto temporaneo, che presuppone un termine iniziale e uno finale con una durata temporale definita, per cui non bastano due fatti, se il termine finale non è certo. Tale non è la “data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio”, perché l’eventualità è rimessa alla proposizione di un ricorso, anche nel caso che sia inammissibile, per esempio nel caso di assoluzione per ragioni di merito, come non aver commesso il fatto. Lo stesso termine iniziale non tiene conto dell’ipotesi, che la sentenza di primo grado in appello sia stata riformata per nullità. Un processo rapido - lo ricordiamo - è nell’interesse delle vittime del reato, che hanno diritto ad un giusto indennizzo, che dovrebbe comunque essere assicurato dallo Stato, anche quando esso non garantisce la sicurezza e la celerità dell’azione penale, nonché la ragionevole durata del processo, tanto che ha dovuto dotarsi della legge 89/2001, dal titolo “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile” (cosiddetta legge Pinto). Una dichiarazione d’incostituzionalità rispetto alla norma che elimina la prescrizione avrebbe effetto di abrogazione ex tunc. Il 65% delle prescrizioni si verifica nella fase inquirente e istruttoria, e su questo fronte la nuova norma non pone alcun rimedio: molto più utile sarebbe che la prescrizione decorresse dalla notizia del reato e non dalla data di consumazione. Si tratterebbe poi anche di far rispettare per questa via l’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 della Costituzione e non di lasciarla all’arbitrio dei Pm. Si è ancora in tempo a sottoporre con urgenza la questione alla Consulta, la sua sede naturale: non alle “scelte d’immagine” delle forze politiche. Blocco della prescrizione, una controriforma della giustizia di Alessandro Parrotta* Left, 13 dicembre 2019 È chiaro che l’esigenza di una modifica strutturale delle norme che regolano il sistema giudiziario italiano è priorità da chiunque abbia avuto l’occasione di approcciarsi, anche in maniera occasionale, col sistema giustizia. Ed infatti, sia nell’ambito civile che in quello penale, i problemi sono numerosi e - nella maggior parte dei casi - i medesimi: i tempi, la carenza del personale, la mancanza di strumenti idonei ed all’avanguardia e la commistione della politica nelle scelte dell’organo di autogoverno della magistratura, solo per dirne alcuni. In questo senso, il provvedimento che presenta una serie di preoccupanti elementi di allarme e lacune è rinvenibile nella cosiddetta Legge Spazza-corrotti, che, certamente da un lato ha il merito di aver innalzato le pene per i corruttori, senza tuttavia, dall’altro lato, risolvere nulla sul lungo periodo, anzi. Il passaggio da censurare in questa Legge è senza dubbio quello concernente la sospensione della prescrizione: in particolare, l’art. 1, lett. d), e), f) prescrive sul punto che il corso della prescrizione rimanga sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado (non solo di condanna ma addirittura di assoluzione) o del decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna. È evidente come una soluzione del genere - che dispiegherà i propri effetti dal 1 gennaio 2020 - sia assolutamente inadeguata ed inadatta a diminuire i tempi dei processi e, anzi, pregiudichi irrimediabilmente la posizione giuridica della persona sottoposta a processo penale. Le manifestazioni contrarie sono molteplici ed arrivano da più fronti: la maratona oratoria dell’Ucp (Unione camere penali) di fronte alla Cassazione, presso la quale - tra le tante forze - si è recata una delegazione di Italia Viva, Forza Italia, della Lega e del Pd, oltre all’apprezzabile presenza della senatrice Emma Bonino. Ed ancora la manifestazione promossa da Italia Stato di diritto e dal prof. Marcello Gallo avanti al Palagiustizia di Torino, coi penalisti in toga per dire “no” a quella che più che un passo avanti pare una controriforma. I penalisti, presieduti dall’avvocato Caiazza, hanno anche incontrato l’onorevole Andrea Orlando - vice segretario del Partito democratico - e la senatrice Dem Pinotti, componente della segreteria del Pd per conoscere “i concreti intendimenti del Partito Democratico per impedire che dal primo gennaio 2020 diventi operativa la regola del processo infinito”, come si legge in una nota e nelle agenzie di stampa. Non si dimentichi l’appello rivolto ai Senatori, ai Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia, dai 120 professori universitari di Diritto Costituzionale, di Diritto Penale, di Diritto processuale penale col quale, assieme alla Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane, si è chiesto tecnicamente il blocco della nuova prescrizione. Forse non ci si rende conto: per una lunga fase, la “nuova non prescrizione” dovrà convivere con la disciplina sulla prescrizione introdotta nel 2017 dalla “legge Orlando”, così determinandosi nel sistema la contemporanea operatività di almeno tre diversi regimi sostanziali. Ma ancora di più: dare un “fine processo mai” è sinonimo di assenza di ragionevolezza. Possibile che sia così complicato ipotizzare regole per rendere effettiva la funzione di filtro dell’udienza preliminare (oggi totalmente disattesa, come tale) oppure un rilancio dei riti alternativi con l’innalzamento dei limiti edittali che consentono l’operatività del patteggiamento, estendendone l’operatività; favorire l’accesso al giudizio abbreviato condizionato in modo più snello. Anzi, ridurre i termini di prescrizione piuttosto che eliminarli e sanzionare chi non si allinea ad una “ragionevole durata del processo”. L’assunto logico è semplice: la diminuzione della durata dei processi passa necessariamente attraverso la riduzione del numero degli stessi. E allora, risulta chiaro come una soluzione in questo senso possa essere identificata - in ambito penale - nell’anticipazione della lotta dei fenomeni criminali, soprattutto quelli relativi ai reati societari, nel terreno della prevenzione, al posto di quello della repressione. Un dato è certo: la riforma non è più rimandabile e la prescrizione, come un diamante, va incastonata in una montatura complessa ed uniforme per garantire la sua esatta collocazione. *L’avvocato Alessandro Parrotta è direttore Ispeg, Istituto degli studi politici economici giuridici La prescrizione è la fine dell’ingiustizia del processo di Iuri Maria Prado Il Riformista, 13 dicembre 2019 Ma è possibile che su questa storia della prescrizione nessuno dica la cosa più vera e semplice? È questa: che il processo è un’ingiustizia. È un’ingiustizia necessaria, ma è un’ingiustizia. È un sopruso: inevitabile, ma è un sopruso. È infatti necessario che alcuni siano incaricati di giudicare e sanzionare i comportamenti delle persone, ma questa necessità si soddisfa con un dispositivo di violenza che mette l’individuo in istato di soggezione e lo isola, lo indebolisce e insulta la pace della sua vita. E questo è appunto un sopruso, che inevitabilmente bisogna predisporre perché altrimenti la convivenza civile è impossibile: ma la società che lo predispone e quelli che, con il processo, sono chiamati a realizzarlo, dovrebbero risentire con gravità una specie di colpa nell’essere obbligati a tenere in ordine i comportamenti delle persone usando questo pur necessario strumento di sopraffazione. Chi reclama il diritto dello Stato all’infinità del processo non comprende che in quel modo lo Stato eserciterebbe il potere di infliggere ingiustizia infinitamente, così rendendosi responsabile di un delitto ben più grave rispetto a quello che pretende di punire con una sentenza. Lasciare eternamente impuniti i responsabili di azioni illecite non va bene, questo lo capisce chiunque; ma va anche meno bene pensare di risolvere il problema consentendo che siano eternamente punibili, perché in questo modo si rende perpetua l’implicazione della vita degli individui in un meccanismo di afflizione semmai accettabile a patto che funzioni, e cioè che affligga, per poco tempo. Se per evitare che i responsabili di azioni illecite la facciano franca si escogita di renderglielo impossibile armando lo Stato del potere di processarli e punirli sempre e per sempre, allora si accetta che lo Stato persegua il fine di giustizia tramite un’ingiustizia senza fine. E il popolo in nome del quale si fanno i processi e si emettono le sentenze diventa l’incolpevole esecutore di una immensa e irrimediabile oscenità: un’infinita possibilità di violenza contro sé stesso. È necessario e inevitabile che lo Stato si riservi del tempo per processare e condannare. È cioè necessario e inevitabile che lo Stato sia messo nelle condizioni di poter infliggere l’ingiustizia del processo. In nome dello Stato di diritto, la ragionevole durata dei processi di Maurizio Turco e Irene Testa Left, 13 dicembre 2019 Come Partito Radicale abbiamo deciso di intraprendere Un’azione giudiziaria, concepita dall’avvocato Besostri per la durata ragionevole dei processi. Il ricorso pro bono è quello che, nei paesi anglosassoni, porta nelle aule di giustizia le richieste dei cittadini di avanzare sul fronte delle garanzie; nella penosa condizione in cui versa in Italia lo stato del diritto, siamo costretti ad utilizzare lo strumento per frenare l’ulteriore erosione dei diritti dei cittadini. La roboante affermazione del diritto ad una durata ragionevole dei processi risale al nuovo articolo 111 della Costituzione, modificato nel 1999: ma era un testo introdotto sotto dettatura della Corte europea dei diritti dell’uomo, visto che il diritto è sancito dall’articolo 6 della Cedu già da mezzo secolo. Noi lo abbiamo richiamato nella nostra Carta costituzionale, ma abbiamo continuato a tradirlo, come dimostrano le migliaia di condanne per la legge Pinto. Ebbene, non la moneta di un indennizzo economico, ma l’accertamento di un diritto oggi chiediamo al giudice civile, mediante il ricorso cui invitiamo tutti ad associarsi. Il diritto che chiediamo al giudice di tutelare riguarda ogni fruitore del sistema Giustizia, reale o potenziale: ognuno di noi ha interesse a che la Corte costituzionale si pronunci il prima possibile, per ripristinare il sistema della prescrizione presente nel codice penale e mantenuto in settant’anni di democrazia repubblicana. Pannella diceva che il non luogo a procedere, per superamento del termine di prescrizione, è l’amnistia dei ricchi; oggi, purtroppo, essa riguarda tutti, perché la Giustizia si ingolfa a prescindere dalle tattiche dilatorie degli imputati “eccellenti” e dei loro legali pagati profumatamente. Oggi un indagato non vede la luce in fondo al tunnel e, spesso, cerca di sottrarsi allo stigma sociale patteggiando una colpa non sua o non del tutto sua. Ma questo riguarda anche la persona offesa dal reato, che sempre più spesso vede passare il tempo senza che un accertamento dei fatti lo legittimi a richiedere il sospirato risarcimento del fatto ingiusti subìto in ragione di un reato. Tutti questi cittadini avevano, nella minaccia incombente sul processo a causa della prescrizione, un grande alleato: il giudice che non vuole vedere sfumare il suo lavoro è portato ad accelerare i processi. Senza più lo stimolo ad accelerarli, derivante dal correre della prescrizione, la loro durata si prolungherà all’infinito: dopo il Capodanno 2020, se entra in vigore il testo di Bonafede, il cittadino resterà appeso ad una sentenza destinata a tardare anni; per molti di loro, ciò equivale ad una violazione della presunzione di non colpevolezza, perché soffriranno per anni le conseguenze di un giudizio non ancora definitivo. Per evitare la logica del fatto compiuto, proponiamo di utilizzare la stessa strada con cui l’Italicum fu portato, in pochi mesi, da Besostri al sicuro giudizio di incostituzionalità: il ricorso, con cui chiediamo al tribunale civile di investire la Consulta, invoca l’articolo 111 della Costituzione sull’obbligo di garantire una durata ragionevole ai processi. Questa norma di civiltà, unitamente a tutte le altre che la Costituzione appresta a tutela dei diritti umani, contesta la menzogna, spacciata dal ministro Bonafede, secondo cui l’abolizione della prescrizione penalizza solo gli imputati “eccellenti”. Lo Stato di diritto non si gestisce con la logica del cartello del salumiere: “Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Populismo giudiziario e fondi ai partiti di Carlo Nordio Il Messaggero, 13 dicembre 2019 Nella sua appassionata apologia al Senato, Matteo Renzi ha citato il noto ammonimento dell’onorevole Moro di quarant’ anni fa, che la Dc non si sarebbe fatta processare in piazza. Questa frase peraltro non ha portato fortuna né al suo autore né al suo partito, travolto il primo dall’odio delle Br e il secondo dagli