Cinquantasei bimbi in cella anche per il prossimo Natale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2019 Quattro in più rispetto al mese precedente. 32 sono nelle sezioni femminili degli istituti. Cresce il sovraffollamento, ma aumentano anche i bambini dietro le sbarre. Al 30 novembre del 2019 si registra la presenza di 52 detenute con 56 figli al seguito, mentre nel mese precedente ne risultavano 52 di bambini. La detenzione di una donna con i propri figli deve essere sempre una misura estrema, eppure i numeri sembrano non darne concretezza. La maggior parte dei bambini sono ospitati con la genitrice all’interno degli Istituti a custodia attenuata (Icam) dedicati: Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca” e Lauro, mentre nessuna coppia madre-figlio è collocata nell’Icam di Cagliari. Gli altri bambini, in mancanza della disponibilità delle case famiglia (in Italia ne esistono soltanto due), sono, di fatto, reclusi negli istituti di pena nelle 19 “sezioni nido”. I bimbi si trovano distribuiti nell’Istituto femminile di Roma- Rebibbia (11) e nelle sezioni femminili degli Istituti, prevalentemente maschili, di Bologna (2), Firenze “Sollicciano” (1), Messina (1), Milano Bollate (3), Teramo (2) e Torino (12). Con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 2018, è entrato ufficialmente nella normativa il termine asilo nido, cristallizzando in tal modo la situazione. “Alle madri - si legge all’articolo 14 dell’Ordinamento penitenziario - è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido”. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, con la collaborazione dei Garanti locali, l’anno scorso ha realizzato una ricerca sulle condizioni effettive delle sezioni o delle stanze destinate a ospitare bambini fino ai tre anni di età. Il primo dato che è emerso è la totale inadeguatezza di quattro strutture che non rispondono ad alcuno dei requisiti oggetto del monitoraggio, né a quelli strutturali (adeguatezza delle stanze alle esigenze del bambino, cucina separata per i bimbi, presenza di un cortile attrezzato con giochi, di una ludoteca, di ambienti idonei per i colloqui con i familiari), né a quelli relativi alla qualità della vita dei bambini (presenza di personale specializzato e di volontari, convenzioni per l’inserimento nelle scuole del territorio, possibilità per i bambini di uscire con i volontari). Altre tre non hanno un cortile attrezzato per i bambini, in due manca una ludoteca e in tre i locali per i colloqui sono stati definiti non idonei per bambini piccoli. “Ma - osserva il Garante nella relazione annuale - colpisce anche la mancanza di personale specializzato: in nove Istituti non è previsto personale dedicato ai bambini e in sei manca anche il personale medico e sanitario specializzato (interviene soltanto “a chiamata” in caso di necessità)”. Per il Garante si tratta insomma, in alcuni casi, di situazioni inaccettabili, per le quali occorrono interventi strutturali urgenti oltre all’innalzamento degli standard necessari per ospitare un bambino all’interno di una struttura detentiva, seppure per breve tempo. Mai perdere di vista l’importanza di mantenere il legame tra la detenuta madre e il figlio nei primi anni di vita, privilegiando però la decarcerizzazione come prevedeva un decreto della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, purtroppo mai approvato. Nel frattempo, per un soffio, si è sfiorata una tragedia. Il mese scorso, nell’Icam di Milano, una neonata di poche settimane ha rischiato di morire. Salvata in extremis grazie all’assistente capo della polizia penitenziaria Rinaldo Rugiano, il quale dopo aver sentito la madre della neonata gridare per chiedere aiuto, ha trovato la bambina cianotica e, una volta affidato al collega la custodia temporanea delle detenute, è corso all’esterno dell’Icam percorrendo a piedi i pochi metri che lo separavano dall’ospedale Macedonio Melloni, dove ha consegnato la bambina che è stata subito rianimata. Minori e reati, qui non è solo questione di giustizia di Isaia Sales Il Mattino, 12 dicembre 2019 Che fine fanno a Napoli i tanti minori autori di reati che sono transitati negli istituti di pena o nelle comunità di accoglienza? Da adulti ripetono lo stesso percorso delinquenziale? L’esperienza di “recupero” nelle carceri minorili o attraverso l’uso di strumenti alternativi come la cosiddetta “Messa alla prova” (imparare un mestiere, seguire un percorso di formazione e d’istruzione) riesce a interrompere la catena criminale dal carcere minorile a quelli per adulti? Su questo problema sono state svolte delle specifiche ricerche da parte di alcune università che meritano una approfondita riflessione. Ultimamente il centro di ricerca Res Incorrupta del Suor Orsola Benincasa ha prodotto un report per la Commissione parlamentare antimafia che proviamo a commentare. Innanzitutto partiamo da una premessa: in cosa consiste la particolarità e l’esplosività della questione minorile a Napoli rispetto ad altre grandi città italiane? In fondo, si potrebbe dire, anche in altre parti d’Italia la delinquenza minorile si presenta innanzitutto come un problema specifico delle grandi città, delle loro periferie e degli estesi hinterland metropolitani. E perché mai Napoli dovrebbe sfuggire a questa omologazione, essendo la terza città per numero di abitanti e la seconda area metropolitana per popolazione, e avendo al suo interno alcune delle più estese periferie? Le differenze ci sono e sono del tutto particolari. Innanzitutto, quello di periferia è un concetto non geografico ma sociale a Napoli, ultima grande città italiana ed europea a mantenere una estesissima periferia al centro del suo stesso sistema urbano. Certo, esistono anche i casi similari di Palermo, Bari e Catania, ma non si arriva in queste città a un così consistente fenomeno di “effetto periferia” nel cuore del centro storico come avviene nel capoluogo partenopeo. In Europa il paragone può essere fatto solo con Marsiglia. A Napoli si presentano tre grandi enclave caratterizzate da profondi disagi sociali e da emergenze criminali: il centro storico, le periferie orientali e occidentali e il disastro urbano e civile che è l’hinterland metropolitano. Un disagio infantile, minorile e adolescenziale a gironi concentrici. In altre città i minori sono esposti alla deprivazione culturale e sociale, alla vita illegale ma non immediatamente a quella criminale. La criminalità a Napoli vive spalla a spalla con il disagio minorile. Un numero così alto di minori coinvolti in attività mafiose e camorristiche non esiste in nessun’altra parte. E c’è un’ulteriore differenza. Se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, interne all’Italia ed esterne, a Napoli essa è una questione indigena, interna. Gli stranieri c’entrano poco. La questione minorile è quasi esclusivamente questione napoletana e di napoletani. Non si riscontrano (finora) a Napoli ragguardevoli presenze di gang minorili o giovanili formate da immigrati come avviene in altre grandi città come Milano e Torino. Si può parlare a ragione di questione minorile napoletana come espressione di un’implosione sociale della città e della sua area metropolitana. Oggi l’uso dell’illegalità non risponde a un bisogno di sopravvivenza ma di riuscita sociale. La violenza e il crimine si affermano come mezzi rapidi di ascesa, di successo, di carriera, di identità, di realizzazione umana e sociale. La mobilità sociale non è assicurata dalla scuola, dalla famiglia, dal lavoro, ma sempre più dalla violenza agita, dalla ferocia non mitigata. E se nelle altre città, le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi, a Napoli invece c’è quasi il monopolio di atti violenti da parte di ragazzi di famiglie sottoproletarie. Non sembrano, quelli minorili, reati interclassisti. E se in altre città l’esperienza in istituti di pena minorili non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, a Napoli e provincia gran parte dei ragazzi che hanno commesso reati passano nelle carceri per adulti. Nella ricerca del Suor Orsola è stata riscontrata il 41,6% di recidiva da adulti per i minori “messi alla prova”. Cioè anche quei ragazzi (coinvolti in reati vicini propedeutici all’ingresso nei clan di camorra) che avevano seguito con successo una particolare esperienza di istruzione o di apprendimento di un mestiere, che per un periodo li aveva allontanati dalla vita precedente, da adulti hanno ripreso la frequentazione dei circuiti delinquenziali. E immaginiamo quanto più alta deve essere la recidiva per i minori che non hanno seguito neanche un percorso di recupero al lavoro e allo studio! In definitiva, i dati della ricerca sulla devianza minorile a Napoli ci dicono che: la maggior parte dei minorenni rei presi in considerazione sono già noti alle forze dell’ordine o ai servizi sociali territoriali per evasione scolastica. Molti di loro neppure si iscrivono al primo anno di scuola superiore e faticano non poco a terminare le scuole medie inferiori. La scuola nelle attuali condizioni non è per essi attraente e su di essa non costruiscono un’ipotesi di vita e di lavoro. Le loro famiglie sono quasi sempre disgregate, conflittuali; si tratta di famiglie in cui sono presenti problemi di tossicodipendenza, di criminalità, quindi disfunzionali alla crescita. Esse presentano caratteristiche del tutto peculiari: i genitori sono ben più giovani rispetto alla media italiana e con più figli, hanno una scolarità molto bassa, le madri sono disoccupate e i padri hanno lavori saltuari o non professionali. L’acculturazione illegale e criminale comincia dalla famiglia, e il ruolo del gruppo amicale appare centrale anche per la commissione degli atti criminali che, ben lungi dal rappresentare azioni da nascondere e da fare singolarmente, diventano momenti di condivisione pubblica e di impegno comune. Il gruppo sostituisce la famiglia, la scuola e ogni altra agenzia formativa. Lo Stato con le sue azioni repressive o di recupero (“messa alla prova”, perdono giudiziale, sospensione della pena) interviene troppo tardi, quando il percorso è già abbastanza segnato. Se tutti gli attori del sistema della giustizia minorile lavorassero ogni giorno al massimo delle proprie capacità non riuscirebbero a far fronte ad una emergenza che è e rimane sociale e non giudiziaria. Lo Stato dovrebbe farsi carico dei minorenni ben prima che diventino rei, incrementando interventi preventivi come la diffusione capillare dei servizi territoriali con l’obbligo di seguire ogni minorenne in famiglie problematiche, o con precedenti penali. La repressione fotografa lo stato delle cose, ma non è in condizione di modificarle. La questione minorile è una preminente questione sociale ed educativa: affidarla ai magistrati vuol dire arrivare tardi e compromettere le buone cose che pure la legislazione in materia consente. “Permessi ai boss, necessaria una nuova legge” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2019 Parla Sebastiano Ardita: il pm è stato ascoltato in Commissione parlamentare Antimafia sulle conseguenze della sentenza della Consulta. La sentenza della Corte costituzionale ha indicato dei paletti precisi affinché anche un detenuto per mafia (e per altri reati ostativi ai benefici) possa avere un permesso premio pur senza aver collaborato con la giustizia, ma c’è un problema politico: la tendenza, di nuovo, a voler superare la legislazione antimafia e l’uso interno che possono farne Cosa nostra e le altre mafie. È la prima analisi emersa davanti alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra, che ha deciso una serie di audizioni per capire quali iniziative legislative intraprendere dopo la sentenza. Il primo a essere stato sentito è stato Sebastiano Ardita, presidente della Commissione Sorveglianza del Csm, pm antimafia, ex capo dell’ufficio detenuti del Dap. In merito alla pronuncia della Consulta, ha detto che ha utilizzato criteri “abbastanza rigorosi” e che “sembra limitare molto i casi in cui, pur senza collaborare, si possa ottenere un permesso. Dunque, allo stato non vi sarebbe alcun allarme”. Il riferimento è alla necessità di una prova che il detenuto per mafia non abbia collegamenti attuali con l’associazione di appartenenza o che anche durante il permesso premio non possa riallacciarli. Ma per Ardita, anche se la Corte è stata severa, c’è di che preoccuparsi: “Vi è il rischio che la generale tendenza a superare le rigidità della legislazione antimafia venga intesa come un cedimento o una vittoria della mafia, con riflessi sulle dinamiche interne dell’organizzazione che sono in continua evoluzione. Presto