Il carcere che funziona è strumento per costruire una libertà consapevole di Luigi Ciotti* La Repubblica, 10 dicembre 2019 “Il carcere che funziona non è quello che priva della libertà, ma quello che produce libertà”. Queste parole - tratte dal lavoro di Francesco Argentieri, fresco vincitore del concorso “Sulle ali della libertà” ideato dall’associazione “L’Isola Solidale” per la promozione della cultura negli istituti di pena - mi sembrano una splendida sintesi del senso e del valore di questa iniziativa. Sì perché “l’umanità” e la “funzione rieducativa” della pena a cui esplicitamente richiama l’articolo 27 della Costituzione, si realizzano non solo rispettando le persone detenute nella loro inviolabile dignità - il carcere non può essere uno strumento di ritorsione - ma offrendo loro anche opportunità di cambiamento affinché, uscite dal carcere, diventino una risorsa sociale, cittadini che tutelano e costruiscono il bene comune. La cultura e il lavoro giocano da sempre in questa trasformazione un ruolo cruciale perché il lavoro è prima di tutto espressione di sé, delle proprie passioni, inclinazioni e talenti (fatto salvo, ovviamente, per quelle forme di sfruttamento e umiliazione - ahinoi tanto diffuse - che sono la negazione stessa del lavoro). D’altro canto, la cultura è la strada maestra per diventare persone consapevoli, persone che scoprono quanta vita c’è oltre gli angusti confini dell’io, oltre i suoi impulsi di potere e di affermazione, il suo storpiare e ridurre la libertà ad arbitrio. E quando si diventa consapevoli e dunque ci s’interroga sul senso del proprio agire - riflessione che non smette mai di accompagnarci - le nostre azioni non possono più volere né commettere il male perché sono azioni che non esprimono un “io” isolato, ma un io incluso in un “noi”, in costante relazione con gli altri e con la Terra che ci ospita, dunque azioni animate da una libertà responsabile, da un desiderio di essere liberi con gli altri e non contro o a scapito loro, come continua a fare quell’individualismo che sta distruggendo il tessuto sociale e il pianeta, che mercifica i beni comuni e prosciuga anime e cuori da ogni senso di fraternità, condivisione, corresponsabilità. Ecco allora che le parole di Francesco (nome oggi non semplice da portare…) diventano uno stimolo importante: la privazione della libertà prevista dalla pena deve trasformarsi - se non vogliamo trasformare le carceri in discariche sociali - in strumento per costruire una libertà vera, responsabile, che sia di beneficio alla persona detenuta, ma anche a tutta la comunità. Non è semplice e tuttavia indispensabile, di questi tempi. Tempi in cui è prevalsa un’idea distorta di sicurezza, una sicurezza elevata a “idolo” e, come tale, propagandata da certa politica che costruisce nemici immaginari per coprire le proprie omissioni e responsabilità. Ecco allora che l’accanimento contro gli immigrati, la riduzione della tragedia dell’immigrazione a un problema di ordine pubblico e di pattugliamento delle frontiere, sono comode scorciatoie per nascondere o manipolare la verità, per non riconoscere che le paure e le angosce della gente nascono dal vivere in una società che non ha più nulla di sociale e di socievole, ridotta a spazio dove vince l’individualismo estremo del “mors tua, vita mea”, dove crescono le disuguaglianze e le povertà e dove il lavoro, quando c’è, è degradato a prestazione occasionale e malpagata, ormai prossima allo sfruttamento. Una deriva che, in nome di una idea falsata e opportunistica di sicurezza, ha via via smantellato negli anni lo Stato sociale per fare sempre più spazio a uno Stato penale, teso unicamente a punire e a escludere. Con riflessi evidenti anche sull’impianto giuridico, perché è da quella falsa sicurezza, e dalla politica che ne ha fatto un cavallo di battaglia, che sono uscite leggi come la “Bossi-Fini” sull’immigrazione, la “Fini-Giovanardi” sulle droghe, la “ex Cirielli” sulla prescrizione dei reati, leggi che, dicono i giuristi più illuminati, sono le prime responsabili del sovraffollamento carcerario e della difficoltà se non impossibilità in molte carceri di conferire alla pena l’indirizzo sociale e inclusivo previsto dalla Costituzione. Per fortuna non dappertutto è così: ci sono oasi di resistenza, realtà dove associazioni e istituzioni uniscono forze e impegno per ridare speranza alle persone detenute e dunque a tutti noi. Realtà dove la parola giustizia e la parola umanità s’incontrano e si completano l’una con l’altra, perché l’umanità è l’unità di misura della giustizia e solo un mondo giusto è un mondo che può davvero dirsi umano. *Fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera Quel video e gli attacchi al Garante impegnato per il benessere di tutti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2019 Nel filmato promozionale, autorizzato dal Provveditorato lombardo dell’amministrazione penitenziaria, si punta sull’addestramento militare. Tiri al bersaglio, diversi metodi di perquisizione e soccorsi medici a persone rimaste amputate a una gamba. Sembra un addestramento militare per persone che devono partire per una guerra, invece si tratta di un video promozionale della Polizia penitenziaria autorizzata dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. Il video è stato realizzato con il personale del penitenziario milanese di Opera e sponsorizzato da un ente privato chiamato Omnia Secura Academy che opera nel campo della formazione. Il video ha come titolo “Polizia, oltre il penitenziario”, e in effetti tutto c’è tranne che il carcere e il rapporto quotidiano che ha la polizia penitenziaria con i detenuti. Un lavoro difficile, complicato dalle innumerevoli criticità del sistema penitenziario, ma che non è un campo di guerra. Non si tratta di una promozione ufficiale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma il video è stato realizzato con personale e materiale dell’amministrazione. Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha chiesto spiegazioni al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, preoccupato per ciò che il video fa emergere. Una preoccupazione legittima, visto che sono passati gli anni bui di quando il carcere, prima della legge Gozzini del 25 ottobre 1986, era considerato quasi esclusivamente punitivo e repressivo. Basti pensare che nei primi anni 90 il corpo degli agenti di custodia fu smilitarizzato e istituito quello di polizia penitenziaria che ha il pregio di non limitarsi solamente alla pura custodia, ma con il tempo la figura è valorizzata proprio per contribuire al trattamento rieducativo del detenuto. In fondo ciò è stato ribadito recentemente anche dal guardasigilli, ma il video in questione dà una immagine completamente diversa. Come detto, il Garante nazionale ha chiesto spiegazioni. A quel punto si è scagliato contro il sindacato della polizia penitenziaria Sappe che, a suo dire, dimostrerebbe che Mauro Palma sarebbe contro la polizia penitenziaria. Ma non solo. Per rafforzare la tesi, il sindacato sottolinea che “non è un caso che il Garante in ogni procedimento giudiziario contro poliziotti penitenziari si costituisce parte offesa - e quindi anche contro coloro (e non sono pochi!) che lavorano nell’ufficio del Garante pur rimanendo in forza al Corpo”. Nel comunicato il Sappe ha anche annunciato che proporrà una legge di iniziativa popolare o un referendum abrogativo per sopprimere la figura del Garante Nazionale. In difesa dell’autorità del Garante interviene prontamente l’associazione Antigone giudicando inaccettabile l’attacco di alcuni sindacati della polizia penitenziaria. “Addirittura - sottolinea l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale - si arriva a chiedere la chiusura dell’ufficio. Ricordiamo che organismi di controllo dei luoghi di detenzione sono previsti dall’ordinamento internazionale e sono presenti in tutti i paesi democratici e non solo; temere il lavoro di prevenzione di un organismo indipendente significa barricarsi dentro le proprie funzioni e non fa presagire nulla di buono. Notiamo purtroppo con dispiacere che non si è radicata dentro alcune sigle sindacali una cultura dei diritti umani. Ricordiamo anche che la tortura è un crimine contro l’umanità”. Sempre Antigone conclude: “Siamo certi che la gran parte dei poliziotti che lavorano nel solco della legalità sono invece grati a chi, come il Garante nazionale, fa uscire il loro lavoro da quel con d’ombra dove altri vorrebbero riporlo”. In realtà, precedentemente, il Sappe aveva già attaccato Mauro Palma, polemizzando sulla questione del personale di Polizia penitenziaria assegnato all’Ufficio del Garante nazionale. Eppure, come viene evidenziato in una lettera inviata dal Garante al Dap e al ministero proprio per rispondere alle accuse mosse dal sindacato, dall’articolo 2 comma 4 del Regolamento concernente la determinazione della struttura e della composizione dell’Ufficio posto alle dipendenze del Garante nazionale delle persone private della libertà, si evince che tutto il personale assegnato all’ufficio del Garante nazionale, indifferentemente dal comparto di provenienza, delle Funzioni centrali o di Polizia, è personale che “opera alle esclusive dipendenze del Garante”. Ne consegue che tale personale, nella sua interezza, non è più direttamente rispondente alle disposizioni delle Amministrazioni da cui proviene a partire dal momento dell’assegnazione all’Ufficio del Garante nazionale. “Del resto - si legge nella lettera -, il personale di Polizia penitenziaria assegnato al Garante non esercita le funzioni proprie della Polizia penitenziaria e, quindi, non è soggetto alle condizioni tipiche dell’esercizio di tali funzioni, bensì a quelle comuni allo staff dell’Istituzione, senza differenze di sorta con gli altri componenti”. Pensare anche che il Garante sia contro il personale della polizia penitenziaria è oggettivamente falso, anche perché l’istituzione serve proprio per vigilare sul benessere di tutta la popolazione penitenziaria, agenti compresi. Non da ultimo, a dimostrazione di ciò, c’è la partecipazione costante e attiva del Collegio e del personale dell’Ufficio del Garante nazionale ai corsi di formazione professionale presso la Scuola superiore dell’esecuzione penale. Il nuovo assolutismo. Dallo stato di diritto allo stato di giustizia di Sabino Cassese Il Foglio, 10 dicembre 2019 Come cresce il potere delle procure, che accusano e giudicano. Ritorniamo sulla giustizia in Italia. Si intrecciano due ordini di problemi: prescrizione e intercettazioni. Due ordini di problemi che paiono minori, ma hanno invece una stretta relazione con le questioni principali della giustizia: i tempi e la proiezione sociale della giustizia. Cominciamo dalla prescrizione. Il suo meccanismo: il decorso del tempo estingue la potestà punitiva dello Stato. L’estinzione è accertata dal giudice. La legge in vigore, che comincia a produrre i suoi effetti dal gennaio 2020, dispone che, al termine del primo grado di giudizio, il meccanismo della prescrizione non funzioni più. Questo