scandali di tangentopoli. Ora, Renzi non è Moro, Italia Viva non è la Democrazia Cristiana, e il terrorismo è finito. Il paragone con Moro, finisce dunque qui. Al netto di questa rievocazione forse troppo audace, l’energica reazione di Renzi contiene un’aspra critica all’uso improprio delle indagini giudiziarie, intese anche come arma per estromettere gli avversari che non si riescono a battere con le elezioni. Ed infatti l’ex premier ha lamentato le ripetute violazioni del segreto d’ufficio, l’uso disinvolto delle intercettazioni e delle perquisizioni, e più in generale la pretesa dei giudici di “decidere che cosa è un partito e cosa no”. Insomma, un attacco in piena regola contro quella che da venticinque anni viene denunciata come un’indebita invasione delle toghe nel campo della politica. Un critico severo potrebbe domandare a Renzi che cosa abbia fatto, quando ne aveva le possibilità, per rimediare a questa anomalia. Una anomalia che su queste pagine denunciamo da anni. Ma sarebbe polemica sterile. Più importante invece è considerare i due punti che lui ha trattato: il finanziamento dei partiti e i limiti della magistratura nel valutarne la provenienza. Il primo punto può riassumersi così: poiché i partiti, anche dopo la cura dimagrante di tangentopoli, sono pur sempre organizzazioni costose, dove possono, o devono, cercare le necessarie risorse? Durante la prima Repubblica si era creduto di risolvere il problema finanziando i partiti in proporzione alla loro rappresentanza elettorale. Ma i contribuiti clandestini erano aumentati, fino provocare la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite. E da allora la nuova etica giustizialista introdusse il concetto che la politica, essenzialmente sporca e vorace, deve essere tenuta sotto tutela dalle Procure. L’errore, o meglio la viltà della politica fu di allinearsi supinamente a questo pregiudizio giacobino, un po’ per paura di una buona informazione di garanzia, un po’ nella segreta speranza cha la disgrazia toccasse a uno scomodo concorrente. Di più: la contribuzione privata ai partiti, ancorché elargita in modo trasparente e legale, fu vista come un sintomo di subdola ambiguità e di inconfessabili intrighi. Ed è questa la prima recriminazione di Renzi: i soldi ricevuti per sovvenzionare le sue iniziative sono tutti - lui sostiene - pubblici e certificati. E poiché fino ad ora non vi è prova contraria, la sua argomentazione è sacrosanta: tuttavia viene vista con diffidenza perché, come si è detto, è minata dal pregiudizio di una qualche potenziale e innominabile cointeressenza. E questo ci porta al secondo punto. In che limiti la magistratura può sindacare questi contributi? La risposta dovrebbe essere semplice: nei limiti del rispetto della legge penale. Ma questi limiti vengono oltrepassati se il magistrato si arroga il diritto di valutare, senza elementi specifici che rivelino una frode, quale sia la valenza politica di una Fondazione. Perché, laddove si ammettesse questa potestà, l’invasione del potere giudiziario nel campo legislativo sarebbe completa e insindacabile, in quanto ogni Procura detterebbe i criteri di individuazione di quegli strumenti associativi, previsti dall’articolo 49 della Costituzione, che sono i partiti. Insomma la Giurisdizione oltre a reprimere la patologia della politica quando i suoi esponenti commettono un reato, dovrebbe anche definirne la fisiologia quando i suoi aspiranti decidono di unirsi in un programma comune. Così attribuendosi, in definitiva, il compito di stabilire chi può fare politica e come deve organizzarsi per poterla fare. Un’eresia che sconcerterebbe non solo Montesquieu, ma qualsiasi persona di buon senso. Ora vedremo cosa faranno i nostri reggitori. Se capiranno questo problema che, indipendentemente dal destino giudiziario di Renzi, li riguarda tutti, e se avranno il coraggio di affrontarlo e la forza di risolverlo, potranno iniziare a riappropriarsi di quelle prerogative tipiche di uno Stato contrassegnato dalla divisione dei poteri. Se invece ancora una volta si ripareranno dietro l’ossequio formale all’indipendenza della magistratura per mascherare la propria inerzia subalterna alle toghe, picconerà ulteriormente quel poco che resta del nostro Stato di diritto, e alimenterà quella generalizzata sfiducia che da tempo allontana i cittadini dalle istituzioni e dalle urne. Marijuana, immagine non registrabile come marchio Ue: è contraria all’ordine pubblico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2019 Tribunale Ue - Sentenza 12 dicembre 2019 nella Causa T-683/18. No alla registrazione come marchio comunitario di un segno che evoca la marijuana. Lo ha stabilito il Tribunale dell’Ue, con la sentenza 12 dicembre 2019 nella Causa T-683/18, chiarendo che un simile segno è contrario all’ordine pubblico in quanto raffigura una sostanza il cui consumo è vietato in numerosi Stati europei. Per il Tribunale infatti il segno in questione sarà percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione che gli alimenti e le bevande menzionati, nonché i relativi servizi, contengono sostanze stupefacenti, illegali in diversi Stati membri, è ciò sufficiente per concludere che detto marchio è contrario all’ordine pubblico. La vicenda - Nel 2016, una cittadina comunitaria ha presentato all’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo) una domanda di registrazione di un segno figurativo che riproduceva in forma stilizzata delle foglie di marijuana con la dizione “Cannabis Store Amsterdam”. L’Euipo però ha respinto la domanda, ritenendo il segno contrario all’ordine pubblico. Contro questa decisione la donna ha proposto ricorso. La decisione - Per il Tribunale tuttavia la foglia di cannabis, unitamente al riferimento alla città di “Amsterdam”, dove la vendita a determinate condizioni è tollerata, ed alla indicazione della parola “store”, produceva nel pubblico l’aspettativa che i prodotti e i servizi commercializzati corrispondessero a quelli offerti da un negozio di sostanze stupefacenti. Pertanto il Tribunale, pur riconoscendo che la canapa non è considerata sostanza stupefacente al di sotto di una certa soglia di tetraidrocannabinolo (Thc), ha dichiarato che, nel caso di specie, grazie alla combinazione di tali diversi elementi, il segno attirava l’attenzione dei consumatori che non sono necessariamente in possesso di conoscenze scientifiche o tecniche precise sulla cannabis. Per quanto riguarda la nozione di “ordine pubblico”, poi, il Tribunale osserva che, anche se, attualmente, la questione della legalizzazione della cannabis a fini terapeutici o anche ricreativi è oggetto di dibattito in numerosi Stati membri, allo stato attuale del diritto il suo consumo e il suo utilizzo oltre una certa soglia rimangono illegali nella maggior parte degli Stati membri. In questi ultimi, quindi, la lotta alla diffusione della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis risponde ad un obiettivo di sanità pubblica. Il regime applicabile al consumo e all’utilizzo di detta sostanza rientra dunque nella nozione di “ordine pubblico”. Peraltro, il Trattato su funzionamento dell’Unione europea (Tfue) dispone che l’Unione completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti. Il Tribunale sottolinea infine che, dal momento che una delle funzioni di un marchio consiste nell’identificare l’origine commerciale del prodotto o servizio, al fine di consentire così al consumatore di fare la propria scelta, il segno in questione incita all’acquisto di tali prodotti e servizi o, quantomeno, ne banalizza il consumo. Il possesso di droga legittima il licenziamento di Giuseppe Bulgarini d’Elci Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2019 Corte di cassazione Sentenza 31531/2019. La detenzione di quantitativi non modici di sostanze stupefacenti, benché intervenuta al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, costituisce giusta causa di licenziamento, perché è richiesto al lavoratore, oltre a un comportamento diligente in servizio, di tenere una condotta extra-lavorativa che non sia tale da compromettere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro. La Cassazione (sentenza n. 31531 del 3 dicembre 2019) precisa che non può essere dirimente, in senso contrario, che la detenzione delle sostanze stupefacenti non sia riconducibile al rapporto di lavoro, in quanto la minaccia potenziale sul futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa che può derivarne è, di per sé, foriera di una irreparabile lesione del vincolo fiduciario. Il caso sottoposto alla Suprema Corte era relativo al licenziamento di un portalettere, che aveva patteggiato una pena di quattro mesi e 800 euro di multa, con beneficio della sospensione condizionale e non menzione nel casellario giudiziale, per detenzione di circa 60 grammi di sostanze stupefacenti. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sul presupposto, tra gli altri, che la misura era sproporzionata, in quanto la violazione di legge si era verificata in un ambito estraneo all’orario e al luogo di lavoro. A ulteriore conferma della illegittimità del licenziamento il lavoratore aveva dedotto che i fatti accertati in sede penale risalivano all’aprile 2014, mentre l’azione disciplinare si collocava nel mese di maggio 2016, ben due anni dopo. Questo dato temporale costituiva, ad avviso della difesa, conferma del fatto che l’illecito penale ascrivibile al portalettere non aveva avuto riflessi sulla prestazione lavorativa. La Cassazione rigetta questa lettura e ribadisce che il possesso fuori dal luogo e dall’orario di lavoro di un rilevante quantitativo di stupefacenti costituisce, di per sé, una condotta socialmente censurabile, tale da violare essenziali principi del vivere civile. A fronte di un illecito di questo tenore, il contenuto delle mansioni del portalettere, che implica un costante contatto con il pubblico e con l’ambiente sociale circostante, risulta incompatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro. Né può avere rilievo, secondo la Cassazione, che il rapporto di lavoro sia proseguito per due anni dopo il compimento dell’illecito, perché alla base del licenziamento si colloca la sentenza di patteggiamento, equiparata a condanna passata in giudicato. Conclude la Cassazione che, in senso contrario, non possono essere richiamate le previsioni sul recupero dei lavoratori tossicodipendenti, per i quali la conservazione del rapporto di lavoro abbia il fine di favorirne la guarigione. In questo caso, infatti, ad avere rilievo non è l’assunzione, bensì la detenzione, di sostanze stupefacenti, per la quale la sanzione del licenziamento costituisce misura assolutamente proporzionata e legittima. Non punibile chi regolarizza le fatture false prima dell’ispezione di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2019 Scatta la causa di non punibilità se il contribuente regolarizza le fatture false ricevute prima di aver avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. È questa una delle novità più interessanti introdotte dalle modifiche al decreto fiscale in tema di reati tributari. In concreto, la vigente causa di non punibilità, già prevista dal Dlgs 74/2000 per i reati di dichiarazione infedele e omessa presentazione (articoli 4 e 5) viene estesa anche ai delitti di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2) e mediante alti artifici (articolo 3). La causa di non punibilità scatterà, nella specie, allorché i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, siano estinti con l’integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso, sempreché la regolarizzazione intervenga prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. L’iniziativa legislativa, in linea di principio, deve essere salutata con estremo favore, in quanto, in buona sostanza, priva della rilevanza penale la regolarizzazione a posteriori dell’illecito ancorché esso sia rappresentato da condotte fraudolenti (utilizzo di false fatture, operazioni simulate ecc.) In concreto però si rischia che tale causa di non punibilità non abbia una effettiva applicazione per una serie di ragioni. Innanzitutto essa scatterà mediante il ravvedimento della violazione ma, sul punto, l’agenzia delle Entrate con un orientamento molto discutibile e singolare (che ora dovrà rivedere) non ammette questa regolarizzazione per le condotte fraudolenti prima fra tutte la dichiarazione che include costi fittizi. Poi vi è la necessità che la presentazione della dichiarazione corretta avvenga prima dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. Ciò nonostante ormai da anni il ravvedimento possa essere eseguito anche successivamente alla consegna del Pvc contenente la constatazione delle