È incostituzionale il 4bis per i minori e per i giovani adulti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2019 La Consulta ha accolto la questione sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria. La recente riforma dell’Ordinamento penitenziario aveva allargato il meccanismo della ostatività per l’accesso ai benefici penitenziari. È stato incostituzionale aver allargato, attraverso la riforma dell’ordinamento penitenziario, il 4bis anche nei confronti dei detenuti minorenni e giovani adulti. La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, relativa all’applicazione nei confronti dei condannati minorenni e giovani adulti del meccanismo “ostativo” previsto dall’articolo 4bis, commi 1 e 1bis dell’Ordinamento penitenziario, secondo cui i condannati per uno dei reati in esso indicati, che non collaborano con la giustizia, non possono accedere ai benefici penitenziari previsti per la generalità dei detenuti. Bisogna ricordare che la riforma originaria era stata prevista attraverso la legge delega dell’art 85. È al punto 5 lettera p) che si indicava, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative”, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori al l’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà. Invece nel 2018 è stato approvato il decreto relativo alle misure alternative alla detenzione per i condannati minorenni e i giovani adulti, dove si legge, invece che “ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno trova applicazione l’articolo 4bis, commi 1 e 1bis O. P.”, che fissa le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari per “certe tipologie criminali dalla spiccata pericolosità”. Pertanto, i benefici e le misure alternative sono vincolati alla collaborazione con la giustizia, anche da parte dei minori. A suo tempo, lo stesso Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, sentito in commissione, aveva appunto osservato che quel decreto poteva essere facilmente letta come contraria alla delega. Ma ora la Consulta ne ha dichiarato l’incostituzionalità, ricordando proprio il fatto che questo meccanismo preclusivo è stato ritenuto in contrasto anzitutto con i principi della legge delega n. 103 del 2017, di riforma dell’ordinamento penitenziario, che imponeva di ampliare i criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e di eliminare qualsiasi automatismo nella concessione dei benefici penitenziari ai detenuti minorenni. In secondo luogo, la Corte - richiamando la propria costante giurisprudenza sulla finalità rieducativa della pena e sulle sue implicazioni nei confronti dei minori - ha ritenuto che la disposizione censurata contrasta con gli articoli 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, perché l’automatismo legislativo si basa su una presunzione assoluta di pericolosità che si fonda soltanto sul titolo di reato commesso e impedisce perciò alla magistratura di sorveglianza una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione, che devono presiedere all’esecuzione penale minorile. Nella sentenza la Corte ha spiegato che “Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extra-murarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’art. 4- bis ordin. penit. Al tribunale di sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extra-murarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo. Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.” Quindi, con la sentenza n. 263 (relatore Giuliano Amato), I detenuti minorenni e i giovani adulti, condannati per uno dei cosiddetti reati ostativi, possono accedere ai benefici penitenziari (misure penali di comunità, permessi premio e lavoro esterno) anche se, dopo la condanna, non hanno collaborato con la giustizia. Il Garante per le persone private della libertà personale è un pezzo di democrazia di Andrea Oleandri Comunicato stampa, 11 dicembre 2019 Ne va difeso il ruolo e l’indipendenza. In molti paesi europei - e non solo - da anni esiste un Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. Una figura che può entrare senza preavviso in carcere e negli altri luoghi di privazione della libertà, per verificare che la legalità vi sia rispettata e per prevenire eventuali violazioni. In Italia, nonostante diversi impegni internazionali assunti, si è arrivati all’istituzione di questa figura solamente nel 2013, sull’onda delle riforme successive alla c.d. sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti che avevano luogo nelle sue carceri. Dal 2016 è dunque entrata in attività questa figura di garanzia. Il Garante è un organismo statale indipendente - nominato dal Presidente della Repubblica, cosa che ne garantisce l’indipendenza rispetto ai partiti al Governo - che monitora tutti i luoghi di privazione della libertà (carceri, stazioni di polizia, centri di detenzione per migranti, Rems, voli su cui si effettuano i rimpatri forzati, i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori, ecc.). Il suo ruolo è di fondamentale importanza per far sì che in questi luoghi, spesso fuori da altre possibilità di controllo e con una strutturale disparità di potere tra custodi e custoditi, non avvengano abusi e le condizioni di vita siano in linea con quanto previsto dalla Costituzione, dalla legislazione italiana in genere e da quella internazionale. Per questo è di una gravità inaudita l’attacco di alcune organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria contro questa figura. Un attacco che va oltre l’ordinaria polemica, arrivando a chiedere la soppressione di questa figura di garanzia. Il Garante è una figura fondamentale in tutti gli ordinamenti democratici. Chi teme il lavoro di prevenzione di un organismo indipendente, barricandosi dietro le proprie funzioni, non lascia presagire nulla di buono. Di questi attacchi si saranno indignate assieme a noi tutte quelle persone, quei medici e quegli agenti che, quotidianamente, svolgono il proprio lavoro - spesso in situazioni complesse - nel rispetto dei diritti delle persone sotto la propria custodia. Per questi il Garante nazionale è senza dubbio un elemento di garanzia, oltre ad una figura che consente al loro lavoro di uscire da quel cono d’ombra dove altri vorrebbero riporlo. Nel ribadire la nostra fiducia a Mauro Palma e l’intero collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, condanniamo con fermezza gli attacchi a lui mossi da chi non ha a cuore la tutela dei diritti umani. Hanno finora sottoscritto: Antigone, A Buon Diritto Onlus, Arci, Associazione 21 Luglio, Cittadinanzattiva, Asgi, Certi Diritti, Rete Lenford - Avvocatura per i diritti Lgbti, Progetto Diritti, Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Esperienze condivise: i direttori si “scambiano” i penitenziari di Antonella Barone gnewsonline.it, 11 dicembre 2019 “Per lo stage ho scelto la Sardegna perché volevo confrontarmi con una realtà complessa. Penso che proprio dalla complessità possano nascere soluzioni operative. Se devo crescere a livello professionale mi devo confrontare con situazioni con difficoltà e trovare soluzioni”. Queste le considerazioni di Teresa Mazzotta, uno dei direttori che hanno aderito al progetto di job expertise che prevede l’opportunità di dirigere per un mese un altro istituto. Mazzotta ha scelto di lasciare la casa circondariale di Bergamo per andare a dirigere gli istituti di Sassari e Alghero mentre la sua collega Elisa Milanesi, nello stesso periodo, ha diretto la casa circondariale bergamasca. Un avvicendamento in tal senso è avvenuto anche tra Fabio Prestipino, direttore di Firenze Sollicciano, e il collega Marco Porcu, direttore della casa circondariale di Cagliari Uta: il primo si è trasferito dalla Toscana in Sardegna mentre il secondo ha fatto il percorso inverso direzione Firenze. I percorsi di job expertise sono previsti nelle linee programmatiche per il 2019 del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per favorire “quelle scelte che promuovano, tra il personale direttivo degli istituti (comandanti e direttori), la condivisione di esperienze e di modelli organizzativi”. Abbiamo rivolto alcune domande ai quattro protagonisti di questa esperienza di condivisione di esperienze lavorative. Ecco che cosa ci hanno risposto. Un cambiamento temporaneo, ma che potrebbe comportare qualche difficoltà di adattamento. Come siete stati accolti? Teresa Mazzotta: “L’impatto emotivo è stato forte sia dal punto di vista umano che professionale. Diciamo che anche io ho dovuto effettuare un colloquio di primo ingresso, come quello a cui si sottopongono i detenuti, ma sono stata accolta davvero bene. Ho voluto strutturare un laboratorio d’ascolto della varie famiglie professionali e sottoposto loro alcune modalità operative del mio istituto e in particolare un protocollo operativo stilato con la magistratura di sorveglianza. Questo mi ha dato dei riscontri più autentici perché il personale si è sentito più libero nell’esplicitare il proprio pensiero, ho avvertito sincerità e rilevato margini di miglioramento nelle prassi operative”. Elisa Milanesi: “A Bergamo ho trovato un clima subito positivo e uno staff recettivo. In generale ho riscontrato una piena rispondenza dello stage agli obiettivi che si era proposto”. Fabio Prestipino: “Ho scelto la Sardegna in quanto ambiente che professionalmente non conoscevo. Per me è stato come tornare in Sicilia, regione da cui provengo, per l’accoglienza, il calore e la disponibilità”. Marco Porcu: “Fin dal primo giorno a Firenze e ad Uta, tutto il personale ha identificato me e il collega Prestipino come i loro direttori a tutti gli effetti; il punto di riferimento per la soluzione dei piccoli e dei grandi problemi di strutture penitenziarie complesse come sono quelle che entrambi dirigiamo. Il personale della CC di Sollicciano mi ha dato, in ogni circostanza, tutto il supporto necessario, in modo che potessi comprenderne subito alcune, mi ha consentito di gestire senza problemi l’Istituto e mi ha accolto con calore e grande cordialità, fino ad invitarmi ad alcune serate collettive extra lavorative davvero piacevoli e divertenti”. Quali analogie di criticità e opportunità avete riscontrato in realtà tanto diverse? Teresa Mazzotta: “Nell’istituto di Sassari le videoconferenze sono utilizzate oltre che per le udienze 41bis anche per discutere casi con gli assistenti sociali. Ho trovato questa soluzione molto utile perché sappiamo quanto sia oggi difficile il dialogo con gli Uepe per carenza di personale. In tal modo è possibile far partecipare all’equipe anche l’assistente sociale che si trova in un’altra sede, presenza che migliora a livello qualitativo la discussione e l’ipotesi trattamentale rispetto alla sola relazione scritta. Inoltre questa prassi potrebbe entrare a far parte di protocolli strutturati con la magistratura di sorveglianza che possano costituire delle linee guida evitando così che le sollecitazioni agli operatori per le relazioni di sintesi provengano solo dagli avvocati. Analoga soluzione potrebbe essere utilizzata per consentire agli esperti ex art. 80 di essere presenti alle riunioni per l’applicazione degli art 14bis o per i consigli di disciplina ed evitare che questi scadano a causa dell’impossibilità degli operatori di raggiungere l’istituto”. Elisa Milanesi: “Utilizziamo le videoconferenze a Sassari, Alghero e Is Arenas per ovviare ai tempi morti degli spostamenti. Purtroppo qualche volta problemi di connessione non ci permettono di farlo”. Fabio Prestipino: “A Cagliari ho trovato una struttura organizzata e serena, sia pure con le criticità che gravano su tutti gli istituti. Per me è stato interessante particolarmente conoscere la realtà della ex colonia di lavoro, con pochissimi eventi critici”. Marco Porcu: “La principale analogia tra le due Case Circondariali di Cagliari e Firenze Sollicciano è rappresentata dalla tipologia della popolazione detenuta: costituita in larga misura da soggetti con gravissimi problemi personali, familiari, sociali ed economici, ai quali spesso si aggiungono quelli sanitari altrettanto allarmanti. Le dinamiche di vita detentiva interna sono le stesse, con moltissimi eventi critici che impegnano incessantemente il personale di tutte le aree e dei vari settori. Anche presso la CC di Sollicciano così come in quella di Uta l’organizzazione dei circuiti detentivi e di tutte le attività trattamentali è pesantemente condizionata e ostacolata da tale fenomeno in rapida crescita. Il principale punto di forza del Ncp di Sollicciano è rappresentato dalla capacità di fare rete con gli altri soggetti istituzionali e del terzo settore. Sotto il profilo delle attività trattamentali e delle forme di probation la Casa Circondariale di Sollicciano esprime un alto livello grazie al notevole lavoro di rete con gli altri Enti Istituzionali (Regione, Città Metropolitana, Comune ecc.) e gli altri soggetti del terzo settore”. A Marco Porcu abbiamo anche chiesto come si è trovato a gestire un solo istituto dal momento che in Sardegna quattro direttori devono occuparsi di dieci istituti… “Non avevo mai sperimentato nella gestione di un solo istituto - ci ha risposto - benché particolarmente grande e complesso come quello della CC di Sollicciano. Ho sempre pensato, e penso ancora oggi, che sia disfunzionale affidare più istituti a un solo direttore, piccoli o grandi che siano. Credo tuttavia che, per saggiare appieno tale differenza, ci sarebbe bisogno di un periodo più lungo di gestione”. “Peraltro - ha aggiunto Porcu - ho potuto sperimentare per la prima volta una gestione direttoriale arricchita dalla presenza dei vicedirettori e, francamente, ho capito l’importanza di potersi confrontare con dei colleghi che assumono una visione prospettica dell’istituto uguale alla tua”. L’ultima parola la lasciamo a Elisa Milanesi che, per migliorare un’esperienza comunque salutata da molti con favore, suggerisce di “dare l’opportunità di ripetere gli stage sempre su base volontaria non solo tra sedi diverse ma anche tra incarichi dirigenziali non necessariamente dello stesso livello. Questo potrebbe rappresentare un’ulteriore occasione di crescita professionale”. Paletti dei dem sulla giustizia: se slittano le intercettazioni rinviare anche la prescrizione di Emilio Pucci Il Messaggero, 11 dicembre 2019 Nonostante le rassicurazioni di Bonafede resta alta la tensione. Anche i renziani in trincea. “Se si intende rinviare la riforma Orlando sulle intercettazioni, allora occorre rinviare anche l’entrata in vigore della riforma Bonafede sulla prescrizione”. La posizione del Pd resta sempre la stessa: è vero che il clima con M5S è migliorato dopo il chiarimento fornito due giorni fa da Bonafede ai dem sul tentativo di posticipare nel dl Mille Proroghe di 6 mesi le nuove norme sulle intercettazioni, ma nel merito l’accordo sul tema giustizia è ancora in alto mare. Questa mattina dovrebbe esserci un’altra riunione degli sherpa del Nazareno a Montecitorio. E verrà deciso se e come approntare una proposta di legge da presentare in Commissione per accompagnare l’entrata in vigore della riforma della prescrizione con delle norme a garanzia sulla durata ragionevole dei processi. Oggi al question time alla Camera il Guardasigilli sarà chiamato a rispondere degli attriti sorti nella maggioranza in queste settimane. Sarà l’azzurro Costa, autore del ddl che punta a stoppare le misure contenute nel dl Spezza-corrotti, ad incalzare in Aula il responsabile di via Arenula. A chiedere se il governo è compatto e perché non è stata ancora tirata fuori dal cassetto la riforma del processo penale. Il Pd cerca ancora un’intesa, vorrebbe che Bonafede accogliesse nel testo le richieste avanzate da tempo. “Altrimenti - continuano a dire i dem - faremo da soli”. Dunque il terreno non è stato ancora sminato e pure sul tema delle intercettazioni non è ancora chiaro come il ministro della Giustizia intenda procedere sull’onda dell’allarme delle procure. Perché l’apertura al confronto, anche attraverso un decreto, è stata apprezzata ma nei fatti il Pd si aspetta che si proceda in una logica di pacchetto. Ovvero affrontando tutti i nodi sul tavolo. La richiesta ufficiale di una proroga non verrebbe accettata. In ogni caso il segretario dem Zingaretti ha ribadito ai suoi di essere fiducioso, anche perché ha la sponda del premier Conte sulla necessità di apportare dei “correttivi” alla riforma della prescrizione. “L’importante è che si sia deciso di trovare una soluzione”, afferma il dem Verini. Tuttavia nel gruppo l’agitazione cresce e pure i renziani sono sul piede di guerra. E domani in Commissione Giustizia interverrà l’ex presidente dell’Anac Cantone. Giustizia, le controproposte del Pd. “Pagelle” ai pm sui processi persi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 dicembre 2019 Le richieste a Bonafede. E si aspetta il vertice con Conte su prescrizione e intercettazioni. Non è fatto solo di prescrizione e intercettazioni il percorso a ostacoli della maggioranza sulla giustizia. Dopo che il ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede ha presentato agli altri partiti che sostengono il governo il suo disegno di legge sulla riforma del processo penale, il Pd ha inviato al Guardasigilli le proprie controproposte, che ora aspetta di vedere inserite in un nuovo testo da presentare prima al Consiglio dei ministri e poi in Parlamento. E tra i suggerimenti ci sono alcune modifiche destinate a far discutere. Per deflazionare la mole di processi, ad esempio, Bonafede propone di limitare le richieste di rinvio a giudizio attraverso una formulazione più vincolanti per disporre l’archiviazione dei procedimenti. Rimedio giudicato poco convincente dai democratici, che suggeriscono di intervenire in altro modo: prevedere che le valutazioni di professionalità dei pubblici ministeri “debbano essere condotte anche sulla base del parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie”. In sostanza, una pagella compilata tenendo conto dei processi vinti o persi dai pm, che dovrebbe responsabilizzarli maggiormente nelle loro decisioni. E finirebbe per incidere sulle carriera dei magistrati inquirenti. I democratici propongono anche un più rigoroso controllo dei giudici delle indagini preliminari sul rispetto dei tempi dell’inchiesta da parte dei pm; fino alla possibilità per i gip di retrodatare l’iscrizione sul registro degli indagati, con conseguente