ha un inconveniente diretto per chi sia stato assolto, nel caso che il pubblico ministero impugni la sentenza, perché rimane anch’egli in attesa di giudizio e per un tempo indeterminato. Si dilatano così a dismisura i tempi dei processi, che oggi vengono fissati proprio per evitare la prescrizione: senza questo vincolo il processo non avrebbe mai fine. Ma quali sono gli inconvenienti e quali i benefici della prescrizione? Con la prescrizione, lo Stato rinuncia all’esercizio della potestà punitiva e vi saranno reati non sanzionati. E questo a causa della lentezza della giustizia e anche del modo in cui gli avvocati la sfruttano. Dall’altro lato, il passato non può essere eternamente proiettato sul presente: dopo dieci anni, un accusato (forse colpevole) è una persona diversa. La Costituzione prevede che la sanzione deve esser diretta alla riabilitazione: assume, quindi, che una persona può cambiare. Se poi si calcola che tre quarti degli accusati sono riconosciuti non colpevoli nel successivo giudizio, va valutato il costo sociale di tenere nell’incertezza per molti anni persone innocenti. A questo si aggiungono altri inconvenienti, come quello derivante dalla difficoltà di raccogliere le prove a molta distanza dai fatti per i quali una persona è stata accusata e l’effetto punitivo e afflittivo della sola accusa ancor prima del processo, spesso amplificato dai media. La persona accusata perde, già solo per l’accusa, una parte della sua libertà di agire, di assumere o svolgere incarichi, anche in imprese private e, spesso, della sua libertà di parola: quanto vale l’opinione di un accusato? Le intercettazioni? Queste sono ormai divenute un modo per fare processi in piazza, come non si faceva neppure nel Medioevo. Le critiche sono molte. Sono stati abbandonati altri mezzi di prova meno invasivi. Si ricorre con troppa facilità a strumenti che non richiedono neppure di installare mezzi di raccolta di dati e conversazioni (una delle specie di “trojan”). Ci si fida del “parlato”, non dello scritto. Si ricorre a conversazioni fra terze persone per incolpare un soggetto estraneo alla conversazione. I dati raccolti vengono preparati, collezionati e intitolati, divengono - in modi non accertati - di dominio pubblico. Finiscono sulle prime pagine di giornali e telegiornali. Alcune regole elementari dell’esercizio della funzione di giustizia sono abbandonate. Non c’è rispetto del principio di proporzionalità (si poteva ricorrere a mezzi meno invasivi?). Non è rispettato il principio costituzionale della comunicazione riservata delle accuse all’accusato. Viene dimenticato il principio di cautela nell’esercizio di compiti che attengono alla vita, alla libertà, alla “privacy” delle persone. È per motivi di questo tipo che esperti “esterni” come Coppi hanno parlato di “degrado” e esperti “interni” come Nordio di “inciviltà giuridica”? Per non menzionare eventi preoccupanti come il numero di appartenenti alla magistratura che sono sotto processo a loro volta, o il silenzio che è seguito alle indagini relative al modo in cui funziona il Consiglio superiore della magistratura. Piuttosto che ricordare episodi, penso che vada avviata una riflessione sui cambiamenti strutturali dell’ordine giudiziario. Questo si è sdoppiato, ma non nel senso indicato da coloro che propongono la divisione delle carriere. Voglio dire qualcosa di diverso. Sembra quasi che le procure non siano più in funzione del successivo giudizio: accusano e giudicano. E, anzi, spesso non sono interessate a vincere nel processo, dinanzi a un giudice terzo, come dimostrano le posizioni di chi vorrebbe un sistema in cui l’imputato sia costretto a patteggiare prima ancora del processo: una condanna senza giudice, irrogata direttamente dal pubblico ministero. Perché le procure hanno conquistato tanto potere? Vanno considerati due fattori. Il primo riguarda il “fallimento” del “nuovo” codice di procedura penale (del 1988): il filtro che doveva essere svolto dal giudice delle indagini preliminari (Gip), nei confronti dell’azione dei pubblici ministeri, è venuto meno, per la debolezza funzionale del Gip. Con il vecchio codice, il giudice istruttore era il vero “dominus” dell’istruttoria, che era da lui condotta e che si concludeva con l’ordinanza da lui sottoscritta di rinvio a giudizio o di proscioglimento. Il giudice istruttore svolgeva una funzione importante, e di conseguenza si instaurava una vera e propria dialettica con il pubblico ministero. Nel sistema attuale, il vasto materiale raccolto dai pubblici ministeri viene inviato ai Gip, che, per ragioni strutturali e per la funzione residuale da loro svolta, si limitano, di fatto, a un controllo formale e “cartaceo”. Tutto finisce nel dibattimento, che secondo il codice del 1988 è il luogo in cui si forma la prova. Inoltre, sempre secondo il nuovo codice, i processi si sarebbero dovuti svolgere in gran parte secondo i riti alternativi (abbreviato, patteggiamento). Così non è stato. Il potere delle procure è quindi cresciuto “negli interstizi delle procedure”. In secondo luogo, questa disfunzione è accresciuta dalla durata dei processi. Se il processo fosse rapido, la verifica dell’azione delle procure sarebbe tempestiva, e il loro potere, anche in relazione ai “media”, sarebbe condizionato dalla tempestività del giudizio. Quando il processo è rapido (esempio: Mafia Capitale), la dialettica tra le parti e tra le diverse posizioni, anche nell’opinione pubblica, è più equilibrata. Quando invece, dopo una incisiva azione delle procure (con arresti, intercettazioni pubblicate e perquisizioni), il dibattimento in primo grado si svolge a distanza di anni, l’accusatore diventa giudice, perché il giudizio definitivo arriverà troppo tardi. Il problema cruciale è la durata dei processi, anche per sdrammatizzare il problema della prescrizione. Da che cosa dipende la durata dei processi? Le cause sono numerose. Ne cito una: le regole processuali sulle impugnazioni. Le oltre 50 mila sentenze penali per anno della Cassazione hanno trasformato questo giudice in un “terzo grado” di giudizio di merito. I contrasti “inconsapevoli” non sono rari (un collegio non sa quello che si decide nell’aula accanto sulla stessa questione). In molti casi, il giudizio migliore è quello del primo giudice, che giudica tempestivamente e guardando in faccia i protagonisti del processo. Torniamo al cambiamento di ruoli tra giudici e procure. Vi sono molte componenti, che andrebbero studiate attentamente, e che richiedono analisi sia giuridiche, sia sociologiche. Provo a sintetizzare, con tutte le cautele del caso, trattandosi - se la mia analisi è corretta - di un vero cambiamento costituzionale. Il trapasso delle procure da organo di accusa a organo di accusa-giudizio avviene in virtù dell’azione combinata di più “attori”, i legami tra i quali non sono sempre evidenti. Il primo passo lo fanno le procure, che svelano (“name and shaming”). Il secondo i mezzi di comunicazione, che diffondono. Il terzo le forze politiche, che sanzionano. Una sorta di azione coordinata tra poteri dello Stato, opinione pubblica, forze politiche? Che trova una corrispondenza nella richiesta di apertura dello Stato verso la società, di assenza di impermeabilità dell’azione pubblica, di trasparenza. Consideri il modo efficace in cui vengono denominate le inchieste, a opera delle autorità di polizia e delle procure, e la tecnica con la quale vengono gestite le comunicazioni successive (stillicidio), in modo da assorbire e superare le reazioni degli indagati che vedono il proprio nome sui giornali. Pensi al rilievo dato alle indagini delle procure, comparato con il nessun rilievo che hanno sui mezzi di comunicazione le sentenze emanate al termine dei processi. Uno dei più stimati procuratori della Repubblica, Pignatone, ha parlato qualche tempo fa di “cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica”. Un altro stimatissimo procuratore ha dichiarato che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Ciò che ci conduce al penultimo passo nella ricostruzione di questo nuovo potere, che è quello di costruire una narrazione di un’Italia criminale, di avvalorare una visione negativa della società italiana. E l’ultima componente? La politica che si impossessa delle accuse-giudizi e si erge a “Robin Hood”, riesce a raccogliere consensi presentandosi come la forza pulita e vendicatrice. Conclusione? Questa analisi dell’azione congiunta di un braccio dello Stato, dell’opinione pubblica e dei media, delle forze politiche (di una parte di esse) è molto provvisoria. Molti passaggi andrebbero approfonditi. Se i riscontri necessari la dimostreranno corretta, può avanzarsi una ipotesi di lavoro. Che si è venuto a creare un nuovo potere dello Stato. Che esso accusa e giudica “in piazza”. Che è dotato di un potere sanzionatorio informale, ma efficace. Che, grazie a esso, politica e giustizia ristabiliscono un antico legame, come, d’altra parte, hanno notato gli studiosi francesi della forma di Stato che chiamano “État de justice” invece che “État de droit” (ricordo l’opera dello studioso tolosano Jacques Krynen, “L’emprise contemporaine des juges”, Paris, Gallimard, 2012). Naturalmente, i magistrati-giudicanti, in questo quadro, finiscono per passare in seconda linea. E la presunzione di innocenza, sancita nella nostra Costituzione, viene cancellata. Prescrizione. Troppi nodi ancora tutti da sciogliere nella legge Bonafede di Giorgio Spangher Il Riformista, 10 dicembre 2019 Avvicinandosi l’entrata in vigore della (ennesima) riforma della prescrizione, il dibattito nella politica e negli operatori della giustizia si è fortemente acceso e polarizzato, anche grazie all’astensione dalle udienze degli avvocati, aderenti alle Camere penali (e non solo). Si tratta di una contrapposizione culturale che coinvolge un tema centrale della giustizia penale nel quale si confrontano visioni diverse del diritto e del processo penale. Focalizzando l’attenzione sulla riforma dell’art. 159 del codice penale di cui alla legge n. 3 del 2019, il confronto di opinioni si prospetta su più piani. Da un lato, si evidenzia la pluralità della successione di norme in materia, con diversificati effetti estintivi ricollegati al tempo - diverso - della commissione dei reati. Dall’altro, si evidenzia la non ragionevole parificazione degli imputati condannati e di quelli prosciolti con la sentenza di primo grado che, polarizza ai sensi della citata legge, determina la sospensione del decorso della prescrizione. Infine, si evidenzia la mancanza di un termine entro il quale deve celebrarsi il giudizio d’appello e quello di Cassazione, con il rischio di una ingiustificabile - di fatto - stasi processuale e la sottoposizione dell’imputato condannato e prosciolto a un processo dai termini indefiniti. Sotto il primo aspetto va evidenziata la reiterata produzione normativa in materia. In realtà, per lungo tempo il sistema si era mantenuto “in equilibrio” attraverso il ricorso all’amnistia, che omologava persone e reati, tracciando una linea che non operava alcuna