arriveranno altre pronunce su questi temi e dovremo essere preparati”. Il consigliere Csm evoca la Trattativa: “Le istituzioni politiche troppo spesso hanno preferito la strategia del contenimento, che si è spinta fino alla trattativa tra Stato e mafia, rinunciando all’annientamento del fenomeno mafioso, tanto auspicabile quanto distante dall’essere adottato”. E ancora: “Cosa Nostra ha un governo. Interpreta ogni evento favorevole come una debolezza dello Stato. La sua storia passa anche da uno dei protagonisti di queste vicende, che si presenta ai suoi giudici come un non appartenente (alla mafia, ndr) perché ha ottenuto lo scioglimento del cumulo (delle pene, ndr)”. Il riferimento è al catanese Sebastiano Cannizzaro, del clan Santapaola. È per la sua richiesta di permesso premio che la Cassazione si è rivolta alla Consulta. A questo proposito Ardita davanti all’Antimafia dice: “Occorre dare un segnale forte e chiaro rispetto alla logica pericolosa ed inquinante di Cosa Nostra catanese, che sembra voler gestire questi eventi come segnali di stabilità e di forza, e come i risultati della strategia dell’infiltrazione e dell’inabissamento”. Ricorda che negli anni 90 “nella ricostruzione dei collaboratori, Cannizzaro ha impedito che Cosa nostra catanese passasse in mano a Santo Mazzei e ai Corleonesi, favorendo così un nuovo equilibrio mafioso retto dall’alleanza Provenzano-Aglieri-Santapaola-Madonia”. Ora Cannizzaro “con un’intervista sembra volere affermare la vittoria di quella linea, sommersa e ammiccante verso lo Stato”. Il boss detenuto, all’indomani della sentenza aveva dichiarato: “Capisco che l’opinione pubblica non sarà mai dalla nostra parte. Ma per noi ciò che vale è la legge. E la Consulta ha detto che anche noi abbiamo dei diritti da difendere”. E ora cosa fare? “Una nuova norma - conclude Ardita - con i criteri stringenti della Corte, vertente solo sul permesso premio” e valutazione dell’ipotesi “di concentrare la competenza per impedire parcellizzazioni di giudizio”. Non lasciare, cioè, la decisione a singoli giudici di Sorveglianza dei vari distretti giudiziari. L’Uisp: “Anche nelle carceri il diritto universale allo sport” di Elena Fiorani uisp.it, 12 dicembre 2019 Tiziano Pesce, vicepresidente nazionale Uisp, intervistato da Sandro Fioravanti nella trasmissione “La tribuna di Radio 1 Sport”. La trasmissione radiofonica “La tribuna di Radio 1 Sport”, condotta da Sandro Fioravanti, ha trasmesso mercoledì 11 dicembre un approfondimento sul valore sociale dello sport, in particolare sulla sua importanza per le persone detenute. Per affrontare l’argomento è stata chiamata in causa l’Uisp, che da tanti anni conduce attività sportive e progetti sociali nelle carceri di molte città italiane: è intervenuto Tiziano Pesce, vicepresidente nazionale Uisp e presidente Uisp Liguria, che ha raccontato in apertura l’esperienza del carcere di Marassi, dove Vivicittà si corre dentro e fuori le mura. “Vivicittà è un appuntamento molto importante della nostra stagione - ha detto Pesce - che prevede corse e camminate anche all’interno degli istituti penitenziari, oltre venti quelli coinvolti ogni anno tra marzo e aprile. A Genova, in particolare, non si corre e cammina solo all’interno ma anche fuori dalle mura, percorrendo un anello che entra ed esce dal carcere. Ovviamente l’attività si deve anche adattare alle condizioni logistiche degli istituti, ma per noi acquisisce un grande significato che ben si lega al nome del progetto che in Liguria, e in modo particolare a Genova, portiamo avanti con il sostegno della regione Liguria: si tratta del progetto Ponte, con cui vogliamo creare un ponte ideale tra interno ed esterno della struttura. Ed ecco che Vivicittà diventa il simbolo di un’attività che non si limita ad una singola giornata ma valorizza il lavoro che i nostri operatori ed educatori portano avanti tutti i giorni dell’anno, in stretto rapporto con l’amministrazione penitenziaria, la direzione carceraria e la polizia penitenziaria”. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, un mezzo per tornare ad una vita normale e lo sport in questo senso è un elemento molto rilevante: “Per noi lo sport sociale è un elemento molto importante, infatti sono ormai 71 anni che portiamo avanti un’idea di sport per tutti, che renda universale il diritto allo sport e con lui il diritto alla salute, all’educazione, alla cultura. Lo sport è un grande fenomeno sociale del nostro tempo e noi scegliamo di operare anche all’interno degli istituti penitenziari del nostro paese perché la cultura del corpo insegna il rispetto dell’altro e di se stessi e diventa elemento fondamentale per migliorare la qualità della vita dei cittadini e ovviamente sono cittadini a pieno titolo anche le persone detenute. La distanza fra cittadino libero e cittadino ristretto esiste sul piano pratico e logistico ma riteniamo che non abbia nessuna ragione di esistere sul piano umano e sociale. Per questo lavoriamo costantemente affinché questo approccio venga sempre più messo in evidenza, anche nei protocolli sottoscritti dal ministero, come accaduto in quello che abbiamo firmato recentemente che mette in evidenza l’attenzione che vogliamo dedicare alla popolazione detenuta, proponendo una cultura sportiva che opera nel segno dell’integrazione”. Durante la trasmissione è stata anche presentata l’iniziativa che vede l’Uisp al fianco dell’Unhcr - Agenzia Onu per i rifugiati - e che verrà annunciata durante il prossimo Forum Mondiale sui Rifugiati che si terrà a Ginevra il 17 e 18 dicembre. “L’Uisp da sempre promuove lo sport come strumento primario per accogliere ed aggregare le persone, lo facciamo attraverso il tessuto connettivo della nostra associazione, oltre 1.300.000 associati e 16.500 associazioni sportive in Italia e in rapporto con le nostre basi associative. È un lavoro che è stato riconosciuto ufficialmente anche dall’Onu nel 2018 all’interno del Global Compact, dove troviamo alcuni articoli che sottolineano il ruolo dello sport nei processi di inclusione sociale, di coesione e di benessere. Il 17 e 18 dicembre presenteremo questo lavoro al Forum mondiale sui rifugiati, si tratta di un impegno importante che supera i confini del nostro Paese come accaduto con il progetto Pac dedicato alla cittadinanza attiva dei detenuti che abbiamo condiviso con associazioni ed istituzioni di Regno Unito, Belgio, Olanda e Croazia, con il sostegno dell’Unione Europea attraverso il programma Erasmus”. “Negli anni, da dirigente Uisp, ho avuto la fortuna di partecipare a tante iniziative in carcere - conclude Pesce - e quello che mi colpisce sempre è la grande riconoscenza dei detenuti nei confronti della nostra associazione e soprattutto dei nostri educatori. Sono tante le storie che ci vengono raccontate e tante le situazioni che rappresentano plasticamente quanto sia importante l’attività rieducativa dello sport. Capita, ad esempio, quando nelle nostre sedi vengono a bussare a distanza di anni ragazzi che ci hanno incontrato tra quelle mura e magari hanno partecipato a un corso arbitri di calcio e poi vengono con noi ad arbitrare i campionati. Sono esperienze altamente formative che ci portiamo tutti i giorni nel cuore”. Giustizia, partita riaperta di Errico Novi Il Dubbio, 12 dicembre 2019 Incontro sulle riforme del processo fra Ministro e Presidente Cnf. Sì di Bonafede a Mascherin: ripartono i tavoli sui ddl civile e penale, dialogo sulle negoziazioni degli avvocati. Il primo segnale arriva in mattinata dal guardasigilli Alfonso Bonafede: sulla prescrizione, dice, “so che ci sono delle proposte: le vaglierò insieme alle forze politiche”. Ma la partita sulla giustizia si riapre anche grazie all’avvocatura. È un incontro tenuto nel pomeriggio di ieri fra il ministro della Giustizia e il presidente del Cnf Andrea Mascherin a segnare una svolta probabilmente inattesa per i ddl sul processo penale e civile. Un colloquio in cui, si legge in una nota del Cnf, “è stata condivisa con il guardasigilli la necessità che entrambi i tavoli” sulla riforma “vengano riconvocati”. Il ministro dunque ha deciso di “riprendere i lavori” sui due ddl. Ci sarà di nuovo un luogo di discussione “tecnico” sul dossier che stressa la maggioranza da settimane. Ed è sempre la massima istituzione dell’avvocatura a chiedere che torni praticabile non solo il campo del penale minato dal blocca- prescrizione, ma anche quello in apparenza più tranquillizzante del processo civile, sul quale Mascherin esprime a Bonafede “la necessità di riattribuire la negoziazione assistita agli avvocati del lavoro, così come era previsto nella forma originaria del ddl”. Riguardo al processo penale, non c’è molto tempo da qui al 1° gennaio, data in cui entrerebbe in vigore la norma che, dopo il primo grado, sopprime i termini di estinzione dei reati. Ora però il dialogo sembra riaprirsi non solo fra ministro e avvocatura, ma anche all’interno della maggioranza. È il segretario del Pd Nicola Zingaretti a confermare che sulla prescrizione “il confronto per fortuna va avanti”. Si cerca, spiega, “un compromesso per garantire che non si stia tutta la vita sotto processo. La linea del Piave”, precisa Zingaretti, “è la tempistica che permetterebbe di introdurre limiti alla durata dei giudizi”. Il clima è cambiato, nel giro di poche ore. E il merito è anche degli avvocati, che al dissenso sulla prescrizione hanno unito quello per l’esclusione, nel ddl civile, della professione forense dalle negoziazioni in materia di lavoro. È sempre Mascherin a chiedere che “alla prossima riunione del tavolo possa essere convocata anche una rappresentanza di Agi, l’associazione degli avvocati giuslavoristi italiani”. Bonafede, conferma la nota del Cnf, “ha ritenuto la necessità di procedere con la riconvocazione dei due tavoli includendo anche gli avvocati del lavoro, e ha rassicurato il presidente del Cnf che svolgerà ogni tempestivo approfondimento, senza preclusioni di sorta, per la possibile reintroduzione della negoziazione assistita nel testo di riforma del processo civile come originariamente previsto nelle bozze del ddl”. Una schiarita accolta con sollievo innanzitutto dall’Agi, spiazzata dalla modifica apportata in extremis, nel ddl civile varato una settimana fa dal governo, della norma sulle negoziazioni: gli Avvocati giuslavoristi italiani “esprimono soddisfazione per l’immediata apertura del governo e del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede”. Ringraziano il Consiglio nazionale forense e il presidente Andrea Mascherin “per aver fatto propria” la loro protesta e “per averla sostenuta nell’incontro con il ministro della Giustizia”. L’Agi apprezza “la decisione dell’inserimento degli avvocati giuslavoristi nel tavolo di lavoro che seguirà il cammino parlamentare del disegno di legge delega per la riforma della giustizia civile, e poi la preparazione degli schemi di decreti legislativi”. E ancora, ricorda il presidente dell’Agi Aldo Bottini, “il rapido chiarimento intervenuto, almeno a livello del ministro della Giustizia, dimostra la fondatezza e la serietà delle richieste dei giuslavoristi italiani ma dimostra anche la necessità di una consultazione permanente dell’avvocatura, e della stabilità delle soluzioni condivise”. E in effetti il dialogo sollecitato dalla professione forense, fa notare a sua volta Mascherin, potrà assicurare benefici all’intera riforma del processo. “Il testo sul processo civile è sicuramente migliorato, si è prestata attenzione alle prerogative difensive accogliendo molte osservazioni dell’avvocatura. Fermi gli aspetti positivi della norma”, osserva il presidente del Cnf, “si tratta ora di valutare l’opportunità di apportare alcune migliorie proseguendo nel confronto leale e costruttivo, nell’ottica della salvaguardia del sistema giustizia e del diritto di difesa”. E il metodo del dialogo che fa la differenza. Anche in una partita che sembrava destinata a bloccarsi come quella sulla giustizia. La prescrizione sacrificata in nome dell’ossessione punitiva di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 12 dicembre 2019 Perché la riforma Bonafede cancella un istituto di grande civiltà. Rischio pastrocchio con i “correttivi” del Pd. Specie nell’ottica di un anziano professore di diritto penale, l’attuale conflitto politico sulla prescrizione appare sorprendente e al tempo stesso molto preoccupante. Siamo arrivati al punto, nel nostro paese, di rischiare di stravolgere un istituto giuridico di grande civiltà perché il movimento pentastellato, in nome di presunte sue ragioni identitarie, pretende di imporne una riforma ispirata a un punitivismo