anticipazione delle scadenze. Altro capitolo riguarda la discrezionalità “di fatto” dell’azione penale, che si realizza quando il singolo pm decide quali procedimenti trattare e quali lasciare da parte. La riforma Bonafede tenta di contrastarla introducendo “criteri di priorità trasparenti e predeterminati, indicati nei progetti organizzativi delle Procure”. Il Pd condivide il principio, ma chiede che i procuratori indichino la precedenza dei reati da perseguire dopo una sorta di consultazione allargata sul territorio, che coinvolga le forze di polizia, i sindaci, i presidenti della provincia e gli avvocati del Consiglio dell’ordine. Su prescrizione e intercettazioni i partiti aspettano la convocazione di un nuovo vertice da parte del premier Giuseppe Conte, per rimuovere lo stallo che contrappone Cinque Stelle e Pd, affiancato da Italia viva e Leu. L’ultimo affronto denunciato dai democratici è il rinvio di altri sei mesi della riforma sugli ascolti disposti dalla magistratura (varata nella scorsa legislatura dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando) inserito da Bonafede nel decreto Mille Proroghe; che però è stato a sua volta rinviato, e dunque non si sa ancora se e quando quelle modifiche diverranno operative. Di sicuro serve almeno una norma transitoria per i procedimenti in corso, che al momento non c’è e potrebbe arrivare con un apposito decreto legge a cui il ministro s’è detto disponibile. Sulla prescrizione dei reati, invece, Bonafede insiste a non posticipare l’entrata in vigore, il 1° gennaio, del blocco dopo la sentenza di primo grado. Il Pd continua a chiedere tempo per studiare le contromisure al “fine processo mai”, e se non ci saranno slittamenti o accordi per nuove regole presenterà un proprio, autonomo disegno di legge: reinserimento della sospensione a termine dopo il primo verdetto, portandola fino a due anni e mezzo (ora è di un anno e mezzo). Con quali conseguenze politiche si vedrà. Prescrizione. La legge ingiusta di Bonafede è anche costosa di Giulia Crivellini* Il Riformista, 11 dicembre 2019 Oggi il debito dello Stato verso i cittadini per irragionevole durata dei processi è di 340 milioni di euro. E con la riforma della prescrizione non potrà che crescere. Ogni anno in Italia circa 1.000 innocenti finiscono in carcere. Ciascuno di loro subirà da questa esperienza danni incalcolabili per la vita privata, gli affetti, la famiglia, il lavoro e la reputazione. Perché spesso queste vicende processuali si trascinano incredibilmente a lungo, prima di risolversi. La riforma della giustizia che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio e che - tanto voluta dal Ministro della Giustizia Bonafede - entrerà in vigore dal prossimo gennaio, pone quindi l’urgente problema della violazione di garanzie individuali e di correlati principi costituzionali. Ma non solo: è una riforma che costerà moltissimo alle casse dello Stato perché. aumentando a dismisura la durata dei processi penali, incide sulla tenuta del principio della ragionevole durata del processo. Secondo le rilevazioni del Ministero della Giustizia, infatti, la percentuale dei processi “a rischio Legge Pinto” - cioè a rischio di irragionevole durata, sanzionata con salati obblighi di indennizzo per lo Stato - è del 44,5% nel giudizio di appello e del 18,9% nel giudizio di primo grado. Forse allora il Ministro Bonafede dimentica che delle conseguenze di questa riforma dovrà rispondere lui stesso. E ne dovrà rispondere con il capitolo di spese obbligatorie numero 1264 del Ministero della Giustizia, che ogni anno raccoglie la “somma occorrente per far fronte alle spese derivanti dai ricorsi proposti dagli aventi diritto ai fini dell’equa riparazione dei danni subiti in caso di violazione del termine ragionevole del processo”. Già oggi, secondo le ultime stime pubblicate dalla Corte dei Conti. il debito verso i cittadini per irragionevole durata dei processi è di 340 milioni di euro. E non potrà che crescere. Perché la violazione dei diritti ha un costo e anche di questo qualcuno dovrà un giorno rispondere. *Tesoriera Radicali Italiani I parenti delle vittime delle stragi: “Stop alla prescrizione” di Mario De Fazio Il Secolo XIX, 11 dicembre 2019 Pronto il blitz in Parlamento della Rete “Noi non dimentichiamo” con i familiari delle persone morte nelle stragi recenti avvenute in Italia. Egle Possetti, portavoce gruppo Morandi: “La riforma 5S è un traguardo, devastante pensare che qualcuno possa evitare il processo”. La riforma della prescrizione “rappresenta un traguardo importante” oltre che una “garanzia per il giusto riconoscimento delle nostre ragioni”. A scendere in campo per difendere con forza la riforma voluta dal ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, che congela il decorso dei processi eliminando la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, non è un partito. Ma il coordinamento “Noi non dimentichiamo”, una rete che raccoglie in tutta Italia decine di associazioni e comitati di familiari delle vittime di alcune tra le principali tragedie avvenute nel Paese negli ultimi anni: dalla strage ferroviaria di Viareggio alle morti del rogo della Thyssen Krupp, a Torino, passando per i terremoti de L’Aquila e di Amatrice, fino a tre avvenimenti tragici che hanno purtroppo scandito la storia recente di Genova e della Liguria: il crollo della Torre Piloti, la strage dell’autobus di studenti Erasmus in Spagna e il crollo di ponte Morandi. Un coordinamento che si è riunito a Viareggio, a metà novembre, e che ha partorito un documento di sostegno alla riforma della prescrizione che verrà presentato martedì prossimo al Senato. Un testo che restituisce il punto di vista di decine di familiari che si sono visti strappare un proprio caro passando poi “anni dentro le aule dei Tribunali e sopportando processi lunghi” e che chiedono una “giustizia che stenta ad emergere, un diritto sacrosanto che il nostro Stato dovrebbe rispettare perché sancito dalla Costituzione”, si legge nel documento. Sul tema specifico della riforma, il coordinamento ricorda di aver incontrato il Guardasigilli Bonafede e di aver avanzato delle richieste specifiche tra cui la riforma della prescrizione che “finalmente è diventata legge ed entrerà in vigore dal primo gennaio”, aggiungendo che “la prescrizione ha colpito duramente i processi di molte nostre associazioni e lo farà con altre nel prossimo futuro”. E si plaude alla riforma voluta dal M5S, specificando che “nel caso in cui questo importante risultato venga distorto o perda di credibilità” i familiari delle vittime sono pronti a “sostenere il ministro Bonafede ed essere presente nelle sedi opportune”. Parole chiarissime, che entrano su un tema che sta dividendo da settimane la maggioranza giallorossa al governo. Se il M5S vuole andare dritto sull’entrata in vigore dal primo gennaio delle nuove norme, le voci critiche che puntano a una revisione della riforma non sono mancate da Pd e Italia Viva. A Roma, martedì, ci sarà anche Egle Possetti, rappresentante del Comitato familiari vittime del Morandi. “Forse non sarà una riforma sufficiente a migliorare la giustizia italiana ma le nuove norme non permetteranno più agli imputati di evitare i processi attraverso escamotage e cavilli - spiega Possetti. Non ha senso neanche pensare che, in un processo come quello per il crollo del Morandi, non ci sia qualcuno che paghi. Per un familiare è devastante anche solo pensarci”. Per la rappresentante del comitato dei parenti del Morandi, non si tratta di prendere una posizione politica ma di vedersi riconoscere un diritto. “Non è una scelta per favorire un partito piuttosto che un altro - aggiunge Possetti - Vedere la fine di processi del genere è un diritto sacrosanto di uno Stato democratico”. Intercettazioni, il decreto fantasma difeso dal Pd di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 dicembre 2019 Corsa contro il tempo per correggere le norme ed evitare il rinvio. Torna nuovamente a far discutere la modifica della normativa sulle intercettazioni telefoniche voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’entrata in vigore della nuova disciplina sarebbe prevista per il prossimo primo gennaio. Il condizionale è d’obbligo perché nelle ultime ore si è concretizzato un nuovo rinvio di 6 mesi, mediante un emendamento da inserire nel ddl “Mille Proroghe”. Iniziativa che ha già suscitato la contrarietà del Pd. Se passasse l’emendamento ipotizzato a via Arenula, si tratterebbe del quarto rinvio. La riforma Orlando, contenuta nel decreto legislativo 216 del 29 dicembre 2017, doveva inizialmente entrare in vigore il 26 luglio 2018. Uno dei primi provvedimenti del ministro Alfonso Bonafede era stato quello di posticiparne l’avvio al 31 marzo 2019. “Impediamo che venga messo il bavaglio all’informazione” perché “la riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati”, aveva detto il guardasigilli. In generale, da parte del Movimento 5 Stelle era radicata la convinzione che la riforma fosse la conseguenza del l’indagine Consip. E lo stesso Bonafede era parso piuttosto diffidente rispetto ai reali obiettivi del provvedimento: “Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato, qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea. Riscriveremo la norma sulle intercettazioni attraverso un percorso partecipato. Ho già ricevuto contributi importantissimi, arriveremo ad una riscrittura che troverà un punto di equilibrio tra tutti i diritti in gioco”, aveva poi aggiunto Bonafede, sottolineando come “la norma che abbiamo bloccato ledeva tutti i diritti in gioco”. Immediata era stata la replica di David Ermini, all’epoca responsabile Giustizia dei dem e fra gli autori del testo: “Il blocco servirà soltanto a lasciare le cose come sono. Cioè, senza tutela per i cittadini onesti e perbene che, pur non essendo coinvolti nelle indagini, si troveranno sbattuti in prima pagina e continueranno ad avere la loro vita privata rovinata senza che nessuno ne risponda mai. Sarebbe gravissimo. A chi giova che le cose rimangano così come sono? Bonafede risponde alle esigenze dei cittadini o pensa di continuare a promettere tutto a tutti come faceva dall’opposizione?”. La riforma Orlando, nelle intenzioni, prevede maggiori garanzie per l’imputato a tutela del diritto alla privacy. In pratica, consente di escludere da verbali e ordinanze “ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e di espungere il materiale non rilevante a fini di giustizia”. Sono previste pene fino a 4 anni di reclusione per la divulgazione fraudolenta di quei contenuti. Per i detrattori, invece, il testo è bollato come “legge bavaglio”. Molti magistrati hanno manifestato fin da subito il loro dissenso. Fra i punti più controversi, la mancata fornitura degli archivi informatici agli uffici, l’assenza di software gestionali adeguati, le difficoltà logistiche nel reperire spazi dove installare gli archivi, la necessità di chiarire le modalità di archiviazione delle conversazioni e quelle di accesso da parte degli avvocati. L’Anm, in particolare, critica lo “strapotere valutativo della polizia giudiziaria” di trascrivere le intercettazioni ritenute rilevanti ai fini delle indagini. Va ricordato, però, che se la pg avesse dei dubbi sulle telefonate da trascrivere, potrà informare il pm con un atto formale. Questi sarà chiamato a decidere se autorizzare o meno l’inserimento della telefonata. La direzione e la sorveglianza dell’archivio riservato spetta esclusivamente al procuratore della Repubblica. Concluse le operazioni di ascolto e depositato del materiale, i difensori potranno ascoltare le telefonate ma non estrarne copia o registrarle. Va chiarito però che la ragione dell’ulteriore proroga ipotizzata dal governo non deriva tanto da persistere di una diffidenza rispetto ai contenuti del decreto. “La previsione di un rinvio di 6 mesi è stata inserita nel Mille Proroghe solo per ragioni di cautela”, si è fatto sapere dal ministero della Giustizia. Con la precisazione che rispetto ai contenuti più problematici, in particolare per le difficoltà d’accesso dei difensori al materiale intercettato e non trascritto, cioè la disponibilità a intervenire con un ulteriore decreto correttivo, in modo da rendere non necessaria la proroga, che sarebbe appunto la quarta della serie. La giustizia fra codice penale e “codice degli onesti” di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 11 dicembre 2019 Rischia di essere un D-day per la giustizia penale italiana il 1° gennaio 2020. Salvo imprevisti, difatti, le controverse norme che cancellano la prescrizione dopo la sentenza di primo grado entreranno in vigore, mentre verranno congelate (per la quarta volta) su iniziativa dei Cinque Stelle quelle che ridisegnano il regime delle intercettazioni. Per restare nella metafora, forse eccessiva ma efficace, le truppe d’assalto populistico-giustizialiste ritengono così di aver sferrato l’attacco decisivo per liberare il nostro processo dall’occupazione garantista che si perpetua da più di un trentennio, fonte - a loro avviso - di debolezze investigative e di lungaggini processuali funzionali a impunità varie (ed eventuali), i cui beneficiari sarebbero soprattutto gli imputati eccellenti. Ora, che l’attuale Codice di procedura penale non abbia prodotto risultati esaltanti e apprezzabili è indubbio. Negarlo significherebbe mancare di onestà intellettuale. Il vero punto, però, consiste nell’individuare rimedi efficaci alle sue défaillances e alle sue carenze, secondo una visione d’insieme che tenga conto anche di fattori spesso trascurati quali la sufficienza e l’idoneità delle risorse (umane e strumentali). Un buon medico, prima di formulare una diagnosi e di individuare un’adeguata terapia, effettua l’anamnesi del paziente. Cioè a dire, ricostruisce la sua storia per comprendere come sia potuto arrivare all’attuale stato di malessere. Orbene, molti sono immemori di come l’iter involutivo dei tempi processuali - con i suoi riflessi sulla certezza della pena - abbia radici lontane datando quanto meno all’immediato Dopoguerra, quando vigeva il codice 1930 (pur più volte riveduto e corretto). Non certo un codice garantista. E che la propagandistica demolizione della prescrizione sortirà ben pochi effetti rispetto all’intenzione dichiarata di accorciare la durata irragionevole dei nostri processi. In molti hanno ricordato come la stragrande maggioranza dei processi si prescrivano prima del giudizio di primo grado. Occorre aggiungere che il vero virus da cui scaturisce la smisurata dilatazione dei processi è costituito dai tempi morti incuneati tra le fasi, quelli in cui non succede nulla. O, ancora, che un vetusto e farraginoso sistema di notificazioni produce inaccettabili stasi - specie nei processi con una pluralità di imputati - che certo l’evaporazione della prescrizione non può risolvere. La visione del legislatore, insomma, è (colposamente o dolosamente) miope. Sull’altro fronte c’è la vicenda delle intercettazioni. Frutto, evidentemente, di un’ indecorosa contrattazione. Indecorosa e disdicevole perché i temi della giustizia dovrebbero sottrarsi alle tecniche governative di stampo mercantile riguardando tutti i cittadini e riferendosi a principi che dovrebbero essere considerati i capisaldi della società. Ma tant’è. La giustificazione del ministro Bonafede è risibile, e fa leva ancora una volta sulle difficoltà tecniche per le procure. Tali difficoltà permangono da quasi un anno e mezzo, e che il guardasigilli le evochi come causa del rinvio ha il sapore di un’inconsapevole autoaccusa per inefficienze legate al sistema giustizia. La riforma delle intercettazioni, certo, è perfettibile, ma contiene alcune norme migliorative dello status quo che mirano a tutelare la privacy dei soggetti coinvolti introducendo il reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e prevedendo che gli ufficiali di polizia giudiziaria, qualora si imbattano durante l’attività di captazione in comunicazioni non rilevanti ai fini di giustizia penale o che contengano dati sensibili, non debbano trascriverle neanche sommariamente. Sotto l’albero di Natale, insomma, gli italiani troveranno una giustizia impoverita che magari appagherà il loro rancore ignorando che il Codice di procedura serve non già a punire qualcuno “a prescindere” ma a verificare se quel qualcuno ha effettivamente commesso il reato che gli si addebita. E che quel qualcuno potrebbe essere chiunque, suo malgrado. Francesco Carrara, un grande giurista del XIX secolo, affermava - con mirabile sintesi - che mentre il Codice penale rappresenta il codice dei delinquenti quello di procedura penale contiene una serie di regole poste a tutela dei galantuomini. È da qui che nasce la presunzione d’innocenza, assai ostica per i giustizialisti. L’affermazione è nota a (quasi) tutti i giuristi, ma naturalmente non lo è alla maggior parte dell’opinione pubblica: sarebbe bello, magari, che qualcuno la ricordasse negli innumerevoli talk show dedicati all’argomento. Descrive, in poche parole, l’essenza della giurisdizione. E invece no, non è una dichiarazione alla moda, e forse è sottovalutata anche dai difensori dei diritti individuali. Così come spesso si ignora che le intercettazioni - strumento investigativo legittimo ed efficace - devono essere maneggiate con cura, per limitare al massimo l’effetto deleterio (e talora devastante) che le stesse possono produrre nelle vite altrui, si tratti di indagati poi dichiarati innocenti o addirittura di persone terze del tutto estranee alla vicenda giudiziaria, la cui sfera personale viene invasa e resa pubblica. L’albero di Natale della giustizia, quest’anno, non è illuminato. Ecco perché alla gente piace essere colpevolista di Guglielmo Gulotta Il Dubbio, 11 dicembre 2019 Le condanne ci sembrano più giuste dell’assoluzione: è difficile accettare che si può essere nei guai senza aver fatto nulla. Come avvocato che si muove anche in società al di fuori del contesto professionale, spesso mi sento chiedere da amici e conoscenti “ma come fai a difendere uno così che è accusato di aver fatto questo quando è sicuramente colpevole?”