scelta discrezionale, risultando la conseguenza della decisione estintiva effetto dell’azione del Parlamento. L’impossibilità di operare in questo modo finisce per “scaricare” sulla prescrizione le disfunzioni del sistema che dovrebbero trovare una soluzione a seguito d’una rivisitazione d’un sistema penale ipertrofico e la riconsiderazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, vero alibi della opposta attuale presenza della discrezionalità delle iniziative delle procure. Sotto il secondo profilo, non può non segnalarsi la discutibilissima equiparazione della condizione del condannato con quella del prosciolto, al punto da prospettare una non del tutto infondata questione di legittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Convenzione. Invero, il prosciolto - peraltro anche il condannato in primo grado - è assistito da una presunzione di non colpevolezza, ovvero di innocenza che in relazione al prosciolto è addirittura evidenziata e rafforzata dalla decisione di prima istanza. Sotto il terzo aspetto, non può non evidenziarsi come la mancanza di termini per la definizione della fase dei gravami confligga con il canone di rilievo costituzionale della durata ragionevole del processo di cui all’art. 111 Cost. Sotto questo profilo non possono non prospettarsi non poche questioni di legittimità costituzionale. La reiterazione delle riforme in materia e il conseguente allungamento dei termini di prescrizione pongono il problema della ragionevolezza dei tempi successivamente fissati in ordine allo stesso reato, condizionato anche dalla progressiva elevazione delle pene. Inoltre, la ipotizzata sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado pone in discussione la stessa presenza dell’istituto estintivo, non ritenuto illegittimo, ma in tal modo trasformando un gran numero di reati in reati imprescrittibili, di fatto, coinvolgendoli ai reati per i quali - fondatamente - la causa estintiva non può operare. Inoltre, al di là del diritto all’oblio, rispetto a un fatto risalente nel tempo, sia l’imputato - colpevole o innocente - sia le vittime, persone offese o danneggiate, sono titolari del diritto a veder definita - irrevocabilmente o con il giudicato - la vicenda processuale. Nella legge che dovrebbe essere operativa dal l° gennaio 2020 si nasconde altresì un ulteriore elemento che non è sempre esplicitato: il potere del pm di scegliere quali reati si possono prescrivere e quali invece, attraverso l’accelerazione processuale, arriveranno alla sentenza di primo grado che renderà quei reati non più soggetti alla causa estintiva. Già oggi il pm può decidere cosa può essere soggetto di prescrizione nella fase delle indagini; dall’anno prossimo le procure potranno altresì orientarsi a non far prescrivere i reati che si determinerà a far approdare al dibattimento, con la certezza, che oggi manca, di conoscere le successive scansioni temporali entro le quali il reato può andare incontro a un effetto estintivo. Il nuovo termine di prescrizione inciderà anche sul comportamento dei giudici di primo grado che potranno cadenzare i giudizi di primo grado in relazione alla possibile o non possibile prescrizione dei processi attribuiti alla loro cognizione. Inoltre, mentre i processi di condannati con l’applicazione di una misura cautelare potranno avere una corsia privilegiata, per evitare le scarcerazioni, il discorso non riguarderà i soggetti assolti o prosciolti. Naturalmente l’imputato e la difesa adegueranno i loro comportamenti alla nuova disciplina: scelta dei riti premiali ovvero comportamenti tesi a differire la decisione di prima istanza. In altri termini, non è vero che l’entrata in vigore della norma manifesterà i suoi effetti in un tempo lungo che permetterà una sua più attenta valutazione. Gli effetti si manifesteranno da subito nei comportamenti processuali delle parti e del giudice e non sarà necessario capire gli effetti negativi che essa comporta. A prescindere dall’esito (politico) della vicenda, va significativamente osservato che la stessa ha aperto uno squarcio nel dibattito, spesso incolore, sulla giustizia penale, che solitamente vede contrapposti quasi solo avvocati e magistrati. Ha manifestato il proprio convincimento anche l’accademia che in larghissima parte (quasi all’unanimità) ha evidenziato le criticità della riforma. Sono stati gettati significativi “semi” per continuare ad alimentare un dibattito sulla giustizia nel nostro Paese, come non si vedeva da tempo. La ferita della prescrizione di Vincenzo Vitale L’Opinione, 10 dicembre 2019 Il blocco della prescrizione dei reati - fortemente voluto dai 5 Stelle - rappresenta una ferita senza precedenti nell’ordinamento giuridico del nostro stato di diritto. Certo, i pentastellati non sono in grado di comprendere fino in fondo cosa ciò significhi e quali problemi comporti e veleggiano, ricolmi della loro triste e pericolosa ingenuità, verso il nuovo anno, convinti di aver fatto bene. Prima o poi se ne accorgeranno e forse sarà tardi per rimediare ai guasti già prodotti. Ma non crediate si fermino qui, dal momento che essi rappresentano l’essenza stessa del totalitarismo assoluto di un pensiero errabondo e latitante, nutrito di luoghi comuni e di impulsi primitivi, privo di ogni capacità razionale e che, soprattutto, non possiede la minima idea su cosa sia il diritto, cosa uno stato di diritto, cosa la giustizia. Essi si alimentano di messaggi, di e-mail, di una proliferazione tentacolare di centri di opinione, dove si fa ragione colui che riesce a gridare più forte degli altri, mobilitando alcune migliaia di proseliti su di una piattaforma digitale preconfezionata da un signore davvero temibile - visto che gode del potere assoluto sulla stessa - e assistita da un ex-comico stanco del suo mestiere, il quale ormai fa solo piangere (gli altri, quelli che purtroppo capiscono la tragedia verso la quale stanno conducendo l’Italia come nulla fosse). E non si fermeranno qui perché già è stato dato l’annuncio della prossima mossa, la quale è stata subito accolta e supportata niente meno che da Giancarlo Caselli, il quale, anche se in pensione da tempo, non ha voluto perdere l’occasione propizia per dire la sua su come gli italiani dovrebbero essere governati dal punto di vista della amministrazione della giustizia. I pentastellati, infatti, in ciò corroborati dalla saggezza giuridica di Caselli, intendono abolire il grado di appello del processo penale: questo secondo grado di giudizio, secondo costoro, sarebbe defatigante e troppo dispendioso in termini di risorse e di tempo; secondo Caselli invece l’appello sarebbe stato introdotto per tutelare le classi subalterne da magistrati troppo vicini a quelle dominanti, ma oggi, non esistendo più questo pericolo, esso dovrebbe esser subito abolito nel nome della celerità e speditezza. Benissimo. Peccato sia davvero difficile mettere insieme tante visioni distorte della realtà come si è fatto in questo caso. Innanzitutto, l’appello esiste da tempo immemorabile e non ha nulla a che vedere con la tutela delle classi deboli. Già nel 509 A.C., infatti, la Lex Valeria consentiva - nell’ordinamento arcaico ramano - a chi fosse stato condannato a morte per gravi reati di appellarsi al popolo. Insomma, venticinque secoli or sono i giuristi romani mostravano più cognizione di causa dei pentastellati e di Caselli. Non mi meraviglio. Inoltre, pensare di abolire l’appello è atto di grave tracotanza, un indelebile peccato non contro Dio, ma contro la ragione. Infatti, la ragione sa bene di non poter fuoriuscire dai limiti che le sono propri e perciò si esercita più e più volte sullo stesso problema al solo scopo di ridurre i possibili errori, non potendosi questi in ogni caso mai evitare in modo assoluto. Insomma, consapevole dei propri limiti e dei possibili errori che questi comportano, la ragione non si accontenta del primo giudizio che riesca a confezionare, ma pretende che questo sia sottoposto ad una prova di resistenza, ad un secondo grado di giudizio: questo e null’altro è l’appello nel processo. Si tratta di una necessaria prova di resistenza alla quale sottoporre il giudizio di primo grado, allo scopo di ridurre - non mai di eliminare - i margini di errore. Si badi. Quelle accennate sono pure ovvietà in sede epistemologica, ma si vede che i Cinque Stelle e Caselli non ne hanno notizia: è bene allora che si mettano un poco sui libri a studiarle, anche perché nel processo penale non si discute di teorie cosmologiche o di astrazioni teoretiche, ma di una dimensione molto più importante, la libertà personale. Forse a loro non importa molto, ma ad alcune decine di milioni di italiani invece sì. Da temere molto, infine, una sorta di piano B dei pentastellati i quali, quando si tratta di minacciare o disintegrare la libertà personale, son pronti a tutto e non si arrendono facilmente. Essi infatti vorrebbero abolire un altro principio cardinale dell’ordinamento giuridico dello stato di diritto, vale a dire il divieto di reformatio in pejus in appello. Secondo questo venerando e irrinunciabile principio, se un imputato propone appello non potrà vedersi condannato ad una pena peggiore di quella già a lui in primo grado inflitta, tranne nel caso in cui ad appellare sia anche il pubblico ministero: in questo caso sarà possibile anche aumentare la pena. Tutti capiscono - meno i pentastellati - quale sia il fondamento di civiltà giuridica di un tale divieto: si vuole garantire che l’imputato sia libero di appellare una sentenza di condanna, senza temere un aumento di pena in caso di rigetto dell’appello. E ciò perché lo stato di diritto prende le mosse dalla presunzione di non colpevolezza dell’imputato, il quale, proprio per questo, va garantito nei suoi diritti fondamentali. Invece, i Cinque Stelle non ce la fanno proprio. Non riescono a digerire questa affermazione e partono invece dal principio opposto, quello secondo cui l’imputato è per definizione colpevole: ma se colpevole è - nella fantasia malata dei benpensanti - a che serve l’appello? Meglio abolirlo! E a che serve quel divieto di riforma in peggio? Lo si abolisca subito! Dirò di più: se l’imputato è per definizione colpevole, non si faccia proprio il processo e si passi direttamente dalla formulazione dell’accusa alla esecuzione della pena! Come faceva Stalin: tutti in Siberia senza processo per una ventina d’anni! Poi si vedrà. A prescindere poi dal fatto che già oggi, come accennato, se il pubblico ministero proponga appello, allora il divieto di riforma in peggio non opera più. E allora i casi son solo due: o la Procura non propone appello e allora opera il divieto di riforma in peggio, anche perché se perfino la pubblica accusa è soddisfatta della pena inflitta in primo grado, non si vede perché la si dovrebbe aumentare all’imputato che sia il solo ad appellare; oppure la Procura propone appello e allora il divieto di riforma in peggio non opera. E allora? Di cosa stiamo parlando? Cosa c’è da modificare in questa disciplina? I Cinque Stelle non lo sanno. Letteralmente. Eppure