smodato? Oltretutto, questa ossessione punitiva appare politicamente opportunistica in quanto strumentalizza, per lucrare consensi elettorali, pulsioni emotive di punizione alimentate da sentimenti collettivi di paura, rabbia, frustrazione, indignazione, invidia sociale, rancore, risentimento e rivalsa diffusi in periodi di crisi e insicurezza come quello in cui viviamo. Che l’idea grillina di bloccare in via definitiva la prescrizione dopo la sentenza di primo grado nasca, in fondo, da un avallo politico del bisogno emotivo di rendere imprescrittibile ogni illecito penale - come a volere “eternare” la riprovevolezza e la castigabilità degli autori di reato additati quali nemici del popolo - è una ipotesi esplicativa tutt’altro che azzardata o peregrina. Come studi di filosofia e psicologia della punizione da tempo mettono in evidenza, infatti, il diritto penale e la punizione coinvolgono (anche a livello inconscio) meccanismi psichici profondi, canalizzando in forma istituzionalizzata tendenze aggressivo-ritorsive insite negli atteggiamenti punitivi declinati in chiave prevalentemente retributiva. Se così è, fa benissimo ora il Pd a cercare di porre argine al fanatismo repressivo dei Cinque stelle. Ma, stando alle cronache giornalistiche di questi giorni, le linee ispiratrici della proposta dem non risultano ancora chiare. E incombe per di più il rischio che, nel tentativo di trovare una soluzione di compromesso col mantenimento del blocco della prescrizione così come voluto da Bonafede, ne esca fuori alla fine un complessivo pastrocchio. Affrontare in un articolo di giornale complicate questioni tecnico-giuridiche non è, certo, possibile. Anche limitandosi all’essenziale, non si può peraltro prescindere da una premessa e da qualche rilievo di massima. Cominciando dalla premessa, va ricordato che l’istituto della prescrizione deve la sua genesi alla presa d’atto che la repressione dei reati non può costituire un obiettivo prioritario a ogni costo. Piuttosto, sono in gioco rilevanti interessi ed esigenze concorrenti, che vengono appunto in rilievo per effetto del decorrere del tempo rispetto al reato commesso, e che vanno perciò bilanciati con l’interesse a punire. Beninteso, si tratta di preoccupazioni concorrenti che si collocano a monte del problema dell’efficiente funzionamento della macchina giudiziaria e dei tempi del processo, che occorrerebbe accorciare perché spesso in Italia troppo lunghi. Anche se il dibattito corrente si concentra soprattutto sulle lungaggini del processo, non bisognerebbe infatti trascurare che le ragioni “classiche” della prescrizione hanno in primo luogo a che fare col diritto penale sostanziale e con gli stessi fini della pena, come ha sinora più volte riconosciuto pure la Corte costituzionale. Il punto essenziale è questo: a misura che aumenta la distanza temporale tra il reato commesso e il momento in cui interviene la condanna, decresce la necessità pratica di punire dal duplice punto di vista della prevenzione generale e della prevenzione speciale. Ciò sia perché col passare degli anni sfuma l’allarme sociale, e viene meno il pericolo che altri siano per suggestione imitativa indotti a compiere delitti simili; sia perché col trascorrere del tempo il reo può essere diventato un’altra persona, può essersi spontaneamente ravveduto, per cui non avrebbe più senso e scopo applicargli una pena in chiave rieducativa. Si aggiunga inoltre, da un punto di vista probatorio, che quanto più un caso è lontano nel tempo, tanto più difficile ne risulta la prova nell’ambito del processo. Questi fondamenti classici della prescrizione sono divenuti, ormai, obsoleti a causa di un riemergente retribuzionismo intransigente e rabbioso, per cui la maggioranza dei cittadini oggi esige che tutti i reati (dai più gravi ai più lievi) vengano perseguiti e sanzionati “senza se e senza ma”? Certo è che i suddetti fondamenti stanno alla base anche del modello di disciplina della prescrizione così come previsto in origine nel nostro codice penale, e come poi riveduto (in maniera, peraltro, non poco discutibile) con la riforma Cirielli del 2005. Si tratta, invero, di un modello che riflette esigenze repressive modulate sulla differente gravità dei reati, per cui i termini prescrizionali dipendono dalle soglie di pena legislativamente riferite alle diverse figure criminose. (E va esplicitato che esso non viene abrogato dalla riforma Bonafede, che piuttosto vi si sovrappone dall’esterno con effetti - come vedremo tra poco - distorsivi). È vero che, in anni più recenti, sono andate affiorando preoccupazioni ancorate soprattutto al principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), con un tendenziale spostamento dell’attenzione riformatrice sul terreno processuale. Privilegiato soprattutto dai processualisti e dal mondo della prassi giudiziaria, questo tipo di approccio ha ispirato la riforma Orlando del 2017 nella parte in cui questa ha previsto tempi massimi di sospensione della prescrizione in rapporto a distinte fasi processuali (nella misura di tre anni complessivi nel periodo intercorrente tra la sentenza di primo grado e quelle dei due gradi successivi). La riforma Bonafede approvata quest’anno, che ha invece stabilito il blocco definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e che è destinata a entrare il vigore il 1° gennaio 2020 (quindi tra meno di un mese), è stata in realtà concepita così affrettatamente, da non lasciare tempo sufficiente per verificare i concreti effetti della ancora recente riforma Orlando. Questo non è certo un modo di legiferare razionale e responsabile. Ma l’obiezione principale è di merito più che di metodo, e fa leva sulle implicazioni gravemente distorsive del sistema penale che la concreta entrata in vigore del blocco recherebbe con sé. Come si è infatti già rilevato in sede specialistica (alludo, in particolare, ad acuti commenti critici di Domenico Pulitanò), la eguale imprescrittibilità di reati eterogenei rispetto ai quali l’art. 157 del codice penale (destinato comunque a restare invariato) continuerebbe in linea di principio a prevedere, in ragione del corrispondente livello di gravità, tempi di prescrizione differenziati, porrebbe serissimi problemi di compatibilità costituzionale: innanzitutto, col principio di eguaglianza-ragionevolezza; e, in secondo luogo, col principio di rieducazione nelle ipotesi di condanne a parecchi anni di distanza dal reato commesso (problemi di compatibilità che sfocerebbero in ricorsi alla Corte costituzionale nei casi concreti di sentenze divenute, appunto, definitive dopo la scadenza del termine di prescrizione previsto in astratto dal diritto penale sostanziale). Bene dunque hanno fatto le Camere penali a lanciare un allarmato appello pubblico del seguente tenore: “Il penale perpetuo, che si appresta ad entrare in vigore, appiattisce indiscriminatamente la misura del tempo dell’oblio, uniformando dopo il primo grado tanto i delitti più gravi, quanto le più bagatellari delle contravvenzioni”. Le proposte correttive del Pd si preoccupano di rimediare in qualche modo alla irrazionalità costituzionalmente sindacabile di un tale indiscriminato appiattimento? Si legge sulla stampa che i dem intenderebbero conciliare il blocco della prescrizione voluto da Bonafede con nuove soluzioni normative finalizzate ad accorciare i tempi del processo. Ma in quali forme si pensa di potere tecnicamente tradurre questo compromesso? Può essere ragionevole perseguire compromessi funzionali alla tenuta di questo traballante governo. Ma, se il contrasto sulla prescrizione non giustifica forse una crisi governativa, è pur vero che la complessità e la rilevanza anche costituzionale del tema non vanno sottovalutate. Il modo di affrontarlo incide infatti in ogni caso, e in misura assai rilevante, sulle libertà, i diritti e financo le prospettive esistenziali dei cittadini in carne e ossa. Per Cantone la prescrizione è una piaga da fermare di Giorgio Iusti La Notizia, 12 dicembre 2019 L’ex presidente dell’Anac: il processo però ha bisogno di tempi certi. Alla Camera il magistrato evidenzia che metà dei procedimenti va al macero già durante le indagini. La prescrizione è una piaga. E il diritto a un processo con tempi certi non equivale al diritto a finire prosciolti per intervenuta prescrizione. Ne è convinto anche l’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e attualmente impegnato come magistrato della Corte di Cassazione, Raffaele Cantone, in audizione ieri davanti alla Commissione giustizia della Camera. Cantone ha affrontato il tema, particolarmente caldo in questi giorni considerando che lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado scatterà dal 1 gennaio, e ha affermato che la prescrizione appunto “rappresenta un vulnus alla giustizia del nostro paese”. “Ritenere che il tema della prescrizione si possa sottovalutare - ha detto - credo che non sia corretto. Quando ogni anno si prescrivono migliaia di procedimenti penali non si può ritenere il dato non significativo. Stiamo parlando di migliaia di procedimenti e dietro i procedimenti ci sono gli imputati, le parti offese che spesso sono quelle più danneggiate dai meccanismi della prescrizione”: Di più: “Il diritto al processo non equivale al diritto alla prescrizione”. Allo stesso tempo il magistrato ha auspicato che si intervenga anche per garantire tempi certi del processo e ha evidenziato dei dati-shock. L’ex presidente dell’Anac ha infatti specificato che ben il 50% dei procedimenti si prescrive senza svolgere nessun tipo di attività nella fase delle indagini preliminari. Senza arrivare dunque neppure a un rinvio a giudizio. Sostanzialmente una resa da parte dello Stato nel fare giustizia. Consulta, Cartabia prima donna al vertice di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2019 Marta Cartabia, 56 anni, è il nuovo presidente della Corte costituzionale. Auspica che la sua nomina alla quinta carica dello Stato sia da “apripista”, considerato che non solo “in Italia l’età e il sesso ancora un po’ contano”, ma che è anche un Paese “in cui calano gli omicidi e non i femminicidi, un problema di civiltà”. Ma il “vetro di cristallo - ha detto - si è rotto”. E così, per la prima volta, una donna presiede la Consulta. La Corte, riunita in camera di consiglio, l’ha eletta con 14 voti a favore e una sola scheda bianca: la sua. Sarà un mandato breve, di appena nove mesi. La scadenza è prevista per il 13 settembre prossimo, perché il suo “ufficio” di giudice costituzionale - con nomina disposta nel 2011 dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano - non può durare più di nove anni. Ma, come hanno detto gli altri giudici costituzionali donna, Daria de Pretis e Silvana Sciarra, “la tua elezione è la nostra elezione”. Perché dal 23 aprile 1956, da quando si è svolta la prima udienza pubblica della Corte, la quinta carica dello Stato, che presiede l’organo preposto a garantire il rispetto della Costituzione, è in “rosa”. “Certi risultati - ha detto - vanno valutati su un significato storico e pubblico”. Docente di Diritto costituzionale dal 2008 all’Università Bicocca di Milano e stimata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha assunto sin dall’inizio della sua carriera accademica uno spiccato profilo internazionale. Ha insegnato e fatto attività di ricerca in diversi atenei in Italia e all’estero, anche negli Stati Uniti. In qualità di esperto ha fatto parte di organismi europei, come l’Agenzia dei diritti fondamentali della Ue di Vienna. Alla Corte costituzionale arriva nel 2011: è la terza donna dopo Fernanda Contri e Maria Rita Saulle ed è una dei giudici costituzionali più giovani della storia della Consulta. Già a marzo 2018 Cartabia ha sfiorato l’elezione alla presidenza. In quell’occasione, però, la Corte votò per Giorgio Lattanzi, il quale però confermò la nomina di Cartabia a vice presidente (già decisa nel 2014) assieme ad Aldo Carosi e Mario Morelli. Secondo indiscrezioni Cartabia ha avuto il sostegno dei componenti più “innovativi” del collegio, come Giuliano Amato. Ma non solo. “Ringrazio la Corte che mi ha dato fiducia compatta, e questo mi sostiene e mi conforta”, ha detto. “Ho avuto il sostegno esplicito anche dei vicepresidenti Morelli e Carosi, il loro è stato un passo indietro per un passo avanti della nostra democrazia. L’elezione di una donna non è un elemento secondario”. Per questo ha auspicato che la sua elezione sia da “apripista” a una nuova stagione, in cui non sia più necessario fare ricorso alle cosiddette “quote rosa”. Intervenendo a Rai Radio 1 ha precisato che “la magistratura sta beneficiando di tante forze al femminile, le donne magistrato sono oltre il 50%, però sono ancora assenti da organi di rappresentanza come il Csm. Evidentemente il fatto richiede ancora un lungo cammino da fare”. Il pensiero della neopresidente va poi anche alla manovra all’esame del Parlamento: “La legge di bilancio è una legge chiave dello Stato: è impossibile che una democrazia non presupponga tempi adeguati di discussione”. I complimenti giungono dal mondo istituzionale, politico e accademico. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati esprime “orgoglio” nel “vedere finalmente una donna ai vertici della Consulta”, mentre il presidente della Camera Roberto Fico ritiene che la nomina di una donna sia “fondamentale per la nostra democrazia”. Di una “tappa storica”, invece, parla la prorettrice ai Diritti dell’Università degli Studi di Milano Marilisa D’Amico. Nuova linfa per il ruolo della Corte costituzionale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2019 È anche attraverso gli interventi e le decisioni della nuova presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, che il ruolo della Consulta nel mondo del diritto certo, ma soprattutto nella società, esce ridefinito e, per certi versi almeno, rinvigorito. Pochi giorni fa sul Sole 24 Ore Cartabia, in un intervento dedicato alla giurisprudenza costituzionale negli anni della crisi, nel quale emergevano tre parole chiave per qualificare la giurisprudenza costituzionale in questa prospettiva (persona, risorse, comunità), scriveva dello strabismo dello sguardo della Corte: “Con un occhio guarda nel breve termine gli effetti particolari e generali delle sue decisioni; con l’altro guarda lontano, per l’innata vocazione delle sue sentenze a proiettare effetti nel lungo termine”. Dove quella vocazione ineludibile al bilanciamento dei diritti e dei principi costituzionali trova un ambito tutto particolare nel mondo dell’economia e delle compatibilità con le quali l’attività d’impresa deve confrontarsi. Ne è evidente paradigma la vicenda Ilva, sulla quale proprio Cartabia ha avuto occasione d’intervenire con una delle 171 pronunce scritte in questi anni di giudice costituzionale. Nella sentenza n. 58 dell’anno scorso, Cartabia censurò con l’illegittimità le misure del 2015 che permettevano a Ilva di continuare a produrre senza adeguate garanzie di salvaguardia di diritti costituzionalmente rilevanti come quello alla salute certo, ma anche al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso. Si legge in quella pronuncia, dove pure si riconosce come il legislatore può intervenire per garantire la continuità produttiva e i posti di lavoro escludendo che sequestri penali decisi dalla magistratura compromettano la continuità d’impresa, che il bilanciamento deve essere ragionevole e proporzionato, senza cioè che uno dei diritti in gioco possa prevalere in modo assoluto né essere sacrificato in maniera totale. Una ricerca dei punti di equilibrio ogni volta diversi e all’altezza della complessità, cui la Corte, ha sottolineato di recente Cartabia, prova a fare fronte anche dotandosi di tecniche processuali nuove, sulla falsariga dei modelli seguiti da altre Alte Corti. È il caso dell’annullamento di leggi con effetti solo per il futuro, quando è necessario per evitare anche “squilibri di proporzioni macroeconomiche”. Oppure, come avvenuto di recente nel caso Cappato e nelle tante questioni legate al “fine vita”, non più sollecitando solo il Parlamento a intervenire per correggere evidenti distorsioni costituzionali, ma affidando al legislatore un congruo arco di tempo per farlo, prefigurando già un successivo intervento in caso di inerzia. Un piccolo ed evoluto arsenale di strumenti anche inediti per affrontare con accresciuta consapevolezza materie assai delicate come quelle che la Consulta sarà chiamata ad affrontare nelle prossime settimane. Dal giudizio di ammissibilità sul referendum elettorale voluto dalla Lega, alle questioni legate all’iscrizione all’anagrafe da parte dei migranti, all’esclusione di Autostrade dalla ricostruzione del ponte Morandi di Genova per finire alla “spazza-corrotti” e alla sua applicazione retroattiva. Tutte questioni complesse e a elevata sensibilità “politica” per chi ieri ha ammesso l’orgoglio di fare da apripista con la prima presidenza femminile della Corte. Tuttavia conclusione quasi naturale per chi, era il 2012, scrisse la sua prima sentenza da toga della Consulta affermando che la composizione della giunta regionale della Campania, senza nemmeno la presenza di una donna, era in contrasto con il principio di pari opportunità affermato anche nello Statuto della Regione. Marta Cartabia presidente della Consulta: i motivi per gioirne e i passi avanti ancora da fare di Sabino Cassese Corriere della Sera, 12 dicembre 2019 Cartabia è competente, pronta a comprendere su quali strade si incammini il mondo. E donna: indicandoci così quanti passi ancora vadano fatti per giungere a un’effettiva parità. Ecco finalmente una buona notizia: Marta Cartabia è il nuovo presidente della Corte costituzionale. È una buona notizia perché a una delle più alte cariche dello Stato accede una persona competente, i cui studi sono al centro dei nuovi compiti della Corte. L’”Italia in Europa” è il titolo di uno dei molti volumi che Marta Cartabia ha scritto sugli stretti legami del nostro Paese con l’Europa. È una buona notizia perché a quella carica giunge una studiosa che ha orientato la sua vita di ricercatrice nella direzione della apertura reciproca degli ordinamenti nazionali e della comparazione, che ha al suo attivo studi all’estero, che ha consuetudine di collaborazione con i maggiori centri di ricerca stranieri. Si deve a lei uno dei più importanti volumi sulla giustizia costituzionale nel contesto globale, scritto con la partecipazione di studiosi stranieri e italiani. È una buona notizia perché alla Presidenza della Corte costituzionale arriva una persona in grado, per i suoi studi e le sue esperienze, di comprendere per quali nuove strade si sta incamminando il mondo. Questo è importante anche per comprendere e contenere le posizioni regressive dei neo-nazionalisti che vorrebbero nuovamente rinchiudersi nei confini nazionali, ergendo barriere e muri. È, infine, una buona notizia perché per la prima volta una donna prende la Presidenza della Corte costituzionale. Ci sono voluti 63 anni perché al vertice di un organo la cui prima missione è quella di garantire l’eguaglianza si affermasse la parità di genere. Ricordiamolo, dunque, con quanta difficoltà, con quanto tempo, con quali ritardi, l’umanità si libera di pregiudizi, di modelli culturali, di prigioni intellettuali per riconoscere nei fatti un principio in astratto affermato da secoli, quello di eguaglianza. Fino al 1919, secondo una norma del codice civile, “la moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipotesa, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito”. Solo nel 1946 le donne italiane hanno potuto partecipare alle elezioni politiche nazionali. Solo nel 1956 hanno potuto accedere alle giurie popolari delle Corti di Assise. Solo nel 1965 le prime otto donne sono divenute magistrate. Ancora oggi nessuna donna ha presieduto la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti. Eppure l’articolo 51 della Costituzione è chiaro: “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”. Sarebbe bastato scrivere “in condizioni di eguaglianza”. I costituenti vollero precisare: “dell’uno e dell’altro sesso”. E nel 2003 venne aggiunto “a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Molti passi sono stati fatti. Un terzo dei parlamentari è donna. Sono donne metà dei prefetti e metà dei magistrati (ma, tra questi ultimi, sono donne solo un quarto dei titolari di funzioni direttive). In un Paese preoccupato per le sorti della sua economia, per la mancanza di posti di lavoro, per il continuo dividersi dei suoi governanti, per le minacce rivolte ai suoi legami storici con l’Europa e con l’Occidente; in un Paese impaurito dai miti negativi, agitati dai neo-nazionalisti, per i quali l’Italia sarebbe dominata da criminalità e corruzione e messa in pericolo dall’invasione di stranieri, la Corte costituzionale - eleggendo all’unanimità, con straordinaria coesione, il suo nuovo presidente - ci dice che c’è ancora posto per la speranza. Ha spalle robuste contro la tentazione illusoria di scorciatoie autoritarie di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 12 dicembre 2019 L’elezione di Marta Cartabia presidente della Corte costituzionale è per varie ragioni motivo di grande soddisfazione e di felice auspicio per il fondamentale ruolo della Corte di controllo sulla costituzionalità delle leggi ordinarie. In primo luogo è la prima donna ad essere eletta presidente della Corte, organo in funzione dal 1956 che ha sinora visto la presenza di pochissime donne. È proprio vero, come ha dichiarato la neo- presidente, che si è rotto “un vetro di cristallo” e che l’elezione funzionerà da apripista per altre cariche politico- istituzionali rimaste sinora precluse alle donne. Ma vi è di più: questa eccezionale docente di diritto costituzionale, ampiamente affermata e riconosciuta anche a livello internazionale, negli ultimi anni non si è lasciata tentare dalle numerose e allettanti proposte di assumere incarichi politici di governo, così confermando che la destinazione alle istituzioni è lo sbocco più consono e naturale della sua personalità e della sua formazione. Succede a Giorgio Lattanzi, la cui forte e incisiva presidenza si è caratterizzata, tra l’altro, per una crescente presenza della Corte nella società civile, emblematicamente rappresentata dalle visite alle scuole e al carcere, di cui Marta Cartabia è stata fervida protagonista. Si può dunque essere certi che queste “aperture” della Corte si svilupperanno ulteriormente durante la sua presidenza, diffondendo la consapevolezza che la Corte, organo poco conosciuto e per molti addirittura sconosciuto, è in realtà un’istituzione che incide profondamente sulla vita nazionale, attraverso le sue principali funzioni di giudice della conformità delle leggi ordinarie alla Costituzione e di arbitro degli eventuali conflitti tra i poteri dello Stato. Marta Cartabia è stata eletta presidente all’unanimità (14 voti e una scheda bianca, la sua), risultato non scontato nella storia della Corte. Qui importa rilevare che l’unanimità rafforza il ruolo della Presidente, e della Corte stessa, perché esprime, al di là delle fisiologiche e necessarie differenze culturali, ideologiche e professionali tra i vari giudici costituzionali, un forte accordo sul ruolo e sulle funzioni della Corte e sulla sua immagine nella società civile. In un contesto in cui il quadro politico si dibatte tra paralizzanti contrasti e profonda debolezza, le più alte cariche dello Stato poggiano per fortuna su spalle robuste, fortemente determinate a difendere il ruolo di custodi e garanti della legalità costituzionale contro qualsiasi malsana tentazione di illusorie scorciatoie autoritarie. Abbiamo di recente constatato quanto siano alti il consenso e la credibilità del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, destinatario di una inusuale ovazione alla Scala di Milano, e sappiamo quale insostituibile funzione di custode della Costituzione svolga la Corte costituzionale. Ebbene non è casuale che Sergio Mattarella sia a sua volta stato giudice della Corte costituzionale, collega dell’attuale Presidente della Corte Marta Cartabia, entrambi impegnati - alla stregua dei poteri e dei compiti loro rispettivamente assegnati dalla Costituzione - nella difesa della legalità repubblicana. Ed è appunto questa comune matrice che ci consente di guardare con un minimo di ottimismo al futuro del nostro così mal ridotto Paese. Come risanare il Csm: incarichi a rotazione per prosciugare le correnti di Andrea Mirenda (Magistrato) Il Riformista, 12 dicembre 2019 La riforma degli incarichi direttivi è oramai cruciale per l’effettiva indipendenza della magistratura e lo è, ancor più, dopo le scandalose notti romane di questa primavera, che hanno condotto alle dimissioni di cinque consiglieri del Csm e, addirittura, del Procuratore generale della Cassazione. Da sempre le nomine giudiziarie rappresentano il principale oggetto della voracità correntizia e le fitte trame intorno alle future nomine dei procuratori della Repubblica di Roma, Torino, Reggio Calabria, Perugia, etc., lungi dall’essere descrivibili - come vorrebbe taluno - come evento eccezionale, patologico, etc., sono l’esempio eloquente