. Altre volte mi trovo in qualche circostanza, per esempio televisiva, in cui mi appare evidente che l’orientamento è tutto schierato dalla parte dell’accusa. La prima domanda a cui voglio rispondere è perché la gente è in generale, diciamo, colpevolista. Quando interpretiamo gli eventi naturali e sociali, quando effettuiamo delle scelte, giudichiamo la nostra e l’altrui condotta, intraprendiamo azioni benefiche evitando eventi dannosi, o quando semplicemente rimediamo a effetti negativi, siamo orientati dal “senso comune”, cioè il patrimonio di conoscenze generali che gruppi di persone condividono (ad esempio, senso comune del mondo occidentale è che la mente sia cosa diversa dal corpo, oppure che il mondo naturale esista indipendentemente dalla percezione che l’uomo ha di esso,…). Tali credenze possono essere sia esplicite, come, per esempio, il dualismo mente e corpo, che implicite, che inferiamo dall’osservazione. Tra queste ultime, vi è la convinzione che il mondo sia giusto, cioè che il mondo sociale sia governato da principi di giustizia. Tutto quello che otteniamo o ci capita, è meritato e meritiamo tutto quello che abbiamo o che ci capita. Normalmente dunque, ciò che accade è corretto e le decisioni che si possono prendere nei nostri confronti sono giuste, è per questo che le sentenze di condanna ci sembrano sempre più giuste di quelle di assoluzione. La ragione di questa illusione appare essere semplicemente protettiva. Se il mondo sociale, infatti, fosse intrinsecamente ingiusto diventerebbe imprevedibile e dunque non controllabile. Noi dobbiamo credere che se uno ha dei guai con la giustizia è perché qualcosa ha fatto, perché diversamente opinando vorrebbe dire credere che uno potrebbe essere nei guai anche senza aver fatto niente. La credenza in un mondo giusto rappresenta un bisogno fondamentale per l’uomo, ossia il bisogno di credere che il mondo nel quale ci si trova sia un luogo in cui le persone ricevono ciò che meritano in base alle proprie azioni. Il sentimento di giustizia orienta le persone nell’interpretazione degli eventi naturali e sociali e permette di regolare la propria condotta e giudicare quella degli altri. Si crea una condizione di difesa psicologica dietro la quale la persona arriva a credere che se non si comporterà in un certo modo, non correrà quel rischio. Evidenze empiriche dimostrano che credere che le persone “buone” vengano ricompensate e quelle “cattive” punite influenzi il comportamento umano, in particolare per quanto riguarda la condotta altruista: ad alcuni studenti è stato chiesto se credessero o meno nel mondo giusto; sono stati poi ricontattati due volte per capire se sarebbero stati disponibili a dedicare il loro tempo per partecipare ad un esperimento. Pochissimi di loro, a prescindere che credessero o meno in un mondo giusto, hanno accettato se contattati durante l’anno. Se chiamati invece, all’inizio della sessione d’esame, hanno mostrato una maggiore disponibilità gli studenti che avevano affermato di credere in un mondo giusto. Il pensiero motivante sarebbe il seguente: se faccio qualcosa di buono, è facile che mi succeda poi qualcosa di altrettanto buono, ovvero è facile che possa superare l’esame che sto per sostenere. L’incoerenza, la dissonanza cognitiva, che proviamo di fronte alle palesi ingiustizie di tutti i giorni, anziché mettere in dubbio l’illusione, ci induce ad autoinganni che consentono la perseveranza della credenza costruendo una cintura protettiva di carattere cognitivo. Ecco perché tendiamo a colpevolizzare la vittima innocente e re- interpretiamo la causa del danno come frutto di negligenza o delle caratteristiche della vittima spericolata: una tipica inferenza, per esempio, è ritenere che se una donna viene stuprata è perché frequenta zone pericolose o veste in maniera provocante. Una vittima completamente innocente potrebbe minacciare la visione che il mondo sia giusto innescando l’idea che a chiunque, dunque anche a noi, possa capitare un’ingiustizia e così quanto più si è vittime di un evento negativo tanto più si è percepiti come maggiormente responsabili della situazione. In un mondo non giusto non sarebbe il caso di investirci energia, risorse e, per questo, ciò che capita agli altri diventa importante per ciascuno di noi. Se la vita li tratta giustamente, confermiamo il nostro preconcetto, se invece il destino li tratta ingiustamente, abbiamo bisogno di ristrutturare gli avvenimenti. L’attività subacquea, la box, il paracadutismo non sono sport pericolosi: “gli è capitato quello che gli è capitato perché non è stato attento. A me non capiterà perché io sto attento”. Così ragionano coloro che praticano questi sport dopo un incidente. Ovviamente tale illusione deve essere tanto più forte quanto più si intende investire a lungo termine intraprendendo condotte dirette verso un fine ambito: se le persone credono nel mondo giusto saranno motivate a proteggere il proprio senso di giustizia anche di fronte a eventi contrari. Un altro meccanismo protettivo comune è ritenere che la giustizia arrivi o presto o tardi e che il tempo sia galantuomo. Anche per questo ci sono leggi e tribunali. In qualche caso, addirittura, si ritiene che la giustizia arrivi in un altro mondo, solo quando il tempo terreno ormai è scaduto. Talvolta applichiamo anche un meccanismo di diniego in cui cancelliamo dalla nostra mente il fatto di cui siamo testimoni, oppure come accennato sopra, re-interpretiamo l’esito. Per esempio, possiamo credere che un licenziamento sia una buona occasione per trovare un posto migliore, allontanandosi da un ambiente non del tutto stimolante. Costruiamo dei meta-mondi: uno in cui viviamo noi, ove vige la regola che il mondo sia giusto, l’altro, quello pervaso dalle ingiustizie in cui ci sono vittime disgraziate della sfortuna, della ingiustizia casuale. Solo quando ci rendiamo conto di quanto l’ingiustizia sia pervasiva sulla terra ne accettiamo la realtà e, per esempio, dopo aver soppesato costi e benefici di un possibile intervento, di fronte ad una vittima innocente siamo portati a soccorrerla e non a colpevolizzarla. L’autoinganno svanisce e l’uomo si trova di fronte all’amara realtà: vivendo, non tutto ciò che di male ci capita, lo meritiamo. Questo vale per gli altri ma anche per noi stessi. La seconda domanda a cui voglio rispondere è quella che mi viene spesso rivolta quando parlo della mia professione. Quello che occorre far capire per far comprendere bene cosa faccia un avvocato è che le persone possono essere difese da innocenti o da colpevoli, il dramma nella vita “è che tutti hanno le loro ragioni”. Nel corso della mia carriera professionale ho raccolto una serie di principi che estraggo anche da alcune perspicue sentenze di legittimità, che dovrebbero guidare il processo e, dunque, l’attività del difensore: 1) Nessuno può difendersi da solo, anche se fosse il più bravo penalista del Paese (d’altronde un adagio che gira tra gli avvocati anglosassoni recita: “Chi fa l’avvocato di sé stesso ha un imbecille per cliente!”); 2) Il difensore deve mediare tra ciò che l’assistito intende dichiarare, la plausibilità e la verosimiglianza della storia, i propri valori, il codice di procedura penale e il codice deontologico; 3) Si può difendere da innocente, per esempio sostenendo che non ha compiuto il fatto, o da colpevole, affermando che ha sì compiuto il fatto ma che questo può essere in vari modi spiegato e giustificato al fine di ottenere delle attenuanti o delle giustificazioni: è stato provocato, è incapace di intendere e volere, ha agito per legittima difesa, per stato di necessità; 4) Il sistema tollera che un colpevole sia in libertà ma non tollera che un innocente sia in carcere; 5) Per condannare ci vuole la certezza della colpevolezza dell’imputato, per assolvere non serve la certezza dell’innocenza ma basta la non certezza della colpevolezza; 6) Compito del difensore è di seminare dubbi ragionevoli sulla strada che il Giudice dovrà compiere per arrivare alla propria decisione di innocenza e di colpevolezza; 7) Il difensore deve essere obiettivo (per quanto riguarda la valutazione dei fatti), ma non può essere neutrale (stante che ha un antagonista che tale non è). L’anomalia del marketing giudiziario. Indagini show, basta con i titoli ad effetto di Stefano Ceccanti (Deputato Pd) Il Riformista, 11 dicembre 2019 Ho presentato ieri mattina un’interrogazione ai ministri dell’Interno e della Giustizia per chiedere quali iniziative intendano assumere rispetto ai nomi ad effetto che vengono sempre più utilizzati in modo diffuso per indagini, ad esempio quella denominata “Angeli e Demoni”. Questo modo di fare porta non a rispecchiare un contenuto tutto da vagliare, ma di fatto a suscitare in modo anomalo un consenso aprioristico dell’opinione pubblica: è una sorta di marketing delle indagini giudiziarie che, al di là dei singoli casi e delle singole motivazioni, collide sotto vari profili con le garanzie stabilite dall’articolo 111 della Costituzione. Per questo è importante che questa spettacolarizzazione cessi quanto prima. Ormai da diversi anni è invalsa la prassi da parte di alcuni settori della magistratura inquirente e di alcune autorità di polizia giudiziaria di denominare operazioni e indagini da esse condotte con nomi in codice ad effetto, facendo uso di termini evidentemente scelti con cura al principale scopo di influenzare l’opinione pubblicare e suscitare il consenso sociale intorno alle ipotesi accusatorie, spesso risultate poi nei processi meno solide del previsto. È quello appena descritto un meccanismo che sembra dar luogo ad un vero e proprio marketing improprio delle indagini giudiziarie che dà l’impressione di assecondare forme inopportune di spettacolarizzazione. In secondo luogo, bisogna tenere presente che nell’era dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa nonché della comunicazione diretta via rete e social media, tutto ciò finisce con l’alterare l’equilibrio fra accusa e difesa ed anzi finisce con l’attentare ai diritti delle persone coinvolte ben prima di qualsiasi riscontro processuale da parte di un giudice terzo, il tutto in violazione di norme costituzionali precise a partire dall’art. 111 Cost. Quali iniziative intendano assumere il ministro dell’Interno e il ministro della Giustizia, onde assicurare che una simile prassi venga abbandonata? Quali iniziative intendono porre in atto al fine di assicurare che alle inchieste, ove reputato necessario, siano attribuiti nomi in codice con valenza esclusivamente pratica e interna? La storia di Pino Pinelli, 18esima vittima della Strage di Piazza Fontana di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 dicembre 2019 “E a un tratto Pinelli cascò” oppure “una spinta e Pinelli cascò”? Nelle due versioni della Ballata, diffusa nel 1970 su un 45 giri “parole e musica del proletariato”, c’è la storia di un uomo, della sua vita e della sua morte. Giuseppe Pinelli, detto Pino, anarchico, ferroviere e staffetta partigiana. Brava persona, bravo padre di famiglia, bravo militante. “Suicida” secondo il questore e i suoi uomini che in quella notte del 14 dicembre di cinquant’anni fa l’avevano in custodia eppure non ne seppero proteggere l’integrità fisica. “Suicidato”, secondo le certezze di coloro che ne conoscevano personalmente le passioni che non contemplavano quel mal-di-vivere che può portare al desiderio di morire. Poi ci sono tutti quei testimoni dell’epoca, i sopravvissuti di un giornalismo curioso che con puntiglio voleva guardare dentro i fatti al di là delle versioni ufficiali. Coloro che non si sono mai arresi a una verità giudiziaria che non è una verità, che ha tormentato a lungo lo stesso magistrato, il giudice Gerardo D’Ambrosio, autore ed estensore di una sentenza che crea disagio. Prima di tutto in chi l’ha scritta. Che cosa sia esattamente un “malore attivo” non lo sa nessuno. Quel che è certo è che un corpo, in una notte di dicembre milanese degli anni in cui ancora c’era la nebbia e tanto caldo non poteva esserci, è volato da una finestra del quarto piano, ha poi rimbalzato due volte sui cornicioni ed è precipitato a terra dopo una traiettoria diritta, come fosse stato un pacco. Invece era un uomo, si chiamava Pino Pinelli, era uno degli ottanta anarchici fermati la sera del 12 dicembre dopo la bomba di piazza Fontana. Quell’uomo, nella terza sera trascorsa in questura senza l’avallo di alcun magistrato, a un certo punto nella stanza del commissario Calabresi dove lo stavano interrogando, non c’era più. Era giù, nel cortile della questura di via Fatebenefratelli. Volato via dalla finestra aperta. Oggi possiamo dire, tutti dicono, che l’anarchico del Ponte della Ghisolfa è stato la diciottesima vittima della strage alla banca dell’agricoltura. Ci voleva il cinquantesimo anniversario per arrivare a questo riconoscimento. Ma nel 1969 valevano le parole del questore, a Milano: “Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”. Aggiungendo in seguito, in una conferenza stampa, che “il suo alibi era crollato”. Nulla, neanche i morti di piazza Fontana, le sedici bare in una piazza Duomo grigia uggiosa e smarrita, nulla ha diviso la città, i suoi pensieri, le sue grida rabbiose, come i fatti di quella notte in questura e quel corpo giù nel cortile. Lo spettacolo di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, la grande tela del pittore Enrico Baj (“I funerali dell’anarchico Pinelli”), e poi i tanti libri e il grande lavoro di quel gruppo di giornalisti che non si è mai arreso all’ipotesi del suicidio. E poi un’altra notte, ancora fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino: buttato e poi caduto, e ancora buttato e poi caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva. Il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo morto (pur se non in senso letterale), esprimeva un certo abbandono, una certa passività. Ma non si poteva neppure dimostrare che qualcuno avesse afferrato quel corpo e lo avesse buttato giù. E per quale motivo, poi? Perché, in quella stanza, dove insieme ai poliziotti stranamente c’era anche un ufficiale dei carabinieri, era successo qualcosa di pesante, qualcuno si era sentito male e qualcun altro aveva perso la testa? Non si saprà mai, e tutti coloro che erano in quella stanza, pur con le loro testimonianze contraddittorie, furono assolti. Il commissario Calabresi, capo dell’ufficio politico della questura, non era in quell’ufficio, che pure era il suo, in quel momento. Ma nelle piazze si gridò a lungo “Calabresi assassino”, lo si scrisse sui giornali, lo si raccontò nelle vignette in cui il commissario era sempre vicino a una finestra aperta. Ci fu una denuncia per omicidio presentata da Licia Rognini, vedova Pinelli e ci fu una querela per diffamazione di Calabresi nei confronti del quotidiano Lotta continua. E poi, mentre il caso Pinelli era stato archiviato dal giudice D’Ambrosio con quell’ipotesi di “malore attivo” che in definitiva scontentava tutti, il commissario Calabresi fu assassinato con due colpi alla nuca in via Cherubini, di fronte alla casa dove abitava. È il 1972, non sono passati tre anni da quella notte del dicembre 1969 e qualcuno pensa che giustizia sia stata fatta. Nel modo peggiore possibile. Non sarà così, ovviamente. Di nuovo con le sentenze non ci sarà pace su questa vicenda. E la condanna di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio Calabresi lascia l’amaro in bocca come tutte le sentenze frutto di processi indiziari. Sarebbe meglio non delegare più alle toghe il ricordo di Pinelli. Come ha già fatto con un grande gesto l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano che nel 2009, nel giorno della memoria, ha riunito al Quirinale le due donne simbolo della sofferenza, Licia Rognini, vedova Pinelli, e Gemma Capra, vedova Calabresi. E ad altre due donne, le figlie del ferroviere anarchico Claudia e Silvia, il merito, la capacità, l’intelligenza di aver preparato per questo 14 dicembre 2019 la “catena musicale” che unirà anche fisicamente (pur nell’assenza degli anarchici) piazza Fontana con i suoi morti e la questura con la sua diciottesima vittima, Pino Pinelli. Legittima difesa, il “grave turbamento” fa annullare la condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2019 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 10 dicembre 2019 n. 49883. Sparò a un albanese disarmato, all’esterno della propria abitazione, dove lo straniero aveva cercato di introdursi. E poi ne gettò il corpo in un fiume. La Cassazione annulla la condanna di omicidio colposo per eccesso di legittima difesa e rinvia alla Corte di assise di appello per valutare l’impatto della legge di riforma della legittima difesa. Inizia a far sentire i suoi effetti il “grave turbamento”, nuovo elemento aggiunto dalla legge a fondamento della causa di non punibilità per l’azione difensiva. La Cassazione mette in evidenza innanzitutto come, anche dopo la riforma della legge 36/2019, non si può considerare esente da responsabilità penale la condotta di chi utilizza un’arma contro la persona “quando questa, pur trovandosi ancora illecitamente all’interno del domicilio, delle appartenenze o dei luoghi equiparati, non stia tenendo una condotta da cui possa ravvisarsi l’attualità del pericolo di offesa alla persona o ai beni che esiga una preventiva reazione difensiva”. Quando poi esiste la necessità della difesa contro un pericolo attuale di un’offesa indirizzata solo ai beni, la presunzione di proporzionalità sull’uso dell’arma sarà applicabile quando non c’è desistenza dall’azione criminale. Venendo invece al punto dell’eccesso colposo, la sentenza ammette, in sintonia con il ricorso, che la legge 36/2019 ha inciso in maniera profonda sull’istituto, restringendo l’ambito del penalmente rilevante e stabilendo l’esclusione da punibilità quando chi ha agito lo ha fatto per la protezione della propria o altrui incolumità “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Trattandosi di una misura penale più favorevole, non è incerta la sua applicazione retroattiva. La pronuncia ricorda poi che, tra gli elementi che possono avere impedito una difesa normale, non può essere annoverata la notte (come invece prevedevano precedenti proposte di riforma). La Corte si trova così nelle condizioni di dovere fare i conti con la difficile ricostruzione di un elemento psicologico come il grave turbamento. Compito che dovrà essere svolto dai giudici di appello. Ai quali però dalla Cassazione arriva una serie di indicazioni. Servono, afferma la Corte, parametri oggettivi cui agganciare