governano. Questa la vera tragedia. Lite bis sulle intercettazioni, il M5S vuole un’altra proroga di Domenico Cirillo Il Manifesto, 10 dicembre 2019 Bonafede tenta lo stop della riforma Orlando. Irritazione Pd, ma si tratta. Verso un accordo complessivo che riguarda anche la prescrizione: stop di due anni dopo il primo grado. E sugli ascolti non rilevanti l’ultima parola ai pm. Il quarto rinvio della riforma delle intercettazioni, firmata dall’ex ministro Pd della giustizia Orlando alla fine del 2017 e bloccata già tre volte dal ministro M5S Bonafede, si è materializzato nel pomeriggio di ieri al senato come emendamento alla legge di bilancio. Ma è sparita quasi subito assieme al resto del provvedimento “mille proroghe”, accompagnata dalla “irritazione” del Pd verso l’alleato 5 Stelle. I due partiti avevano appena ripreso la trattativa sulla giustizia, nella quale le intercettazioni fanno parte di un dare-avere assieme alla prescrizione, e tutto rischiava di saltare per il blitz tentato sulla riforma degli ascolti da parte del ministero di via Arenula. Blitz bloccato: la trattativa sulla giustizia ritorna al punto di partenza. Sempre in salita. Il ministro Bonafede si era deciso a tentare la strada dell’ennesimo rinvio - dopo quelli del luglio 2018, aprile 2019 e agosto 2019 - di una legge che non condivide affatto, cercando di approfittare del “mille proroghe” che per qualche ore la maggioranza ha pensato di poter inserire come emendamento alla legge di bilancio. Contrariamente al solito, quando questo provvedimento di fine anno ha sempre preso le vesti di un decreto “omnibus” emanato a ridosso di Natale. Si è fatto in tempo a prendere nota delle motivazioni del ministro. Che chiedeva il rinvio “tenuto conto di alcune necessità organizzative e di realizzazione complessiva delle sale di ascolto di alcuni uffici, connessa a una valutazione più generale”. La riforma prevede infatti che le intercettazioni ritenute non rilevanti per le indagini non vengano più trascritte, neanche nei brogliacci, così da evitare in partenza il rischio che possano essere pubblicate. È consentito però ai difensori ascoltarle, in queste salette da allestire, senza estrarne una copia. Bonafede ha provato a fermare la riforma, che nel 2017 aveva scontentato per certi versi sia i magistrati che gli avvocati, e certamente è criticata dalla maggioranza dei giornalisti, individuando “nel 30 giugno 2020 la data più opportuna per a piena funzionalità delle strutture e degli uffici”. Inevitabile domandarsi a questo punto perché il ministro in un anno e mezzo non abbia pensato a preparare queste strutture, ma la risposata è semplice: i 5 Stelle hanno sempre pensato di sbarazzarsi di questa riforma. Avendone peraltro già modificato una parte, quella delicatissima sui cosiddetti trojan - i captatori informatici - nella legge “spazza-corrotti”. La riforma delle intercettazioni dovrebbe entrare in vigore il prossimo primo gennaio ed è su un piatto della bilancia, dove sull’altro c’è la nuova prescrizione così come disegnata dai 5 Stelle. Il Pd ha espresso “irritazione” per questa mossa “unilaterale” ed è riuscito a fermare la manovra. Salvando il dialogo sulla prescrizione che sta trovando una strada per uscire dall’angolo delle posizioni contrapposte. I 5 Stelle infatti non sono più così contrari a trasformare l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado in un’effettiva sospensione, più lunga di quella già prevista nel 2017 sempre da Orlando - da 18 mesi a due anni - insieme con la previsione di tempi massimi - ma lunghi - per i successivi gradi di giudizio. La previsione della proroga sulle intercettazioni, ha spiegato il ministero di Bonafede dopo aver ingranato la marcia indietro, “è stata effettuata in via meramente cautelativa, considerate le difficoltà tecniche che avrebbe comportato per le procure un’entrata in vigore dal 1 gennaio”. In realtà i procuratori capo delle principali città avevano manifestato al ministro soprattutto una preoccupazione sul regime transitorio, non sapendo come comportarsi con le intercettazioni in corso. Le interlocuzioni con il Pd sono in corso e il ministro grillino chiederà, anche in questo caso, una disponibilità a cedere qualcosa, per esempio prevedendo un ruolo del pm oltre a quello della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni rilevanti. E quando l’accordo sarà stato raggiunto, si troverà spazio nel Mille Proroghe, “eventualmente anche con un decreto”. Ira dem su Bonafede: “Un’imboscata sulle intercettazioni” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 10 dicembre 2019 Il ministro prova a rinviare la riforma Orlando. In serata la frenata. È ancora stallo sulla prescrizione, la mediazione sembra lontana. Mentre perdura lo stallo alla messicana sulla prescrizione, M5S e Pd si sparano (anche alle spalle) sulle intercettazioni. La riforma dell’ex ministro Pd Orlando, rinviata dal successore grillino Bonafede quando era al governo con la Lega, dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio. Ma ieri il Pd ha scoperto dalle agenzie di stampa che Bonafede, senza informare gli alleati, ha inoltrato a Palazzo Chigi la richiesta di inserire nel decreto Mille Proroghe un nuovo rinvio di sei mesi. La norma era già bella e scritta: “Alcune necessità organizzative e di realizzazione complessiva delle sale di ascolto di alcuni uffici, connessa a una valutazione più generale, portano a individuare nel 30 giugno 2020 la data più opportuna per la piena funzionalità delle strutture e degli uffici”. Mentre Forza Italia parlava di “suk delle leggi sulla giustizia”, la reazione del Pd era di sconcerto e irritazione. Sia per il metodo unilaterale, sia per la pretesa di trattare le due riforme parallele (prescrizione e intercettazioni) in modo diverso: la prima implacabilmente in vigore allo scoccare del Capodanno in quanto targata M5S; la seconda chissà, tanto è figlia di un alleato minore. La contraerea Pd si è attivata ai più alti livelli, coinvolgendo lo stesso Orlando e soprattutto il capodelegazione Franceschini, deputato a risolvere le questioni politiche con intervento diretto su Palazzo Chigi. In serata, il Pd riteneva di aver bloccato “l’imboscata” di Bonafede. Il quale derubricava la norma incriminata a mera “formula cautelativa” e faceva trapelare “l’ampia disponibilità a trovare un accordo, eventualmente anche con un decreto legge”, corroborata dall’esistenza di “margini di convergenza in base alle interlocuzioni già in atto”. Dunque le intercettazioni rientrano nel mazzo della trattativa sulla giustizia, insieme alla prescrizione e alle riforme processuali, mentre il decreto Mille Proroghe dovrebbe essere scorporato dalla legge di bilancio. Ma mentre Bonafede sventola ramoscelli d’ulivo, il Pd l’ha presa male. “Una volta passi, ma se questo è il suo metodo la pazienza a un certo punto finisce”, spiegano al Nazareno. Non è infatti la prima circostanza nella quale Bonafede si muove su dossier importanti bypassando il principale alleato. Dallo scudo penale sull’Ilva (il Pd si trovò il cerino in mano mentre lo staff del ministro lasciava fare ai grillini in commissione giustizia) alla riforma delle carceri. Che Bonafede aveva fatto passare nel primo consiglio dei ministri, togliendo potere ai direttori in favore della polizia penitenziaria e allarmando anche i giudici di sorveglianza. Il clima, dunque, è tutt’altro che pacificato. Il Pd sarebbe anche favorevole a un “disarmo bilanciato”, con rinvio di entrambe le riforme: prescrizione e intercettazioni. Ma Bonafede sul rinvio della sua riforma non sente ragioni. Sostiene che non ce n’è bisogno: applicandosi ai nuovi reati, produrrà effetti non prima di quattro anni. In subordine, il Pd ha messo sul piatto due ipotesi, per salvare l’onore del ministro ma anche il proprio. La prima è l’introduzione della “prescrizione processuale”, con limiti alla durata di ciascuna fase. La seconda è un’ampia sospensione (36 mesi al posto degli attuali 18) del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, al posto del blocco assoluto voluto da Bonafede. Respinte entrambe le proposte (il ministro l’ha spiegato sabato nell’intervista a La Stampa), è stallo. Ora si attende la convocazione del premier Conte. Quando era nato il governo, nel primo vertice sulla giustizia aveva chiesto a M5S e Pd di lavorare per trovare un accordo da soli. Finora non ci sono riusciti. Un altro assist alla gogna giudiziaria di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 dicembre 2019 Il M5S non vuole che entri in vigore la legge sulle intercettazioni. Il Pd che fa? Rischia di slittare per la quarta volta l’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni approvata nel dicembre 2017 dal governo Gentiloni e fortemente voluta dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando. Nella bozza del decreto Mille Proroghe che il governo rossogiallo si appresta a varare è spuntato il rinvio di altri sei mesi, dal 31 dicembre 2019 al 30 giugno 2020, dell’entrata in vigore della legge che mira a tutelare il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte nelle indagini e a limitare il meccanismo infernale della gogna mediatico-giudiziaria. La decisione di disporre l’ennesimo rinvio della riforma (che originariamente avrebbe dovuto essere applicata a partire dal 26 luglio 2018) non sarebbe stata concordata dal Movimento 5 stelle con gli alleati di governo e avrebbe causato l’“irritazione” del Pd, già impegnato in continue trattative con i grillini per decidere il destino della riforma che abroga la prescrizione, la cui entrata in vigore è prevista per il 1° gennaio 2020. Il ministro Bonafede ha escluso definitivamente qualsiasi ipotesi di rinvio della legge che introduce il processo eterno, e se la proroga della riforma delle intercettazioni venisse confermata saremmo di fronte a un doppio schiaffo giustizialista in faccia al Pd. La riforma Orlando, pur non perfetta, ha il merito di porre un freno alla pubblicazione sui giornali di conversazioni penalmente irrilevanti (utili solo a distruggere la privacy e la reputazione dei soggetti coinvolti in inchieste giudiziarie), vietandone la trascrizione nei brogliacci di indagine e responsabilizzando i pubblici ministeri, senza porre alcun limite all’utilizzo delle captazioni come strumento di indagine. In discussione stavolta non c’è solo una riforma che i dem approvarono quando erano al governo (e che ora dovrebbero disconoscere), ma la stessa idea di giustizia che si immagina per il paese: fondata su processi eterni e mediatici, come desiderano i grillini, oppure rapida e rispettosa dei diritti fondamentali delle persone, come richiesto dalla nostra Costituzione. Per il Pd è giunto il momento di scegliere. Un’idea: vietiamo le intercettazioni (come da Costituzione) di Piero Sansonetti Il Riformista, 10 dicembre 2019 I 5 stelle sembra che abbiano fatto saltare il patto col Pd (noi ci prendiamo l’abolizione della prescrizione e voi quella delle intercettazioni). Resta un fatto: intercettare è illegittimo. Le voci di corridoio dicevano che