dell’ultradecennale degrado in cui versa il Consiglio Superiore. È tempo, allora, di fermare il declino, anche per evitare pericolosi interventi volti ad addomesticare la giurisdizione col pretesto di mettere ordine… Che fare, dunque? Preso atto, purtroppo, della consueta genuflessione della politica all’Anm e dell’abbandono del progetto (costituzionalissimo) del sorteggio dei candidati che, da solo, avrebbe decretato la fine dell’occupazione correntizia del Csm, non è comunque possibile accontentarsi dei “fioretti” di santità del vicepresidente Ermini, altro non fosse perché destinati, ahinoi, ai consiglieri eletti in quota alle singole correnti (sarebbe come chiedere ai tacchini di preparare il pranzo di Natale). È tempo, quindi, di riforme che tocchino, una volta per tutte, il core business del malaffare correntizio: il “nominificio”. Per fare ciò occorre una legge - temutissima dalla correntocrazia - che preveda il coordinamento degli Uffici “a rotazione”. Ragioni di spazio impongono brevità. Esclusa, quindi, ogni velleità sistematica, quello che si intende evidenziare è proprio l’eccezionale valore riformista della proposta in questione, la sola che - a costo zero - potrà arrestare l’attuale deriva gerarchizzante, riportando la magistratura italiana nel solco voluto dai padri costituenti. Per comprendere meglio le ragioni della rotazione, occorre partire dall’idea stessa di “magistrato” espressa nella Carta fondamentale. Tre i pilastri costituzionali su cui si regge: 1) l’indipendenza riconosciuta al singolo magistrato soggetto soltanto alla legge; 2) la pari dignità delle funzioni; 3) l’autogoverno non come potere concentrato nelle mani del Csm bensì come esperienza diffusa. Ecco, allora, il modello del magistrato: indipendente, imparziale, autorevole, dedito esclusivamente allo svolgimento del suo lavoro, moralmente libero… anche dalle personali ambizioni. Se confrontiamo questo modello con quello del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria non sfugge l’insostenibilità di un sistema che, in barba al principio di autogoverno, ha dato vita a una vera oligarchia dei sedicenti migliori, ossia di quelli dotati dell’esoterica “attitudine direttiva”. Che quella dell’attitudine direttiva sia, peraltro, una mistificazione ce lo dicono già i più elementari principi organizzativi della scienza aziendalistica. I “dirigenti” giudiziari, difatti, non possono né potranno mai dirsi “manager”. Si può esserlo senza un budget autonomo? Senza un’autonoma leva di spesa? Senza un proprio staff a cui affidare il compito di dar piede al progetto organizzativo? E sarebbe divertente, a questo proposito, verificare quanti dirigenti giudiziari hanno saputo/potuto realizzare i fantasiosi disegni sulla scorta dei quali sono stati preferiti ad altri. Ma il modello “migliorista” non regge neanche a valle: grazie alla retorica del “migliore” e al fumoso reticolo di norme secondarie su cui essa si basa, le correnti si sono viste attribuire uno straordinario potere di condizionamento, potendo plasmare a piacimento la carriera di ogni singolo magistrato (naturalmente… a buon rendere), con gli intuibili riflessi sull’indipendenza di quel giudice. Sei della mia corrente? Avrai fermo appoggio contro il candidato dell’altra corrente, a prescindere dalla professionalità; ci sono più posti a disposizione? Ce li spartiamo equamente, uno a noi, uno a loro, e così via. “Non ce ne sono o sono pochi? Va bene, la prossima volta toccherà a loro “a prescindere” oppure faremo in modo di crearli, posponendo sapientemente il momento della delibera”. Tutte cose arcinote, innegabili, trasversali a tutte le correnti, nessuna esclusa, secondo i variabili rapporti di forza. Come non ricordare, del resto, le amare considerazioni del professor Mazzamuto, ex componente laico del Csm, che avendo visto all’opera i signori delle tessere sottolineò l’assenza di “un’adeguata garanzia “interna” nei confronti delle dinamiche corporative della stessa magistratura”? E ancora, sempre ragionando “a valle”, non sfugge il fall out negativo dell’ideologia migliorista: l’invito ai magistrati - sin dal tempo zero - a percorrere a testa bassa quel cammino della speranza fatto di inconsistenti “medagliette” extracurricolari, principalmente legate all’associazionismo giudiziario, buone solo a distrarli dai doveri quotidiani nella purtroppo diffusa convinzione del lavoro come…tempo sottratto alla carriera. La patologia del sistema, del resto, è resa evidente anche dal rilievo per cui - sulla carta - circa il 90% dei magistrati è escluso dall’esperienza di autogoverno; di fatto, il Testo unico sulla dirigenza ha dato vita a un corpo di magistrati eterodiretti da un manipolo di autogovernanti “a vita”, con buona pace del modello costituzionale. Sono noti, poi, i meccanismi striscianti di subordinazione favoriti da questo sistema, quali - giusto per fare qualche esempio - la determinazione dei criteri di distribuzione degli affari, dei carichi di lavoro individuali, della pretesa produttiva pro capite (sempre crescente, anno dopo anno), delle modalità di lavoro, etc., il tutto sotto il simpatico schiaffo della leva disciplinare. Piazza Fontana. Quello scontro tra Procure che uccise la verità di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 dicembre 2019 Dopo trent’anni di processi nessun colpevole. Sono passati cinquant’anni da quei 7 chili di tritolo piazzati nella sala centrale della Banca dell’Agricoltura a Milano, in piazza Fontana. La bomba uccise 17 persone e ne ferì 88 e l’attentato passò alla storia come la madre di tutte le stragi. La più maledetta, anche, perché funestata nella ricerca della verità da infinite parabole di depistaggi, prove sparite, morti sospette e inspiegabili. Tra tutte, la più drammatica fu quella del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, fermato come esecutore subito dopo la strage e precipitato in circostanze mai chiarite dalla finestra del commissario Luigi Calabresi, al quarto piano del commissariato di polizia, dopo tre giorni di interrogatorio in questura senza un difensore. Per raccontarla bisogna partire dalla fine: il 10 giugno 2005, quando la Corte di Cassazione depositò le motivazioni della sentenza di assoluzione degli imputati nell’ultimo filone d’inchiesta, promosso dall’allora giudice istruttore di Milano Guido Salvini nel 1995. A uscire di scena da uomini liberi per insufficienza di prove furono Carlo Maria Maggi, leader dei neofascisti del Triveneto, Delfo Zorzi, ex esponente di Ordine Nuovo e sospettato di essere l’autore materiale e Giancarlo Rognoni, capo del gruppo estremista veneto “La Fenice”. Ma i giudici della Suprema Corte scrissero anche che l’eccidio del 12 dicembre 1969 fu organizzato da “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo” e “capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”. Il giudizio, tuttavia, aveva il valore di sola condanna storica, poiché i due militanti di Ordine Nuovo erano già stati assolti in via definitiva per la strage con il processo di Catanzaro e Bari nel 1987 e riconosciuti colpevoli solo per le bombe sui treni che precedettero la strage milanese. Questa, ad oggi, è l’unica verità (per altro non processuale) consegnata alle famiglie delle vittime. Nonostante oltre trent’anni di indagini, non è mai stato individuato con certezza l’esecutore materiale che posizionò la valigetta sotto il grande tavolo di legno di Banca dell’Agricoltura. I processi che hanno provato a far luce su Piazza Fontana sono stati almeno tre. Il primo, a Milano, vide gli inquirenti impegnati a seguire la pista anarchica, prima con il fermo e la morte di Pinelli, poi con l’arresto di Pietro Valpreda e Mario Merlino: tutti e due membri del circolo anarchico 22 marzo, l’ultimo un neofascista infiltrato nel gruppo. Analizzando le borse contenenti l’esplosivo e il timer, tuttavia, prese corpo la pista nera, che portava ai portici di Padova e al gruppo neofascista Ordine Nuovo, guidato in città dal procuratore legale Franco Freda e dall’editore di via Ezzelino, Giovanni Ventura. I due furono arrestati insieme ad altri membri e venne individuata anche la figura sinistra di Guido Giannettini, giornalista di destra, appartenente ad Avanguardia Nazionale e informatore col nome di agente Zeta del Sid, il servizio segreto di stato, che ne coprì la fuga a Parigi. In seguito, vennero arrestati anche il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna del Sid, entrambi accusati di falso ideologico e favoreggiamento nei confronti di alcuni imputati. Nel 1973, tuttavia, il processo a carico sia degli anarchici che dei neofascisti era stato spostato nel tribunale di provincia di Catanzaro per motivi di ordine pubblico sollevati dall’accusa: mille chilometri lontano dalla sede della strage, dal clamore mediatico e luogo quasi irraggiungibile per i numerosi testimoni chiamati a deporre e per le parti civili. Da quel processo, ripreso dalle telecamere della Rai, nel 1979 vennero condannati all’ergastolo per strage Freda, Ventura e Giannettini e gli agenti del Sid per favoreggiamento. Proprio questa condanna - ribaltata con l’assoluzione in appello e poi anche in Cassazione dopo un ulteriore grado d’appello a Bari - sarà confermata come corretta 26 anni dopo dalla stessa Cassazione. Tra le spire della strage di Stato finirono avviluppati - insieme a politici e agenti segreti - tutti i principali nomi dell’eversione nera: oltre a quelli già citati, anche il fondatore di Ordine Nuovo Pino Rauti, gli ordinovisti Massimiliano Franchini e Carlo Digilio (l’esperto di esplosivi detto zio Otto), il fondatore di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie. Nel flusso confuso e reticente delle loro dichiarazioni, finirono pezzi della storia di Gladio, del Golpe Borghese, della strage di Bologna e della Loggia P2. Di nessuno di loro, tuttavia, si sono mai riuscite a individuare precise responsabilità per la strage. Eppure, leggendo in fila gli atti dei processi su Piazza Fontana - da quello di Catanzaro a quello più recente di Milano - si riconosce in filigrana il disegno, gli attori e il movente: gettare il paese nella paura con l’obiettivo di sovvertire lo Stato democratico e favorire una svolta autoritaria. Era il 1969, l’inizio della strategia della tensione. Patteggiamento: l’imputato orienta il giudice sulle pene accessorie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2019 Dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato le pene accessorie in misura fissa per la bancarotta fraudolenta, il patteggiamento è nullo. E le parti devono, ora poter dire la loro anche sulle pene accessorie, orientando il giudice che, non più vincolato ad una pena obbligatoria, ma graduabile, si trova a valutare nel “delta” aperto dalla Consulta, con un margine simile a quello che ha nel determinare la pena principale. Per questo le parti vanno ricondotte nella situazione iniziale precedente il patteggiamento “potendo - scrivono i giudici - le stesse, nella scena “negoziale” del rito patteggiato che ha ad oggetto la determinazione pattizia della pena complessivamente intesa, decidere di far rientrare anche la misura della sanzione accessoria, ex articolo 216 della legge fallimentare, con funzione di orientamento e di indicazione al giudice nell’uso dei suoi poteri valutativi”. E la Cassazione avverte che quanto più valore si darà all’indicazione della parte per raggiungere una misura concordata anche della sanzione accessoria, tanto più si incentiverà la volontà di patteggiare la pena. L’imputato, potrebbe, infatti, eventualmente ritenere ingiusto o semplicemente non conveniente aderire a un accordo che indichi, a suo giudizio, una misura della sanzione accessoria sproporzionata rispetto al disvalore del fatto commesso. Se così fosse può dunque decidere per altri riti, magari caratterizzati da una maggiore possibilità di rappresentare al giudice, sul piano dialettico, le proprie ragioni. Per la Suprema corte la pronunce della Corte costituzionale prima, e dopo quella delle Sezioni unite che ne ha recepito i principi ampliando il campo di operatività oltre il caso specifico, hanno aperto nuovi spazi di riflessione sulla natura della pena accessoria, prevista dall’ultimo comma dell’articolo 216 della legge fallimentare che, per come viene oggi ricostruita, “implica molteplici finalità - retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative - realizzate mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi”. I giudici precisano che le parti non hanno alcun interesse a interloquire solo quando la sanzione accessoria è obbligata nell’an e nel quantum. Diverso nel caso di specie in cui, oltre alla misura variabile, c’è da considerare anche l’indubbio carattere di forte afflittività delle sanzioni interdittive e inabilitative che si riflettono direttamente nella vita lavorativa e professionale e sull’esercizio di diritti fondamentali della persona, spesso indipendentemente dall’esecuzione della pena principale. Un “peso” che potrebbe incidere sulla stessa volontà negoziale delle parti chiamate ad un accordo, la cui forza attrattiva sarà direttamente proporzionale alla possibilità per la parti di orientare il giudice, nella determinazione della pena accessoria. La “continuità aziendale” non giustifica l’omesso versamento Iva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 11 dicembre 2019 n. 50007. Il tentativo di preservare la continuità aziendale non autorizza l’imprenditore a non versare l’Iva prediligendo il pagamento di altri creditori. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 50007 di ieri, respingendo il ricorso del rappresentante legale di una Srl condannato per l’omesso versamento degli oltre 300mila euro indicati nella dichiarazione annuale. L’imputato si era difeso sostenendo di essersi trovato di fronte a una scelta obbligata per non chiudere i battenti e licenziare i dipendenti. Secondo la III sezione penale tuttavia l’esimente della forza maggiore “postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente”. In questo senso, prosegue la decisione, la giurisprudenza di legittimità “ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante”. Non rileva dunque che “la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario”. Del resto, argomenta la Cassazione, “il debito verso il fisco relativo ai versamenti Iva è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili”. Per cui, “ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’Iva dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria”. Insomma, “l’obbligo di accantonamento è strettamente collegato alla natura giuridica di profitto del reato delle somme non versate a titolo di Iva”. La Corte ricorda poi che, in caso di condanna, le somme non versate a titolo di Iva sono destinate a essere sottratte al patrimonio del reo, “essendo già a monte destinate alla collettività”. Non è dunque possibile consentire che l’autore del reato possa autofinanziarsi “con risorse non proprie”, con quelle cioè già destinate alla collettività, “percependo così il profitto illecito del reato e reimpiegandolo, sottraendolo così anche alla confisca obbligatoria”. Tornando al caso specifico, “dall’analisi dei dati documentali - conclude la sentenza - la Corte di appello ha ritenuto che la crisi aziendale non fosse assoluta e che l’omesso versamento dell’Iva fu solo il frutto della scelta volontaria e discrezionale dell’imprenditore, il quale, pur avendo le risorse, essendo risultato provato che l’iva da versare era entrata nel patrimonio sociale, aveva scelto di pagare altri creditori”. Campania. Sanità penitenziaria: “situazione difficile, ma si muove qualcosa” di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 12 dicembre 2019 Il parere del Garante per i detenuti della regione Campania Ciambriello e del responsabile dell’Asl penitenziaria Acampora. Il provvedimento che avrebbe potuto rappresentare una svolta per la gestione della sanità penitenziaria c’è stato nel 2008. Quell’anno fu varata una riforma che affidò le competenze in materia dal Ministero della Giustizia alle Asl territoriali. Con questa disposizione venne sancito un principio già reso legittimo dalla nostra Costituzione (articolo 32): a tutti i cittadini va garantito il diritto alla salute. Dunque, questo vale anche per i detenuti. Abbiamo parlato di questo delicato argomento con il Garante per i diritti dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello. L’occasione c’è stata dopo il caso che VocediNapoli.it ha sollevato in merito alla vicenda del detenuto Antonio A., ora recluso a Caltanissetta e che da mesi è in attesa di una visita che dovrebbe accertare o meno l’esistenza di un linfonodo alla gola. Per Ciambriello vi sono diversi aspetti che esprimono il drammatico contesto della sanità in carcere: criticità operative, carenza di risorse e personale e la non-informatizzazione delle cartelle cliniche dei detenuti. “Oggi un carcerato deve aspettare da 6 mesi ad un anno per fare una visita - ci ha detto Ciambriello - ma può capitare che quando arriva il grande giorno non siano disponibili gli agenti penitenziari che devono scortare il detenuto. Così la visita salta di nuovo”. Ha affermato il Garante dei detenuti, “è assurdo che alle soglie del 2020 solo il carcere di Arienzo possegga un data base con i dati sanitari del detenuto. Per non parlare dei gravi disagi che devono sopportare i detenuti disabili. Per loro non esistono neanche strutture detentive adeguate”. “Il problema è relativo all’intero sistema-carcere. Un luogo caratterizzato dal sovraffollamento e dalla sofferenza. Un posto poco attrattivo: dico solo che c’è stato un bando - ha dichiarato Ciambriello - per assumere a tempo indeterminato alcuni psichiatri presso il penitenziario di Avellino. Non si è presentato nessuno”. “Per una popolazione carceraria composta da 7.800 detenuti - ha proseguito Ciambriello - sono disponibili solo 36 posti negli ospedali. In Campania lo scenario è questo: a Benevento il San Pio non ha un reparto detentivo. A Caserta c’è solo a Sessa Aurunca. A Napoli c’è un padiglione allestito ad hoc al Cardarelli e uno spazio al Cotugno per le malattie infettive. Altre volte la disponibilità, per soli tre posti, è giunta dal San Paolo”. Continua l’elenco fatto dal Garante in merito ai dati che dipingono questo scenario: “Il 25% dei detenuti sono tossicodipendenti e questo può aumentare il rischio del contagio di malattie infettive, pericolo già esistente a causa del sovraffollamento”. Secondo Ciambriello c’è un altro fenomeno degno di nota, quello dei detenuti esterni che sono ben, “7.660 di cui 3mila ai domiciliari. Di questi 300 sono tossici. Per quanto mi riguarda sarebbe il caso di rendere più facile per loro la possibilità di accedere alle cure. Consideriamo anche che nell’ultimo anno sono stati registrati 3 suicidi da parte dei detenuti malati che sono agli arresti domiciliari. Ad essere agevolati potrebbero essere anche quei detenuti condannati per pene minori e che stanno per finire di scontare la loro pena”. Ma non tutto è da buttare, anzi sono stati già fatti molti passi avanti. “L’Asl, grazie al lavoro del Direttore generale Ciro Verdoliva ha avviato iniziative molto interessanti. Innanzitutto gli esponenti dell’azienda sanitaria hanno visitato le carceri rendendosi conto della tragica realtà nel quale vive l’intera comunità penitenziaria. Poi, a Poggioreale, sono stati garantiti 22 medici specialisti che a turno, come all’Asl, fanno visite mediche ai detenuti. Sono stati forniti defribillatori e tra un po’ arriverà la macchina per la dialisi. Il passo successivo è quello di sviluppare una reta con l’esterno e di stabilizzare gli operatori socio-sanitari dentro le carceri”. Proprio in merito al lavoro svolto dall’Asl, VocediNapoli.it ha contattato il Dottor Lorenzo Acampora responsabile della sanità penitenziaria regionale. Secondo lui il problema è di natura strutturale: “Le carceri sono spesso edifici fatiscenti dove è impossibile allestire reparti sanitari. Un esempio è proprio Poggioreale. E i finanziamenti per l’edilizia penitenziaria ci sono ma hanno validità triennale. Poi c’è il discorso delle tempistiche necessarie per poter fare le visite mediche, che spesso si allungano per due motivi: uno è relativo alla priorità che il sistema dà alle procedure giudiziarie rispetto a quelle sanitarie. Il secondo riguarda la volontà di molti detenuti di non farsi visitare affinché le proprie condizioni di salute peggiorino in modo da poter accedere a determinati benefici. Consideriamo che un recluso ha in media, all’anno, più prescrizioni mediche di un comune cittadino”. Acampora ha confermato i grandi passi avanti fatti dall’azienda sanitaria: “Abbiamo fatto in modo di fornire macchinari e attrezzature. Abbiamo dato la disponibilità ai detenuti di poter fare tutte le possibili visite specialistiche: ben 22. Questo ci ha permesso, oltre di garantire il diritto alla salute per i detenuti, anche di diminuire i tempi di attesa per le visite”. Poi è arrivato il momento dei numeri. “Noi, come Asl Napoli 1, abbiamo la gestione del carcere di Secondigliano, di Poggioreale, di Nisida e di quello psichiatrico dei Colli Aminei che è un centro di prima accoglienza per i minori. Solo i primi due penitenziari hanno un centro clinico. Le principali patologie che sono riscontrate tra i detenuti, sono di natura metabolica a causa dello scarso movimento fisico da parte dei reclusi. Poi impazzano diabete e colesterolo, malattie causate da una pessima alimentazione. Infine sono molto frequenti le bronchiti figlie dei capponi di fumo che si creano quando in un piccolo spazio fumano molti carcerati”. Napoli. Garante-ex narcos, Ioia non ci sta: “Io sono un esempio, così migliorerò le carceri” di Luigi Nicolosi anteprima24.it, 12 dicembre 2019 Pietro Ioia, neo Garante comunale dei detenuti, non ci sta a finire nel tritacarne delle polemiche. “La mia nomina a garante dei diritti delle persone detenute napoletane è la dimostrazione che chi affronta la sua condanna e fa un percorso riabilitativo può diventare un aiuto per chi non ha voce, ed è inoltre un esempio concreto di rispetto della nostra costituzione. Ventidue anni di carcere mi hanno fatto comprendere bene quali sono i problemi che deve quotidianamente affrontare chi all’interno di quelle mura ci deve stare o ci lavora”. Ma l’ormai ex narcotrafficante del clan Giuliano non vuole sentir parlare di ostilità, anzi: “Alle critiche che ho ricevuto rispondo solo dicendo che sarò sempre a disposizione di chiunque voglia venire con me a conoscere e soprattutto aiutare le realtà penitenziarie napoletane”. Intanto sulla querelle interviene una persona che conosce bene sia Ioia che la realtà carceraria di Napoli: “Confesso che in un primo momento sono rimasto un po’ perplesso dalla scelta del sindaco per questa nomina, anche perché conoscendo diversi candidati, alcuni qualificati e anche con anni di esperienza di volontariato nelle carceri e con un costante impegno di servizio quotidiano nell’ambito del mondo del penitenziario, pensavo che uno di questi avrebbe potuto dare un ottimo contributo per quanto riguarda i diritti delle persone ristrette”, così don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e direttore dell’Ufficio pastorale carceraria della Curia di Napoli, che sottolinea di voler “leggere questa nomina in modo positivo, anche come un segno di testimonianza rispetto a tutti coloro che pensano che chi ha fatto esperienza di detenzione debba essere segnato da questo per tutta la vita, quindi escluso da una seria possibilità di riscatto”. “Non ricordo un caso di una mia nomina alla quale non sono seguite delle polemiche”, taglia invece corto il sindaco Luigi de Magistris, che rivendica così la propria decisione: “Non mi sono voluto smentire”. Napoli. Caso Ioia: i Radicali difendono la scelta di nominarlo Garante dei detenuti di Fabrizio Ferrante Comunicato stampa, 12 dicembre 2019 La nomina di Pietro Ioia a Garante dei detenuti della città di Napoli ha scatenato una pioggia di polemiche e di attacchi contro lo stesso Ioia e contro il sindaco Luigi de Magistris, “reo” di aver affidato tale incarico a un ex narcotrafficante che ha trascorso 22 anni dietro le sbarre. Poco importa a diversi consiglieri comunali di opposizione a ai sindacati di Polizia Penitenziaria che Ioia sia nel tempo cambiato, diventando a tempo pieno attivista per i diritti dei detenuti e in generale al fianco dei cosiddetti ultimi. Oltre che scrittore ed attore, autore del libro “La cella zero”, diventato spettacolo teatrale in cui si raccontano le violenze che i detenuti subivano nel carcere di Poggioreale. Vicenda da cui è scaturito anche un processo. I Radicali per il Mezzogiorno Europeo, promotori dell’iniziativa volta a ottenere l’istituzione del Garante cittadino dei detenuti e in seguito sponsor di Ioia per tale incarico, hanno preso ancora una volta posizione per difendere la scelta operata dal sindaco. In particolare, si è pronunciato l’avvocato Raffaele Minieri, della direzione nazionale di Radicali Italiani, leader dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo e ideatore della proposta di istituzione del Garante cittadino dei detenuti a Napoli. Queste le sue parole: “Le