il giudizio e, quindi, sono irrilevanti stati d’animo che hanno ragioni e cause già esistenti o diverse; nello stesso tempo, la valutazione dovrà considerare, alla luce della situazione di fatto, se e in che misura il pericolo in atto ha provocato in chi agisce “un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa”. Altri parametri di riferimento potranno essere rappresentati dall’analisi sulla maggior o minore lucidità e freddezza che hanno caratterizzato l’azione difensiva, anche nei frangenti immediatamente precedenti e successivi l’evento. Il Gip non può negare al detenuto la visita dei medici di fiducia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2019 Il giudice per le indagini preliminari non può respingere la richiesta del detenuto di farsi visitare in carcere, a sue spese, dai suoi medici di fiducia. La Cassazione, con la sentenza 49808 depositata il 9 dicembre, accoglie il ricorso di un indagato sottoposto a carcere cautelare per gravi reati, ribadendo la tutela costituzionale del diritto alla salute, come diritto fondamentale dell’individuo. La Suprema corte sottolinea che i detenuti e gli internati, possono chiedere di essere visitati, a proprie spese, da un medico di fiducia “senza che ricorrano limiti e condizioni, se non la necessità di curarsi, necessità che presuppone l’accertamento sanitario delle proprie condizioni” . In questo contesto il via libera del giudice che procede, fino alla sentenza di primo grado, non è finalizzato a sindacare l’iniziativa individuale di sottoporsi a visita e cura, ma ha il solo scopo di deliberare, e dunque motivare, se la richiesta dell’imputato possa in qualche modo avere incidenza negativa sugli accertamenti processuali in corso. Nello specifico il Gip aveva richiesto una relazione sanitaria dalla quale non erano emerse criticità e, visti i capi di imputazione di un soggetto considerato estremamente pericoloso, aveva giustificato il no con il rischio di veicolare informazioni, avvalendosi di contatti con persone esterne. In più aveva sottolineato la complessità delle indagini preliminari in corso, che avevano richiesto grande attenzione anche nei colloqui. La conclusione era stato il no alla visita medica esterna bollata come “pretesa”. Una decisione ribadita dopo il primo rinvio con il quale la Cassazione lo invitava a rivedere la scelta. Ora i giudici di legittimità rinviano per la seconda volta all’ufficio del Gip, precisando che per le visite sanitarie esterne non serve una ragione, e comunque non è sindacabile dal giudice. Sbagliato anche il parallelo con i colloqui, vista la diversa finalità dei due istituti. Per finire, riguardo alla tutela delle investigazioni, il gip non indica come queste potrebbero essere messe a rischio e come l’incontro con i due medici possa diventare un’occasione per veicolare notizie fuori dal carcere o incidere negativamente sugli accertamenti processuali in corso. La stessa difesa del ricorrente aveva poi suggerito modalità di esecuzione delle visite utili a far quadrare il cerchio: garantire diritto alla salute e segretezza delle indagini. In più, precisano i giudici, l’indagato non era sottoposto neppure al regime differenziato. Napoli. Da ex recluso a Garante dei detenuti di Valentina Ascione Il Riformista, 11 dicembre 2019 Da una cella di Poggioreale a Garante dei detenuti di Napoli il passo non è affatto breve. In mezzo c’è una storia di riscatto lunga 15 anni. È la storia di Pietro loia, che il sindaco Luigi de Magistris ha nominato garante cittadino per i diritti delle persone private della libertà personale. Una decisione che non ha mancato di suscitare polemiche. loia, napoletano di 60 anni, negli anni Ottanta, è stato un narcotrafficante internazionale. “Sono stato arrestato e trattenuto in carcere per 22 anni. Nel 2002 sono uscito e ho deciso di cambiare vita. Da 15 anni lotto per i diritti dei detenuti”, raccontava solo poche settimane fa in un’intervista al Riformista . Uscito di prigione, Ioia ha fondato l’Associazione Ex Don (detenuti organizzati napoletani), di cui è presidente, e ha iniziato la sua battaglia, denunciando le condizioni disumane delle carceri italiane: luoghi “criminogeni” che invece di rieducare addestrano all’illegalità. Per primo ha denunciato le violenze sui detenuti nella cosiddetta “cella zero” a Poggioreale, per cui si sta svolgendo il processo a carico di alcuni agenti di polizia penitenziaria. La cella zero è diventato anche un libro e poi uno spettacolo teatrale. Pietro Ioia è fortemente impegnato nel reinserimento sociale e lavorativo dei giovani che escono dal carcere, per evitare che tornino a delinquere. Con la sua associazione è diventato un punto di riferimento per i detenuti e per le loro famiglie. E adesso potrà esserlo anche formalmente, grazie alla nomina a Garante cittadino da parte del sindaco di Napoli. Una nomina aspramente criticata da alcune sigle sindacali della Polizia penitenziaria e anche da rappresentanti della Lega che ne invocano il ritiro, definendo “indecente” la scelta di indicare “un pregiudicato, con diversi anni passati dietro le sbarre per reati gravi”. Soddisfatti invece i Radicali per i quali Pietro loia è la scelta migliore possibile: “È già di fatto il Garante dei diritti dei detenuti. Noi gli abbiamo riconosciuto da sempre questo ruolo”. “De Magistris ne ha fatta una buona”. ha commentato sui social Rita Bernardini. Napoli. Se il Garante dei detenuti è un ex detenuto di Maria Nocerino Redattore Sociale, 11 dicembre 2019 Intervista a Pietro Ioia, in passato in carcere per oltre vent’anni e da quindici impegnato nel reinserimento sociale e lavorativo di chi torna libero. Il sindaco De Magistris lo ha voluto nel ruolo di Garante: “Senza rieducazione si producono altri criminali”. Ha denunciato la Cella Zero del carcere di Poggioreale ed altre violenze perpetrate all’interno delle mura delle case circondariali, facendosi portavoce dei diritti dei reclusi e delle loro famiglie, avendo lui vissuto sulla propria pelle lo stigma dell’ex detenuto cui venivano sbattute le porte in faccia. Pietro Ioia era lo spacciatore di riferimento di Forcella, per la sua pena ha scontato 22 anni di carcere e, successivamente, ha fondato l’associazione Ex D.O.N Detenuti Organizzati Napoletani, che oggi presiede: ieri è stato nominato Garante dei detenuti dal sindaco Luigi De Magistris. Ioia, 60 anni, da 15 è impegnato nel reinserimento sociale e lavorativo dei giovani che escono dal carcere, troppo spesso marchiati e costretti, dalla stessa società che dovrebbe rieducarli, a ritornare a delinquere. In questa intervista, ci racconta come la sua esperienza di vita sia stata la molla per un cambiamento di rotta che dovrebbe portare la società a vedere diversamente chi sbaglia e paga. Dalla sua storia è stato anche tratto uno spettacolo teatrale ispirato al suo libro “La Cella Zero”. Come nasce l’esperienza dell’associazione Ex Detenuti Organizzati? “Nasce dalla mia esperienza di vita. Io ho scontato 22 anni di carcere e, una volta uscito, ho provato a cercare lavoro. Sono andato a Modena ma ho avuto solo porte sbattute in faccia perché quando venivano a sapere che ero stato in carcere, mi rifiutavano il lavoro. Così ho capito che bisognava far qualcosa, tornato a Napoli, ho fondato l’associazione che oggi presiedo e che è diventata una sorta di punto di riferimento per i detenuti e per le loro famiglie. Ci troviamo a Gianturco, offriamo supporto ai giovani ex detenuti e ai ragazzi a rischio che vogliono trovare un lavoro, stabilendo contatti, ad esempio, con le pizzerie e i ristoranti”. Come risponde la società civile? “Purtroppo non bene, la maggior parte delle realtà che contattiamo non riesce a capire. C’è ancora molto da fare contro lo stigma. Bisogna dire all’opinione pubblica che i ragazzi a rischio dei quartieri e anche chi esce dal carcere deve essere aiutato a reinserirsi, non deve essere marchiato dalla società, altrimenti c’è il rischio che ci rimetta piede presto”. Nella sua esperienza il carcere ha avuto un valore rieducativo? “No, assolutamente, io mi sono rieducato da solo, la mia esperienza personale è stata la molla che mi ha spinto a cambiare vita e a fare qualcosa per gli altri. Quando una persona entra in carcere deve essere trattata come persona, con una sua dignità, come prevede la Costituzione. Il problema è che le carceri attualmente sono vere e proprie scuole di criminalità e, senza rieducazione e reinserimento, producono solo altri criminali”. Lei è stato l’unico ex detenuto in Italia a fare visite ispettive in carcere…Cosa ha visto? “Ho trovato carceri sovraffollate, dove venivano chiaramente violati diritti fondamentali, ho fatto varie denunce, la più importante è stata quella della Cella Zero a Poggioreale, grazie alla quale oltre venti persone sono indagate dalla Procura, tra cui decine di guardie penitenziarie e anche medici”. Lei è anche attore di cinema e teatro. Ha avuto un ruolo ne “La paranza dei bambini”. Secondo lei che effetto hanno film del genere? “Sì, sono attore anche se mi definisco sempre attivista. Al cinema, ho interpretato Alvaro, uno spacciatore del rione Sanità che alla fine viene ucciso. Il film, secondo me, ha avuto un buon effetto, il messaggio che passa è che i giovani di adesso vogliono tutto e subito e, prendendo questa strada, fanno una brutta fine”. Napoli. Polemiche sulla nomina di Ioia: “Garante pregiudicato, intervenga il ministro” di Giuliana Covella Il Mattino, 11 dicembre 2019 Insorgono gli agenti penitenziari: “Mai Ioia in un carcere napoletano”. Protestano Lega, Verdi e Fdi, plauso dei Radicali, silenzio Pd. Ventidue anni e sei mesi trascorsi dietro le sbarre dei penitenziari di Napoli, Campania, Italia e Spagna per scontare reati legati alla sua attività dell’epoca: narcotrafficante. Eppure Pietro Ioia, 60enne, si è riscattato dal suo passato. Prima fondando, 14 anni fa, l’associazione Ex Don per difendere i diritti dei carcerati, poi denunciando i pestaggi avvenuti tra il 2013 e 2014 a Poggioreale nella cosiddetta Cella Zero. Denunce fatte insieme ad altri ex reclusi per le quali è in corso un processo, che vede imputati 12 agenti di polizia penitenziaria. Oggi il nome di Ioia continua a scatenare polemiche, dovute alla sua nomina come Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, come si legge nel decreto firmato dal sindaco. Gran parte delle reazioni negative riguarda la mancanza dei requisiti previsti dall’avviso pubblico: dove c’è scritto che non è richiesto alcun titolo di studio specifico, ma esclusivamente formazione e conoscenza della materia. A chiedersi “come possa entrare nei penitenziari un soggetto con un casellario giudiziario di tale rilevanza” è Luigi Castaldo, segretario provinciale Osapp: “Come può lo Stato, attraverso il sindaco, permettere che a garantire i detenuti sia un soggetto che ha rappresentato l’anti-Stato?”. Contrari si dicono il presidente Uspp Giuseppe Moretti e il segretario regionale Ciro Auricchio: “Non capiamo perché in gran parte delle città italiane siano stati scelti avvocati, dirigenti penitenziari, docenti mentre il Comune di Napoli abbia fatto una nomina alternativa e ribelle”. “Ennesimo caso di confusione che offende le vittime della criminalità e chi in carcere svolge il suo lavoro credendo di servire lo Stato”, secondo il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo, che annuncia: “Gli agenti chiederanno un intervento del ministro”. Va giù duro il consigliere regionale Francesco Borrelli: “Un soggetto con una visione distorta della legalità arrivato a sostenere che la metà dei parcheggiatori abusivi non sono estorsori”. A storcere il naso anche la Lega. “Il sindaco dell’illegalità ha nominato l’ex capo dei parcheggiatori abusivi - tuona il parlamentare Gianluca Cantalamessa - uno che ha denunciato la polizia penitenziaria offendendo tutti coloro che indossano una divisa. È giusto che una persona si ravvede, ma da qui a nominare Garante chi chiede indulto e amnistia per i detenuti mi sembra una provocazione”. “Una scelta indecente - la definiscono Simona Sapignoli, coordinatrice cittadina, e Vincenzo Moretto, consigliere comunale - Dopo la galera si ha diritto a una vita nuova, ma è fuori luogo ottenere incarichi istituzionali”. “Sbagliato nominare chi ha combattuto contro lo Stato - dice Marco Nonno, consigliere comunale di FdI - un ex magistrato, che dovrebbe avere il senso delle istituzioni, strizza l’occhio a chi vi è stato contro”. “Una vittoria radicale la nomina di Ioia come Garante dei detenuti, un nuovo punto di riferimento per gli oltre 3.500 reclusi partenopei”, dice Raffaele Minieri, della direzione nazionale di Radicali Italiani e ideatore della proposta di istituzione del Garante a Napoli. “L’impegno di Ioia è un esempio per tutti. Ha fatto visite ispettive nelle carceri insieme ai Radicali per il Mezzogiorno Europeo fino a quando non gli è stata negata l’autorizzazione”. Per Riccardo Polidoro, responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane, “Ioia è come Sofri, anche lui vittima di polemiche ridicole come avvenne per l’ex leader di Lotta Continua, quando nel 2015 fu nominato consulente del ministero della giustizia per gli Stati Generali delle carceri. Sono uomini che si sono riscattati, difendendo i principi della Costituzione secondo cui il carcere deve rieducare i detenuti. Ioia lo ha fatto e da 14 anni ne difende i diritti”. “Per statuto nazionale la nostra associazione non sceglie tra i propri soci ex detenuti per non ricadere in una sorta di “partigianesimo” - interviene Luigi Romano, presidente associazione Antigone - Speriamo solo di avere un confronto virtuoso con lui”. Napoli. La Giudice di Sorveglianza: “nomina inopportuna, ha denunciato gli agenti per lesioni” di Viviana Lanza Il Mattino, 11 dicembre 2019 Monica Amirante: “Nulla da dire sulla persona, ma la sua nomina appare in questo momento inopportuna”. Il magistrato Monica Amirante, attuale presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno e con una lunga esperienza da giudice presso il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, invita a spostare la riflessione su un altro piano, senza guerre di posizioni, fuori dal campo delle polemiche che rischiano di creare tensioni. La presidente Amirante conosce bene la realtà delle carceri, le condizioni di vita dei detenuti e gli sforzi e le criticità affrontate quotidianamente da chi lavora all’interno delle strutture penitenziarie. Presidente, in queste ore infuria la polemica attorno alla nomina di Pietro Ioia scelto dal sindaco Luigi de Magistris come Garante dei detenuti della città di Napoli. I più critici sono i Sindacati della polizia penitenziaria che contestano fermamente la scelta del sindaco e sostengono che Ioia non abbia tutti i requisiti professionali richiesti. Cosa ne pensa? “È opportuno premettere che Pietro Ioia è una persona che ha riportato condanne e ha espiato interamente la sua pena. Su questo punto, quindi, non si discute: oggi è un uomo libero, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione si deve immaginare che abbia compiuto il suo percorso di risocializzazione. C’è però un processo tuttora in corso per delle lesioni che ha denunciato di aver subìto in carcere, per cui nulla da dire sulla persona Pietro Ioia. Ma sulla sua nomina, invece, qualche riflessione si può fare”. Quale? “Il garante è una persona che deve essere accompagnato da una aura di autorevolezza e credibilità e deve svolgere il proprio lavoro potendo dialogare serenamente con tutte le parti all’interno del carcere con la finalità di garantire i diritti del detenuto. Ebbene, è evidente che per Pietro Ioia c’è una questione di grande conflittualità - non sono io a dirlo - con tutto il personale della polizia penitenziaria, non solo con le persone che sono state oggetto della sua denuncia. Bisognava considerare che il processo sulle lesioni denunciate non è stato ancora definito”. Il riferimento è al processo sui presunti pestaggi nella cosiddetta “cella zero” del carcere di Poggioreale che nasce dalla denuncia di Ioia e di altri detenuti ed è ancora nella fase del dibattimento in primo grado con una dozzina di agenti della polizia penitenziaria imputati. Dunque, più che la scelta della persona sarebbe discutibile il tempismo della nomina? “Ritengo che ci sia un profilo di opportunità che avrebbe consigliato in questo momento di pensare a un’altra persona e non a Pietro Ioia, il quale stava già svolgendo il suo lavoro di denuncia come cittadino impegnato in maniera apprezzabile. Ioia si è esposto in prima persona, la sua denuncia è stata coraggiosa perché l’istituzione carcere è un’istituzione forte, dove le persone diventano di fatto numeri al di là della buona volontà e dell’impegno che tanti della polizia penitenziaria mettono nell’espletamento di questo complicato lavoro. Ma credo sia stata sbagliato il momento. Tuttavia non c’è alcun impedimento oggettivo, è una nomina che va rispettata e serve collaborazione”. Perché, secondo lei, il sindaco ha fatto questa scelta? “Immagino che abbia fatto una scelta di campo dalla parte dei più deboli, una scelta simbolica che però rischia di non raggiungere l’obiettivo prefissato, di alimentare polemiche e tensioni e di compattare la polizia penitenziaria contro una nomina che ritiene non idonea a tener conto anche delle proprie esigenze”. La situazione delle carceri è sempre un tema caldo, Poggioreale è l’istituto di pena più grande di Italia e le criticità sono tante. Qual è la priorità? “Il carcere è un posto delicato, è un luogo di tanto dolore. I problemi da affrontare sono molti e nonostante gli sforzi c’è ancora tanta strada da fare. Una priorità è sicuramente la sanità: serve più dialogo tra carcere e strutture sanitarie se si vuole garantire a tutti i detenuti il diritto alla salute, che è uno dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, tanto più che si parla della salute di un corpo già privato della libertà personale”. Agrigento. Violenze e carenze nel carcere, 30 detenuti scrivono al pm Giornale di Sicilia, 11 dicembre 2019 Si allarga l’inchiesta, coordinata dal procuratore della Repubblica di Agrigento, Luigi Patronaggio, sulle presunte violenze e sulle carenze strutturali all’interno del carcere “Di Lorenzo”. Circa trenta detenuti hanno segnalato anomalie e adesso saranno sentiti dia carabinieri. L’inchiesta, per