è in corso un patto, un pochino scellerato, tra il Pd e i 5 Stelle. Il patto - lo riferiva anche Repubblica, in genere informata bene - era questo: il Pd ammainava la bandiera bianca sull’abolizione della prescrizione e in cambio otteneva il via libera per la riforma Orlando sulle intercettazioni. Uno a me e uno a te. Il risultato di questo accordo sarebbe stato pessimo, perché l’abolizione della prescrizione è una ferita mortale al garantismo e al diritto, mentre la riforma Orlando è solo un timido, timidissimo tentativo di affermare il principio che intercettare la gente e poi sbattere le intercettazioni sul giornale non è proprio la più bella e pura delle attività umane. Ora proviamo anche a capire cosa non funzionasse della riforma Orlando. Prima però dobbiamo dirvi che le voci di corridoio pare che fossero infondate. E che le cose stiano diversamente. I 5 Stelle portano a casa la fine della prescrizione e il principio del “processo eterno” (come diritto inalienabile del magistrato accusatore) ma non danno niente in cambio. Si tengono le intercettazioni senza limiti esattamente come sono. Diverse, drammaticamente diverse da quelle di quasi tutti i Paesi civili. Basta dire che in un paese rigorosetto come la Gran Bretagna il numero di intercettazioni che vengono realizzate ogni anno è di cento volte (cento volte) inferiore a quello delle intercettazioni italiane. Sebbene il livello della criminalità inglese sia decisamente superiore al nostro (almeno per numero di delitti e in particolare per numero di omicidi). La riforma Orlando viene rinviata per ora di sei mesi. Poi si vedrà. Prevedeva modestissime limitazioni alle possibilità di intercettare, qualche limitazione in più alla possibilità di pubblicare sui giornali, e l’obbligo di cancellazione delle intercettazioni ritenute non rilevanti dal punto di vista processuale. Il problema principale sorgeva proprio qui. Chi decide cosa sia rilevante? La riforma Orlando assegnava questo compito alla polizia giudiziaria. L’Anm chiedeva che invece questo compito fosse assegnato al Pm. In tutti e due i casi venivano esclusi gli avvocati difensori. I quali avrebbero potuto ascoltare solo le intercettazioni ritenute utili all’accusa. E le Camere penali osservavano: come si fa a parlare di condizioni paritarie tra accusa e difesa se l’accusa decide quali intercettazioni usare e (se non altro per umano riflesso condizionato) tenderà sempre a privilegiare le intercettazioni che ritiene sfavorevoli per l’imputato rispetto a quelle che potrebbero scagionarlo, mentre la difesa può solo accettare il pacchetto pronto, confezionato da polizia e Pm? Questo era il punto debole della riforma Orlando. La quale, come quasi tutte le riforme della giustizia approvate dagli anni 50 a oggi, era una riforma che non intaccava lo strapotere della magistratura e la prevalenza assoluta dell’accusa sulla difesa. Né indeboliva molto la forza della stampa, alla quale non veniva imposto nessun bavaglio ma solo chiesto, gentilmente. di rispettare alcune norme essenziali del diritto. E allora? Allora restano dei punti di principio ai quali i 5 Stelle non rinunciano. A cosa non rinunciano? All’idea che si possa comunque prendere in considerazione l’idea di regolamentare le intercettazioni. I 5 Stelle, come l’associazione dei magistrati (che è un po’ la maestra ideologica dei grillini) ritengono che le intercettazioni non vanno regolamentate ma aumentate. Più sono, più è sicura la società. Più sono, meno sono le possibilità che si realizzino fatti di corruzione. La tendenza di uno stato moderno, secondo i 5 stelle, deve essere quella al controllo totale, della società e della politica. Per questo vivono come un freno, o addirittura un insulto alla loro etica, una norma che - anche se poi non ha conseguenze - si ponga sul piano ideale il compito di regolare la più nobile delle attività umane. Davvero le intercettazioni sono una garanzia di buon funzionamento delle indagini? No. In genere non portano a molto. Spesso distorcono la verità, perché non vengono capite le frasi, o sfugge l’ironia, o non si conoscono i contesti, i lessici di gruppo, o di amici, o familiari. È rarissimo che una intercettazione inchiodi. In genere crea equivoci. E oltretutto la maggior parte delle intercettazioni che vanno a processo non sono dirette ma - come si dice in gergo - “relata refero”. Cioè riferisco di cose sentite dire. Spesso attraverso meccanismi di millantato credito, o semplicemente di fantasia. E molto probabile che se si facesse un bilancio generale si scoprirebbe che le intercettazioni deviano le indagini, depistano, molto più di quanto aiutino ad accertare la verità. E allora a cosa servono? A realizzare quello che molto bene descriveva ieri sul Corriere della Sera Angelo Panebianco: aumentare il potere dei magistrati, amplificare le tendenze liberticide del popolo e consolidare una repubblica giudiziaria che ormai è molto lontana dallo Stato di Diritto. C’è una soluzione? Sì, su questo piano ce n’è una semplicissima: applicare la Costituzione e abolire le intercettazioni e le attività di spionaggio sui cittadini. La ministra Lamorgese: “Pene più severe per gli spacciatori recidivi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 dicembre 2019 L’argomento “droga” è sempre scivoloso, e affrontarlo con pragmatismo e serietà richiede un coraggio non sempre a disposizione. Ecco perciò che anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che non è certo Salvini, trovandosi a Torino, città martoriata dal mercato degli stupefacenti - sempre più ampio, remunerativo e pericoloso in ogni città - alla domanda dei giornalisti su come il governo giallorosso pensi di affrontare il problema degli spacciatori che in alcune piazze dettano legge anche sotto gli occhi delle forze dell’ordine, ha annunciato la più ovvia (apparentemente) delle soluzioni. “Noi siamo per la certezza del diritto e della pena - ha risposto - e quindi nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell’inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio”. Un annuncio che lascia un po’ interdetti perché l’art. 73 del testo unico sulle droghe (L. 309/90), anche dopo l’intervento della Corte costituzionale che nel 2014 ha cancellato la legge Fini-Giovanardi, prevede pene che vanno dai 6 ai 22 anni di carcere per gli spacciatori, soprattutto se recidivi (da 1 a 6 anni per i fatti di “lieve entità”). E infatti, la popolazione penitenziaria è composta per un terzo di persone che hanno violato le leggi sulle droghe. Spesso, tossicodipendenti. Ma la titolare del Viminale ha motivato così la sua posizione: “Quando un pusher viene arrestato, ritrovarlo il giorno dopo nello stesso angolo di strada a delinquere scoraggia i cittadini e demotiva anche le forze dell’ordine che fanno un’attività complessa. Per questo, nei tempi e nei modi giusti, porrò il problema almeno in fase di reiterazione del reato. Certo - ragiona Lamorgese - non possiamo portare in carcere tutti quelli che arrestiamo perché modificare la norma in questi termini sarebbe complicato, ma almeno in fase di reiterazione del reato è un impegno che adotteremo non solo per coerenza con le norme ma anche per rispetto a cittadini e forze dell’ordine”. Va chiarito però che la ministra, a Torino per sottoscrivere l’accordo per la sicurezza integrata e lo sviluppo, assieme alla sindaca Appendino, agli enti locali, alla Confcommercio e ai rappresentanti religiosi e dell’associazionismo, non si è soffermata solo alla questione repressiva ma ha allargato il discorso al ruolo delle scuole, dello sport, delle famiglie, delle associazioni e pure degli oratori. Peccato non l’abbia neppure sfiorata l’idea di parlare di legalizzazione delle sostanze leggere. Cosa che - a detta perfino della Direzione nazionale antimafia, per esempio - eliminerebbe parte del problema alla radice. Chissà, magari la ministra che oggi a Roma fortunatamente si occuperà di sicurezza firmando un protocollo in prefettura con la Camera di commercio, l’Acea (partecipata del Comune per l’energia) e l’Enel al fine di illuminare le strade di periferia romane durante la notte con le luci delle vetrine, tornerà con più calma sull’argomento. E ragionando meglio su come combattere lo spaccio e la criminalità ad essa collegata, alzerà lo sguardo verso un traguardo già raggiunto con soddisfazione in molti Paesi democratici, perfino lì dove il proibizionismo è nato, negli States. Addio a Frigo, padre del giusto processo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2019 Scomparso a 84 anni, giudice costituzionale e presidente dei penalisti. Con la morte di Giuseppe Frigo, scomparso domenica scorsa a 84 anni, l’Italia perde un grande giurista. Il noto penalista è stato giudice della Corte costituzionale dal 2008 al 2016. Un incarico che ha dovuto lasciare nel 2016 per motivi di salute. Bresciano, classe 1935, laureato in giurisprudenza con lode nel 1957, Giuseppe Frigo è stato professore di diritto processuale penale comparato ed europeo presso la facoltà di giurisprudenza alla Statale di Brescia. Credeva nel giusto processo, tanto da mettere anche la sua firma sulla riforma. Nel suo lungo curriculum di giurista c’è la presidenza dell’Unione delle camere penali: ruolo che, ha ricoperto con passione dal settembre del i998 al settembre del 2002. Come consulente del ministero della Giustizia ha collaborato nella stesura di più testi normativi: dall’esercizio dell’azione civile nel processo penale alle investigazioni difensive dall’udienza preliminare, al recupero dell’oralità nel dibattimento. Per anni è stato collaboratore del Sole 24 Ore e di Guida al Diritto, con un esordio legato alla nascita del nuovo Codice di procedura penale e all’impegno del giornale per una riforma considerata di straordinaria importanza per l’amministrazione della giustizia in un paese democratico: un rito penale (almeno tendenzialmente) accusatorio, al posto di un codice inquisitorio pieno di strappi e rattoppi recati dalle sentenze della Consulta per evitare un codice processuale incostituzionale, senza però poterne modificare l’impianto. E il Sole 24 Ore decise di pubblicare immediatamente, con i tempi del quotidiano, il nuovo Codice commentato e annotato. Fra i componenti della commissione ministeriale presieduta dall’avvocato e professore Gian Domenico Pisapia, Giuseppe Frigo era l’unico avvocato “e basta”. Ma Giuseppe Frigo è stato per la giustizia italiana questo e molto di più. No alla colpa dell’ente senza prova della prassi scorretta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2019 La società non risponde di cooperazione nel reato di lesioni gravissime, per la violazione sistematica delle norme sulla sicurezza lavoro, se manca la prova di una prassi contro la legge instaurata nell’azienda. La Cassazione, con la sentenza 49775, accoglie il ricorso di una Srl condannata, in entrambi i gradi di giudizio, per violato le norme in materia di sicurezza, concorrendo così a determinare un grave incidente. Infortunio del quale era stato vittima un auto-trasportatore, dipendente