critiche alla nomina di Pietro Ioia sono espressione di un’idea dominante in questo paese: la pena non deve mai finire. Non basta aver saldato il proprio debito con la Giustizia. Si vuole distruggere ogni speranza e possibilità di reinserimento. Non basta aver reciso ogni rapporto col crimine decenni fa. Non basta aver dimostrato concretamente e quotidianamente il proprio impegno in difesa degli ultimi e dei loro diritti. Non basta nemmeno aver rivisto criticamente il proprio passato. Lo stigma sociale deve restare per sempre. Chi critica non solo sta negando i valori fondanti della nostra Costituzione ma sta riconoscendo inconsapevolmente l’inutilità del carcere visto che non ci sarebbe alcuna possibilità di recupero. Il problema vero è che Pietro Ioia non ha accettato il ruolo di escluso e soprattutto non ha avuto timore nel chiedere allo Stato di rispettare le proprie leggi, denunciando chi mette in gioco la credibilità delle istituzioni. Definirlo sindacalista degli abusivi è la prova del disprezzo di classe verso chi ha dato voce alle sofferenze dei malati tumorali in carcere, dei malati di epatite abbandonati dalle famiglie, dei familiari dei detenuti che, anziani, sono costretti a lunghe file al freddo o al caldo, dei detenuti stranieri senza familiari. Basterebbe aprire i giornali degli ultimi anni per capire di chi stiamo parlando. Basterebbe vedere il suo impegno per dire ai giovani dei quartieri difficili di non seguire la sua strada. Va ricordato che dare un contributo alla società è un diritto riconosciuto dalla nostra Costituzione a tutti. Non si capisce perché debba essere negato proprio a Pietro Ioia. Si può sbagliare e tornare per dare il proprio contributo, si può non sbagliare mai e restare a guardare le sofferenze e le ingiustizie. È una scelta e noi scegliamo la Costituzione”. Bari. I detenuti avranno una casella mail, al via la sperimentazione Corriere del Mezzogiorno, 12 dicembre 2019 Sarà attivo dal lunedì al venerdì e consentirà di recapitare la corrispondenza che sarà scansionata e inviata grazie a CollegaMail, un progetto sperimentale che per il momento avrà durata di 6 mesi e che per la prima volta viene attivato in un istituto penitenziario del Sud. Sarà attivo dal lunedì al venerdì e consentirà di recapitare la corrispondenza da e verso il carcere entro 24 ore il nuovo servizio mail per i detenuti baresi. Le loro lettere, scritte a mano, indirizzate a familiari, avvocati difensori e medici, saranno scansionate e inviate grazie a CollegaMail, un progetto sperimentale che per il momento avrà durata di 6 mesi e che per la prima volta viene attivato in un istituto penitenziario del Sud. Il progetto sarà realizzato dalla società corporativa Radici Future Produzioni grazie ad una convenzione con il Prap (Provveditorato regionale Amministrazione penitenziaria) e il patrocinio del Garante pugliese per i detenuti. “L’obiettivo - ha spiegato Leonardo Palmisano, presidente della cooperativa - è accorciare le distanze tra il detenuto e reti sociali e tutelare un diritto garantito dalla Costituzione che è quello della comunicazione in entrata e in uscita”. Il provveditore Giuseppe Martone spiega che il servizio sarà esteso a “tutti i detenuti in media sicurezza, che sono la stragrande maggioranza (52mila su 60mila in Italia)”, i quali potranno “sottoscrivere un abbonamento e usare la posta elettronica per interloquire con società esterna, difensori, medici, e mantenere vivi i contatti con la famiglia. Siamo nel mondo della comunicazione in cui non esistono più confini, siamo connessi col mondo, perché non offrire questa possibilità anche alle persone private della libertà personale, con i debiti accorgimenti per garantire la sicurezza?”. Alla presentazione del progetto ha partecipato il presidente della Camera penale di Bari, Guglielmo Starace, che lo ha definito “molto importante, perché noi difensori ci rendiamo conto della difficoltà di comunicazione. Ogni lettera arrivava dopo tanti giorni, se arrivava. Grazie a questo servizio la comunicazione sarà immediata”. La corrispondenza non è solo con i difensori. La direttrice del carcere di Bari, Valeria Pirè, ha ricordato che la maggior parte della corrispondenza è costituita da “lettere d’amore, così come i libri più richiesti sono le poesie d’amore. Con la distanza, i detenuti si aggrappano alla intensità dei rapporti per come li ricordano, per come li vivono in maniera mediata. All’interno dell’isolamento nella struttura carceraria la corrispondenza non può che essere di conforto”. Alessandria. I detenuti regalano Pinocchio ai bambini dell’ospedale di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 dicembre 2019 Quest’anno il Festival delle Arti Recluse, organizzato da Artiviamoci ad Alessandria dal 6 al 15 dicembre 2019, propone non solo mostre ma anche spettacoli teatrali, concerti, laboratori di scrittura e corsi di formazione. L’iniziativa, nata con l’intento di presentare alla città le opere realizzate dai detenuti ma, già a questa seconda edizione si è arricchita di una serie di eventi in tema di risocializzazione delle persone detenute, prevenzione ed educazione alla legalità. Tra i lavori esposti Palazzo Cutica 43 risvegli dall’ombra del laboratorio fotografico di Mara Mayer, Physis realizzata dalla Bottega di pittura di Pietro Sacchi, Mario Rossi e Luca Cavalca per la casa Funeraria Bagliano, Domandone del laboratorio di Massimo Orsi, opera ispirata alle “domandine”, i moduli cartacei che in carcere sono utilizzati dai detenuti per inoltrare ogni genere di richiesta. Hanno trovato posto invece nel corridoio dell’Ospedaletto Infantile di Alessandria due tele dedicate a Pinocchio realizzate dalla Bottega di pittura di Pietro Sacchi che vanno ad aggiungersi alle cinque tele che i detenuti hanno realizzato e voluto regalare nel 2018 ai bambini ricoverati e alle loro famiglie. In programma per oggi all’Università di Alessandria il “Il dialogo e le sue interpretazioni” convegno sui percorsi di risocializzazione e sulle opportunità alternative alla pena. In calendario per venerdì 13 le presentazioni, da parte degli autori, del Sogno di Cora di Emanuela Nava e di La mattina dopo di Mario Calabresi, il corso di formazione per i docenti “La specificità e distintività della scuola in carcere” a cura del Cesp, Centro studi per la scuola pubblica e, in conclusione, una cena conviviale presso la Ristorazione Sociale. Il Festival delle Arti Recluse, realizzato in collaborazione con gli Istituti penitenziari di Alessandria e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, ha coinvolto associazioni realtà culturali per un totale di 80 persone che hanno collaborato a titolo completamente volontario. Livorno. Una ludoteca per i bambini nel carcere delle Sughere Il Tirreno, 12 dicembre 2019 Una ludoteca destinata ad accogliere i minori che accedono al carcere di Livorno per far visita a genitori o parenti detenuti. L’iniziativa è stata presentata mercoledì 11 dicembre da Telefono Azzurro e della Casa circondariale di Livorno. La ludoteca, realizzata nel 2018 grazie alla collaborazione di Ikea Pisa, ha lo scopo di facilitare il ricongiungimento familiare, creando spazi ludici dove i detenuti possono intrattenersi con i loro parenti più piccoli. L’iniziativa rientra nel progetto “Bambini e carcere” promosso da Telefono Azzurro nelle carceri di tutta Italia e a Livorno vede impegnato un gruppo di volontari opportunamente formati e periodicamente aggiornati, di età compresa tra i 18 e i 75 anni, che presta il proprio servizio due sabato al mese, oltre a prendere parte alle iniziative organizzate all’interno dell’istituto per la cura e il sostegno alla genitorialità. Nel terzo trimestre del 2019, spiega una nota, i volontari hanno accolto in ludoteca minori dai cinque mesi ai 13 anni e, grazie ai rapporti con la direzione dell’istituto, con l’area educativa e con il personale di polizia penitenziaria, è stato possibile organizzare momenti ludici anche per i detenuti della sezione “Alta sicurezza”. Bologna. Detenuti che aiutano i cestisti in carrozzina, il progetto di recupero Corriere di Bologna, 12 dicembre 2019 Sport, solidarietà e misure alternative. Prosegue, per il terzo anno consecutivo, l’accordo tra i Bradipi, la più importante squadra di basket in carrozzina di Bologna, e il ministero di Giustizia nella realizzazione di un progetto di reinserimento sociale che consente ad alcuni ragazzi - quest’anno saranno due - di svolgere il periodo di pena alternativa collaborando con la società felsinea. “Chi arriva ci dà una mano sotto tutti i punti di vista: dalla gestione delle carrozzine al supporto ai nostri ragazzi fino al gioco in campo: cerchiamo di spiegare loro i movimenti di gioco, magari provano anche a sedersi per capire cosa si prova a giocare seduti”, spiega Biagio Saldutto, presidente della polisportiva I Bradipi. “L’esperienza ha già coinvolto diversi ragazzi, rivelandosi utile sia a loro sia alla polisportiva”, continua Saldutto. Oggi al PalaSavena di San Lazzaro i Bradipi sono impegnati contro Bologna Basket 2016, compagine che milita nella categoria C Gold i cui giocatori, per una volta, si muoveranno in sedia a ruote. Giornalisti in carcere: Cina al primo posto, Turchia seconda di Giordano Stabile La Stampa, 12 dicembre 2019 Sono 250 in tutto il mondo, la maggior parte in Medio Oriente. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha calcolato che quest’anno è la Cina al primo posto fra i Paesi con più reporter incarcerati, con almeno 48, in aumento rispetto allo scorso anno. Segue la Turchia con 47, ma in deciso calo rispetto ai 68 del 2018. In questa classifica negativa al terzo posto arrivano Arabia Saudita ed Egitto, entrambi con 26 giornalisti in prigione. In totale, almeno 250 reporter sono incarcerati in tutto il mondo a causa della loro professione. Un anno fa il Cpj aveva documentato 255 casi. Il numero rimane vicino ai 273 prigionieri registrati nel 2016, il record da quando viene pubblicata la statistica. La Turchia ha guidato la classifica negli ultimi quattro anni, prima del forte calo nel corso del 2019, un miglioramento che però secondo la Ong non riflette “il successo degli sforzi del governo del presidente Recep Tayyip Erdogan per porre fine al giornalismo indipendente e critico”. Se il Medio Oriente resta la regione critica, la situazione è in peggioramento in Cina. L’aumento dei reporter incarcerati è legato soprattutto alla repressione in corso nello Xinjiang, la regione autonoma dove vive la minoranza turcofona e musulmana degli uiguri. Secondo il Cpj “il numero dei giornalisti arrestati è aumentato costantemente sotto la presidenza di Xi Jinping e il consolidamento del suo potere nel Paese”, mentre la repressione nello Xinjiang “ha portato all’arresto di decine di reporter”. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, ha replicato che “le istituzioni con sede negli Stati Uniti non hanno credibilità” e che la Cina “è un Paese basato sulla stato di diritto, dove nessuno è al di sopra della legge”. Fra gli altri Paesi dove la libertà di stampa è limitata ci sono l’Eritrea, con 16 giornalisti imprigionati, poi il Vietnam, 12, l’Iran, 11. Il rapporto sottolinea come “autoritarismo, instabilità, proteste” hanno portato a un aumento degli arresti in Medio Oriente. Dei 250 reporter in carcere, “l’8 per cento sono donne”, in calo dal 13 per cento dello scorso anno. La maggior parte sono stati arrestati per i loro articoli su temi come “diritti umani e corruzione”. Il rapporto non include però i reporter sequestrati da entità non statali, come milizie e gruppi terroristici. Libia, allarme escalation. Haftar: “È l’ora delle armi”. Telefonata Erdogan-Putin di Marco Ventura Il Messaggero, 12 dicembre 2019 La Turchia sarebbe pronta a inviare blindati per sostenere il governo di Al-Sarraj ma cerca di trovare un compromesso con la Russia. Lo Stato islamico tenta di ricostituirsi. È guerra delle parole, per il momento, tra Bengasi e Ankara. Tra le forze del feldmaresciallo Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che punta a conquistare Tripoli e al dominio su tutta la Libia, e la Turchia di Erdogan che sostiene invece il governo tripolitano di unità nazionale di Al-Sarraj, il premier ufficialmente riconosciuto da Onu e Unione europea, sempre più fragile. Parole che fanno seguito all’annuncio di Erdogan del possibile invio di truppe di terra per difendere Al-Sarraj dall’affondo militare del rivale Haftar, appoggiato militarmente da mercenari russi e armi emiratine, oltre che dal confinante Egitto impegnato in una campagna contro i gruppi regionali affiliati ai Fratelli musulmani (come le forze di Misurata). Sullo sfondo, il tentativo dello Stato islamico di ricostituirsi grazie al trampolino libico, trasformando il Paese in una nuova Siria, come denuncia in alcune centinaia di pagine e con dovizia di particolari un report degli esperti delle Nazioni Unite. All’attacco (verbale) Haftar. Per bocca del suo portavoce militare Ahmed al-Mismari del sedicente esercito nazionale libico, avverte che non c’è più soluzione politica alla crisi libica ma soltanto militare: “Il tempo dei colloqui diplomatici è finito, ora è il tempo dei fucili”. I turchi sarebbero pronti a inviare blindati in Libia come scudo per Al-Sarraj, con un ponte aereo verso lo scalo di Tripoli Mitiga, che riaprirà a linee libiche e regionali nelle prossime ore dopo gli attacchi da parte dell’aviazione di Haftar. Che conserva il dominio dell’aria. “L’appoggio turco alle milizie di Tripoli - insiste al-Mismari - si è trasformato da segreto a dichiarato in quella che è una battaglia regionale, non soltanto locale”. E il capo di Stato maggiore della Marina libica pro-Haftar, l’ammiraglio Farag El Mahdawi, dice di avere in tasca l’ordine del feldmaresciallo di “affondare qualsiasi nave turca si avvicini all’area”. Dietro Haftar non ci sono solo Egitto e Emirati arabi uniti, ma anche la Russia di Putin e, in modo più silente da mesi per l’imbarazzo di avere assunto una posizione chiaramente non in linea con Bruxelles, la Francia di Macron. E dietro al-Sarraj, al contrario, dovrebbe esserci l’Italia che a Misurata ha pure un ospedale da campo e militari “di pace” sul terreno, e il Qatar che si oppone ai “fratelli” del Golfo sauditi e Eau. A cercare di metter ordine e fissare un compromesso ci stanno pensando Erdogan e Putin, che ieri hanno avuto un colloquio telefonico in cui hanno parlato, fra l’altro, di Libia. L’Italia, che in Libia ha interessi strategici legati allo sfruttamento degli impianti energetici oltre che un legame storico che risale all’epoca coloniale, continua a lavorare per un compromesso insieme alla Germania che ha inaugurato un percorso negoziale attraverso il “processo di Berlino”. Ma sul campo a parlare sono i rapporti di forza e i patti tribali intrecciati con l’ingerenza di una decina di paesi, oltre che della “multinazionale” del terrore Isis (Isil in Libia). Con possibili conseguenze, per l’Italia, legate alla ripresa del traffico di migranti come effetto dell’instabilità del Paese. Allarma anche la presenza di gruppi armati di Ciad e Sudan, che si dividono tra Tripoli e Bengasi a seconda del “miglior offerente”. E il paradosso è che mentre il Paese è allo sbando, e la guerra prosegue seppure a piccole dosi, la Noc, Compagnia libica del petrolio, continua a stringere accordi, a incassare attraverso la Banca nazionale libica i proventi dei prodotti energetici, e a siglare intese. È il caso dell’acquisizione da parte della francese Total, del 16,33 per cento del giacimento petrolifero di Waha detenuto finora dalla Marathon Oil. Con la benedizione, appunto, della Noc pur teoricamente legata a Tripoli. La protesta dell’Algeria indomita: “Boicottiamo le elezioni farsa” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 12 dicembre 2019 Le presidenziali di oggi contestate nonostante i 5 candidati: “Sono tutti del Sistema”. Makache vote, non si vota. Calano anche oggi per l’arteria centrale della Didouche Mourad col sangue che pulsa e i cartelli scritti a mano. “Algerie=Mafiacratie!”. Fanno il serpentone dello shopping con la rabbia trattenuta di chi non vuole svendersi alle serpi del Sistema. “Né dialogo, né elezioni!”. Raggiungono la Grande Poste e sanno bene qual è la posta in gioco dopo vent’anni: le prime presidenziali senza candidato unico, ma cinque candidati troppo uguali al regime. “Silmiya! Khawa!”, pace e fratellanza. Cantano Bella Ciao, tutta la gendarmeria d’Algeri schierata con casco e manganello. “Attenti alle provocazioni”. Le bandiere dei martiri dell’indipendenza. Il tricolore a bandana. Si chiama Al Hirak, il movimento, tanto popolo e un po’ di populismo: decine di migliaia, una volta anche un milione, che protestano da prima dei ragazzi libanesi e sono più imponenti, meno impotenti, dei giovani di Hong Kong. Dieci mesi che va così, ogni settimana. Una settimana che sfilano e sfidano, ogni giorno: a primavera hanno ottenuto le dimissioni dell’eterno presidente Bouteflika; in estate, l’arresto di 400 ladroni di regime; questo 12 dicembre, non s’accontentano del “voto-farsa”. Nessun dorma, si manifesta a oltranza pure di notte: il regime è sempre di mezzo, come questo giovedì elettorale, e Al Hirak resta sveglio e immobile sulle sue posizioni. No, non si vota. Al Hirak contro Le Pouvoir. Il vero primo turno di oggi è questo. A contare non è chi viene votato, ma quanti votano. Il Movimento, unito al partito islamico, punta a stare sotto il 10% d’affluenza per poter dire che trattasi d’urne farlocche. Il Potere spera di ripetere il 37 di due anni fa, ma s’accontenterebbe di molto meno e d’andare al secondo turno. Nessun sondaggio, niente osservatori internazionali, pochi accrediti ai media, il Parlamento europeo preoccupato dall’andazzo nel più grande Paese dell’Africa. Il preferito dell’establishment - che poi sarebbe l’esercito, 10 miliardi di budget annuo, assieme al vecchio Fronte di liberazione nazionale reduce della guerra al colonialismo francese - è un giornalista ed ex ministro della Cultura con la passione per la poesia, Azzedine Mihoubi, già capo della tv. Meno favoriti gli altri pretendenti, soprattutto gli ex premier Abdelmadjid Tebboune e Ali Benflis. Per placare la piazza, a due giorni dal voto sono stati condannati a 15 e 12 anni due degli ultimi potenti premier di Bouteflika, Ouyahia e Sellal. Ma non basta. “Il Sistema è disperato e pronto a spacciare qualsiasi percentuale d’affluenza, altrimenti è costretto a sbaraccare tutto”, dice Rabah Abdellah, direttore della Liberté, uno dei due quotidiani d’opposizione rimasti aperti, che da cinque anni vivono senza pubblicità (“è il governo che ce la blocca”) sopravvivendo ad attentati e manette: “Ma stavolta la gente non è disposta ad accettare il solito risultato precotto”. Ad Algeri quasi non esistono semafori, perché la gente ancora ricorda la guerra civile anni 90 quando si sparava agli incroci ed era pericoloso fermarsi, e nessuno vuole più violenze. Ma la tensione è alta. Si manifesta a Orano, Annaba, Costantina. Nelle ambasciate s’è già venuti alle mani fra algerini expat: qualche rissa al consolato di Parigi, molte urne sono rimaste vuote. Nei villaggi sulle montagne della Cabilia dove vive la minoranza berbera, sempre emarginata dal potere arabo, rimangono aperte solo panetterie e farmacie: 10 milioni di berberi scioperano e qualche seggio è stato perfino murato con mattoni e cemento, guai a chi vota. Un po’ d’ironia, ma molto poca: sui social postano il cachir, il salsicciotto di pollo agitato nei cortei e diventato il simbolo delle proteste. L’hanno scotchato a un muro, come la banana di Cattelan. Il regime oserà strapparlo e mangiarselo? Camerun. Le stragi nascoste di Boko haram di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 dicembre 2019 Di ritorno da una missione di ricerca in Camerun, Amnesty International ha pubblicato una durissima denuncia nei confronti del gruppo armato islamista Boko haram, che negli ultimi anni ha sempre più esteso oltreconfine, dalla Nigeria, le sue sanguinose azioni. Nei primi 11 mesi dell’anno, si legge nel rapporto dell’organizzazione per i diritti umani, Boko haram ha ucciso almeno 275 persone nel nord del paese. In altre parole, 25 al mese. Di queste, almeno 225 erano civili del tutto estranei al conflitto in corso da anni tra il gruppo armato e le forze di sicurezza camerunensi. Meno male che, il 9 gennaio, il presidente Paul Biya aveva proclamato che Boko haram era stato “cacciato via” e costituiva oramai solo una “minaccia residuale”. Nei mesi a seguire, la “minaccia residuale” ha razziato e incendiato case private e centri sanitari, ha ucciso un anziano non vedente e ha mozzato le orecchie a tre donne perché i loro mariti erano sfuggiti alla cattura. Il rapporto di Amnesty International segnala anche casi di civili di religione non musulmana costretti, dietro minacce di morte, a convertirsi all’Islam, unica garanzia - dicevano quelli di Boko karam - che i loro villaggi sarebbero rimasti in pace. È più che comprensibile che i sopravvissuti e i parenti delle vittime incontrati da Amnesty International abbiano dichiarato di sentirsi “completamente abbandonati dallo stato”. Myanmar. Aung San Suu Kyi respinge le accuse di genocidio di Massimo Morello Il Foglio, 12 dicembre 2019 “Una cosa è certa: il genocidio non si genera in un vuoto”, ha detto Abubacarr Marie Tambadou, ministro della Giustizia del Gambia, presentando alla Corte internazionale di giustizia (Iej) dell’Onu all’Aia la causa relativa “all’applicazione della convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”. Il Myanmar lo avrebbe perpetrato nei confronti dei Rohingya, uomini donne e bambini di quell’etnia che nell’immaginario collettivo è divenuta l’archetipo di una minoranza perseguitata, stuprata, dall’identità negata. Del silenzio e della negazione di quello che è stato rappresentato come il genocidio dei Rohingya, secondo Tambadou, è tanto complice quanto colpevole Aung San Suu Kyi, colei che, esattamente ventotto anni fa, il 10 dicembre 1991, era stata protagonista assente del Nobel per la Pace, assegnatole per la sua lotta in difesa della libertà e dei diritti umani nel paese noto come Birmania. Aung San Suu Kyi ieri ha presentato la difesa del suo paese. Come è stato scritto, ha deciso di “difendere l’indifendibile”. Lo ha fatto nell’unico modo possibile: dando ai fatti una diversa interpretazione, modificando in modo significativo quella massa d’informazioni che ha ormai superato la soglia critica e determinato un’opinione tanto diffusa quanto univoca. Aung San Suu Kyi ha delineato una situazione ben più complessa: quella di una regione - il Rakhine, al confine col Bangladesh, teatro di questa vicenda - in cui si scontrano tensioni etniche e religiose, milizie finanziate dal narcotraffico, lotte tra poveri ed eredità coloniali incancrenite. Una situazione in cui l’esercito nazionale deve far fronte sia all’Arakan Army, le milizie buddiste che rivendicano l’indipendenza dell’Arakan (antico nome del Rakhine), sia all’Arakan Rohingya Salvation Army, gruppo Rohingya che sembra collegato a formazioni islamiche. Secondo alcuni analisti, la stessa questione Rohingya sarebbe alimentata da lobby islamiche che puntano a creare una sfera di influenza estesa dal Bangladesh sino all’Indonesia (non è un caso che in molte aree, come la provincia indonesiana di Aceh, sia già in vigore la Shariah più rigorosa), sorta di versione soft del Califfato in sud-est asiatico predicato dall’Isis. Un’ipotesi che spiegherebbe anche l’azione intrapresa dal Gambia: il piccolo stato africano, infatti, guida la causa a nome dei 57 paesi che compongono l’Organizzazione per la cooperazione islamica. Un’organizzazione per la quale la Shariah è punto di riferimento legale. Secondo altri osservatori - soprattutto residenti stranieri in Birmania - il caos in Rakhine è determinato dalle narco-milizie etniche che non solo si finanziano col traffico di droga ma che in questo trovano la loro legittimazione, che così possono gestire meglio i propri traffici, porsi come mediatori con chiunque voglia investire in quelle zone, garantire la sicurezza delle vie che le attraversano (fattore decisivo, per esempio, per i cinesi che in Rakhine trovano il loro sbocco sull’Oceano Indiano). Al centro di questi giochi di potere, Aung San Suu Kyi fa quello che sa fare meglio, quello che ha fatto per i quasi vent’anni trascorsi in arresto: resiste. Nel paese sta riconquistando quel favore che aveva in parte perduto (proprio perché giudicata troppo morbida nei confronti del Rohingya). Un consenso che le permetterà di presentarsi in posizione di forza alle elezioni del prossimo anno. Magari precedute da una riforma costituzionale che le consentirebbe di essere eletta presidente. Nella sua visione, forse, tutto ciò potrebbe portare a compimento il sogno di suo padre, il generale Aung San: un accordo di pace con tutte le etnie. In questo momento il processo dell’Aia non riveste particolare importanza per la Signora a livello interno. Anzi. Ma potrebbe avere effetti devastanti a lungo termine amplificando le tensioni etniche e inter-religiose. Le vie dell’inferno potrebbero passare proprio per la capitale olandese.