violazioni. Inoltre, sorgono seri dubbi sull’interesse concreto del contribuente di sanare la propria posizione illecita benché non veda alcun rischio conseguente alla violazione commessa. Al riguardo è significativo il parere dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione (relazione III/05/2015) quando nel 2015 questa causa di non punibilità venne introdotta per la dichiarazione infedele e l’omessa presentazione. L’alto ufficio rilevava che “per la dichiarazione infedele e omessa esso (il debito tributario) va estinto con il ravvedimento o con la presentazione della dichiarazione omessa, entro il termine di presentazione previsto per il periodo di imposta successivo e l’autore del reato non deve aver avuto conoscenza di controlli o accertamenti. Sul piano pratico, per queste ultime ipotesi è improbabile un’applicazione dell’istituto, potendo difficilmente pronosticarsi comportamenti di “ravvedimento” da omessa/infedele dichiarazione non “sollecitati” dalla conoscenza di accertamenti”. Era certamente preferibile la causa di non punibilità avesse seguito le previsioni vigenti per i reati di omesso versamento. Di sicuro avrebbe comportato un sostanziale abbattimento del numero dei procedimenti penali pendenti ed incentivato il pagamento delle imposte dovute (con positivi risvolti anche per le casse erariali). Per tali delitti (omesso versamento ritenute, Iva, indebita compensazione di crediti non spettanti), la non punibilità scatta, infatti, se il debito tributario compreso sanzioni e interessi venga completamente estinto prima dell’apertura del dibattimento anche mediante le speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. Da ultimo, va segnalato che non è stato incluso nella causa estintiva anche il corrispondente reato di emissione di fatture false: il contribuente che ha ricevuto le false fatture e decide di ripresentare la dichiarazione espungendole dai costi rischia concretamente di denunciare indirettamente colui che le ha emesse. Sardegna. Basentini (Dap): “Solo Sassari idoneo per i detenuti in regime di 41bis” La Nuova Sardegna, 13 dicembre 2019 Gli altri dodici istituti penitenziari che ospitano 41bis sono stati adattati con la conseguenza di non rendere possibili tutte le misure previste da questo regime carcerario. “Le strutture penitenziarie per il regime al 41bis dovrebbero avere una forma e un tipo di ripartizione logistica idonea: si potrebbe immaginare che i detenuti siano in celle tutte sulla medesima fila con di fronte solo il muro. In Italia ci sono 13 istituti penitenziari che hanno il 41bis ma sono tutti adattati successivamente: l’unico che nasce con una vocazione mirata è Sassari. Gli altri come l’Aquila - dove c’è il maggior numero di detenuti al 41bis - nascono come carceri di altro circuito, con file una di fronte all’altra: il detenuto al 41bis si trova di fronte un altro detenuto al 41bis e quindi qualunque forma di comunicazione è possibile tra le due celle. Poi ci anche sono i momenti di socialità, di cui i detenuti hanno diritto anche se si fa una selezione dei gruppi di socialità e poi tutto è osservato”. Lo ha detto - in una audizione sul regime di cui all’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario e le conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte Costituzionale sui permessi premio ai mafiosi - davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Napoli. Garante dei detenuti pregiudicato, Salvini a Poggioreale attacca De Magistris di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 13 dicembre 2019 Torna a Napoli, ma questa volta da leader dell’opposizione. E torna nel carcere di Poggioreale per esprimere vicinanza e solidarietà al corpo della Polizia penitenziaria, all’indomani della discussa nomina di Pietro Ioia a “garante dei detenuti”, formalizzata giorni fa dal sindaco Luigi de Magistris. Sarà un messaggio forte quello che Matteo Salvini lancerà oggi, al termine della visita nell’istituto penitenziario più affollato e degradato d’Italia. Torna a Napoli, ma questa volta da leader dell’opposizione. E torna nel carcere di Poggioreale per esprimere vicinanza e solidarietà a1 corpo della Polizia penitenziaria, all’indomani della discussa nomina di Pietro Ioia a “Garante dei detenuti”, formalizzata giorni fa dal sindaco Luigi de Magístris. Sarà un messaggio forte quello che Matteo Salvini lancerà oggi, al termine della visita nell’istituto penitenziario più affollato e degradato d’Italia. L’ex ministro dell’Interno arriverà alle 11 e varcherà il portone di Poggioreale, dove incontrerà gli agenti della Penitenziaria e il personale amministrativo. Subito dopo terrà una conferenza stampa. Con lui ci saranno i parlamentari napoletani della Lega, oltre all’ex sottosegretario all’Interno Nicola Molteni (attuale commissario della Lega in Campania) e l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. “Pochi giorni fa - si legge in una nota diffusa ieri dalla Lega - il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha nominato un ex recluso di Poggioreale quale “garante dei detenuti per il capoluogo campano”. Si tratta di Pietro Ioia. Una scelta che ha seguito di poche ore un’altra polemica: il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, aveva criticato un video promozionale della Polizia Penitenziaria realizzato con personale in servizio nel carcere milanese di Opera. In entrambi i casi, Salvini ha ribadito il sostegno e la solidarietà alle forze dell’ordine”. Nel carcere di Poggioreale - questo è l’ultimo aggiornamento - il personale è di 822 unità, e i detenuti sono 2.117 a fronte di una capienza di 1.644. Quello napoletano è un istituto che continua a restare sotto i riflettori, soprattutto per le condizioni di sovraffollamento che fa registrare anche presenze di dieci detenuti in una stessa cella. Una situazione esplosiva, come hanno più volte denunciato le principali sigle sindacali degli agenti della Polpen. A lanciare un pesante affondo al sindaco de Magístris ci aveva pensato già ieri il deputato napoletano della Lega Gianluca Cantalamessa, che sul suo profilo Facebook aveva postato l’interrogazione parlamentare presentata al Guardasigilli sul “caso Ioia”. “Questa - scrive Cantalamessa - è l’interrogazione che ho presentato al ministro della Giustizia contro la nomina fatta dal sindaco dell’illegalità”. Ma a polemizzare, questa volta proprio con Salvini, è anche il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca che afferma: “Siccome cambiare la realtà significa lavorare dalla mattina alla notte in un Paese come l’Italia, come può cambiare la realtà uno che produce 200 tweet dalla mattina quando si sveglia a fare colazione, non so se con la Nutella o con i wurstel? Perché secondo me Salvini è uomo da mettere i wurstel nel latte. Ma quando lavora?”. Genova. La nuova battaglia del Pd: “Istituire un Garante comunale dei detenuti” genova24.it, 13 dicembre 2019 In consiglio regionale la proposta di delibera si è scontrata con il veto della Lega, i Dem ci provano comunque a Tursi. Genova. Il gruppo Pd in consiglio comunale ha presentato una proposta di delibera per l’istituzione della figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, o per così dire dei detenuti, del Comune di Genova. “Ci sembra un passaggio opportuno - dice la capogruppo del Pd a Tursi - spesso abbiamo affrontato commissioni consiliari sul tema ma senza mai avere chiaro quale fosse il ruolo dell’ente, invece è previsto dal suo stesso statuto che il Comune debba favorire la rimozione di tutti gli ostacoli che si frappongono all’effettivo sviluppo della persona e all’eguaglia degli individui”. I Dem hanno proposto di istituire questa figura anche a livello regionale visto che la Liguria e la Basilicata sono le uniche due regioni italiane senza garanti dei detenuti. “Se non è possibile averne uno regionale, proviamo ad averne almeno uno sulla città di Genova, visto che abbiamo scoperto che è possibile, come per esempio accade in Piemonte, istituire un garante in ogni Comune dove si trovi la sede di un carcere”. Il garante non si occuperà soltanto delle persone nei penitenziari, ma anche di quelle che hanno altre restrizioni, o quelle soggette a trattamento sanitario obbligatorio, un ambito spesso critico anche sotto il profilo della cronaca: nel giugno 2018 il giovane Jefferson Tomalà venne ucciso durante un’operazione di polizia. La delibera, che disciplina la nomina e i compiti del garante, sarà depositata oggi. “Dopodiché convocheremo le commissioni consiliari dedicate al tema e speriamo di arrivare a breve all’approvazione, questa non è una battaglia politica, è una questione tecnica” afferma Lodi, ottimista sulla possibilità che in consiglio comunale non arrivi il veto del centrodestra come in consiglio regionale dove il 17 dicembre sarà presentato un documento che unisce le proposte di Pd e Rete a Sinistra. “Durante le commissioni che abbiamo svolto in passato sul tema - aggiunge - abbiamo percepito dell’interesse anche da parte della maggioranza e speriamo di poterlo interpretare in maniera positiva”. La figura del Garante delle persone private della libertà, in base alla proposta di delibera del Pd, sarà nominato dal sindaco di Genova e avrà diversi compiti tra cui quello di promuovere l’esercizio dei diritti di queste persone sul piano civile e sociale, momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e forme di volontariato, ma anche il compito di verificare con le autorità competenti eventuali segnalazioni di violazioni dei diritti. Una proposta per l’istituzione del garante dei detenuti era stata presentata per la prima volta in Regione nel 2006, a firma di Cristina Morelli (Verdi) ma non arrivò mai alla discussione in aula. Isernia. Omicidio o malore? Una perizia per risolvere il mistero del detenuto morto isnews.it, 13 dicembre 2019 Il Gup del tribunale pentro ha affidato questa mattina l’incarico a un neurochirurgo e a un medico legale, chiamati ad accertare le cause del decesso di Fabio De Luca. Omicidio o malore? Sarà una nuova perizia a fare luce sul decesso di Fabio De Luca, il detenuto morto nel novembre 2014, mentre era recluso nel carcere di Ponte San Leonardo. Ieri mattina il Gup del Tribunale di Isernia Antonio Sicuranza ha affidato l’incarico al neurochirurgo Ettore Sannino e al medico legale Carmen Semente. La perizia sarà consegnata il 30 aprile del prossimo anno. In Aula si tornerà invece il 7 maggio. Davanti al Gup Aniello Sequino, il 25enne campano, accusato insieme a Francesco Formigli ed Elia Tatangelo dell’omicidio del 45enne. Va avanti il procedimento scaturito a seguito del decesso di Fabio De Luca. La sera del 5 novembre 2014, il 45enne venne portato d’urgenza all’Ospedale Veneziale con pesanti traumi alla testa. Si parlò di caduta accidentale. L’uomo, secondo le ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, che indagò sul caso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in Rianimazione, De Luca morì al Cardarelli, dove nel frattempo era stato trasferito. L’autopsia, eseguita due giorni dopo il decesso, stabilì che le ferite sul corpo di De Luca erano incompatibili con una caduta accidentale. “Trauma cranico multifocale”: fu il responso contenuto nella relazione del medico legale Vincenzo Vecchione. Morte indotta, dunque, forse a seguito di un pestaggio in cella. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili, ora a giudizio. La famiglia della vittima, assistita dall’avvocato isernino Salvatore Galeazzo, è parte civile nel processo e continua a chiedere che venga accertata la verità. Palermo. La buona condotta dei detenuti ripagata dalle celle aperte di Serena Termini Redattore Sociale, 13 dicembre 2019 Trecento reclusi della sezione “Laghi” del carcere Pagliarelli di Palermo per buona condotta si trovano in celle per gran parte del tempo aperte, in un regime di sorveglianza dinamico. Sembrano più sereni degli altri detenuti e riescono a pensare anche a quello che faranno, a fine pena, appena saranno liberi. Sono alcuni tra i 300 reclusi della sezione “Laghi” del carcere Pagliarelli di Palermo che per buona condotta si trovano in celle per gran parte del tempo aperte, in un regime di sorveglianza dinamico. Ai “Laghi” si arriva dopo aver percorso un lungo corridoio e attraversato diverse porte di ferro. Ci sono grate in ferro da ogni parte ed è un continuo aprirsi e chiudersi di porte blindate che, per chi non è abituato a sentirle, dà un forte sensazione di privazione di libertà. Le celle sono da tre letti; hanno un tavolo, un piccolo lavello dove mettere un fornellino per cucinare e un bagno con doccia. Nella “stanza della socialità” alcuni di loro giocano a carte; ci sono solo tavoli e sedie di plastica. Si attende l’arrivo di un televisore. Tranne qualche eccezione in gran parte ci sono tutti ragazzi molto giovani la cui età va dai 23 ai 40 anni. “Manca il biliardino e il televisore come c’è nelle altre sezioni. Sono ai Laghi da tre mesi e speriamo che queste due cose arrivino al più presto perché ne abbiamo bisogno - dice G. che ha 29 anni. Rispetto alla sezione a circuito chiuso, qui è tutta un’altra cosa perché gli orari di apertura e chiusura delle celle sono molto elastici. Tutto è basato sul rapporto di fiducia tra noi e la polizia che non è per niente invadente. Il rapporto tra di noi è anche molto tranquillo. Siamo anche agevolati nei colloqui con le nostre persone più care”. “Abbiamo le docce con acqua calda. Siamo qua perché ce lo siamo meritati - dice A. di 30 anni. Pur essendo sempre un carcere, avere però la possibilità di muoverci autonomamente non è poco. Una cosa positiva è che ai ‘Laghi’ si rispetta l’orario di riposo dalle 15 alle 16 diversamente dalle altre sezioni che sono decisamente molto più rumorose. In questi giorni aspetto di essere chiamato per lavorare dentro il carcere come muratore perché è questa la mia professione”. “Sono ai Laghi da sei mesi - aggiunge C. di 26 anni -. La cosa davvero assurda del sistema italiano è la lungaggine dei processi che penalizza tutta la nostra vita. Io sto scontando una pena per un reato risalente a 10 anni fa, per cui oggi sono una persona completamente diversa. Con la carcerazione ho dovuto lasciare il mio lavoro di cameriere messo in regola, chissà se dopo, lo ritroverò. In carcere ci sono tante proposte di corsi di formazione professionale e di lavoro interno ma ce ne dovrebbero essere ancora di più per permettere a tutti di partecipare sempre e non solo a rotazione”. Ai “Monti”, invece, c’è la sezione dedicata alle 91 donne. In piccolo anche nella sezione femminile c’è quella dedicata alle detenute per buona condotta come ai “Laghi”. La presenza delle donne rende, già a prima vista, gli ambienti comuni più curati e gradevoli. Le celle aperte sono tutte molto ordinate e piene di foto appese di figli, mariti e genitori. Incrociamo delle donne che si ritirano dopo i colloqui con i familiari: sguardi molto diversi, alcuni soddisfatti altri tristi, qualcuno piange. Incontriamo una ragazza che attende pensierosa di essere chiamata per parlare con un suo familiare. “Aspetto di fare il colloquio con la mia famiglia - dice M. di 31 anni. In carcere, per impiegare il tempo, sto facendo un corso di chitarra e aspetto di potere fare quello per pasticcera. Ho tre figli piccoli e spero tanto di avvalermi delle leggi a mia disposizione per avere la possibilità di vederli di più. Mio padre è morto e mia madre sta molto male per questo sono in attesa di avere sue notizie”. Nello spazio comune l’atmosfera che si respira è molto tranquilla. “In carcere per la prima volta ho scoperto che la libertà è il dono più prezioso della vita. I miei genitori sono malati e non ho colloqui da due anni perché gli altri miei familiari vivono tutti in provincia di Catania. Ho completato il corso di pasticcera con il maestro Cappello - dice M. di 42 anni - dove ho imparato a fare piatti dolci e salati della cucina siciliana. Adesso, non mi sembra vero perché, fra alcuni giorni, in regime di semilibertà, uscirò da sola per fare il tirocinio presso un tennis club in modo da prendermi l’attestato per potermi aprire in futuro un’attività”. La distanza dagli affetti è una sofferenza comune a molte di loro. “Sono mamma di tre figli e nonna di 8 nipoti - dice F. di 53 anni. Il mio desiderio è quello di potere rivedere i nipotini al più presto. Vorrei anche trovare un lavoro dentro il carcere. I miei familiari sono di Ragusa e non vengono a trovarmi. Vorrei un trasferimento a Catania per avvicinarmi a loro”. “Sono di Parma e al Pagliarelli mi trovo bene - racconta M di 54 anni. Purtroppo ho i miei familiari lontani con cui posso parlare solo al telefono. Ho partecipato a tanti corsi e tra questi quelli di riflessologia plantare, di pasticceria e di taglio e cucito. Quella che mi sta dando però tantissimo dal punto di vista umano e spirituale è la partecipazione alla produzione delle ostie che poi distribuiamo nelle chiese. Questo servizio di volontariato ha accresciuto tanto, infatti, il mio cammino di fede, restituendomi quella pace interiore che riesce, nonostante tutto, a farmi stare bene. La serenità di questo mio periodo di carcerazione vorrei tanto riuscire a trasmetterla ad altre detenute che non sempre ce l’hanno”. C’è, poi, anche, chi lamenta di essere fortemente penalizzato dalle negligenze burocratiche. “Nonostante debba scontare ormai poco - si sfoga S. di 57 anni - non riesco ad avere gli arresti domiciliari dallo scorso settembre. La mia richiesta è stata più volte rimandata sempre con la motivazione che manca l’assegnazione dell’assistente sociale dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Trapani dove ho casa. È possibile mai che devo ancora aspettare per un mio diritto?”. Torino. Certificazione Cambridge Preliminary per 9 detenuti di Monica Coviello vanityfair.it, 13 dicembre 2019 È la prima volta che succede: dopo un corso di 64 ore, si è tenuta la prima sessione di esami e a dicembre sono stati consegnati i diplomi. Impiegare il tempo passato in carcere per riscattarsi, esercitare il diritto allo studio, ricostruire la fiducia in sé stessi e negli altri, lavorare sul proprio futuro. Da tempo i penitenziari danno la possibilità ai detenuti di poter studiare e conseguire un titolo di studio che potrà tornare utile una volta che la pena a cui sono stati condannati sarà stata scontata. Ma è la prima volta che vengono consegnati diplomi per la certificazione della lingua inglese in carcere. È successo nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, dove il 3 dicembre si è svolta la cerimonia di consegna dei diplomi di certificazione Cambridge Preliminary (Cambridge B1 - Preliminary PET), ottenuti dai nove detenuti che hanno partecipato al progetto “La certificazione linguistica internazionale in carcere: a change for the better”, il primo corso in Italia rivolto alla preparazione per la certificazione della lingua inglese in carcere. Il progetto è cominciato il primo marzo: il Centro Cambridge English Assessment ha verificato la possibilità di eseguire una sessione d’esame in carcere e, dopo un corso di 64 ore, il 15 giugno si è tenuta la prima sessione di esami Cambridge Preliminary in una scuola in carcere. “Si tratta di un progetto pilota davvero unico e ambizioso per il contesto in cui si è svolto. In primo luogo gli studenti hanno saputo vedere nel corso e nella certificazione internazionale un’opportunità per poter entrare nel mondo del lavoro senza pregiudizi, considerandone la spendibilità una volta finito il percorso di detenzione”, spiega la professoressa Rosa Scimone, referente del progetto. “In più hanno colto il valore di questa iniziativa come una forma di controllo attivo sulla propria vita: dalla consapevolezza della condizione ristretta alla proiezione di un futuro di reinserimento socio-lavorativo, favorendo la percezione dell’utilizzo del tempo in carcere come tempo della ricostruzione dell’io sociale e del sé interiore. Inoltre, molti studenti hanno riferito di aver apprezzato l’aspetto riempitivo e distraente del corso, che è diventato un’opportunità per alimentare la mente”. La certificazione Cambridge English, rispetto ad altre certificazioni linguistiche, è valida per sempre: potrà rappresentare uno strumento spendibile nel curriculum futuro dai detenuti. Bologna. Formazione dei volontari che operano presso il Polo Universitario Penitenziario unibo.it, 13 dicembre 2019 Sono sempre di più i detenuti che decidono di studiare e iscriversi all’Università di Bologna, come anche le attività di Ateneo con il Pup. Dall’a.a. 2020/2021, i docenti e studenti impegnati nel progetto, secondo la proposta presentata al Senato accademico, potranno usufruire di corsi di formazione organizzati dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione, di Scienze Politiche e Sociali e di Scienze Giuridiche dell’Alma Mater. Sono sempre di più i detenuti che decidono di studiare e iscriversi all’Università di Bologna e grazie agli accordi presi, a partire dal 2014, tra l’Ateneo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Direzione della Casa Circondariale di Bologna ed Ergo, si è costituita la Sezione Universitaria all’interno della Casa Circondariale di Bologna. Nell’ambito di questa iniziativa, ieri, in Senato Accademico è stata presentata la proposta, che verrà poi discussa in Cda, avanzata dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, per la formazione dei volontari che operano presso il Polo Universitario Penitenziario, a cui fornire maggiori strumenti conoscitivi e di consapevolezza del contesto in cui operano e valorizzare la figura del volontario in carcere nell’ambito del Pup e in particolare dello studente volontario. I docenti - universitari e non - in ruolo o in pensione, gli studenti universitari e appartenenti ad associazioni autorizzate ad operare all’interno dell’Istituto, potranno quindi seguire dei corsi di formazione di base, dall’a.a. 2020/2021, e potenziare le competenze trasversali personali, sociali e civiche, approfondire la conoscenza del funzionamento e dell’organizzazione del Pup, favorire la condivisione di esperienze e prassi per creare un gruppo di lavoro coeso, con un linguaggio comune, sebbene composto da attori provenienti da diverse realtà associative e non. Opera (Mi). Fondazione per Leggere potenzia l’offerta culturale per i detenuti sempionenews.it, 13 dicembre 2019 Leggere è un’attività che pare che gli italiani siano oramai da tempo trascurando. Ma ci sono, come sempre, ottime eccezioni. È il caso di Fondazione per Leggere e della Casa di Reclusione di Opera. I due soggetti, infatti, hanno appena siglato un accordo triennale per potenziare l’offerta culturale destinata ai detenuti. I libri ci fanno viaggiare nel tempo. Durante la lettura ci isoliamo e, almeno per un po’, è come se ciò che abbiamo attorno fosse diverso. Ci fanno ridere, commuovere, sognare… Ci fanno vivere avventure incredibili… Spesso sono un ottimo rimedio a qualche conversazione scomoda. Leggere le storie altrui è un buon modo per mettere da parte per un po’ le proprie, a volte angosciose, per poi tornarci vedendole con un nuovo punto di vista. è stato istituito un rapporto triennale tra il sistema bibliotecario di Fondazione Per Leggere e la biblioteca all’interno dell’Istituto penitenziario di Milano-Opera. Tale rapporto integra e migliora le varie collaborazioni attive tra l’istituto e Associazioni, Enti, Istituzioni e personalità del mondo della cultura che già promuovono e realizzano iniziative culturali e socio culturali volte al miglioramento delle condizioni dei detenuti. Si vuole promuovere la lettura favorendo la massima accessibilità dei detenuti alla biblioteca. Il Servizio è garantito da un bibliotecario lavorante e più volontari operanti nella Biblioteca Centrale. Alla biblioteca vengono destinati ampi spazi: l’area Sezione Osservazione (Nuovi Giunti) Biblioteca Centrale e l’Area Verde di Lettura accanto alla Biblioteca Centrale, l’area Biblioteca presso il Centro Diagnostico Terapeutico. Il personale della Fondazione che opera nell’Istituto contribuisce alla gestione delle attività di prestito, con particolare riferimento a quello inter-bibliotecario con le altre biblioteche del territorio, ampliando così il patrimonio documentale. I detenuti lavoranti che collaborano a tali attività sono selezionati dalla Direzione di concerto con Fondazione. La biblioteca fruirà di tutti i servizi e delle risorse, umane, economiche, professionali, di coordinamento funzionale, attività e consulenza tecnico-biblioteconomica e supporto tecnologico per la informatizzazione di Fondazione per Leggere. Il personale della Fondazione, in accordo con la Direzione dell’Istituto, promuoverà lo sviluppo del servizio e fornirà ai detenuti il supporto per l’apprendimento di tecniche di organizzazione e di gestione di una biblioteca e di catalogazione e trattamento delle opere presenti nelle raccolte. L’Istituto e Fondazione per Leggere hanno elaborato congiuntamente un moderno regolamento per la fruizione del servizio (modalità di consultazione, prestito, eventuali altri servizi). Il libro è la chiave dei pensieri. Insomma pochi minuti, un buon libro tra le mani e siccome “i libri sono una vera forma di evasione”, con la cultura siamo più liberi. Tutti. Enna. Laboratorio di benessere psicofisico per i detenuti di Nuccio Sciacca lasiciliaweb.it, 13 dicembre 2019 Le attività si sono svolte nella casa