di un’altra ditta, rimasto gravemente ustionato dopo essere stato investito dal bitume. I giudici confermano la responsabilità nel reato, comunque prescritto, del delegato per la sicurezza all’interno della società ricorrente, ma negano quella della Srl. L’accusa era di non aver informato le ditte di autotrasporto sui rischi dell’ambiente di lavoro e, in particolare sulle corrette modalità di carico. Ad avviso della Corte d’Appello la società era responsabile per l’illecito amministrativo previsto dalla 231 (articolo 25-septies, comma 3) perché aveva agito senza un modello organizzativo utile a prevenire delitti del tipo di quello commesso dal delegato alla sicurezza. E questo, per ottenere il vantaggio di una più rapida immissione sul circuito produttivo del materiale ed evitare un procedimento più costoso. Per la Suprema corte la motivazione non regge. Non c’era, infatti, una prova che presso la Srl ci fosse una prassi “contra legem, la cui sussistenza chiama in causa la vigilanza del datore di lavoro”. E soprattutto presuppone la conoscenza o la conoscibilità da parte sua. Nello specifico è chiamato in causa un soggetto qualificato come “delegato” del datore, anche se in realtà mancavano anche gli elementi dell’esistenza della delega. Non dimostrata la presunta prassi né la conoscenza o la conoscibilità di questa da parte dei responsabili. Solo alcuni tra i testimoni avevano parlato di una modalità residuale adottata in passato. La motivazione è lacunosa anche per quanto riguarda l’interesse e il vantaggio dell’ente, richiesto dall’articolo 5 della 231 per la responsabilità. E a questo fine non basta il sommario richiamo alla sentenza di primo grado in cui si faceva un breve riferimento a un non meglio precisato risparmio sui tempi di lavoro e sui costi di smaltimento del bitume in modo non conforme. La Cassazione ricorda che per la responsabilità degli enti derivante da reati colposi in caso di violazione della normativa antinfortunistica i criteri di imputazione del vantaggio e dell’interesse - entrambi da riferire a chi agisce e non all’evento - sono più stringenti. Il primo c’è quando l’autore del reato viola consapevolmente le norme cautelari, con l’intenzione di far risparmiare l’ente, a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo. Il secondo scatta quando l’autore del reato viola sistematicamente le norme contro gli infortuni ricavandone oggettivamente un vantaggio per l’ente “sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso”. Criteri nello specifico non seguiti. Né è valido l’assunto della violazione sistematica delle norme a tutela della sicurezza senza prova di una prassi scorretta. Se la società non ha disponibilità scatta il sequestro per equivalente alle persone fisiche di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 18 novembre 2019 n. 46745. Sequestro per equivalente nei confronti dei beni delle persone fisiche solo dopo la verifica della mancanza di disponibilità da parte della persona giuridica. Lo afferma la corte di cassazione con la sentenza n.46745 / 2019 depositata il 18 novembre 2019. Il caso trae origine dal decreto di sequestro emesso dal Gip nei confronti degli imputati di violazioni tributarie ad esserne oggetto erano cospicue somme di denaro di proprietà degli stessi. Il provvedimento si era reso necessario dato che questi ultimi avvalendosi dell’ausilio di una persona giuridica avevano realizzato numerose violazioni tributarie. Il provvedimento di sequestro per equivalente emesso dal Gip finalizzato alla successiva confisca, tuttavia veniva fatto oggetto di impugnazione alla quale conseguiva la revoca da parte del tribunale del riesame. I giudici del riesame ritenevano il decreto emesso dal Gip fosse del tutto illegittimo dato esso aveva direttamente ad oggetto beni delle persone fisiche senza essere preceduto da una verifica dell’eventuale disponibilità di beni da parte della persona giuridica che lo avrebbe potuto renderne superflua l’esecuzione. Il procuratore generale ricorreva allora per cassazione, deducendo in apposito motivo l’evidente illegittimità del provvedimento del tribunale del riesame, infatti ad avviso del pubblico ministero ricorrente il decreto del Gip era ad ogni modo valido in quanto basato su di un corretto presupposto, ed in particolare sulla constatazione che le persone fisiche che si erano viste privare dei propri beni avevano commesso i reati a proprio favore traendone utili e vantaggio. Il sequestro dei loro beni pertanto era del tutto legittimo rendendosi lo stesso necessario sulla base della situazione di fatto complessiva. Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici ella corte di cassazione con la sentenza qui in commento. La confisca diretta e per equivalente - La questione piuttosto complessa riguarda il rapporto tra la confisca diretta e quella per equivalente alle quali il sequestro cautelare finalizzato. In altri termini, in quali casi si potrà dare corso al sequestro dei beni delle persone fisiche che avevano realizzato gli illeciti. Le soluzioni sono di due diversi tipi potendosi agire nei confronti dei predetti beni in via diretta o solo successivamente all’accertamento della mancanza di beni da parte della persona giuridica. I giudici della corte suprema di cassazione ritengono la decisione dei giudici del riesame del tutto legittima sulla base della precedente giurisprudenza presente e diffusa nel supremo collegio. Infatti, osservano i giudici del supremo collegio in una loro precedente sentenza addirittura a sezioni unite come nel caso in cui si voglia dare corso ad un sequestro per equivalente finalizzato alla confisca nella medesima forma debba essere seguita una ben precisa carenza procedimentale. Osservano i giudici della corte suprema di cassazione come per potere essere ritenuto legittimo il decreto di sequestro nei confronti dei beni della persona fisica debba essere preceduto da una verifica circa le eventuali disponibilità della persona giuridica. Nel solo caso infatti in cui venga accertato la mancanza di beni nella disponibilità della persona giuridica idonei a soddisfare le ragioni dell’erario si possa dare corso al sequestro dei beni delle persone fisiche autrici materiali del reato. L’operato del Gip pertanto era stato illegittimo dato che l’emissione del decreto di sequestro non era stata preceduta da una verifica circa le eventuali disponibilità della persona giuridica. No all’espulsione del migrante unico genitore di un figlio in Italia Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 9 dicembre 2019 n. 32041. Il divieto di espulsione si applica anche allo straniero che ha legami familiari nel nostro paese anche se non è nella condizione di poter richiedere il ricongiungimento familiare. Lo ha precisato la I sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza 9 dicembre 2019 n. 32041. L’occasione per ribadire questo principio è stato il contenzioso sorto a seguito del diniego alla protezione internazionale chiesta da un migrante che aveva avuto un figlio in Italia. I magistrati hanno specificato che si sarebbe dovuto “trovare un giusto equilibrio tra i vari interessi concorrenti interrogandosi sull’esistenza di legami familiari che sarebbero stati pregiudicati dal rimpatrio del richiedente asilo e sulla necessità di dare tutela alla situazione di vulnerabilità costituita dalla possibile interruzione di tale legame, nell’interesse tanto del minore quanto del genitore e non vedere interrotto il rapporto fra loro esistente, tramite il riconoscimento della protezione umanitaria”. E questa necessità è ancora più forte quando il richiedente asilo - come nel caso esaminato dalla Corte - è l’unico genitore del minore e costituisce quindi l’unica possibilità per il bambino di mantenere un legame con la propria famiglia naturale. Napoli. De Magistris nomina Pietro Ioia Garante cittadino dei detenuti di Leandro del Gaudio Il Mattino, 10 dicembre 2019 Il sindaco ed ex pm Luigi de Magistris ha nominato Pietro Ioia Garante dei detenuti per la città di Napoli. Un uomo impegnato in tante battaglie, ma anche pregiudicato. Una nomina che solleva reazioni di segno contrario, che alimenta posizioni divergenti. Parliamo della decisione da parte del sindaco Luigi De Magistris di affidare all’ex detenuto Pietro Ioia il ruolo di garante dei detenuti della città di Napoli. Fortemente difesa dal primo cittadino, la nomina di Ioia viene invece duramente contrastata dai rappresentanti di organi sindacali. Forti riserve vengono espresse dal Sappe, ma anche da Ciro Auricchio, in qualità di segretario regionale Unione sindacati polizia penitenziaria, per il quale Ioia non avrebbe “i requisiti professionali richiesti dal bando (come la laurea in scienze giuridiche), come per altro registrato in altri contesti cittadini”. Va invece all’incasso Ioia, che ricorda dal canto suo i passi in avanti fatti nel corso di una vita spesa in parte - almeno 22 anni - all’interno di una cella. Ma andiamo con ordine, proviamo ad entrare nel merito delle posizioni espresse dopo la scelta di De Magistris. Spiega l’assessore alle politiche sociali e al lavoro Monica Buonanno: “Il sindaco Luigi de Magistris ha appena nominato Pietro Ioia Garante dei Detenuti della città di Napoli. È il risultato di un lavoro teso alla salvaguardia della dignità delle persone e rappresenta una svolta storica per la tutela dei diritti civili, perché un Paese veramente libero è quello che promuove politiche tese a tutelare e a far rispettare i diritti di ogni persona, anche quelle detenute, garantendone la dignità ed eliminando ogni forma di marginalità sociale”. Diverso il ragionamento delle sigle sindacali che rappresentano gli agenti di polizia penitenziaria, che criticano l’operato di Ioia per alcune esternazioni ritenute strumentali sul mondo delle carceri. Possibile che sullo sfondo ci siano comunque le denunce fatte da Ioia negli anni scorsi, a proposito delle indagini sulla cosiddetta cella zero, su cui è stato condotto un processo. Ma ecco le riflessioni dello stesso Ioia: “Prima ero un narcotrafficante e a Napoli mi muovevo tra Sanità e Forcella. Ho scontato 22 anni e 6 mesi di carcere, di cui 21 in Italia e circa due in Spagna. Prima la mia vita era caotica: donne, soldi, auto di lusso e cocaina. Ma adesso la mia vera vita è questa: aiutare gli altri. Oggi quando mi ferma la polizia, mi saluta e mi dice di avermi visto in tv o di aver letto di me sui giornali italiani e stranieri. Prima mi fermavano per portarmi in questura e dirmi di spogliarmi. Ai ragazzi che scelgono la malavita come strada dico: seguite miti positivi, non quelli sbagliati della camorra. Fino a tre mesi fa lavoravo in un garage, che poi ha chiuso. Oggi lavoro come tutor a Gesco per i minori a rischio o che hanno commesso il primo reato. Dalle mani di Ilaria Cucchi ho ricevuto il Premio intitolato a suo fratello Stefano e quando le chiesi perché a me, mi rispose: per le tue battaglie. Il mio obiettivo come garante? Come faccio da 14 anni con la mia associazione Ex Don, difendere i diritti dei detenuti