il momento a carico di ignoti, per le ipotesi di violenza privata e omissione di atti di ufficio, è stata avviata in seguito alle denunce dei Radicali che hanno presentato un dossier per segnalare violenze all’interno del reparto di isolamento della struttura di contrada Petrusa. Le indagini hanno avuto un’accelerazione in seguito alla ribalta mediatica del caso, sollevata dal deputato di Italia viva Roberto Giachetti, che ha presentato un’interrogazione parlamentare scritta, e da una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini e dall’Osservatorio carceri delle Camere penali, che hanno effettuato una visita ispettiva lo scorso 17 agosto, conclusa con la denuncia al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Sulla base di ciò diversi detenuti, una trentina - qualcuno, nel frattempo, è stato trasferito in altre strutture - hanno scritto ai pm e al Garante dei detenuti, che a sua volta aveva eseguito un’ispezione, per segnalare circostanze ritenute, sottolineano fonti giudiziarie, di interesse investigativo. I carabinieri sono stati delegati dal capo dei pm agrigentini di sentirli tutti e acquisire la loro testimonianza. Patronaggio, pochi giorni dopo l’apertura del fascicolo, ha fatto un’ispezione nella struttura con gli stessi carabinieri eseguendo riprese video e fotografiche. Il materiale raccolto verrà esaminato per l’ulteriore sviluppo delle indagini. Prato. Oltre il carcere, detenuti al lavoro di Giacomo Cocchi Avvenire, 11 dicembre 2019 Il distretto del tessile scommette sull’inserimento per chi ha scontato la pena: turni di otto ore nel settore del confezionamento per 5 persone in semilibertà. Tra i promotori la Caritas, l’azienda Pointex e la Regione. Nel carcere della Dogaia di Prato verrà aperta una azienda di confezioni dove saranno impiegati detenuti verso il fine pena e per questo bisognosi di una opportunità seria e concreta di lavoro in vista di un futuro reinserimento nella società. Il progetto non poteva che nascere a Prato, città del tessile e realtà da sempre attenta a sostenere le persone con fragilità sociali attraverso l’azione della Caritas diocesana. E proprio quest’ultima ha coordinato il progetto presentato nei giorni scorsi in Palazzo vescovile alla presenza del vescovo di Prato, monsignor Giovanni Nerbini, e degli altri soggetti promotori. Nell’area semiliberi del carcere maschile della Dogaia verrà aperto un reparto di lavoro per la confezione di sotto-fodere per materassi. Si tratta di una produzione resa possibile grazie alla Pointex, azienda specializzata nel settore, che farà da committente delle lavorazioni, e dalla cooperativa sociale San Martino della Caritas diocesana di Firenze, organizzazione che vanta una lunga esperienza di lavoro con i detenuti nella casa circondariale fiorentina Mario Gozzini, dove ha aperto un servizio di lavanderia. Nel progetto Confezione, questo il nome dell’iniziativa, saranno impiegati prima con un tirocinio e poi con un regolare contratto cinque detenuti in regime di semilibertà. I turni sono di otto ore per cinque giorni la settimana. Il team sarà coordinato da un capo reparto, una persona esterna, dunque non un detenuto, appositamente formato al ruolo dalla Pointex, che fornirà in comodato d’uso gratuito le macchine da cucire e le altre attrezzature necessarie allo svolgimento della produzione. “Se il problema della mancanza di un lavoro è diventato drammatico per chi lo ha perso lo è ancora di più per i carcerati - ha osservato Nerbini - e sappiamo benissimo che chi non ha avuto opportunità di lavoro e formazione durante la detenzione è a rischio recidiva. Per questo motivo progetti come quello che presentiamo sono importanti: è bello vedere più soggetti che si mettono insieme e che con coraggio decidono di fare una scommessa del genere”. Il direttore della casa circondariale della Dogaia Vincenzo Tedeschi ha detto di aver accolto la proposta con entusiasmo, “non è facile per noi proporre esperienze di lavoro significative che vadano oltre l’ assistenzialismo, dare una chance ai detenuti è fondamentale per evitare che una volta usciti tornino a delinquere”. Non assistenzialismo dunque, ma una vera attività imprenditoriale. Solo così, attraverso un impiego vero e proprio, scandito da regole e condizioni lavorative reali, è possibile acquisire le competenze utili per potersi reinserire un domani nel mondo del lavoro. Si tratta di una scommessa che Caritas di Prato e Firenze, Pointex, Società della Salute, Regione Toscana e la Casa circondariale della Dogaia hanno scelto di compiere tutti insieme per attuare quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione: le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Chieti. “Detenzione Creativa”, i risultati del progetto Caritas nel carcere chietitoday.it, 11 dicembre 2019 Venerdì nel Villaggio della Speranza di Suor Vera i dieci detenuti che hanno partecipato al corso sosterranno gli esami finali per il certificato di “operatore alimentare”. Si conclude il corso di formazione regionale dal titolo “Detenzione Creativa” per 10 ragazzi detenuti, promosso e sostenuto dalla Caritas Diocesana Chieti-Vasto grazie ai fondi Cei “Otto x mille 2018”, con la supervisione del direttore Don Luca Corazzari e di Stefania Menna, coordinatrice diocesana dei progetti. Il corso professionale per “Operatore Alimentare” è stato realizzato all’interno delle aule della casa circondariale di Chieti, sotto la direzione di Franco Pettinelli, Direttore della Casa Circondariale di Chieti e con il coordinamento del Responsabile dell’Area Educativa dell’Istituto Penitenziario, Stefania Basilisco. Il tirocinio formativo, propedeutico all’esame, è stato realizzato nelle cucine del Villaggio della Speranza, coordinato da suor Vera D’Agostino, responsabile della struttura. Nella giornata di venerdì nel Villaggio della Speranza di Suor Vera i detenuti che hanno partecipato al corso sosterranno gli esami finali per conseguire la qualifica di livello regionale, spendibile nel mondo del lavoro. Inoltre i detenuti più meritevoli potranno essere assunti con contratti di tirocinio formativo nell’ambito della ristorazione, per un periodo massimo di un anno e, al termine dell’assunzione cosiddetta di prova, ci sarà la possibilità di inserimento a tempo indeterminato. L’obiettivo del progetto di Caritas Diocesana Chieti Vasto è fornire ai detenuti una possibilità di reinserimento nella società, partendo dal recupero della loro dignità attraverso una formazione professionale spendibile nel mondo del lavoro e, per alcuni di loro, una possibilità di assunzione. Venerdì 13 dicembre alle ore 10,30, nella Curia di Chieti, ci sarà la conferenza stampa per pubblicizzare la fine e di conseguenza gli esami finali del corso e l’inizio dei tirocini formativi dei ragazzi più meritevoli. Alla conferenza stampa interverranno l’arcivescovo Mons. Bruno Forte, don Luca Corazzari Direttore Caritas Chieti-Vasto, Franco Pettinelli Direttore della Casa Circondariale di Chieti, Suor Vera d’Agostino Responsabile del Villaggio della Speranza, Angela De Massis Direttore Tecnico della Food Service e Lina Zampacorta Responsabile della Focus (Agenzia di formazione). Firenze. Carcere minorile, il piano terra è inagibile da 4 anni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 11 dicembre 2019 Sequestrato 4 anni fa in seguito a un’inchiesta della magistratura, il piano terra del carcere minorile Meucci di Firenze è ancora inagibile. Le stanze spettrali, l’umidità, la polvere sui mobili. Sarebbe il reparto della cucina e quello dei laboratori, ragion per cui il cibo e una parte dell’attività formativa dei 16 detenuti under 18 devono essere eseguite da ditte esterne. È uno dei principali problemi dell’istituto Meucci, che si trova nell’antico complesso monumentale di San Martino alla Scala, in via degli Orti Oricellari, dove ieri mattina hanno effettuato una visita i membri dell’associazione Progetto Firenze, tra cui Massimo Lensi. Insieme a lui, tra gli altri, Sandra Gesualdi (Fondazione Don Lorenzo Milani) e i consiglieri comunali della sinistra Antonella Bundu e Dmitrij Palagi. “La ristrutturazione interna degli edifici è ferma ormai da 4 anni - commenta Lensi. Ecco perché è doveroso rivolgere un appello agli enti locali e alla Regione affinché, insieme al Dipartimento di Giustizia Minorile, siano recuperate le risorse economiche necessarie alla conclusione dei lavori”. Ma ci sono anche le buone notizie. “La rete territoriale del volontariato sembra funzionare bene”, però “non altrettanto si può dire dei programmi di reinserimento: credo che sarebbe opportuno aprire una riflessione finalizzata alla conversione della struttura minorile in sintonia con la riforma dell’ordinamento penale del 2018”. Bari. I detenuti avranno casella mail per inviare e ricevere messaggi La Repubblica, 11 dicembre 2019 Sperimentazione al via. Il primo passo sarà la creazione di un unico indirizzo di posta da cui si inoltreranno e su cui saranno convogliate tutte le mail dirette ai detenuti: “Ridurre la distanza con il mondo esterno”. I detenuti della Casa Circondariale di Bari potranno presto utilizzare un indirizzo mail per inviare e ricevere messaggi. Il progetto della società cooperativa, Radici Future Produzioni, vuole concorrere a diminuire la distanza che nella vita quotidiana della persona reclusa influenza i rapporti col mondo “esterno”, quali la famiglia, il proprio avvocato difensore e le istituzioni. Il primo passo sarà dunque la creazione di un unico indirizzo di posta (mail) da cui si inoltreranno e su cui saranno convogliate tutte le mail dirette ai detenuti. Chiamato “Collegamail”, il progetto nasce da una convenzione con il Prap di Puglia e Basilicata ed è patrocinato dall’ufficio del Garante dei detenuti. L’iniziativa sarà presentata domani alle 11.00 presso la Presidenza della Regione. Ad intervenire saranno Leonardo Palmisano, Presidente di Radici Future Produzioni, Valeria Pirè -Direttore della casa circondariale di Bari, Guglielmo Starace - Presidente della Camera Penale, Pietro Rossi, Garante regionale dei Diritti persone sottoposte a misure restrittive della libertà e Giuseppe Martone, Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria. Salerno. Progetto legalità, giudici tra i detenuti: “Vogliamo avviare percorsi di recupero” Il Mattino, 11 dicembre 2019 “Vogliamo essere interlocutori di una campagna di sensibilizzazione che veda protagonista ciascun detenuto del carcere di Fuorni per poter indicare ad ognuno i percorsi da intraprendere oltre che capire quelle che sono le condizioni di vita carceraria. Questo progetto, portato avanti con l’intera Giunta e con la fattiva collaborazione del sostituto procuratore Guglielmo Valenti, ha entusiasmato e coinvolto positivamente anche la presidente del tribunale della Sorveglianza, Monica Almirante”. Il presidente dell’Anm, Piero Indinnimeo, parla con entusiasmo del nuovo progetto certo che, già agli inizi del prossimo anno, tutto ciò che in questi giorni stanno mettendo su carta, possa diventare realtà. Il programma è quello non solo di “educare” i detenuti alla legalità ma anche di spiegare loro come poter trasformare questa loro “esperienza” in qualcosa di positivo. Innanzitutto facendo luce su quelli che sono gli strumenti giuridici cui loro possono fare riferimento per dare una sterzata anche alla condizione carceraria, magari usufruendo di misure alternative. Insomma, l’obiettivo è quello di fornire informazioni e al tempo stesso “formare” le coscienze entrando in carcere e cercando di comprendere anche le singole esigenze. Un progetto che vedrà impegnati non soltanto i magistrati di dibattimento, e un special modo quelli dell’ufficio Gip-Gup, ma anche quelli inquirenti in servizio in procura. “Abbiamo tante iniziative in campo per il prossimo anno”, aggiunge Indinnimeo spiegando come “stanno arrivando dalle scuole diverse richieste per partecipare al processo simulato che vedrà gli studenti in un’aula di tribunale ad assistere ad un dibattimento. Iniziativa che lo scorso anno è piaciuta molto, ai ragazzi ed anche ai docenti”. Con la collaborazione degli avvocati la giunta dell’Associazione n azionale magistrati sta già redigendo un calendario di udienze che prenderanno il via la prossima primavera. I processi saranno quindi incentrati su argomenti “utili” ai ragazzi come il cyberbullismo, l’adescamento dei minori attraverso i canali internet, anche quelli di giochi, dedicati ai ragazzi. Foggia. Violenza contro le donne, le storie di “Solo Mia” raccontate nel carcere di Luca Imperatore gnewsonline.it, 11 dicembre 2019 Non solo detenute ma anche madri, figlie e mogli lontane dagli affetti, con ferite nascoste dai tatuaggi e dagli sguardi freddi. Queste le storie raccontate nel nuovo libro di Annalisa Graziano “Solo Mia” presentato nell’Istituto penitenziario di Foggia. Dopo “Colpevoli”, che affrontava in forma di reportage le vicende dei detenuti, l’autrice e giornalista torna nei luoghi di detenzione attraverso un romanzo affrontando un tema molto delicato dell’universo femminile: la violenza. Vengono raccontate ai detenuti le storie descritte nel libro, fatte di violenza subita e a volte taciuta, attese tradite, affetti soffocati e speranze. Storie di dolore ma anche di svolte e di rinascita, che affrontano temi delicati come la maternità, il rapporto con i familiari, la detenzione, l’abuso, il femminicidio. “Quello detentivo - spiegano dal Centro di Servizio al Volontariato di Foggia - è un contesto interessante in cui intraprendere un percorso informativo finalizzato alla prevenzione del fenomeno della violenza. Una problematica che tocca la società in modo trasversale, passando attraverso diverse classi sociali, economiche e culturali. Si è ritenuto così di organizzare un momento di riflessione e confronto anche in previsione della vita oltre al carcere, cioè al termine del percorso detentivo”. Oltre all’autrice, giornalista e assistente volontario delle Case Circondariali di Foggia e Lucera, presenti il vice commissario della Squadra Mobile di Foggia - Sezione “Reati contro la persona e in pregiudizio dei minori” - Antonio D’Amore, Anna Latino e Laura Spinelli dell’associazione “Vìola Dauna” e Franca Dente dell’associazione “Impegno Donna”. “Ringrazio della grande disponibilità e sensibilità sul tema - sottolinea la scrittrice - il direttore del carcere, Giulia Magliulo, la responsabile dell’Area Trattamentale, Giovanna Valentini e il Commissario Luca Di Mola e tutto il corpo di Polizia Penitenziaria. Sono molto felice di presentare “Solo Mia” nel carcere di Foggia, dove è ambientata una parte importante del libro. Un ringraziamento particolare va anche alla coordinatrice e alle agenti della sezione femminile che, per mesi, mi hanno supportato durante gli incontri con le detenute, nella sala colloqui”. Milano. I detenuti di San Vittore e i coristi della Scala in concerto all’Auditorium Corriere della Sera, 11 dicembre 2019 La scintilla quando insieme hanno intonato Va Pensiero sul palco del teatro: le finalità saranno benefiche a favore di “Programma Qubì - Un sorriso per i bambini”. Trentotto coristi della Scala e un coro di detenuti di San Vittore insieme sul palco dell’Auditorium di Milano Fondazione Cariplo per un concerto di Natale a scopo benefico: accadrà alle 21 di martedi 17 dicembre, e almeno in queste dimensioni è un evento senza precedenti. O meglio: il precedente, che poi è stata la scintilla da cui nell’animo dei coristi scaligeri è scaturita questa idea, si era verificato l’8 aprile scorso quando avevano cantato insieme “Va’ pensiero” sul palco della Scala. Finalità benefiche - Ora, a dieci giorni esatti dal successo di Tosca nella “prima” di Sant’Ambrogio, il coro lirico più famoso del mondo e i detenuti del carcere di San Vittore tornano a riunirsi: ma questa volta per un intero concerto-spettacolo in collaborazione con un gruppo di attori - quelli del Macrò Maudit Teàter - impegnati a leggere testi scritti dai detenuti stessi. Il titolo del concerto è “Voci fuori dal coro”. La formazione complessiva sarà composta da oltre ottanta tra artisti del Coro della Scala, detenuti del Coro della Nave di San Vittore, ma anche ex detenuti (e l’impegno che prosegue all’esterno del carcere è una preziosa novità) del Coro Amici della Nave. La finalità è benefica, a sostegno del Programma Qubì “Un sorriso per i bambini” volto a finanziare le cure dentali per i figli di famiglie che a Milano non se le possono permettere. Il concerto avrà luogo alle 21 del 17 dicembre all’Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, in Largo Mahler, e funziona come un racconto i cui testi - scritti dai detenuti del reparto La Nave, nato per la cura e il trattamento avanzato delle dipendenze - saranno letti dagli attori del Macrò Maudit Teàter. Una piccola donazione . Il programma QuBì nel suo insieme (“Quanto basta”) parte dal dato statistico per cui “a Milano 1 minore su 10 vive in povertà” ed è promosso da Fondazione Cariplo con diverse altre realtà. In collaborazione con la Fondazione il concerto che sostiene il programma è organizzato dall’associazione Amici della Nave. L’impegno dei coristi della Scala e del loro Maestro Bruno Casoni - che a titolo totalmente volontario hanno dedicato ore a provare in carcere, pur in un periodo per loro delicatissimo come quello della “prima” di Sant’Ambrogio - ha rappresentato per i pazienti del reparto La Nave una esperienza di condivisione con pochi paragoni. Per assistere al concerto basta una piccola donazione a partire da 10 euro, su www.forfunding.intesasanpaolo.com. Messina. Carcere di Gazzi, dono del Rotary nell’area giochi per bambini tempostretto.it, 11 dicembre 2019 Un regalo di Natale in anticipo quello del Rotary Club Stretto di Messina, che ha donato al carcere di Gazzi un nuovo manto erboso sintetico nell’area giochi: scivoli, casette, tricicli, sedie, tavoli e panchine in uno spazio attrezzato e dedicato ai bambini in visita ai genitori detenuti. “Un manto erboso (finto) per un sorriso (vero) di un bimbo” è il significativo messaggio riportato sulla targa d’ingresso, un benvenuto su un “terreno verde” che, esteso per 200 metri quadri, ha dato un volto nuovo alla piccola struttura. “La storica collaborazione con il CePas dura ormai da trent’anni. È una presenza fondamentale, l’attività dei volontari è un grande aiuto e