circondariale “Luigi Bodenza”. “Educazione alla legalità e benessere psicofisico” è il progetto che ha avuto come obiettivo quello di interessare i diversi ambiti della vita dell’uomo coinvolgendo, nelle diverse iniziative, i detenuti. All’interno di uno spazio chiuso e disciplinato da severe norme regolamentari, i detenuti tendono ad annientarsi e a non riconoscere più il valore della propria persona. Il peso degli errori commessi può essere così ingombrante da spegnere l’entusiasmo di vivere. Questo progetto ha voluto stimolare ed educare i detenuti, attraverso attività mirate, affinché potessero ritrovare il benessere psicofisico e ricordare che ogni uomo ha un valore e può avere il suo riscatto sociale. I laboratori organizzati con e per i detenuti hanno coinvolto molte figure professionali e anche i familiari degli stessi detenuti. Nei laboratori si acquisiscono competenze e si conquista la soddisfazione di scoprire quanto si è abili e capaci. Si è voluto porre particolare attenzione ai bisogni della persona, in un clima di rispetto reciproco, ottenendo così ampia adesione da parte dei detenuti alle attività aggregative organizzate. Il tutor Massimiliano Palillo, per Avis Comunale di Enna, ha curato il “Laboratorio di Benessere Psicofisico” per promuovere salute e benessere grazie ai benefici dell’attività fisica. Riuscire a catturare l’interesse dei detenuti coinvolti non è sempre agevole. Si è cercato, quindi, di strutturare il laboratorio in attività divertenti, a tratti ludiche, così che venissero percepite come un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato di salute psicofisica ma anche al miglioramento delle relazioni reciproche all’interno dell’istituto. Tutti i laboratori si sono svolti presso la casa circondariale “Luigi Bodenza” di Enna grazie al finanziamento della Chiesa Valdese, l’Ong Luciano Lama ente capofila e al partenariato con l’associazione culturale “Innova Civitas”, il Movimento Difesa del Cittadino e l’Avis di Enna. Saluzzo (Cn). Con sfide e speranze dalle carceri si alza il sipario su “Destini incrociati” cuneocronaca.it, 13 dicembre 2019 Inaugurato ieri, giovedì 12 dicembre, alle 10, presso la Castiglia di Saluzzo (piazza Castello), la VI edizione di “Destini incrociati”, rassegna nazionale di teatro in carcere, che per la prima volta viene ospitata in Piemonte nel territorio della provincia di Cuneo. Il programma si svolgerà nelle giornate di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 in diverse location a Saluzzo (la Castiglia, il teatro civico Magda Olivero, l’Antico Palazzo comunale e la casa di reclusione “Morandi”), con un’incursione a Savigliano, dove è previsto un appuntamento al teatro Milanollo. Fulcro della rassegna sono gli spettacoli portati in scena dai gruppi di detenute e detenuti provenienti da case circondariali e di reclusione di tutta Italia - Cosenza, Livorno, Pesaro, Saluzzo - a cui si aggiunge la performance dei pazienti della struttura Rems di Bra. Il programma propone inoltre alcuni incontri di approfondimento, percorsi di avvicinamento per gli studenti, seminari. Una speciale sezione è dedicata ad una rassegna di quindici video prodotti a partire da laboratori teatrali condotti in altrettanti istituti carcerari, compresi due contesti dell’area penale minorile. In Redemption day, detenuti provenienti da Cosenza raccontano della possibilità di sconfiggere la paura e di maturare l’autostima e la consapevolezza necessarie al reinserimento e all’inizio di una vita nuova. Di seconda possibilità, di sfide e di speranza tratta anche l’atto unico “Game over” della Compagnia Teatro e Società di Torino, che acquista particolare significato in quanto promosso dal Fondo Musy, creato dalla moglie di Alberto Musy, Angelica, per sostenere chi in carcere ha deciso di dedicarsi agli studi universitari. Per Radio Rems, invece, saliranno sul palco i pazienti della Rems di Bra con uno spettacolo che elabora, sotto forma di manifesto e di risa, gli spunti nati dalle attività di improvvisazione teatrale, fino ad arrivare a proporre una “radio dal di dentro per chi ascolta dal di fuori”. La malattia mentale è centrale anche nello spettacolo del Gruppo Teatrale Stranità di Genova Sintomatologia dell’esistenza. Un Dsm per medici e poeti in cui un gruppo composto da persone seguite dalle strutture per la salute mentale, volontari, operatori socio-sanitari ed alcuni attori professionisti mettono in scena uno spaccato del mondo della psichiatria visto dal suo interno, presentandone il dietro le quinte. La rassegna proporrà anche il video dello spettacolo realizzato dalle attrici detenute dell’Istituto Pagliarelli di Palermo: nello spettacolo In stato di grazia, liberamente ispirato al romanzo di Dacia Maraini “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, la voglia di libertà e di conoscenza a cui Marianna dà sfogo attraverso i libri diventa metafora del percorso di formazione all’espressione teatrale vissuto dentro il carcere. Anche in “Errando. Dal laboratorio al palcoscenico”, performance dei detenuti del Morandi di Saluzzo, si racconta del significato e del senso più profondo che l’esperienza teatrale rappresenta per il detenuto. Infine, anche il corpo è utilizzato come strumento di rinascita e riscatto: i detenuti provenienti da Livorno, insieme con due attrici e a alcune danzatrici, portano in scena “Un tuffo al cuore”, in cui raccontano attraverso alcune lettere dal carcere destinate a figure femminili l’attesa, la distanza, i sentimenti e le emozioni dei reclusi. In “Rugby. Corpo a corpo”, invece, gli attori e le attrici del carcere di Pesaro, prendendo spunto da un inedito connubio tra il gioco del rugby e la poesia di Cesare Pavese, arrivano a immaginare il vissuto dei protagonisti come persone che si giocano i loro sogni, nel ricordo di una vita all’interno di una comunità a cui sentono di voler appartenere. La rassegna si colloca nell’ambito del progetto nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati” con il contributo del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo ed è promossa in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, con capofila l’Associazione Teatro Aenigma. Per informazioni e prenotazioni (ingresso spettacoli 5 euro, studenti gratuito) visitare il sito internet www.vocierranti.org o telefonare al numero 340.3732192. Genova. Violenza sulle donne: i detenuti mettono in scena le proprie “Emozioni recluse” di Medea Garrone lavocedigenova.it, 13 dicembre 2019 I detenuti di Pontedecimo andranno in scena con “Emozioni recluse” il 19 dicembre al Teatro dell’Arca. Abbiamo parlato dello spettacolo, e soprattutto del loro percorso di riabilitazione, con il direttore del Teatro dell’Ortica Mirco Bonomi. “Sono innocente a prescindere”. Lo dice chi è colpevole e si è macchiato di violenza. Sulle donne. Inizia così lo spettacolo “Emozioni recluse”, un viaggio interiore, ma anche un percorso di recupero sociale ed emotivo, che i sex offenders stanno compiendo (dentro e fuori dal carcere) grazie al progetto Amal, portato avanti dal Teatro dell’Ortica di Genova, che, come sempre, coinvolge direttamente chi è parte del problema - vittima o carnefice come in questo caso - attraverso il palcoscenico, che si trasforma in una sorta di setting psicoanalitico. Ed ecco quindi andare in scena, dopo “Amori di sola andata” e “Ring”, i detenuti del carcere di Pontedecimo, protagonisti dello spettacolo che si terrà il 19 dicembre al Teatro dell’Arca, nel carcere di Marassi, alle 21. Abbiamo parlato col direttore del Teatro dell’Ortica, Mirco Bonomi, di questo lavoro, svolto insieme alla cooperativa “Cerchio delle relazioni”, che diventa un percorso tra le emozioni “recluse” di sedici uomini che cercano la strada per comprendere le proprie colpe e da lì ripartire. Che tipo di lavoro è stato fatto per il teatro e che tipo di percorso hanno intrapreso i sex offenders? Questo lavoro fa parte del progetto Amal, sostenuto dal Fondo sociale europeo e dalla Regione, portato avanti dal Teatro dell’Ortica insieme alla cooperativa il “Cerchio delle relazioni”; si tratta di un percorso che i detenuti compiono con una psicologa e un educatore, che operano rispetto alle emozioni che i detenuti hanno provato e provano. Ed è quello che si fa anche in teatro, dove si parte da sentimenti quali paura, spavento, tristezza o felicità, cercando di fare esprimere i sex offenders sulle sensazioni vissute. Da qui anche il nostro spettacolo “Emozioni recluse”, che gioca sul doppio senso del termine, e che narra una storia collettiva, attraverso momenti di coralità fisica, ma anche momenti individuali, come sono i monologhi. Che cosa rappresenta il teatro per i detenuti? Il teatro è l’occasione che hanno di esprimersi: c’era chi inizialmente era come catatonico, mentre oggi è protagonista sulla scena, perché prova a mettersi in gioco. Inoltre c’è anche chi ha scoperto nuovi talenti, quindi aspetti positivi da trasferire altrove un domani. L’obiettivo del teatro sociale, in cui la parte artistica viene fuori, è quello di far sì che le persone possano crescere e stare meglio, così da raggiungere un benessere personale, che diventa anche collettivo, perché non siamo Monadi, ma soggetti in relazione con gli altri. E lo spettacolo sarà l’occasione per confrontarsi con questa realtà. Che tipo di uomini sono i sex offender di questo progetto? Spesso mi sembrano persone come tante, e quindi caratterizzate da una normalità che spaventa, perché fa riflettere su come tutti noi possiamo cadere nel vortice: il sex offender può essere un ingegnere, un giornalista o un operaio, non è il delinquente abituale, che spaccia o ruba, ma il nostro vicino di casa o un parente. Quanti uomini sono coinvolti nello spettacolo? Inizialmente 16, ma in scena saranno 10, compresi due attori veri, che sostituiscono chi non si è sentito di salire sul palco. Per quali reati sono in carcere? Prevalentemente per violenze e maltrattamenti, e forse c’è anche qualche stupro, ma non ho voluto saperlo nel dettaglio, perché temevo il pregiudizio: il rischio è di non lavorare con naturalezza col gruppo. Come vivono, oggi, gli atti di violenza che hanno commesso? In modo diverso, a livelli differenti; alcuni lo stanno vivendo come una grande possibilità di poter fare autocritica. Qualcuno non voleva farlo temendo di essere riconosciuto, una volta fuori, ma poi ha accettato. Sono percorsi che devono avere tempi lunghi, in cui ognuno si mette in gioco come può, ed è come andare in terapia. In questo senso il teatro è un modo per veicolare, anche indirettamente, determinati sentimenti e sensazioni, ed esprimersi senza farsi distruggere dal male: quando si sente la propria colpa si può esserne distrutti, mentre con questo tipo di percorso ognuno può esprimere dolore, ma anche cercare di provare empatia verso la vittima, riconoscendosi colpevole e mettendosi nei panni dell’altro. Nello spettacolo si inizia dicendo ‘sono innocente a prescinderè e si finisce, invece, con esprime le proprie emozioni. Si tratta di un processo che si mette in atto, che può continuare o meno, ma quello che è certo è che, laddove non si interviene la recidiva negli uomini maltrattanti è altissima. Se invece si interviene con percorsi di coinvolgimento, coscientizzazione e ridefinizione di sé, nel tempo il dato cala drasticamente: dal 90-80% al 20-30%, secondo le statistiche; il recupero va fatto anche con chi è violento, e non solo con le donne vittime, perché se non lavoriamo sugli oppressori, il fenomeno non può cessare d’esistere. E dopo il progetto cosa fanno? Questo tipo di lavoro presuppone una continuazione: è importante che i sex offenders - come anche gli altri detenuti - non siano abbandonati a sé stessi, ma che il percorso prosegua. Per esempio, infatti, nello spettacolo ci sarà un attore che è uscito dal carcere, ma che continua a lavorare con noi. Bisogna eliminare dalle persone quella rabbia che le ha portate a commettere atti disgustosi, che ogni giorno aumentano e che ci danno il senso di una violenza terribile, ma anche di uno stato di malessere che, se non riusciamo a controllare, sfocia, appunto, nel dramma. Il rapporto che questi uomini hanno con i figli e i familiari cambia dopo questo percorso? Ovviamente è molto soggettivo; sappiamo di alcuni del gruppo attuale che hanno avuto il permesso di rivedere i figli: sono momenti importanti per loro, e cercare di ristabilire delle relazioni nel cambiamento e nella diversità che si verifica, vuol dire che, a partire anche dal riconoscimento del danno causato, si cerca di avere la possibilità di rifarsi, il che non significa che tutto torni come prima, ma che è in atto un percorso che, a partire dalla pena, deve