sui temi della sanità, del sovraffollamento e del reinserimento lavorativo. Ma non dimentico la polizia penitenziaria, che soffre per il sotto organico, nonostante io abbia denunciato lo scandalo della cosiddetta Cella Zero di Poggioreale”. Insomma, una nomina che ora attende un momento di distensione tra agenti di polizia penitenziaria e il nuovo garante. Napoli. Ioia, ex narcotrafficante Garante dei detenuti: “Anche i criminali possono cambiare” di Gaia Martignetti fanpage.it, 10 dicembre 2019 Pietro Ioia, ex narcotrafficante oggi attivista, è stato nominato Garante dei detenuti per il Comune di Napoli dal sindaco Luigi de Magistris. Ioia è stato il primo a denunciare le presunte violenze che sarebbero avvenute nella cosiddetta “cella zero”. Oggi è in corso un processo, per stabilire se queste denunce raccontino la verità su quanto avvenuto nel carcere napoletano di Poggioreale. Da narcotrafficante a Garante dei detenuti. Questa è la storia di Pietro Ioia, che dopo aver scontato la sua pena in diverse carceri italiane ed europee, come racconta, aver cambiato vita per amore dei suoi figli, oggi è stato nominato dal sindaco Luigi de Magistris Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale per il Comune di Napoli. Un incarico gratuito, come specificato nel bando a cui Ioia ha preso parte. Pietro Ioia è stato il primo a denunciare le presunte violenze che si sarebbero perpetrate all’interno del carcere di Poggioreale, a Napoli, nella cosiddetta cella zero. La cella zero sarebbe una cella non numerata, una sorta di sala d’aspetto, dove alcuni reclusi hanno denunciato di aver subito percosse da alcune guardie penitenziarie. Oggi è in corso il processo per stabilire se queste denunce raccontino o meno la verità su quanto accaduto nel carcere napoletano. Con Fanpage.it, il neo Garante prova a indicare i punti principali del suo mandato, della durata di 5 anni. Pietro Ioia, che significato ha questa nomina? “Questa nomina significa che se si vuole si può cambiare. Si può diventare vero uomo. Fa capire, ancora di più, che non solo Pietro Ioia può cambiare, ma chiunque. Anche il più grande criminale può cambiare vita in positivo. Non mi sarei mai aspettato di essere nominato Garante. Essendo un ex detenuto è tutto difficile, una volta ho cercato un lavoro e non me l’hanno dato. Anche in altre occasioni mi hanno rinfacciato che sono un ex detenuto. Non ci speravo, dico la verità”. Quali sono i tre punti che cercherà di portare avanti durante questo mandato? “Visitare le carceri, la prima cosa. Quello che mi mancava prima, quando ero solo un attivista, era visitare i detenuti reclusi, non solo quelli usciti dal carcere. Combattere il sovraffollamento e poter parlare anche per il corpo della Polizia Penitenziaria che è sotto organico”. Ha avuto modo di confrontarsi anche con il Garante regionale Samuele Ciambriello? “Stamattina sono stato da Ciambriello, gli ho portato due famiglie. Perché dove potevo arrivare io, arrivava lui. Quando non potevo fare molto portavo le persone da lui. Io e il professor Ciambriello collaboriamo già da diversi mesi, con i familiari dei detenuti. È stato sempre molto disponibile. Ha risolto diversi problemi”. Quando era giovane e scontava la sua pena, si aspettava di poter arrivare qui? “Non me lo sarei mai aspettato. Per questo devo dare sempre di più. Voglio dimostrare anche al più grande criminale che si può cambiare”. Roma. I colloqui a Rebibbia si svolgono all’aperto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2019 I parenti costretti ad attendere in strada il proprio turno prima di incontrare il congiunto sotto un gazebo. Il Garante del Lazio ha segnalato da tempo il problema. All’aperto, in balia delle intemperie e al freddo, con gazebo adibiti per permettere i colloqui con i familiari. Una denuncia che arriva direttamente dai reclusi della casa di reclusione di Rebibbia. Accade così che la pena si estende anche ai familiari dei detenuti, soprattutto a rimetterci sono gli anziani e i bambini che a volte - sempre secondo quanto denunciano i reclusi tramite una lettera - sono costretti a rinunciare al colloquio per l’impossibilità di avere un riparo dal freddo, dalla pioggia, o dall’umidità. Nel passato c’era una saletta interna adibita ai colloqui, ma risulta non a norma e quindi impraticabile. Eppure, nella recente riforma dell’ordinamento penitenziario, modificando l’art. 18 dell’Ordinamento si introduce un’attenzione particolare ai locali destinati ai colloqui con i familiari che devono favorire, “ove possibile, una dimensione riservata del colloquio”. Rebibbia non solo ne è carente, ma c’è anche il problema della mancanza di un altro spazio importante per le relazioni con la famiglia sono le sale d’attesa, dove i familiari attendono, in alcuni casi anche ore, prima di espletare le pratiche necessarie per poter poi svolgere i colloqui con i propri congiunti. Ciò significa che i familiari, prevalentemente donne con bambini o genitori più o meno anziani, sono costretti ad aspettare in strada il proprio turno. Altro motivo per il quale i colloqui si riducono. I detenuti del carcere di Rebibbia chiedono che la direzione predisponga dei locali idonei all’interno delle mura, per poter usufruire dell’incontro con i familiari in maniera serena, così come appunto è regolato dall’ordinamento penitenziario. Il Garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa è a conoscenza del problema e segnalato a tempo debito all’amministrazione, la quale sta provvedendo per risolvere questo problema. Ricordiamo che la Casa di reclusione di Rebibbia è un istituto costruito negli anni 50, a regime di custodia aperta. Si articola in 6 sezioni: due sezioni destinate a detenuti comuni di media sicurezza, una sezione per “minorati psichici”, un’altra sezione per collaboratori di giustizia, attualmente in ristrutturazione, la sezione appena ristrutturata, attualmente destinata ai collaboratori e la sezione per detenuti in regime di semilibertà. Roma. Nasce a Rebibbia la “casa degli affetti” di Renzo Piano di Laura Barbuscia La Repubblica, 10 dicembre 2019 Nella struttura penitenziaria uno spazio per recluse e familiari ricrea le condizioni di un ambiente domestico Un modo per dare normalità agli incontri con i parenti e permettere alle madri di mantenere il proprio ruolo. Niente sbarre o colloqui tradizionali sorvegliati. Ma spazio alle emozioni. Ha preso forma la “casa dell’affettività” nel carcere di Rebibbia, sezione femminile: un prefabbricato in legno di abete di 28 metri quadri, con tanto di soggiorno, angolo cottura e zona pranzo, dove le detenute potranno incontrare i propri familiari e condividere con loro un pasto frugale, seduti intorno a un tavolo. L’iniziativa fa parte del progetto M.a.ma. (Modulo per l’affettività e la maternità). E rientra in uno dei quattro lavori presentati dall’archistar genovese Renzo Piano al Senato - assieme a quelli di Padova, Milano e Siracusa - inseriti nell’iniziativa “GI24 anno 2019” (dove G sta per palazzo Giustiniani, I per il piano dove si trova lo studio e 24 per il numero della stanza assegnata al senatore a vita). Il progetto sul carcere rientra nel programma sul “rammendo” delle periferie e porta all’estremo l’idea di città di Renzo Piano. “Amo i centri, ma la vera sfida del futuro è nelle periferie - ha spiegato - Sono fabbriche di desideri e di aspirazioni. È nelle periferie che abita l’80, il 90 per cento delle persone che vivono in città. Quando ci lavori scopri che sono piene di energia e non solo, anche di bellezza umana e tout court”. Nulla di più periferico di un carcere e di Rebibbia per dare concretezza all’idea. Il piccolo spazio abitativo, grazie alla forma, rimanda istantaneamente all’idea tradizionale di casa. Al suo interno è dotato degli ambienti essenziali allo svolgimento delle attività tipiche di una vita domestica quotidiana. All’esterno, il tetto a falde inclinate e altre finiture proteggono il legno dagli agenti atmosferici e una piccola loggia dalla quale si accede all’ambiente interno. Nel giardino, poi, una magnolia e un eucalipto di grandi dimensioni, mettono in risalto il piccolo edificio, pensato per donare attimi di “normalità” alle detenute e ai propri cari. Ma anche per permettere alle “inquiline” dell’istituto penitenziario, in via Bartolo Longo, di mantenere un ruolo all’interno del nucleo familiare. Un modo per rendere meno traumatica la distanza. Il modulo è stato montato in un’area verde all’interno del recinto carcerario grazie ad un sistema di assemblaggio a secco. Mentre, tutta la parte strutturale di legno, composta da telai e travi di collegamento, insieme alle pannellature, sempre lignee, è stata realizzata da alcuni detenuti addetti alla falegnameria del carcere Mammagialla di Viterbo, con l’aiuto di alcune detenute di Rebibbia. Gli ultimi interventi di montaggio sono stati effettuati proprio alla presenza di Renzo Piano. A disegnare la casa, Pisana Posocco, docente di progettazione architettonica alla Sapienza e tre giovani architetti del G124: Attilio Mazzetto, Martina Passeri e Tommaso Marenaci, vincitori di una borsa di studio finanziata da Piano, che da quando è stato nominato senatore a vita (2013) devolve interamente il suo stipendio da parlamentare per supportare questo genere di opere. “La collaborazione più importante è stata quella instaurata con il Dap (il Dipartimento di amministrazione penitenziaria) che ha supportato la realizzazione del progetto - dice Posocco - Abbiamo pensato che l’architettura potesse essere l’occasione per dare modo a chi vive dentro a un carcere di immaginare un futuro”. Ed ecco l’idea di una casa, bisogno primario di tutti, ancora più forte per chi è costretto a starne lontano. Milano. “Non esistono ragazzi cattivi”. I detenuti del Beccaria al Torno di Castano Primo malpensa24.it, 10 dicembre 2019 Non è volata una mosca per due mattine all’Istituto Torno di Castano Primo, il 29 novembre e il 9 dicembre, quando il progetto “Vivere la legalità”, realizzato in collaborazione con l’associazione genitori, ha portato a scuola minorenni coinvolti in procedimenti giudiziari per aver commesso reati, poi detenuti nel carcere minorile Beccaria o affidati alla comunità Kairos, fondata nel 2000 da don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano. Scuola sguarnito argine - L’evento è stato progettato per sensibilizzare studenti e docenti sui fenomeni della devianza sociale e della reità giovanile, ma l’occasione ha permesso di avviare la riflessione sul sistema carcerario italiano, in grave emergenza perché gravato da carenze di investimenti, e sull’emergenza sociale che si sta facendo sempre più pressante nelle varie realtà lombarde e alla quale la scuola fa da primo, e sguarnito, argine. Le parole di John - Quando John inizia a parlare i trecento studenti vocianti di tutte le quarte e le quinte del Torno confluite in Aula Magna tacciono all’unisono e si fa un silenzio perfetto come nessun docente e nessuno spettacolo riuscirebbe ad ottenere da una fiumana di quasi diciottenni liberi dai banchi. John