quando si associano i club-service allora diventa sempre più significativa”, ha dichiarato la direttrice del carcere, Angela Sciavicco, ringraziando il Rotary Club Stretto di Messina: “I soci hanno messo a disposizione le loro risorse ottenendo grandi risultati. Questo spazio è un dono davvero gradito per i bambini”. Entusiasta l’ex presidente del club-service, Giuseppe Termini, che ha avviato il progetto nel proprio anno sociale: “Il club ha affiancato il CePas con grande piacere. Siamo soddisfatti del lavoro svolto”. Sensazioni positive anche per l’attuale presidente Thanos Liossis: “Cercheremo di fare sempre qualcosa nel sociale, andremo avanti con piccole e utili iniziative, restando sempre attenti alla realtà del carcere”. “Questo dono è l’ultima fase del progetto sulla genitorialità, in cui abbiamo trattato il tema della paternità realizzando anche un cd di fiabe con le voci dei detenuti”, ha ricordato la vice presidente del CePas Messina (Centro Prima Accoglienza Savio), Lalla Lombardi, insieme al presidente don Umberto Romeo che, con padre Salvatore Alessandrà (cappellano del carcere), ha benedetto la nuova area: “Dobbiamo ringraziare anche l’ex direttore Calogero Tessitore, il giudice Nicola Mazzamuto, gli agenti e i collaboratori che sono parte viva di questa esperienza di recupero e superamento della pena. Il carcere è parte della città che deve sentirsi impegnata. Si sta facendo tanto e speriamo di continuare la collaborazione con il Rotary”, ha sottolineato don Romeo, concludendo con un importante messaggio di speranza: “Il sorriso è una curva che raddrizza tutto e il sorriso di un bimbo può dare forza ai genitori per andare avanti”. Savigliano (Cn). Teatro-carcere, le detenute di Palermo non potranno esibirsi al “Milanollo” cuneocronaca.it, 11 dicembre 2019 La direzione artistica di “Destini incrociati” comunica che “a causa della mancata autorizzazione da parte della Magistratura, le donne detenute della Compagnia Oltremura del carcere Pagliarelli di Palermo non potranno essere presenti al teatro Milanollo di Savigliano per portare in scena, venerdì 13 dicembre, lo spettacolo “In stato di grazia”, in cartellone nella rassegna nazionale di teatro in carcere”. “Dispiaciuti per questa assenza significativa che avrebbe dato voce diretta al mondo carcerario femminile - proseguono gli organizzatori - abbiamo deciso di dedicare ugualmente la serata alla realtà della reclusione femminile mediante la proiezione del video dello stesso spettacolo, alla presenza della regista Claudia Calcagnile. Nel corso della serata avrà anche luogo la presentazione di altre due realtà teatrali al femminile che coinvolgono detenute nella casa di reclusione Rebibbia a Roma e della Giudecca a Venezia, oltre all’esperienza nella sezione femminile del carcere di Sollicciano a Firenze”. Sarà una serata ricca di interventi e contenuti, una preziosa occasione per conoscere i tanti artisti ed operatori del settore impegnati nelle carceri femminili del nostro Paese, un importante momento di riflessione su un panorama così vasto e ricco che, purtroppo, molte volte passa inosservato, unitamente alla possibilità di poter conoscere più da vicino il Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere. L’ingresso alla serata è gratuito. “Scusandoci per il disagio - conclude la direzione - invitiamo tutti caldamente a partecipare alla serata per sostenere il progetto e fare in modo che il gruppo palermitano possa ricevere tutto il nostro affetto e il desiderio di condivisione”. Redimersi in carcere, grazie alla cultura di Orazio La Rocca Panorama, 11 dicembre 2019 L’autore del libro “Parole di vita nuova” racconta la storia di 13 detenuti che hanno usato il carcere come momento di crescita. Soffermandosi su Gennaro Barnoffi, che si è laureato in Sociologia con una tesi sul Napoli Calcio. La cultura può fare miracoli? Il sapere è in grado di indicare la direzione che porta alla retta via? La conoscenza è un volano di trasformazione? Interrogativi a cui nessun è mai sfuggito nel corso della vita. Senza tuttavia riuscire a rispondere con parole in grado di sciogliere il minimo dubbio. Ma c’è un luogo dove, in modo del tutto particolare, simili domande possono trovare quasi immediate risposte. Questo luogo è il carcere, parola bruttissima che evoca strutture di espiazioni di ieri e di oggi, a volte senza speranze, ambiti dove chi sbaglia - specialmente nell’immaginario collettivo degli anni passati - è condannato a pagare il suo debito con la giustizia dentro quattro mura, trattato come un corpo estraneo dalla società cosiddetta civile. Eppure, questi posti di detenzione possono diventare luoghi di riscatto, di cambiamento, di trasformazione personale per chi, per cause più disparate (uno sbaglio, un momento di debolezza, un periodo di crisi...), dopo un regolare processo vi è costretto a trascorrere periodi più o meno lunghi. Una prova in tal senso la può fornire il libro da me scritto, intitolato non a caso “Parole di vita nuova”. Dedicato ai lavori intellettuali (tesi di laurea, poesie, racconti, disegni) di 13 detenuti, è stato presentato a Roma, nella Sala Nassiriya al Senato il 10 dicembre. Il testo - introdotto dalla prefazione di don Luigi Ciotti, presidente di Libero e fondatore del Gruppo Abele - è stato pubblicato da Marcianum Press. La casa editrice appartiene al gruppo Edizioni Studium, fondato il 19 giugno 1927 dal giovanissimo monsignore Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. “Parole di vita nuova” è frutto di queste radici montiniane, alle quali idealmente con forza e passione sono stati “ancorati” 13 autori molto particolari, essendo persone ospitate forzatamente in altrettanti istituti di pena distribuiti in varie carceri italiane. Uomini come tanti, italiani e stranieri, che hanno avuto l’intelligenza di trasformare il loro periodo detentivo in momenti di evoluzione e di crescita, ma soprattutto di cambiamento, attraverso la cultura e lo studio, conseguendo titoli accademici, riconoscimenti e attestati. Un bagaglio intellettuale portato alla luce grazie alla loro costanza, unitamente alla sensibilità dei direttori responsabili dei vari istituti e a quanti li hanno affiancati nei loro studi: docenti, volontari, assistenti sociali... I 13 elaborati realizzati dai detenuti hanno partecipato al premio “Sulle ali della libertà”, indetto dall’associazione “L’Isola Solidale”. Dei 13 partecipanti, uno solo ha vinto, Francesco Argentieri, con la tesi di laurea in Sociologia “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale”. Tutti gli altri 12 lavori sono risultati secondi a pari merito, anche se parlare di classifica in questo caso è riduttivo, perché tutti idealmente hanno vinto, come attesta la Medaglia con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto insignire il premio. Uno dei lavori più interessanti è quello realizzato da Gennaro Barnoffi, un detenuto che si è laureato in Sociologia con una tesi sulla Società Sportiva Calcio Napoli. Ecco che cosa ha scoperto Gennaro Barnoffi sulla squadra del suo cuore. Calcio, ma non solo. È la chiave di lettura della tesi di laurea in Sociologia di Gennaro Barnoffi dedicata alla storia del Napoli, la squadra di calcio della città dove è nato il 29 settembre 1972. Detenuto della Casa circondariale di Rossano (Cosenza), Gennaro Barnoffi si è laureato, matricola 141043, all’Università della Calabria, con la tesi “Una squadra, una città: breve storia della Società Sportiva Calcio Napoli”, guidato dalla professoressa Tiziana Noce, docente tutor e relatrice, arricchendo la sua ricerca con un’interessante storia della nascita della disciplina calcistica con un respiro rievocativo nazionale e internazionale. Lunga e travagliata è stata, comunque, la strada che ha portato Barnoffi a laurearsi in sociologia, e a intraprendere corsi per una seconda laurea in Scienze politiche, dopo aver conseguito tutti i precedenti titoli di studio sempre in carcere, a partire dalla licenza elementare. “Il detenuto” scrive la dottoressa Caterina Maletta, funzionario G.P. del carcere di Rossano, “allocato nel circuito “Alta Sicurezza”, ha fatto ingresso in questo istituto il 29 dicembre 2004, proveniente dal Carcere Circondariale Secondigliano di Napoli. In posizione giuridica di definitivo (condanna emessa dopo tutti i gradi di giudizio, ndr), sconta l’attuale detenzione in esecuzione a diverse sentenze di condanna per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concorso in omicidio, violazione della Legge sulla detenzione delle armi ed altro; la scadenza attuale della pena è fissata al 25 dicembre 2113, avendo egli beneficiato di complessivi 1800 giorni di liberazione anticipata e dell’indulto...”. I primi tempi trascorsi in carcere sono stati turbolenti. “Anni” continua Maletta, “segnati da cattiva voglia di adeguarsi alle regole e di assumere atteggiamenti comportamentali più in linea col vivere civile. Tutto cambia con l’incontro con lo studio e la cultura, che Barnoffi intraprende in carcere da analfabeta totale. Ma ecco come il diretto interessato lo racconta nella lettera inviata all’associazione “L’Isola Solidale” per partecipare al premio “Sulle Ali della Libertà”: “Egregi signori... ho deciso di partecipare al vostro Concorso non tanto per vincere il premio, ma per mettere in evidenza quanto è importante la cultura. Sono nato in un quartiere degradato di Napoli, dove la maggior parte delle persone sono abbandonate a sé stesse, vivendo a stretto contatto con una linea che demarca l’illegalità e dove, quindi, è facile trovarsi su una strada sbagliata come successe a me, che, oltre ad essere analfabeta non sapevo di essere dislessico, infatti ciò mi ha fatto trovare in carcere fin dalla giovane età. In carcere sono stato “fortunato”, può suonare strano per molte persone questo aggettivo, ma è proprio così perché ho incontrato nel sistema (carcerario, ndr) un’area Educativa che autorizzava dei volontari a invogliare e aiutare i detenuti, e a dar modo a loro di approcciarsi alla cultura. Grazie a ciò posso dirvi che ho titoli di studio che vanno dalle elementari fino alla laurea in Sociologia. Passando per una ampia serie di attività di volontariato che lo hanno portato ad intraprendere programmi di recitazioni, corsi teatrali, lezioni artistiche, corsi di formazione permanenti, attività lavorative”. La laurea in Sociologia ufficializza il riscatto sociale di Gennaro Barnoffi. Ed è significativo che la tesi inizi con una dedica (“A mio padre e a mia madre”) e con le citazioni di due tra i più importanti intellettuali del nostro tempo: “Un sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori” di Gesualdo Bufalino e “Ogni volta che un ragazzo prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio” di Jorge Luis Borges. “Ho deciso di affrontare la stesura della mia tesi per due motivi” si legge nell’introduzione. “Un primo motivo è legato all’esperienza di studio che sta cambiando la mia vita e che mi ha consentito di capire che spesso lo sport può aiutare a veicolare valori positivi come il senso della legalità e l’annullamento delle disuguaglianze sociali (…) Il secondo motivo è dato dal fatto che vorrei approfondire uno degli aspetti positivi di Napoli, la mia città, riscattandola dalle tante caratterizzazioni negative che spesso le vengono attribuite”. Il calcio nasce e si sviluppa in Gran Bretagna, scrive Barnoffi, nella seconda metà dell’Ottocento. Il nuovo sport in breve tempo si diffonde in quasi tutta Europa. Con la Seconda rivoluzione industriale e con lo sviluppo della nuova tecnologia si aprono nuove frontiere a livello commerciale e comunicativo. In Italia, nei porti commerciali di Genova, Palermo, Messina, Livorno e Napoli, molto frequentati dagli inglesi per la presenza delle ditte di import-export e degli uffici delle linee di navigazione e dei grandi magazzini. La presenza delle navi garantisce un contatto non solo commerciale, ma anche culturale con i Paesi europei dove il gioco del calcio è già comparso. In poco tempo anche in Italia si afferma una certa “moda di Londra”, prosegue Barnoffi, con gruppi di marinai e scaricatori di porto che si divertono a rincorrersi, tirando calci a un pallone. La prima squadra di calcio italiana è il Genoa, fondata nel 1893 negli uffici del Consolato inglese. Al Genoa calcio viene dato un nome inglese: “Genoa Cricket and Atletic Club”. Un nome inglese viene scelto anche da altre squadre che nascono in quel periodo, caratterizzato da forte mutamento sociale e culturale. La Federazione Italiana Football nasce a Torino nel 1896 e dal 1909 si chiama Federazione Italiana Giuoco Calcio. Da allora in Italia il football prende il nome italiano di “calcio”. A Napoli il gioco del calcio comincia quando i marinai delle navi britanniche ingaggiano ardenti partite sul molo e trova un ambiente abbastanza favorevole. Nel 1904 nasce il “Naples Cricket and Football Club”, su iniziativa di appassionati calciatori, tra cui Carlo e Nino Bruschini, e di un funzionario della Cunard Linia, Jemes Pottes. Per i napoletani il calcio non è un amore a prima vista: inizialmente le partite si svolgono solo nei circoli privati, a cui possono accedere solo i soci. Ma è il primo presidente della società, l’ingegner Amedeo Salsi Amedeo Salsi, ad aprire il gioco alla città. Inizia così la lunga maratona calcistica napoletana, ricostruita da Gennaro Barnoffi nella sua tesi, culminata con i due scudetti patrocinati dall’avvento di Diego Armando Maradona. Per non parlare delle prestazioni di calciatori che hanno conquistato un posto nella storia sportiva oltre i confini napoletani, da Omar Sivori a José Altafini. Biotestamento, via libera alla banca delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” Il Riformista, 11 dicembre 2019 La Banca dati nazionale per le Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat) adesso c’è e ora è finalmente operativa la legge sul Biotestamento. Il ministro della Salute Roberto Speranza ne ha firmato l’atteso decreto attuativo ed “ora la legge è operativa”. Una notizia accolta con favore dall’Associazione Luca Coscioni, che proprio per questo decreto aveva prima diffidato il ministero e poi fatto ricorso al Tar Lazio. “Ho appena firmato il decreto sulla Banca dati nazionale per le Dat. Con questo atto la legge sul Biotestamento approvata dal Parlamento - ha affermato Speranza - è pienamente operativa e ciascuno di noi ha una libertà di scelta in più”. La legge del 2017 sul Biotestamento regolamenta infatti le scelte sul fine vita, stabilendo che in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi ci sia la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto su accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari, inclusi l’alimentazione e l’idratazione artificiali. Fondamentale è però l’istituzione della Banca dati destinata alla registrazione delle DAT, prevista per legge: il decreto firmato oggi da Speranza definisce appunto i contenuti informativi della Banca dati, i soggetti che concorrono alla sua alimentazione, le modalità di registrazione e di messa a disposizione delle DAT, le garanzie e le misure di sicurezza da adottare nel trattamento dei dati personali, le modalità e i livelli diversificati di accesso. Il provvedimento ha concluso il previsto iter amministrativo che ha visto, tra l’altro, l’acquisizione del parere del Garante per la protezione dei dati personale, l’intesa in Conferenza Stato-Regioni e il previsto parere del Consiglio di Stato. La Banca dati verrà alimentata con le DAT raccolte dagli ufficiali di stato civile dei comuni di residenza dei disponenti, dai notai e dalle Regioni che abbiano, con proprio atto, regolamentato la raccolta di copia delle DAT. Anche i cittadini italiani residenti all’estero potranno far pervenire la propria DAT alla banca dati nazionale attraverso le rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero. Alla Banca dati potranno accedere i medici che hanno in cura il paziente in situazione di incapacità di autodeterminarsi, il fiduciario (indicato dal medesimo disponente) ed il disponente stesso, tramite identificazione con il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) che garantisce la sicurezza dell’accesso. Le DAT precedentemente depositate presso Comuni, notai e rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero saranno acquisite nella banca dati nazionale entro sei mesi dall’attivazione della stessa. L’intero sistema, dunque, dovrebbe diventare operativo a breve, fatti salvi i tempi tecnici necessari. Proprio per la realizzazione della Banca dati, la Legge di bilancio 2018 aveva stanziato 2 milioni di euro. Le Dat sono rinnovabili, modificabili e revocabili: “Le DAT depositate presso Comuni o notai - spiega il segretario dell’Associazione Coscioni Filomena Gallo - saranno finalmente immediatamente consultabili dai medici in caso di bisogno, in qualsiasi struttura sanitaria del territorio nazionale”. Per completare l’applicazione della legge 219/2017 sul Biotestamento, conclude, “occorre però ora una grande campagna informativa a favore dei cittadini”. 600 sindaci per Liliana Segre: “Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera” Il Riformista, 11 dicembre 2019 “Siamo qui per parlare di amore e non di odio. Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera. Basta odio, stasera non c’è indifferenza, ma c’è un’atmosfera di festa”: Liliana Segre parla dal palco di piazza della Scala tra gli applausi, poi tutta la piazza si ferma per un minuto di silenzio, prima che il presidente di Anci consegni alla senatrice a vita una fascia tricolore e tutti cantino l’Inno d’italia. Sono scesi in piazza in seicento i sindaci e i loro rappresentanti, tutti con la fascia tricolore, ma senza simboli di partito, in prima fila i sindaci Beppe Sala, Leoluca Orlando, Giorgio Gori, Antonio Decaro. E tanta gente comune, a formare quella “scorta civile” per la senatrice a vita Liliana Segre e per dire che “l’odio non ha futuro”. Così la marcia dei sindaci, organizzata dal Comune di Milano,con l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), Autonomie Locali Italiane (ALI) e Unione Province Italiane (UPI), per testimoniare la vicinanza di piccoli, medi e grandi comuni alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, oggi sotto scorta a causa di ripetute minacce antisemite. “Tutti i sindaci indipendentemente dal colore politico sono arrivati da tutta Italia per dimostrare l’affetto nei confronti di Liliana Segre. Con la fascia tricolore che tiene insieme le nostre comunità ma anche il Paese”, ha detto il presidente di Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro. Il sindaco pugliese ha spiegato che sono state circa 1000 le adesioni e che a Milano sono arrivati circa 600 sindaci. “Vogliamo dire con forza a tutti che non accettiamo nessun tipo di fanatismo, l’unico fanatismo che i sindaci accettano in questo Paese è quello per la libertà, la democrazia e il rispetto degli altri - ha aggiunto - Per questo oggi con le nostre fasce tricolori vogliamo fare da scorta civica a Liliana Segre. Oggi siamo tanti di tutti gli schieramenti politici”. “Ci sono questioni sulle quali non ci si può dividere e i sindaci su questi temi non si dividono mai. Noi siamo qui oggi per condannare le parole di violenza che sono arrivate a Liliana Segre”, ha concluso. “Non siamo organizzatissimi in termini di ordine ma di idee sì, siamo tutti molto felici di essere qua e io spero che lo sarà soprattutto la Segre e il paese per questa nostra testimonianza di cui c’è bisogno”: così il sindaco di Milano Beppe Sala alla partenza della marcia da piazza Mercanti, con qualche problema logistico per far partire il corteo tra la folla dello shopping di Natale. “Oggi è veramente la giornata per la Segre, della Segre, per l’Italia e infatti abbiamo deciso che nessuno dei sindaci parlerà dal palco, solo la senatrice - ha aggiunto - A noi il gesto, a lei le parole e le parole di Liliana sono sempre le parole giuste”. Il corteo ha attraversato la Galleria Vittorio Emanuele II e fermarsi in piazza della Scala, davanti a Palazzo Marino. Qui un solo intervento: quello della senatrice Segre, che si unisce alla marcia dall’Ottagono della Galleria. “È importante essere qui dal punto di vista istituzionale sia dei cittadini perché è evidente che va contrastato un clima anche lessicale di odio e di intolleranza”. Lo ha detto il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, in fascia tricolore in piazza Mercanti a Milano. “Il fatto di manifestare in prima persona è cercare di essere rappresentanti autorevoli, un modo diverso di fare politica e società civile. “Ha fatto benissimo Sala a non schierarsi dal punto di vista degli inviti politici, dobbiamo essere compatti”. Siamo qui “per dimostrare ancora una volta, al di là delle strumentalizzazioni politiche, che i sindaci della Lega sono contro ogni tipo di odio, di violenza e di razzismo e sono vicini alla senatrice Segre e tutte le persone che come lei hanno vissuto gli anni bui dello scorso secolo”. Lo ha detto il sindaco di Chiuduno (Bergamo) Stefano Locatelli, responsabile enti locali della Lega, presente alla marcia. Le adesioni arrivate sono, appunto, già più di seicento: la marcia lanciata da Beppe Sala e da Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ha poi raccolto l’adesione della sindaca di Roma, Virginia Raggi: “L’odio non ha futuro Roma aderisce alla manifestazione che si terrà a Milano in favore di Liliana Segre, dopo gli insulti e le minacce intollerabili che ha ricevuto. Tutti insieme contro odio e razzismo”, ha scritto Raggi su Facebook. Ci sono anche il sindaco di Bari e presidente di Anci Antonio Decaro e Chiara Appendino, sindaca di Torino Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Giorgio Gori da Bergamo, Dario Nardella da Firenze, Virginio Merola da Bologna, Valeria Mancinelli da Ancona. Ci sono - dopo le polemiche con Matteo Salvini - anche sindaci del centrodestra, come quello di Cagliari Paolo Truzzu, Claudio Scajola da Imperia o come il leghista Mario Conte, primo cittadino di Treviso, il responsabile degli enti locali del Carroccio Stefano Locatelli. E c’è anche Roberto Di Stefano, il sindaco di Sesto San Giovanni che ha rifiutato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, assieme all’assessore leghista Stefano Bolognini. L’antisemitismo non è un male del passato di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 11 dicembre 2019 Non dimentichiamo la testimonianza di Piero Terracina. Senza memoria non c’è futuro. E non c’è cosa peggiore dell’oblio. Il tempo scorre inesorabilmente e un giorno verrà che non vi saranno più testimoni diretti della più grande tragedia della storia dell’umanità. Custode della memoria. Con una capacità straordinaria di saper parlare ai giovani, alle centinaia di scolaresche che nel corso della sua lunga vita ha accompagnato nelle visite in quei campi di sterminio che lui aveva conosciuto direttamente, dove aveva perso parenti e amici. Era uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, Piero Terracina, morto domenica all’età di 91 anni a Roma, la città in cui era nato, la città che ha sempre amato. Chi scrive ha avuto l’onore di conoscerlo di persona, e di accompagnarlo in una delle visite ad Auschwitz organizzate per gli studenti dal Comune di Roma. In quel silenzio irreale, carico di dolore e di ferite che il tempo non lenisce, Piero Terracina sapeva trovare le parole giuste, la narrazione più adatta per comunicare a ragazze e ragazzi spesso poco più che adolescenti. Sapeva toccare le corde dei sentimenti ma anche far crescere interesse, voglia di saperne di più. La conoscenza è il miglior antidoto alla demonizzazione dell’altro da sé, conoscere perché certe tragedie non abbiano a ripetersi. L’antisemitismo non è un male del passato, ma un cancro che può riprodursi e devastare la società, ipotecarne il futuro: c’era questa convinzione alla base dell’impegno del “sor Piero”. Lui che nell’autunno del 1938, a causa dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, fu espulso dalla scuola pubblica. “Perché sei ebreo, mi disse la mia insegnante tutto questo è accaduto qui da noi, in Italia - ebbe a ricordare in uno dei tanti incontri con gli studenti Terracina - la Germania su questo non c’entra niente: è stata una persecuzione che il Governo italiano ha voluto attuare verso i suoi cittadini: è stata una cosa ignobile. Dovetti andare in una scuola ebraica dove i miei amici mi protessero, mi accolsero nelle loro case. Senza la loro solidarietà non ce l’avrei fatta: li ho incontrati nuovamente anche una volta uscito dal lager. Devo molto al loro appoggio”. Terracina proseguì gli studi nelle scuole ebraiche fino a che, dopo essere sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre 1943, venne arrestato a Roma, il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia: i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David. Detenuti per qualche giorno nel carcere di Roma di Regina Coeli, dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, il 17 maggio del ‘44 furono avviati alla deportazione. Degli otto componenti della sua famiglia Piero Terracina è stato l’unico a fare ritorno in Italia. Al consolatorio “italiani brava gente”, non aveva mia creduto. Ciò che lo preoccupava maggiormente, mi confessò una volta, non era il becero antisemitismo di una minoranza neofascista, imbevuta del vecchio armamentario ideologico del ventennio, ma l’antisemitismo “inconsapevole” quello dell’”ebreo avido”, degli stereotipi che diventano quasi senso comune. Come pure l’antisemitismo che si maschera dietro l’antisionismo, per cui Israele non è criticato per ciò che fa ma per quel che è: il focolaio nazionale ebraico. “Oggi vi racconto l’inferno: non quello che vi ha raccontato Dante, né quello delle religioni. Io all’inferno ci sono stato e sono qui per raccontarvelo. L’inferno che ho vissuto io si chiama Auschwitz-Birkenau”. Ad ascoltarlo, quel giorno nell’Auditorium di Parma strapieno, c’erano tantissimi giovani. Sfoglio oggi gli appunti: a chi gli domanda qual è stato il momento peggiore, lui risponde: “Difficile scegliere. Ho pianto in una sola occasione: quanto i miei fratelli mi raggiunsero la sera dopo il lavoro e mi dissero che mio zio, entrato con noi al campo, era stato selezionato per andare a morire nelle camere a gas. Mi riferirono che aveva detto di non essere tristi per lui, perché le sue sofferenze sarebbero finite presto”. Si ferma qui, il racconto dell’inferno di Terracina. “Non credo di poter andare oltre - ammette - ho cercato di evitare di entrare nei particolari dell’orrore: potrebbe creare raccapriccio e quasi certamente il conseguente rifiuto. Perché gli esecutori dell’immane delitto erano uomini come noi, come tutti”. È riuscito a perdonare? È una domanda che si è sentito rivolgere innumerevoli volte. “No, non posso perdonare - è la sua risposta - ci sono colpe che non possono essere perdonate. Il perdono è sempre individuale: nessuno mi autorizza a perdonare per i milioni di persone che sono state assassinate. Io non posso perdonare per la mia famiglia. Nessuno mi ha lasciato la delega per il perdono, e io non perdono”. Una lezione di vita. Il lascito più grande di un grande uomo. Libia. L’Italia spiazzata aspetta l’Ue e manda una nave militare di Marco Conti Il Messaggero, 11 dicembre 2019 L’invito dell’Italia resta quello del cessate il fuoco, non allenta il pressing su Bruxelles - al punto che potrebbe chiedere di discutere di Libia nel consiglio europeo di venerdì - ma l’invio della fregata della Marina Militare Federico Martinengo nell’Egeo è il segnale che anche l’Italia potrebbe cambiare qualcosa nella gestione della crisi libica. L’operazione militare era in agenda, ma nell’ambito della diplomazia navale una fregata nel porto di Larnaca diventa anche una sorta di altolà rivolto non solo ai turchi ma anche a chi, come al Serraj, pensa di potersi meglio difendere dalle milizie di Haftar cedendo confini. L’avviso del presidente turco Recep Tayyip Erdogan di gettarsi nella mischia del conflitto libico, rappresenta una sorta di sveglia per la diplomazia italiana iniziata a suonare quando Tripoli ed Ankara hanno siglato un accordo sui confini marittimi che punta a ridisegnare la mappa delle influenze nel Mediterraneo. Un’escalation che preoccupa il governo anche perché coinvolge Paesi, come la Gracia e Cipro, sinora rimasti ai margini del tormentato scenario libico. A palazzo Chigi il presidente del Consiglio ha riunito ieri i ministri degli Esteri Di Maio, della Difesa Guerini e degli Interni Lamorgese per discutere della mossa turca e valutare i rischi di un pesante conflitto che potrebbe esplodere qualora Haftar decidesse di entrare a Tripoli. Il generale Haftar da settimane assedia Tripoli e il governo riconosciuto dall’Onu di al Serraj anche grazie a mercenari russi. L’argomento non sarebbe stato affrontato da Di Maio nel suo recente incontro con il collega russo Sergei Lavrov anche se gli americani danno per certo che siano stati i russi ad abbattere un loro drone. Nel tentativo di non azzardare e di non esporsi, l’Italia perde però terreno e la possibilità che Erdogan mandi soldati a difendere Tripoli viene letta anche come un avviso rivolto al governo di Roma a muoversi anche militarmente. Preso da decine di altre questioni, il governo italiano non intende però prendere in considerazione l’opzione militare e continua a confidare nella conferenza di Berlino che però non è stata ancora fissata mentre i tedeschi conducono complicatissime trattative con i molti protagonisti. L’offensiva turca in Siria, e l’accordo tra Tripoli ed Ankara, rischiano però di cambiare gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e nel golfo Persico a danno dell’Italia. Trasformare la Libia in una nuova Siria, come avverte Erdogan se i russi non cesseranno di sostenere Haftar, rischia di provocare una nuova e pesantissima emergenza umanitaria pronta ad abbattersi sulle coste italiane con migliaia di profughi in fuga. Oltre a ciò, se davvero le milizie turche dovessero entrare in Libia per respingere le milizie di Haftar, per l’Italia sarebbe la certificazione dell’inconsistenza e a poco servirebbe continuare ad appellarsi all’Europa che ieri ha bacchettato Erdogan senza però esagerare. D’altra parte è grazie al presidente turco che la rotta balcanica dell’immigrazione è stata bloccata. Libia. L’appoggio ad Haftar rompicapo per l’Italia di Alessandro Orsini Il Messaggero, 11 dicembre 2019 In Libia si è creata una situazione terribile perché la pace non è più possibile. Il generale Haftar è giunto alla conclusione che la Libia sia unificabile soltanto con la forza e non intende dialogare per nessun motivo. Dal momento che Haftar è debolissimo, molti si domandano chi gli fornisca la forza con cui cinge d’assedio Tripoli e che gli ha consentito di rifiutare tutti gli inviti al dialogo dell’Italia. Haftar riceve armi e soldi da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, è la Russia il Paese che sta spostando gli equilibri in suo favore. Putin sta utilizzando in Libia una strategia simile a quella già impiegata in Ucraina dell’est. Non potendo inviare soldati in uniforme, lascia che il lavoro venga svolto dai “mercenari” russi. Siccome nessun russo potrebbe mai combattere dove a Putin non piaccia, è chiara la ragione per cui il debole Haftar è diventato forte: i suoi protettori sono troppo potenti. In questa situazione, l’Italia non può niente. La diplomazia è l’unica arma del governo Conte, ma gli inviti a sedersi intorno a un tavolo sono inutili con chi vuole rovesciarlo. Quanto all’Europa, è un gigante senza testa. Non è mai esistita una strategia dell’Unione Europea in Libia e non nascerà di certo a Natale. Gli Stati Uniti potrebbero porre fine alla guerra di Haftar, ma Trump non ha alcuna intenzione di intervenire, sia perché ha sempre affermato che la Libia non è importante per gli interessi americani, sia perché si è già impegnato a sostenere l’avanzata di Haftar dietro richiesta del presidente dell’Egitto e del re dell’Arabia Saudita, suoi grandi amici, oltre che partner strategici contro l’Iran. L’idea che Trump cambi linea, perché una nuova conferenza internazionale gli fa sapere che la situazione a Tripoli è tragica, non tiene conto di ciò che è appena accaduto nel nord della Siria: Trump ha abbandonato i curdi, i quali avevano combattuto al fianco degli americani contro l’Isis. Figuriamoci se possa sostenere i combattenti di Tripoli, dai quali non ha ricevuto niente. Contro Haftar resta soltanto la Turchia, l’unico Stato che stia fornendo al governo di Tripoli le armi per non capitolare. La domanda che tutti si pongono è: che cosa accadrà? La risposta è semplice. In Libia possono accadere soltanto tre cose. La prima è che la guerra di Haftar finisca per esaurimento delle risorse. Molte guerre terminano, oppure si “afflosciano”, perché non ci sono più stipendi, benzina e munizioni. Ma questo non può accadere in Libia giacché Haftar riceve risorse in abbondanza. La seconda è che qualcuno s’impegni in un grande sforzo diplomatico, come sta facendo l’inviato speciale dell’Onu, Ghassan Salamé, il quale annuncia una nuova conferenza a Berlino. Anche in questo caso, gli sforzi sarebbero vani. Gli inviti a deporre le armi sono inutili con chi ama la guerra e pensa pure che gli convenga. La terza cosa che può accadere è che Haftar si fermi perché Tripoli gli infligge molte perdite, ma questo richiederebbe il riconoscimento del ruolo della Turchia e un’escalation del conflitto, a cui nessun Paese europeo è pronto. A parlar chiaro si fa prima: la situazione in Libia non è più una situazione da conferenze internazionali, ma da rapporti di forza sul campo. O Haftar sarà respinto oppure prenderà Tripoli. Una volta chiarito che in Libia è in corso una guerra che non terminerà fino a quando Haftar non avrà vinto, occorre che l’Italia prenda una decisione. Se Haftar non può essere scacciato, allora l’Italia deve ritirare l’appoggio al governo di Tripoli e trattare con Haftar le condizioni della sua vittoria. In teoria, la guerra finirebbe più velocemente, risparmiando molte vite; in pratica, potrebbe diventare più cruenta. La Turchia, che è in pessimi rapporti con l’Egitto, non accetterebbe una capitolazione improvvisa e, senza contropartita, valuterebbe un maggiore coinvolgimento nel conflitto. Per chiarire l’asprezza dei rapporti, basti sapere che Erdogan appartiene alla Fratellanza Musulmana, la quale è ritenuta un’organizzazione terroristica dai protettori di Haftar e cioè Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La questione è complessa. Prima di abbracciare Haftar, l’Italia dovrebbe accordarsi con la Turchia, la cui importanza a Tripoli potrebbe essere ignorata soltanto da una mente priva di senno. Quale statista europeo lascerebbe cadere la Libia nelle mani di chi lo reputa un terrorista? Né Conte, né Macron. Perché si pretende che Erdogan sia diverso? Libertà alla turca di Giulio Meotti Il Foglio, 11 dicembre 2019 Erdogan contro il Nobel a Handke e al “terrorista Pamuk”. Intanto impedisce ad Ahmet Altan di ritirare il Premio Scholl. Non si placano le polemiche sul Nobel per la Letteratura allo scrittore austriaco Peter Handke. Il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, ha chiesto di togliere il premio all’autore della “Infelicità senza desideri”, colpevole di essersi schierato con i serbi durante la guerra balcanica: “Il Nobel a Handke è una vergognosa decisione che deve essere annullata. @nobelpriz: Come può premiare qualcuno che non ha coscienza?”