poi arrivare alla riabilitazione. Possiamo dire che anche il vostro è un percorso teatrale che continua: dal 2017 con “Amori di sola andata” a “Emozioni recluse”. Sì, inizialmente era uno spettacolo recitato da attori e attrici e tratto dal libro di Alessandra Pauncz, la psicoterapeuta che ha aperto a Firenze il primo centro in Italia per gli uomini maltrattanti (Cam); “Amori di sola andata” era itinerante su treni e bar, poi è diventato uno spettacolo canonico, e da lì è nata successivamente l’idea del teatro sociale, che ha come protagonisti coloro che sono direttamente dentro al problema. Quindi nel 2018 ne è seguito lo spettacolo “Ring”, realizzato in carcere con l’associazione White Dove, e quest’anno “Emozioni recluse”, in collaborazione col Centro Antiviolenza Mascherona “. Infatti, come abbiamo fatto con i gruppi misti di donne - in “Rap Vaginistico” - così lavoriamo con i centri antiviolenza di Genova e della Liguria, cui forniamo il know-how teatrale. Napoli. “ArtigiaNato in carcere”: la IX edizione della mostra-mercato napolicittasolidale.it, 13 dicembre 2019 Sabato 14 dicembre 2019, dalle ore 9.00 alle 17.00, presso la Galleria Umberto I° di Napoli, si terrà la IX edizione della mostra-mercato “ArtigiaNato in Carcere”, promossa dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, in collaborazione con il Centro per la Giustizia Minorile e di Comunità, il Garante per i Detenuti della Regione Campania, l’Associazione “Il carcere possibile o.n.l.u.s.” e con il patrocinio del Comune di Napoli. Per il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, dr. Antonio Fullone: “la manifestazione propone l’esposizione dei manufatti e prodotti artigianali realizzati negli Istituti Penitenziari della Regione, coinvolgendo anche le Cooperative e le Associazioni di volontariato operanti negli Istituti e i detenuti impegnati direttamente nelle lavorazioni. Obiettivo principale dell’iniziativa è sensibilizzare l’opinione pubblica dando visibilità alle tante attività laboratoriali che i detenuti svolgono all’interno degli Istituti, unitamente all’impegno dell’Amministrazione Penitenziaria nel garantire l’esecuzione della pena nell’ottica della rieducazione e del reinserimento sociale attraverso il lavoro e la formazione professionale.” Sono previsti momenti d’intrattenimento e di richiamo per il pubblico e uno spazio per gli interventi istituzionali: dalle ore 09.30 è programmato l’arrivo delle autorità e l’esibizione del Coro dell’I.C. “28 Giovanni XXIII-Aliotta” e del coro scolastico dell’I.C. Statale “Don Milani - Aliperti” di Marigliano. Alle ore 11.00, l’intervento del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello e l’esibizione della cantante Monica Sarnelli, precederà la Banda musicale della Brigata Meccanizzata “Aosta” e la Fanfara del 10° Reggimento Carabinieri che suoneranno brani celebri. Alle ore 12:00 l’intervento del sindaco, Luigi De Magistris, sarà accompagnato dall’aperitivo offerto dall’Associazione “Scugnizzi” e dai ragazzi di Nisida. Alle ore 15:00 l’Unità Cinofila della Polizia penitenziaria effettuerà una dimostrazione pratica con i cani antidroga. Alle 16.00 la corale “Libentia Cantus” di Ercolano chiuderà la manifestazione, augurando buone feste con medley di canti natalizi. Per il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello:” negli anni questa manifestazione è diventata fortemente motivante per tutti gli operatori coinvolti, oltre ad essere un’occasione di incontro e verifica con la rete territoriale, contribuendo a rafforzare i rapporti ed a favorire nuove sinergie e progetti, grazie al lavoro di tutti gli operatori coinvolti che, con grande sensibilità e generosità, hanno reso questa manifestazione un esempio concreto del “fare rete”, contribuendo al dopo e fuori del carcere e prevenendo così la recidiva per molti diversamente liberi”. Siracusa. “Le dolci evasioni” della Casa circondariale di Cavadonna di Wilma Greco Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2019 Sedici anni fa, un gruppo di giovani siracusani decide di costituirsi in cooperativa sociale, scegliendo come nome “L’Arcolaio”, ispirato agli insegnamenti del Mahatma Gandhi, che fece di questo strumento tradizionalmente utilizzato per dipanare le matasse e tessere il cotone, un simbolo di operosità quotidiana e libertà, invitando alla riscoperta dei mestieri tradizionali, all’utilizzo coerente delle ricchezze della propria terra, nonché al dono dell’energia creativa di ognuno in favore degli altri. Obiettivo della cooperativa è quello di favorire il reinserimento socio-lavorativo delle persone ristrette negli Istituti di Prevenzione e Pena e altri gruppi vulnerabili. Dalla tradizionale pasta di mandorla ai golosi canditi ricoperti di cioccolato, dallo stuzzicante pomodoro ciliegino essiccato allo sciroppo di carruba dei nostri nonni, dai sali con le erbe dei monti Iblei al preparato per il latte di mandorla più profumato della Sicilia: tutti i prodotti dell’Arcolaio sono realizzati con ingredienti biologici certificati di altissima qualità, provenienti da reti collaborative di piccoli agricoltori locali e dal commercio equo e solidale (lo zucchero di canna, ad esempio), come segnale della dimensione planetaria della solidarietà. L’Arcolaio ha anche recuperato nel corso degli anni, 13 ettari di terreni incolti sui Monti Iblei, dove ora giovani immigrati, in totale simbiosi con la natura, accudiscono e raccolgono manualmente erbe aromatiche mediterranee, quali il timo, la salvia, il finocchietto, l’origano. Nel laboratorio allestito a pochi chilometri di distanza le erbe vengono essiccate e confezionate, insieme a ortaggi e frutta provenienti da piccoli agricoltori locali. Il laboratorio dolciario, meglio noto come biscottificio anche se non solo biscotti produce, si trova all’interno della Casa Circondariale Cavadonna di Siracusa. Da qui il marchio “Le dolci evasioni”, distribuito in Italia e all’estero attraverso i negozi specializzati di biologico, le botteghe del commercio equo e i gruppi di acquisto solidale, per “sprigionare” sapori e persone. Ho visitato per tre giorni il laboratorio di “Le dolci evasioni” nella Casa Circondariale, ho chiacchierato con gli addetti ai lavori, ristretti e non, assaggiato dolci e latte di mandorla, partecipato alla produzione e respirato aria di libertà. Un laboratorio in cui in estate il caldo è torrido, in inverno il freddo insopportabile; eppure tutti sono contenti. Bruno e Salvo sono gli operatori dell’Arcolaio; non sono pasticceri di professione ma hanno imparato insieme ai detenuti, e con loro sperimentano e si sperimentano ogni giorno. In carcere, più che altrove, c’è un grande bisogno di coerenza e di testimonianze di vita molto forti: se riesci a essere testimone vero di ciò in cui credi, puoi anche attivare negli altri processi di revisione critica del proprio vissuto, necessari per intraprendere un percorso nuovo. Perché ognuno di loro “è molto più del suo errore”: qui ne sono tutti convinti. Ecco che Bruno e Salvo, insieme agli altri responsabili (di produzione, logistica, qualita? e acquisti), si fanno “accompagnatori” degli “invisibili” - non visti e ignorati dalla società “oltre le mura” -, per restituire loro dignità attraverso il lavoro. Nel laboratorio i detenuti acquisiscono reali competenze professionali, dalla preparazione del prodotto dolciario al confezionamento. Hanno un ritorno economico necessario per il sostentamento della famiglia. Conquistano la piena dignità di lavoratori, avendo riconosciute tutte le tutele previste dal contratto nazionale di lavoro delle cooperative sociali. Per alcuni, questa con L’Arcolaio è la prima esperienza di lavoro in un quadro di legalità, dove sono chiamati ad esercitare diritti e doveri. Particolare attenzione viene posta ai bisogni della persona, in un clima di rispetto reciproco, ottenendo l’adesione convinta dei detenuti ad una proposta lavorativa impegnativa ma anche molto gratificante. Yay, 22 anni, egiziano, ristretto da quasi 4 anni, da 2 lavora al biscottificio. Di Bruno e Salvo dice che gli hanno salvato la vita; hanno ricostruito intorno a lui una rete di affetti che ha compensato la mancanza della famiglia lasciata nella sua terra. Gli brillano gli occhi, mentre parla del suo rapporto con loro. Ha faticato per ottenere fiducia, ha dovuto guadagnarla impegnandosi nel lavoro, ma ora ha le chiavi del magazzino: me le mostra con orgoglio. La mia visita al biscottificio è coincisa con la preparazione di un prodotto nuovo: biscotti gluten free alla carruba e cannella. Il biscotto avrà una forma particolare; bisogna impostare la macchina con i giusti parametri. Si procede per prove ed errori. Tutti insieme, inclusa me, a valutare informazioni, trovare soluzioni, in un lavoro di squadra permeato da creatività e clima relazionale positivo, dove spicca il sorriso sdentato di Simon l’Etiope: “Solo Dio sa! Il futuro? Boh e chissà! Lo sapremo solo vivendolo”, un sorriso comico, per certi versi disarmante, opposto allo sguardo concentrato di Marco che, appena fuori, spera di trovare un lavoro “dignitoso” nel campo della pasticceria. È ovvio il senso delle sue parole: la dignità esiste quando esiste anche il lavoro; questo vale per tutte le persone, a maggior ragione per i detenuti, che respirano e pensano come ognuno di noi. Tra le persone private della libertà che hanno opportunità lavorative, l’incidenza della recidiva è inferiore rispetto a quelle che non vi accedono. Più inclusione significa più sicurezza, e oggi tutti siamo consapevoli che la detenzione in cella, senza alcuno sbocco, senza la possibilità di accedere ad attività lavorative, rende più insicura tutta la società, perché alimenta un circolo vizioso. Lo rivelano le statistiche. Se ogni detenuto acquistasse competenze professionali spendibili nel suo rientro tra la società dei “liberi”, le recidive sarebbero di gran lunga minori. L’Arcolaio tenta anche di creare un ponte tra il carcere e il “fuori”, prevedendo tra i lavoratori del laboratorio di erbe aromatiche una quota di ex detenuti, o di detenuti in regime di semilibertà. Le “Dolci evasioni” del carcere di Siracusa diventano a questo punto la dimostrazione che i semi piantati danno frutto, e che il lavoro dentro le mura non è un semplice momento di “evasione” dalla routine della cella, ma piuttosto da un percorso fatto di errori e incidenti; è soprattutto volano di riscatto, tempo e luogo in cui il reinserimento sociale comincia a concretizzarsi. Si ringraziano: Aldo Tiralongo (direttore Casa Circondariale Cavadonna Siracusa), Bruno Buccheri e Salvo Corso (responsabili L’Arcolaio) per le informazioni condivise e per l’accoglienza nel laboratorio “Le dolci evasioni”. Pozzuoli (Na). Natale al carcere femminile, sold-out di visite per i 12 quadri “viventi” di Rossella Grasso Il Riformista, 13 dicembre 2019 Dodici quadri “viventi” sulla Natività, che vedono protagoniste 40 detenute di 9 nazionalità, in cui, al termine di un percorso didattico, il carcere femminile di Pozzuoli ha voluto sintetizzare tradizione popolare, religiosità e anche il paganesimo. Si chiama “… e la Stella indicò la via” il “presepe vivente” frutto di un itinerario multietnico in cui viene esaltata la creazione di costumi con tecnica seamless, ossia abiti senza cuciture, e sonorità popolari napoletane con quelle orientali ed africane. Un progetto andato in porto anche con il supporto dei docenti della scuola. “La rappresentazione del presepe è stata aperta per la prima volta al pubblico cittadino per far vivere le emozioni della natività all’interno di un carcere”, ha detto la direttrice della casa circondariale, Carlotta Giaquinto. “Un luogo inusuale - ha spiegato la dirigente - ma che abbiamo voluto aprire per valutare quanto la gente fosse vicina al carcere”. E la risposta dei cittadini è stata positiva: tutte le giornate delle visite, infatti, sono sold out. “Questo ci conforta - conclude Giaquinto - e conferma la scelta di rompere con gli schemi tradizionali con l’obiettivo di cercare l’integrazione del carcere con il territorio”. Numerosi sono, infatti, i progetti avviati, tutti finalizzati a favorire il reinserimento delle donne nel circuito lavorativo. Il potere di decidere, è ciò che serve all’Italia furiosa e depressa di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 13 dicembre 2019 Dopo il rapporto Censis: invecchiamo tristi, poveri e senza ottimismo. È l’incertezza che domina l’umore degli italiani. Essa produce malessere, inquietudine, ansia. Si ricorre ad espedienti individuali per arginare la crisi che è sociale, ma soprattutto personale, senza invero ottenere grandi risultati. In Italia si vive male, insomma, nonostante le apparenze. Ed il