. La Turchia si è messa alla testa di una serie di paesi musulmani che hanno protestato per Handke. L’ambasciatore turco in Svezia, Hakki Emre Yunt, ha detto all’emittente turca Hurriyet che non avrebbe partecipato alla cerimonia, mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan ha detto che l’Accademia svedese aveva già dato il Nobel a un “terrorista turco”, in riferimento allo scrittore Orhan Pamuk (l’unico altro Nobel turco, il biochimico Aziz Sancar, non è noto per essere un critico del governo). È la stessa Turchia che, nelle stesse ore, impediva a uno dei suoi più famosi scrittori, Ahmet Altan, di volare a Monaco di Baviera per ritirare il premio Geschwister-Scholl, che porta il nome dei capi della Rosa Bianca. Nel settembre 2016, Altan, fondatore dell’ormai vietato quotidiano Taraf, venne arrestato con l’accusa di aver preso parte al tentativo di colpo di stato contro Erdogan. Il 16 febbraio 2018, lo scrittore era stato condannato all’ergastolo per “diffusione di un messaggio subliminale” durante un programma televisivo il giorno prima del colpo di stato. “Puoi imprigionarmi ma non puoi tenermi qui. Perché, come tutti gli scrittori, posso attraversare le tue mura con facilità”, ha scritto Altan in “I Will Never See the World Again”, il libro realizzato dalla sua cella nella prigione di massima sicurezza di Silivri. Lo scorso 4 novembre, Altan era stato rilasciato a condizione che riferisse regolarmente alla polizia. Pochi giorni fa, un nuovo arresto. Lo scrittore turco e premio Nobel Orhan Pamuk, che nel 2005 era stato processato a Istanbul e attaccato ieri pubblicamente da Erdogan, ha detto alla Süddeutsche Zeitung: “Fino a quando le ingiustizie sistematiche contro Altan continueranno e rimarremo in silenzio, sarà vergognoso per noi e la nostra umanità”. Per il suo libro, Altan ha vinto il premio letterario Geschwister-Scholl assegnato dal 1980 in onore di Sophie e Hans Scholl, i fratelli che si opposero a Hitler e ai nazisti attraverso proteste non violente e che furono giustiziati (fra i passati vincitori del Premio, la scrittrice cinese Liao Yiwu e la giornalista russa Anna Politkovskaja). Altan non è l’unico scrittore turco a essere finito in galera. Tiene banco da 1.250 giorni la carcerazione del giornalista e poeta Nedim Türfent, reo di aver scritto di violazioni dei diritti umani nel Kurdistan. Un’altra celebre romanziera, Asli Erdogan, era in carcere quando in Germania le hanno assegnato il Premio per la pace che porta il nome di Erich Maria Remarque nella città tedesca di Osnabrück. In carcere è finito il critico letterario Turhan Günay, settantatrenne direttore del supplemento letterario del quotidiano Cumhuriyet, mentre allo scrittore Sevan Nisanyan è stata inflitta una condanna a tredici mesi per aver ironizzato sul profeta Maometto. E su richiesta di Erdogan, l’Interpol ha arrestato un altro scrittore turco in vacanza in Spagna, Dogan Akhanli, colpevole di aver ambientato il suo romanzo “Kiyamet Gunu Yargiclari” (“I giudici del Giudizio universale”) durante il genocidio armeno. Adesso la Turchia vorrebbe che a Peter Handke fosse tolto il premio Nobel per la Letteratura. Qualcuno dovrebbe spiegare a Erdogan che il confine prima di tutto morale e culturale fra l’Europa e la Turchia, nella loro diversa concezione della libertà di espressione e di pensiero, è ancora sul Bosforo. Stati Uniti. Afghanistan papers, le bugie della guerra di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 11 dicembre 2019 In duemila pagine pubblicate dal Washington Post le strategie fallimentari di tre amministrazioni in 18 anni di conflitto “I talebani trasformati in nemico mortale”. È la “storia segreta” della guerra in Afghanistan. Diciotto anni di proclami frettolosi, errori di valutazione, senza riuscire a identificare i nemici e a trovare una via d’uscita. Dopo tre anni di battaglia legale il Washington Post ha ottenuto il rilascio degli “Afghanistan Papers”, i documenti riservati custoditi dal governo: oltre 2 mila pagine di appunti, messaggi, interviste confidenziali con alti ufficiali, generali compresi, diplomatici, funzionari coinvolti nel conflitto cominciato nel settembre del 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Dal 2001 gli Stati Uniti hanno schierato circa 775 mila militari in Afghanistan e hanno dovuto contare 2.400 vittime e oltre 23 mila feriti. L’illusione di Bush - Quando George W.Bush decise di attaccare Kabul l’obiettivo era chiaro: distruggere Al Qaeda, evitare che si ricreassero le condizioni per un altro attentato come quello del 11 settembre. Ma quella lucidità strategica durò solo pochi mesi. È questo il dato di fondo che emerge dalla lettura dei documenti: il presidente e i ministri, in particolare quello della Difesa, Donald Rumsfeld, smarrirono quasi subito il senso originario della missione. Distrutta Al Qaeda si iniziò a combattere con i talebani. Gli americani si fecero come risucchiare in un conflitto non pianificato, con nemici quasi invisibili, radicati sul territorio. Jeffrey Eggers, un ufficiale dei Navy Seal, all’epoca consigliere prima di Bush e poi di Barack Obama, rivela in una delle interviste raccolte dai funzionari dell’amministrazione: “Che cosa ha trasformato i talebani nei nostri nemici, quando eravamo stati colpiti da Al Qaeda? Il nostro sistema, nel suo complesso, era incapace di fare un passo indietro”. Proclami e realtà - Nel 2003 gli americani, appoggiati dagli alleati e dalla Nato, controllavano a mala pena poche aree del Paese. Ma per Bush la questione era già archiviata. La sua attenzione si era spostata sull’Iraq. Richard Haas, il coordinatore per l’Afghanistan, mise sull’avviso il presidente: “Suggerii di aumentare il numero dei soldati, portandoli da 8 mila a circa 20-25 mila. Ma non riuscii a vendere l’idea. Non c’era entusiasmo. C’era un senso profondo di impotenza”. Eppure il primo maggio del 2003 Bush dichiarava la vittoria in Iraq; quello stesso giorno Rumsfeld annunciava la fine “dei massicci combattimenti” in Afghanistan. In quel periodo si compiono scelte importanti, ancora oggi in discussione. Bush, Obama e l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton rifiutarono ogni tipo di trattativa con i talebani. I due presidenti tollerarono il doppio gioco del Pakistan. Ashfaq Kayani, capo dei servizi segreti pakistani, confidava all’ambasciatore americano Ryan Crocker: “Certo che noi puntiamo su diversi tavoli. Un giorno voi ve ne andrete e noi non vogliamo ritrovarci con un nuovo nemico mortale: i talebani”. La contraddizione di Obama - Il 1 dicembre 2009 Obama lancia il piano “surge”: invio di altri 30 mila militari in Afghanistan in aggiunta ai 70 mila già presenti e agli altri 50 mila dislocati dalla Nato e dagli alleati. Il generale David Petraeus, all’epoca al capo del “Central Command”, annota in un colloquio riservato: “Due giorni prima di quel discorso fummo tutti convocati nello Studio Ovale. Nessuno di noi (generali, consiglieri ndr) aveva mai sentito parlare di quel progetto. Ci fu un giro di opinioni, ma il tono era: prendere o lasciare”. Dopo quella riunione, però, Obama aggiunse un particolare fondamentale: gli americani avrebbero cominciato a ritirarsi dopo 18 mesi. Commento di Barnett Rubin, esperto di Afghanistan al Dipartimento di Stato: “Restammo tutti stupefatti. C’era una contraddizione insanabile in quella strategia. Se metti una scadenza ai rinforzi, è inutile inviarli”. I talebani dovevano semplicemente tenere un basso profilo per un anno e mezzo. Lezioni attuali - I “papers” pongono questioni a tutt’oggi irrisolte: l’Afghanistan può essere pacificato? Si deve trattare con i talebani? Oppure vanno combattuti inviando altri militari? E per quanto tempo? Ci si può fidare del Pakistan? Ora tocca a Donald Trump che forse ha la possibilità di scrivere l’ultimo capitolo della guerra più lunga e meno compresa. Stati Uniti. La cannabis legale avanza a livello federale di Bernardo Parrella Il Manifesto, 11 dicembre 2019 Lo scoglio del Senato e i tempi lunghi del dibattito potrebbero incagliare il More Act, il cui punto più controverso sta nella sovrattassa federale del 5%. Il Congresso degli Stati Uniti ha dato finalmente il via all’iter di riforma per la depenalizzazione della cannabis a livello nazionale. Un passo importante e più che dovuto, visto che oggi sono 33 gli Stati che prevedono norme per la marijuana terapeutica e circa un terzo di questi la prevede anche in ambito ricreativo per i residenti maggiorenni. Nonostante questi sviluppi e pur se due terzi degli americani ne auspica qualche tipo di regolamentazione, la cannabis resta nella classificazione più restrittiva, e quindi fuorilegge a tutti gli effetti. Situazione anacronistica che si prevede di superare e uniformare quanto prima, grazie al disegno di legge introdotto lo scorso luglio dai democratici Jerry Nadler e Kamala Harris, noto come More (marijuana opportunity, reinvestment and expungement) Act. La proposta ha appena ottenuto il primo semaforo verde nella commissione giustizia della Camera, con un voto favorevole di 24 a 10. Tre i punti qualificanti: eliminare la cannabis dall’elenco proibizionista del Controlled Substances Act del 1971; annullare o rivedere le precedenti condanne per reati non violenti per possesso personale; imporre la tassa federale del 5% sulla vendita di prodotti legati alla cannabis per risarcire comunità e individui maggiormente colpiti dalla war on drugs e per incentivare la nuova imprenditoria legale. Elementi fondamentali questi per il successo della riforma, che in pratica vuole confermare l’indipendenza legislativa dei singoli Stati garantendo al contempo alle casse federali una minima fetta delle entrate locali. Prossimo passo è la discussione generale e il voto finale alla Camera, dove i 50 co-sponsor della normativa raggiunti nel frattempo fanno ben sperare. Diversamente da quanto invece si prevede al Senato dove vige la maggioranza repubblicana, che si presume finirà per rispecchiare i dati degli ultimi sondaggi: soltanto il 51% dei votanti repubblicani si dice favorevole alla regolamentazione, contro il 76% degli elettori democratici e il 68% degli indipendenti. Altro intoppo potrebbe essere determinato dai tempi del dibattito nei due rami parlamentari, con l’arrivo della pausa per le festività di fine anno e soprattutto della ripresa dell’impeachment contro Trump, le cui complesse procedure stanno letteralmente logorando i parlamentari (e ancor più l’opinione pubblica). Ma forse il punto più controverso della proposta sta proprio nella sovrattassa federale del 5%. Come hanno subito rimarcato attivisti e organizzazioni da tempo impegnati per la regolamentazione, il maggior nemico di quest’ultima rimane pur sempre il mercato nero. I produttori illegali non devono certo chiedere o aspettare permessi di coltivazione, distribuzione e vendita, né pagare i dazi dei vari passaggi burocratici. Per esempio, la California, maggior mercato mondiale per la cannabis legale, impone già le comuni tasse locali (intorno al 7,5%), la cosiddetta excise tax (15%) e un’ulteriore imposta per la vendita all’ingrosso di foglie o fiori essiccati. Non a caso le entrate al dettaglio del primo anno di legalità ricreativa hanno raggiunto appena 2,5 miliardi dollari, inclusive anche del settore medico. Un calo di circa 500 milioni rispetto all’anno precedente, quando ne era legale soltanto l’uso terapeutico. E secondo le prime stime, il balzello federale porterebbe a un totale pari al 50-80% di imposte aggiuntive per l’acquirente californiano. Non è difficile capire che così sarebbe virtualmente impossibile per i produttori legali competere con un mercato nero oramai di livello professionale. La speranza è che l’attuale testo federale venga modificato cammin facendo, o che si trovino soluzioni generali più consone. Occorre evitare che lo storico percorso di riforma avviato con il More Act finisca per creare un inatteso e tragico effetto boomerang. Sosteniamo la democrazia a Hong Kong per difendere i diritti umani di Matteo Angioli Il Dubbio, 11 dicembre 2019 La Giornata Mondiale dei Diritti Umani fu istituita nel 1950 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per celebrare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il 5 dicembre 1955 era un lunedì. Quella settimana di 64 anni fa, nella città statunitense di Montgomery in Alabama, non ebbe l’abituale inizio spossato e segregato. Quattro giorni prima, la spossatezza si era trasformata in saturazione e l’insopportabile segregazione in inarrestabile azione nonviolenta. Il 1° dicembre, una signora, Rosa Parks, non cedette il suo posto in autobus ad un uomo bianco. Fu arrestata per aver infranto una legge locale sulla segregazione razziale. Quel 5 dicembre, il 90% degli abitanti della comunità afro- americana di Montgomery uscì di casa prima del solito. Anziché recarsi alla fermata dell’autobus, si incamminarono verso i luoghi di lavoro. Al ritorno, si recarono alla Chiesa battista di Holt Street dove un giovane reverendo ventiseienne, Martin Luther King jr, li incoraggiò. Li esortò, incluso sé stesso, a non mollare. Li convinse. Antepose il ruolo della democrazia all’obiettivo stesso del boicottaggio: “Siamo qui per il nostro amore per la democrazia, per la nostra profonda convinzione che la democrazia che si trasforma da un sottile foglio ad una densa azione è la migliore forma di governo sulla terra (…) Una dei cittadini migliori di Montgomery - non uno dei migliori cittadini negri, ma uno dei migliori cittadini - è stata arrestata perché si è rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus ad un bianco”. Ebbe così inizio il boicottaggio degli autobus. Originariamente nata come una protesta di un giorno, divenne uno sciopero di un anno che terminò il 20 dicembre 1956, con la decisione della Corte Suprema sull’incostituzionalità della segregazione raziale sugli autobus. Storiella vecchia e sdolcinata? No, attuale e profonda. Come l’innata aspirazione alla libertà di ogni essere umano. Lo vediamo in Venezuela, Cile, Bolivia, Libano, Iraq, Iran, Hong Kong. La differenza tra oggi e allora è nelle parole di M. L. King: “Questa è la gloria dell’America, con tutti i suoi difetti. Se fossimo confinati dietro la cortina di ferro di una nazione comunista non potremmo farlo. Se fossimo rinchiusi in un carcere di un regime totalitario non potremmo farlo. Ma la gloria della democrazia americana è il posto giusto per protestare”. La Cina a partito unico non è il posto giusto dove protestare, e perciò è ammirevole la costanza con cui persone di ogni età e strato sociale manifestano da sei mesi avanzando cinque richieste specifiche (i “boicottatori” di Montgomery ne avevano tre). Oggi gli Stati autoritari, come la Repubblica Popolare Cinese, promuovono il concetto di “Stato di Diritto” come strumento di legalità finalizzata al controllo della popolazione attraverso la rigorosa applicazione della legge. Niente a che vedere con la separazione dei poteri e la protezione delle minoranze. La segregazione in Alabama era legale. La schiavitù negli Stati confederati era legale. La deportazione degli ebrei era legale. Ma lo Stato di Diritto è l’applicazione giusta di leggi giuste, cioè rispettose dei diritti umani sanciti dai trattati internazionali. Nel 2015, in una conferenza sull’universalità dei diritti umani, Marco Pannella disse: “Il diritto è una cosa, la legalità un’altra. Ne esiste una nella quale si legalizzano misure illudendosi che siano forme prudenti di difesa dell’ordine costituito (…) siamo qui per lottare contro forme di legalità che sono nemiche delle visioni liberali, delle visioni laiche nelle quali la libertà di pensiero viene sempre temuta piuttosto che coltivata”. Nel Partito Radicale ci sono dei sognatori. Non solo perché il caso vuole che sia stato fondato l’ 8 dicembre 1955, proprio nel giorno in cui il reverendo King presentò le tre richieste al governo locale, ma perché riteniamo indispensabile mobilitarci a sostegno della democrazia a Hong Kong e altrove, non su un “sottile foglio” ma nella “densa azione” quotidiana. Entro il 2047, anno in cui tornerà sotto la giurisdizione cinese, Hong Kong non solo sarà ancora democratica, ma avrà contagiato il regime anti-democratico pechinese. Myanmar. Dal premio Nobel per la pace all’udienza all’Aja per crimini contro l’umanità di Luigi Guelpa Il Giornale, 11 dicembre 2019 C’è un numero ricorrente nella vita recente del premio Nobel Aung San Suu Kyi, è l’11. Lo scorso 11 novembre il Gambia, minuscolo paese africano, l’ha denunciata alla Corte di giustizia internazionale con l’accusa di genocidio. Oggi, 11 dicembre, dovrà rispondere al Tribunale dell’Aja di tali accuse e il suo intervento è previsto alle 11. Nella cabala l’11 è il numero della “trasformazione”, appropriato per la condizione dell’attuale consigliere di stato di Myanmar, che nello spazio di pochi anni è passata da paladina dei diritti a carnefice delle minoranze. La storica attivista democratica, vincitrice del premio Nobel per la pace dopo aver sfidato la giunta militare, era giunta al potere a Myanmar (l’ex Birmania) dopo una travolgente vittoria elettorale 1’11 novembre 2015, inaugurando il primo governo civile del paese in mezzo secolo. Ma la sua reputazione è stata oscurata dalla risposta alla difficile situazione dei rohingya, la minoranza musulmana perseguitata che vive nello stato occidentale di Rakhine. Il processo all’Aja non la vede formalmente sul banco degli imputati, ma la vicenda ha da tempo offuscato la sua immagine internazionale di eroina della democrazia. Il procuratore del Gambia che segue il caso, Abubacarr Marie Tambadou, ex ministro della Giustizia del suo paese, ha chiesto ieri mattina in aula che il Myanmar metta immediatamente fine alla persecuzione dei rohingya. Suu Kyi prenderà oggi la parola sostenendo che i militari hanno agito nel rispetto della legge, ma l’intervento sarà preceduto dalla consegna di una memoria difensiva del team dei suoi avvocati. Nel documento i legali sostengono che nessun genocidio si sia verificato, che il massimo tribunale delle Nazioni Unite non ha giurisdizione per decidere su un caso che inoltre non soddisfa il requisito necessario dell’esistenza di una controversia tra Myanmar e Gambia. In realtà le angheria da parte della maggioranza buddista del paese contro i musulmani rohingya continuano e sono ben documentate. Un milione di persone vive attualmente nello squallore nei campi profughi del confinante Bangladesh, mentre diverse centinaia di migliaia rimangono all’interno del Myanmar, segregati in campi e villaggi in condizioni simili all’apartheid. Sul tavolo dei giudici è arrivato ieri mattina anche un dossier video e fotografico redatto da Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia. I filmati comprovano la costruzione di recinzioni intorno a un campo che ospita gli sfollati. Le foto mostrano militari impegnati a sistemare le recinzioni di filo spinato intorno a un grande accampamento a Balukhali, nel distretto del confine sud-orientale. “Se Aung San Suu Kyi è seria quando dice di voler servire il popolo di Myanmar, allora deve stare al fianco delle vittime e dei sopravvissuti nel perseguimento della giustizia, della verità e della riparazione. Non dovrebbe proteggere coloro che sono sospettati di azioni criminali”, ha dichiarato Bequelin ai cronisti. Dopo aver sentito le ragioni di entrambe le parti la Corte deciderà se avviare un processo, che potrebbe durare molti anni.