prossimo futuro non si annuncia migliore. L’anno non finisce bene, il nuovo che nasce è destinato a ripetere, se non a moltiplicare, le inquietudini che hanno scandito la nostra vita finora, almeno da quando la politica, l’economia, la cultura soprattutto non sono riuscite più a dare risposte accettabili alle domande dei cittadini. Avvertono l’abbandono, la solitudine, il disagio di vivere senza la prospettiva di un domani soddisfacente. E ciò li rende, secondo l’ultimo Rapporto Censis (presentato giorni fa a Roma), addirittura “furiosi”. Non è il solito catastrofismo che stagione dopo stagione appare per poi eclissarsi e nuovamente ricomparire, come è stato negli anni Ottanta e Novanta. Da qualche tempo, più o meno dal 2015, si è “strutturato”. E nessuno ha voglia di niente. Calano perfino i consumi in un Paese che non è certo una formica ed aumentano le liquidità bancarie per la paura del domani. Il 69% degli italiani è incerto e frastornato. E non potrebbe essere diversamente di fronte alla rarefazione della rete di protezione del sistema sociale, della decadenza del welfare pubblico, della diminuzione del potere d’acquisto, dello spopolamento delle aree rurali e della crescita a dismisura di quelle urbane dove il senso dell’esilio è più sentito ed il dato comunitario è pressoché inesistente. L’ansia da declassamento sociale si tocca con mano e innesca una competizione paranoica esplicitata nel malumore quotidiano e nella litigiosità permanente, ad esse si accompagna la diminuzione oggettiva di redditi e retribuzioni: dai depositi bancari e dagli investimenti “sicuri” si ricava poco o niente; le incentivazioni ordinarie praticamente non esistono più; si è costretti, soprattutto se giovani, ad accontentarsi di contratti a termine pagati pochissimo, non in grado di supportare una famiglia o presentarsi ad un banca per chiedere un mutuo. Perfino l’investimento sul mattone e l’acquisto dei Bot sono decaduti. Segnali di sfiducia crescente cui si accompagna il terrore di prelievi improvvisi dai conti correnti. Chi avverte l’impoverimento potrebbe essere animato dal furore o dalla depressione: infatti si consumano in Italia più ansiolitici di sempre. Qualcuno prova a difendersi, al ribasso: fa spese oculate, frequenta i discount, apparecchia piccoli salvadanai di sopravvivenza. E il tempo degli eccessi è una favola, quando gli “eccessi”, beninteso, erano l’ultimo modello di frigo o di televisore, i quindici giorni al mare e qualche sfizio domestico come il motorino al figlio quattordicenne. Si dice che la società ansiosa sia macerata dalla sfiducia. E ciò è testimoniato dal calo demografico che assume, anno dopo anno, proporzioni inquietanti. La popolazione italiana è “rimpicciolirà”, invecchiata, le nascite sono pochissime. Problemi morali? In minima parte. Sostanzialmente sono problemi sociali quelli che determinano la denatalità. Dal 2015, quando è cominciata a manifestarsi la decrescita demografica, sconosciuta alla nostra storia unitaria, si contano 436.066 cittadini in meno, nonostante l’incremento di 241.066 stranieri residenti. Nell’anno passato i nati sono stati 439.747, vale a dire 18.404 in meno rispetto al 2017. Ma anche gli immigrati, adeguandosi ai nostri standard di vita e di costumi, fanno meno i figli: dunque, neppure loro - come cinicamente sostiene qualcuno - salveranno le nostre pensioni. Al calo demografico fa riscontro l’invecchiamento della popolazione. Si vive di più, oltre gli ottant’anni ormai con una maggiore aspettativa di vita delle donne, ma sale la spesa sanitaria che un sistema di welfare in dissesto non può sopportare: bisogna augurarsi di stare in buona salute fino all’ultimo giorno della propria vita, ma è un’utopia che genera altri malumori. Abbiamo davanti uomini e donne piegati dalla paura del domani. Innaturale. Un fenomeno sociologicamente da indagare a fondo dal momento che una società che non ha slanci vitali, neppure per ciò che concerne i divertimenti, è una società votata alla decadenza estrema e preda di pulsioni disfattiste nelle quali rientra il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita. Siamo abituati a leggere da qualche tempo cifre mirabolanti sulla “ripresa”, su nuovi posti di lavoro, sull’ingresso nei processi di produzione dei giovani. Ma quando mai? Rispetto al 2007, dieci anni abbiamo contato 321.000 occupati in più: la tendenza è continuata anche quest’anno. Ma, osserva il Censis, “Il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione nasconde però alcune criticità. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007-2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno. Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni (un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai (il 79% del totale)”. Un quadro tutt’altro che rassicurante. Le cifre vanno lette ed interpretate, diversamente diventano la consolazione pelosa di una politica che falsifica la realtà. Ed è proprio alla politica che gli italiani hanno voltato le spalle. Ad essa gli italiani guardano come ad una fiction. La testimonianza dell’astensionismo è eloquente: nessun altro soggetto è più detestato dei politici da parte degli italiani che proprio non li vorrebbero vedere nei programmi televisivi. Il riassetto sociale ed istituzionale è desiderato, ma a condizione che come un demiurgo appaia l’uomo forte. Questa è pretesa insensata è coerente con il malessere. Che cosa significa “uomo forte”? Autoritario o autorevole? Legittimato democraticamente oppure plebiscitariamente investito di pieni poteri? È necessario fare chiarezza. Se si allude a forme paranoiche di potere personale, illegittimo e costituzionalmente non corretto, la sensazione di esasperazione è ancora più forte. Ma se, come la maggior parte degli italiani da alcuni decenni ritiene che è necessario procedere ad una riforma che riconduca il Parlamento nelle sue specifiche prerogative legislative e di controllo degli atti dell’esecutivo e che questi possa essere al vertice rappresentativo da un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo, scendo il modello americano o francese, non vi è alcun motivo di preoccupazione. Quel che preoccupa è gettare nel calderone una “sensazione”, appunto per asseverare lo stato di malessere. Ciò non può che nuocere alla costruzione di una democrazia decidente e ad una responsabilità politica che oggi latita in ogni settore, aggiunge ci che la rivitalizzazione della forma partito è quanto mai indispensabile difronte al dilagare dello spontaneismo di movimenti che agiscono sulla conduzione, si nutrono del malessere, ambiscono a creare classi dirigenti o precarie, incolte e abborracciate, aggiungendo benzina al fuoco che già divampa nella sfera politica. Il presidenzialismo è un grande tema politico-istituzionale che ha attraversato quasi tutte le famiglie politiche italiane. Anche all’Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all’attenzione la “soluzione presidenzialista”: i rappresentanti del Partito d’Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s’impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell’Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo. Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”. Agli inizi degli anni Settanta furono alcuni “giovani leoni”, come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo “Europa 70”, che posero all’attenzione le tematiche presidenzialiste. Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento nella forma di governo del nostro Paese. Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante. Ricordo anche una fiorente pubblicistica che circa trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all’attivismo del professor Gianfranco Miglio e del cosiddetto “Gruppo di Milano”. La tematica presidenzialista, quindi, ha avuto lungo corso nella storia della Repubblica, sia da punto di vista dottrinario che nel dibattito politico. Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale “forte”, non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili del Paese, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversa dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo. Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari. Se le forze politiche intendessero spiegare, o quantomeno avviare un opportuno ed approfondito dibattito sulla questione, a più di settant’anni dalla emanazione della Costituzione (nel frattempo non c’è stato Paese che non l’abbia rivista), probabilmente preciserebbero, sgombrando il campo da imbarazzanti equivoci, la passione per “l’uomo forte” di cui si discute. E se nell’ordinaria amministrazione spazzassero via i fattori di pressione sul ceto medio produttivo e rimuovessero le condizioni che inducono i soggetti più vulnerabili ad abbandonare la scuola, forse una ripresa di fiducia la si potrebbe intravedere. Insomma, per fare più figli, per avere più occupati e laureati, per evitare che i giovani se ne vadano dall’Italia bisogna ripensare il sistema. E non è con le suggestioni estemporanee che un lavoro del genere si può compiere. Ecco perché parlare di presidenzialismo vuol dire “rivedere” le strutture del potere e non solo un meccanismo politico al cui vertice c’è un “decisore” eletto dal popolo. “Chi ha paura di Rita Bernardini e della battaglia sulla cannabis?” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 dicembre 2019 “L’ex parlamentare è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua”, ma “non sarebbe stata arrestata su indicazione del Procuratore di Roma, Michele Prestipino”. “Perché non arrestate Rita Bernardini?”. È questa la sintesi dell’interrogazione a risposta scritta presentata ieri in Aula dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti e indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Giachetti prende spunto da una notizia pubblicata sul sito leiene. it riguardante una delle tante iniziative di disobbedienza civile sulla cannabis portate avanti dall’esponente del Partito Radicale e già deputata nella XVI legislatura, Rita Bernardini. L’ex parlamentare - si legge nell’interrogazione - “è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua”, ma “non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare la risonanza mediatica che quell’arresto avrebbe potuto comportare, essendo la Bernardini da anni impegnata in battaglie per la legalizzazione della cannabis”. Il problema che solleva con le sue disobbedienze civili e la richiesta di legalizzazione è “maledettamente serio, e non solo per i malati che non riescono ad accedere ai farmaci cannabinoidi” ci dice la radicale. A sostenere la tesi richiamata nell’atto parlamentare - si legge ancora nell’articolo a cura del programma di Italia1 - è un carabiniere del Nucleo radiomobile della compagnia Roma Cassia, Enrico Sebastiani, che “quest’estate eseguì in un primo momento l’arresto della ex parlamentare. Secondo lui, i carabinieri in un primo momento avrebbero arrestato Rita Bernardini per aver violato il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. Una volta giunta in caserma, però, le cose cambiano: il superiore di Sebastiani, che era tra i militari coinvolti nell’arresto, gli avrebbe ordinato di rilasciare la donna. Sempre secondo la ricostruzione del carabiniere, l’indicazione di rilasciare Rita Bernardini a piede libero sarebbe arrivata direttamente dal procuratore della Repubblica in persona. La paura del procuratore sarebbe stata la seguente: un arresto di quel tipo avrebbe provocato una grande risonanza mediatica, e dunque era meglio evitare”. Due pesi e due misure quindi? “Questa storia della Procura di Roma che mi riserva un trattamento di favore costituisce uno scandalo inaudito - commenta ancora al Dubbio Rita Bernardini. Cominciò il l’ex procuratore capo Pignatone, quando l’8 febbraio del 2016 archiviò il procedimento riguardante la mia coltivazione di ben 56 piante, prosegue ora il procuratore Prestipino. Plaudo al comportamento del carabiniere costretto dalla legge ad arrestare ogni giorno i coltivatori fai-da-te della cannabis e a me, per volontà della procura, di rilasciarmi a piede libero”. Giachetti chiede quindi ai due ministri se siano a conoscenza dei fatti e se sussistano i presupposti di fatto e di diritto per un’iniziativa ispettiva presso la Procura di Roma che non ha proceduto all’arresto dell’onorevole Bernardini. Cannabis Light, passa l’emendamento che la rende legale sotto lo 0,5% di thc di Rossella Grasso Il Riformista, 13 dicembre 2019 Passa l’emendamento al Senato che rende definitivamente legale la Cannabis Light. “In commissione Bilancio è stato approvato un subemendamento alla Manovra (91.0.2000/7) che riguarda la coltivazione di cannabis sativa L. - ha detto il senatore M5S e membro della commissione agricoltura al Senato, Francesco Mollame. Con questa norma a mia prima firma, andiamo a regolamentare un comparto della produzione agricola caratterizzato da poca chiarezza dovuta ad incertezze normative e giurisprudenziali. Andiamo a integrare la legge 242/2016, dove non si parlava specificamente di vendita. Con questo emendamento, firmato anche da altri colleghi del Movimento 5 Stelle, andiamo a definire che se una pianta ha un tenore di Thc non superiore allo 0,5% non può essere considerata uno stupefacente. La Cannabis Sativa, ricordo, è una pianta dalle qualità straordinarie, da cui si ricavano tessuti, corde, tele per le vele, ma anche farina e olio. Incentivare questo mercato porterà non solo ad un percorso virtuoso di green economy ma darà anche uno slancio all’economia di settore. In Italia ci sono circa 3 mila aziende per un totale di 10 mila dipendenti, in un settore in continua e forte crescita, anche per la richiesta a livello internazionale del cannabidiolo (Cbd) usato nella cosmetica e in farmaceutica”. “Un intervento legislativo opportuno - ha sottolineato la Coldiretti - per non frenare un settore in grande sviluppo in tutto il mondo dopo la sentenza restrittiva emessa a fine maggio dalle Sezioni Unite della Cassazione sui limiti della legge 242 del 2016. Nel pronunciamento della Suprema Corte si sottolineava proprio “la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia, nell’esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa, cosi da delineare una diversa regolamentazione del settore che coinvolge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali”. Dopo la sentenza in Italia ci fu una stretta sui controlli e molte attività decisero di chiudere i battenti temendo i sequestri predisposti per analisi e accertamenti. Fu un vero e proprio colpo per l’economia del settore. Per la coltivazione e vendita di piante, fiori e semi a basso contenuto di principio psicotropo (Thc) la Coldiretti infatti stima un giro d’affari potenziale stimato in oltre 40 milioni di euro con un rilevante impatto occupazionale per effetto del coinvolgimento di centinaia di aziende agricole. Non solo fumo, la coltivazione della cannabis in Italia riguarda soprattutto esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, dai cosmetici all’alimentare. Tante sono infatti le varianti della canapa nel piatto, dai biscotti e dai taralli al pane di canapa, dalla farina di canapa all’olio, ma c’è anche chi usa la canapa per produrre ricotta, tofu e una gustosa bevanda vegana, oltre che la birra. Dalla canapa si ricavano oli usati per la cosmetica, resine e tessuti naturali ottimi sia per l’abbigliamento, poiché tengono fresco d’estate e caldo d’inverno, sia per l’arredamento, grazie alla grande resistenza di questo tipo di fibra. Se c’è chi ha utilizzato la canapa per produrre veri e propri eco-mattoni da utilizzare nella bioedilizia per assicurare capacità isolante sia dal caldo che dal freddo, non manca il pellet di canapa per il riscaldamento che assicura una combustione pulita. “Si tratta in realtà - rileva la Coldiretti - di un ritorno per una coltivazione che fino agli anni 40 era più che familiare in Italia, tanto che il Belpaese con quasi 100mila ettari era il secondo maggior produttore di canapa al mondo (dietro soltanto all’Unione Sovietica). Il declino - conclude la Coldiretti - è arrivato per la progressiva industrializzazione e l’avvento del boom economico che ha imposto sul mercato le fibre sintetiche, ma anche dalla campagna internazionale contro gli stupefacenti che ha gettato un’ombra su questa pianta”. Una vittoria anche per Luca Marola, fondatore di Easyjoint ed inventore della cannabis light. “Dopo due anni e mezzo di lotta pare arrivi il riconoscimento della bontà delle nostre motivazioni - ha detto - Abbiamo smascherato la follia del proibizionismo, creato dal nulla una filiera agricola e commerciale non immaginabili solo 2 anni fa, siamo riusciti a far correggere la legge sulla canapa e sugli stupefacenti negli aspetti più controversi. Ma quanti morti e feriti sono caduti. Un pensiero va alle decine di imprese agricole e commerciali che, a causa della follia proibizionista politica e giudiziaria, sono state costrette a chiudere ed un ringraziamento va ai 6 senatori dei tre gruppi di maggioranza che ci hanno creduto fino in fondo, a tutti i senatori che l’hanno approvato ed al governo. L’attività a favore di una regolamentazione complessiva della cannabis continua. Oggi l’Italia è un Paese migliore e più moderno, connesso con i grandi cambiamenti globali sulla cannabis in corso”. Pene più severe per i reati di droga? Antigone contro Lamorgese di Andrea Oleandri* dalsociale24.it, 13 dicembre 2019 Il Ministro Lamorgese invoca pene più severe per i pusher. Pur comprendendo le preoccupazioni espresse dal Ministro, Antigone chiede di evitare l’ennesimo intervento di solo inasprimento delle pene per riaprire un dibattito sulle droghe più equilibrato ed efficace. “La legalizzazione delle droghe leggere restituirebbe più sicurezza ai cittadini eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il Ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa sferrare un duro colpo al narcotraffico e sfoltire le aule dei tribunali” dichiara Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone. Cosa accadrebbe alle mafie se ci fosse la legalizzazione? Quanto guadagnerebbe lo Stato dalla legalizzazione della cannabis? Quanto risparmierebbe non incarcerando in massa i consumatori? Quanti vedrebbero migliorate le proprie condizioni di salute grazie al consumo di sostanza controllate o al non ingresso nel circuito penale e penitenziario? Quanti processi in meno ci sarebbero e quanti poliziotti in più potremmo utilizzare per reprimere il crimine organizzato? Anche l’allora Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti si era espresso a favore della legalizzazione, i cui benefici sarebbero evidenti per il nostro paese: lotta e contrasto alla criminalità organizzata, alla microcriminalità che vedrebbe drasticamente diminuire reati direttamente collegati al consumo di sostanze, tutela della salute ed introiti per le casse dello Stato (diretti, provenienti dalla tassazione, e indiretti provenienti dal recupero delle risorse attualmente spese per operazioni di polizia, per i tribunali e per i costi del sistema penitenziario, questi ultimi quantificabili in circa 1 miliardo di euro l’anno). “In Italia ben conosciamo i risultati che porta l’inasprimento delle pene come politica di prevenzione del crimine - sostiene Patrizio Gonnella. Dal 2006 al 2014 è stata in vigore la Fini-Giovanardi che non portò nessun beneficio in termini di riduzione del traffico e del consumo di droghe ed ha invece riempì le carceri. Le persone detenute per violazione delle leggi sugli stupefacenti, storicamente negli ultimi anni intorno al 32-33% del totale della popolazione ristretta, erano arrivate ad essere il 41% del totale, cosa che aveva inciso sul sovraffollamento penitenziario, da cui era scaturita la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti. Dunque - conclude il Presidente di Antigone - la soluzione non va ricercata in pene più severe, ma in un cambio radicale di politiche, come hanno fatto alcuni stati americani, il Canada, il Portogallo e come anche altri stati europei stanno pensando di fare”. La guerra alle droghe è fallita. L’Italia, sul solco delle esperienze di altri paesi, deve cambiare nettamente rotta. C’è bisogno di una rivoluzione pragmatica che lasci la morale fuori dal diritto. * Ufficio Stampa Associazione Antigone Produttori di armi e governi complici dei crimini di guerra in Yemen di Francesco Vignarca Il Manifesto, 13 dicembre 2019 Comunicazione alla Corte penale internazionale, che valuterà se aprire un’indagine. Un innovativo passo nella ricerca della giustizia in un conflitto che ha causato quasi 100 mila vittime civili. Un incontro con l’Ufficio del procuratore che vaglia preliminarmente le possibili indagini della Corte penale internazionale (Cpi), con il deposito di una corposa Comunicazione (oltre 350 pagine) per segnalare l’ipotesi che dirigenti delle aziende armiere e funzionari pubblici responsabili delle licenze di esportazione siano complici nei presunti crimini di guerra commessi dalla Coalizione militare guidata da Arabia saudita e Emirati arabi uniti in Yemen. È questa l’iniziativa appena promossa dalla società civile internazionale, nel quinto anno del sanguinoso conflitto yemenita, e coordinata dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) di Berlino. A sostegno dell’azione dei legali di Ecchr i dati e le prove raccolti dagli esperti della Ong yemenita Mwatana per i diritti umani insieme al Segretariato internazionale di Amnesty International, alla Campagna britannica contro il commercio di armi (Caat), al Centro Delàs di Barcellona e alla Rete italiana per il disarmo. Nella comunicazione sono descritti in dettaglio ben 26 attacchi aerei condotti dalla Coalizione a guida saudita che potrebbero equivalere a crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma. La Cpi ha giurisdizione su crimini di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e dopo una Comunicazione è compito dell’Ufficio del Procuratore determinare se le accuse abbiano sufficienti motivazioni di fatto e di diritto. “Gli attacchi aerei della Coalizione hanno causato una terribile distruzione nello Yemen. Le armi prodotte ed esportate dagli Stati uniti e dall’Europa hanno permesso questa distruzione. Le innumerevoli vittime yemenite meritano inchieste credibili su tutti gli autori di crimini contro di loro, comprese tutte le potenziali complicità” sottolinea Radhya Almutawakel presidente di Mwatana. L’iniziativa delle organizzazioni della società civile non si rivolge solo ai funzionari governativi responsabili delle autorizzazioni all’export di armamenti. L’invito al procuratore della Corte penale internazionale è infatti quello di indagare anche sulla responsabilità legale di diverse imprese concentrandosi sul ruolo delle seguenti società: Airbus Defence ade Space (sedi in Spagna e Germania), Bae Systems (Regno Unito), Dassault Aviation (Francia), Leonardo S.p.A. (Italia), Mbda Uk (Regno Unito), Mbda France (Francia), Raytheon Systems (Regno Unito), Thales (Francia) e Rheinmetall AG (Germania) tramite la controllata Rmw Italia. Infatti anche se gli attacchi su case civili, mercati, ospedali e scuole condotti dalla coalizione saudita sono ormai ben documentati da anni, molte compagnie a produzione militare con sede in Europa hanno continuato e continuano a fornire ad Arabia saudita ed Emirati arabi uniti armi, munizioni e supporto logistico. Rendendosi quindi complici di fatto di possibili violazioni del diritto umanitario internazionale, ipotizzate da esperti Onu anche con il profilo di possibili crimini di guerra. La speranza delle Ong è che la Corte possa svolgere un ruolo positivo nell’iniziare a colmare l’attuale enorme mancanza di trasparenza e di assunzione di responsabilità. Il conflitto in corso ha portato a quella che l’Onu definisce la più grande crisi umanitaria dei nostri tempi con quasi 100 mila morti civili e con tutte le parti in conflitto che hanno ripetutamente violato i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Grazie al lavoro dei media e delle organizzazioni della società civile è ormai noto da tempo anche il flusso di armamenti che finisce in Yemen, oggetto di azioni legali a livello nazionale (in particolare in Gran Bretagna, Belgio e Italia). Portare ora attori economici e politici davanti alla Cpi è un nuovo innovativo passo nella ricerca della giustizia. Infatti l’esportazione di armi, anche se autorizzata da licenze governative, non è una transazione commerciale “neutrale” e può portare a gravi conseguenze. E anche in presenza di una incapacità di uno Stato nell’applicare le pertinenti leggi sul controllo delle esportazioni di armi, le aziende produttrici non sono esonerate dalla responsabilità di rispettare i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Perché la concessione di autorizzazione all’export non libera l’azienda dall’obbligo di valutare il rischio che le armi consegnate vengano utilizzate nella commissione di reati internazionali. In pratica ricevendo una licenza, un’azienda non riceve un obbligo: c’è la possibilità di esportare, ma si lascia aperta anche la possibilità di non esportare. A seguito della comunicazione la Corte dovrà valutare se esiste una base ragionevole per procedere a un’indagine sotto la propria giurisdizione. Che è quanto chiedono le organizzazioni della società civile, e ancora di più le vittime del conflitto in Yemen.