e gli altri magnetizzano l’uditorio perché raccontano drammi e storie non così distanti dalle vicende di tutti: la sala e il palco si specchiano in un processo di identificazione reciproca che è difficile non cogliere. Le liti con i genitori, il gruppo granitico di amici, e poi la droga, lo spaccio, o altri sbagli che d’un soffio si fanno reati gravi. Infine, l’arresto, e poi il carcere, estrema ratio in caso di minori, se va bene la comunità: John, Osama, Christian, Ciro, Vadro, Zaccaria questo hanno raccontato sotto la guida di Don Claudio Burgio, senza voler dare lezioni o consigli, ma con la sola forza della testimonianza. La spirale di autodistruzione - Seduti un po’ rigidi nel posto dei relatori, uno dopo l’altro, i giovani di Kairos hanno ricostruito la spirale di autodistruzione che li ha condotti dai reati, spesso indotti dal consumo di sostanze stupefacenti, anche se i reati più diffusi fra i minori sono il furto e la rapina, allo scontro con la giustizia, alla misura cautelare in giovanissima età. Attentissimi gli studenti del Torno nel rendersi conto della pericolosità di errori spesso considerati peccati veniali, dando poco peso alla normalità dell’illegalità: intensa la riflessione sulla compagnia di amici sostituta della famiglia che poi abbandona quando sorgono i problemi, quando, dopo una misura cautelare, si finisce al Beccaria, dove mai si sarebbe potuto pensare di finire. Rapporti falsi quelli che ruotano intorno al consumo di cannabis. Il racconto dell’arresto che ti spacca la vita per ciascuno di loro è stato il momento più intenso della mattina: ospiti e studenti sono stati sull’orlo del pianto, riconoscendosi unici in grado di comprendere il dramma nato dalla non consapevolezza, che di colpo scaraventa nel trauma della privazione della libertà in carcere. Il carcere come rieducazione - Scopo del sistema carcerario è la rieducazione, il reinserimento sociale: don Burgio ha insistito sull’essere questi ragazzi che sbagliano prima di tutto persone che nel carcere minorile o in comunità hanno il diritto di costruirsi una seconda possibilità. L’esperienza del Beccaria è forte, hanno sottolineato i ragazzi, ma hanno anche raccontato del calcio, degli allestimenti teatrali, del rapporto con Don Burgio. Può essere che si decida di prolungare il tempo passato in comunità e non è raro che accada, segno dell’avvenuta maturazione. Infatti, spiega sempre Don Burgio, le baby gang sono composte da ragazzi che non pensano, seguono la mentalità da quartiere disagiato: a spingerli ad azioni impulsive il bisogno, e la comunità aiuta a fermarsi, a ragionare per dare svolte radicali. Ce la fanno tutti. Qualcuno si è laureato ed è tornato in comunità da educatore. Le domande conclusive degli studenti del Torno hanno mostrato che il messaggio è passato: non esistono ragazzi cattivi, ma ognuno è artefice del proprio futuro. Sassari. Dal carcere alla palestra, il riscatto di 30 detenuti di Vincenzo Garofalo La Nuova Sardegna, 10 dicembre 2019 Consegnati i diplomi del corso “Liberi nello sport” promosso da Csen e Regione Gianfranco: “Non so cosa farò domani, ma ora ho una opportunità in più”. “Da questo corso mi aspetto una rinascita, sia a livello umano che sportivo, perché non so cosa farò un domani, però questa è un’opportunità che data a noi detenuti per avere un futuro, e io non voglio sprecarla”. Gianfranco Fattaccio, 34 anni, sassarese, è uno dei trenta detenuti delle carceri di Bancali, Nuoro e Cagliari, che dopo avere seguito sette mesi di lezioni, compreso l’esame finale, ha in mano la chiave per gettarsi alle spalle il passato burrascoso e ricominciare una nuova vita: la chiave è il diploma di istruttore di body building e fitness, conseguito dietro le sbarre grazie al progetto “Liberi nello Sport”, organizzato dal Csen Sardegna in collaborazione con la Regione Sardegna e gli Istituti penitenziari isolani. Diplomi consegnati nei giorni scorsi ai detenuti dai i presidenti nazionale e regionale del Csen, Francesco Proietti e Francesco Corgiolu. Insieme con i diplomi di trainer sportivo, i trenta che hanno partecipato al corso hanno conseguito anche l’abilitazione al primo soccorso con l’uso di defibrillatore semiautomatico. “L’idea che grazie a questa abilitazione Blsd possa in caso di necessità riuscire a salvare la vita a qualcuno è una cosa eccezionale”, dice Valerio Saia, 29 anni, cagliaritano, che come Fattaccio sta scontando una pena a Bancali. Qui in dieci, così come negli istituti di pena di Nuoro e Cagliari, hanno trovato respiro e fiducia nel futuro grazie al progetto Liberi nello sport. “Il carcere è duro e il momento più felice in questi mesi è stato stare qui in palestra con gli istruttori e i compagni”, confessa con gli occhi gonfi di emozione un altro giovane recluso di Bancali che ha ricevuto il diploma dalle mani del garante per i diritti dei detenuti, Antonello Unida, sotto lo sguardo soddisfatto della direttrice Elisa Milanesi. I trenta detenuti hanno seguito 56 ore di lezioni, suddivise in quattro moduli formativi, più 4 ore di esame finale, e hanno acquisito le capacità di progettare un programma di allenamento che integri le fasi di riscaldamento con il fitness cardiovascolare e di dimagrimento con attività isotoniche, fino alle fasi di defaticamento, incluso lo stretching. Oltre alle lezioni, tutti i partecipanti al progetto hanno potuto contare su dell’abbigliamento sportivo su attrezzature nuove per allestire una palestra utilizzabile da chiunque, il tutto fornito e donato dal Csen Sardegna. Quando usciranno, i diplomati avranno una possibilità di riscatto: con il diploma Nazionale di Istruttore di Body Building e Fitness, attraverso lo sport potranno affacciarsi nel mondo del lavoro e sperare in una vita migliore. “L’obiettivo era di far praticare lo sport in carcere”, spiega il presidente del Csen, Francesco Corgiolu. “Contestualmente ci siamo resi conto che potevamo dare qualcosa in più, lanciare un messaggio a queste persone, dicendo loro che anche se oggi stanno attraversando un momento difficile della loro vita, possono pensare al futuro”. Pisa. “Il carcere non deve arrestare la vita”, iniziative natalizie alle Officine Garibaldi cascinanotizie.it, 10 dicembre 2019 Le Officine Garibaldi si preparano al Natale con l’iniziativa “Il carcere non deve arrestare la vita”, patrocinata dalla Regione Toscana, dal Comune di Pisa, dalla Provincia di Pisa, dall’Azienda Usl Toscana nord-ovest, dalla Società della Salute Area Pisana, dalla Camera Penale di Pisa e sostenuta dalla Banca Desio. L’iniziativa prenderà il via 9 dicembre, per poi concludersi il 14 dicembre. Una settimana ricca di eventi sul delicato tema degli istituti penitenziari e dei detenuti. Ecco il calendario: Lunedì 9 dicembre: Inaugurazione alle ore 10.00 alla presenza delle autorità, Pierpaolo Magnani assessore alla cultura del Comune di Pisa, Manuela Arrighi direttrice delle Officine Garibaldi, Anna Batini presidente associazione culturale Officine Garibaldi, avv. Laura Antonelli presidente della Camera Penale, avv. Gabriella Porcaro tra le organizzatrici dell’evento, avv. Serena Caputo vicepresidente di Camera Penale di Pisa, avv. Alberto Marchesi garante dei diritti dei detenuti (in foto) e della stampa. Martedì 10 dicembre: dalle ore 16.00 le associazioni di volontariato che operano nella realtà carceraria, quali l’Associazione Controluce, la Caritas e altre ancora, racconteranno le esperienze e le attività svolte a sostegno dei detenuti, come il progetto regionale del birrificio La Staffetta di Pisa, attivo nel carcere di Volterra, “Misericordia Tua” di Calci, con la testimonianza del Dr. Vittorio Cerri. L’iniziativa mira a far conoscere la realtà del carcere e dell’esclusione sociale, a far riflettere sul tema della legalità. Previsti incontri con operatori carcerari e testimonianze di detenuti e detenute. Ospite d’onore Marco Malvaldi che presenterà il libro “Il vento in scatola” scritto insieme al detenuto Glay Ghammouri. Segue la degustazione della birra prodotta nel carcere di Volterra grazie al birrificio La Staffetta di Pisa. Mercoledì 11 dicembre: alle ore 15.00 inaugurazione della mostra fotografica sul carcere di Pisa “Come sabbia sotto al tappeto”, allestita grazie alla concessione della Camera Penale di Pisa, a seguire il convegno accreditato dell’Ordine degli Avvocati di Pisa (3CF) dal titolo “Il diritto alla salute in carcere: diritto perfetto o diritto con restrizioni?”. Dopo i saluti istituzionali prenderanno la parola i relatori avv. Alberto Marchesi del Foro di Pisa e Garante dei diritti dei detenuti, il dr. Franco Ceraudo, medico penitenziario in congedo, autore del libro “Uomini come Bestie” e il medico penitenziario Valerio Cellesi. A concludere la giornata la compagnia teatrale “Attori & Convenuti”, con magistrati e avvocati che porteranno in scena la prima nazionale del reading “Ora sono morti” una raccolta di lettere dei detenuti statunitensi condannati alla pena di morte. Giovedì 12 dicembre: la Camera Penale di Pisa in un convegno sul tema delle misure carcerarie con la partecipazione dei Garanti dei Diritti dei detenuti che hanno ricoperto questo delicato incarico fino a oggi. Seguirà, a partire dalle ore 19.30, un conviviale di beneficienza, aperto a tutta la cittadinanza “Vale la pena un’apericena”, organizzato per raccogliere fondi da destinare ai detenuti del carcere pisano. L’apericena è prenotabile all’indirizzo mail: info@officinegaribaldi.it Venerdi 13 dicembre: mercatino di solidarietà. Presenti le case editrici Mds, con i libri “Gabbie”, “Favolare” e “Malaspina”, scritti dai detenuti ed Ets, con il libro “Vengo dal sud oltre l’Orizzonte”, poesie di Glay Ghammouri, detenuto del carcere di Volterra, e “Ricette al fresco”, spunti culinari scritti dai detenuti; il CIF con prodotti confezionati dai detenuti; l’Associazione Prometeo, con le creazioni artigianali in legno dei carcerati; la Bottega dei Miracoli e altre associazioni. Il ricavato delle vendite sarà devoluto interamente al carcere di Pisa. Le Officine Garibaldi saranno inoltre aperte tutte le mattine alle scuole per un percorso di educazione alla legalità con la mostra fotografica “Come sabbia sotto al tappeto”. I docenti interessati potranno prenotare una visita guidata a cura di avvocati penalisti che illustreranno ai ragazzi il sistema di giustizia italiano e li accompagneranno in un viaggio immaginario attraverso i luoghi e le emozioni di chi intraprende, purtroppo, l’esperienza carceraria. Le scuole potranno prenotare le visite, che si svolgeranno tutte le mattine dalle ore 11.00 fino alle 13.00 nella settimana dal 9 al 14 dicembre, scrivendo una mail a ufficio.stampa@officinegaribaldi.it. La mostra fotografica resterà aperta al pubblico fino al 9 gennaio 2020. Roma. Liberi dentro, quando le parole rompono le catene Famiglia Cristiana, 10 dicembre 2019 Martedì 10 dicembre 2019, alle ore 14.30, presso la sala “Caduti di Nassirya” del Senato, viene presentato il libro “Parole di vita nuova” curato dal giornalista Orazio La Rocca per le edizioni Marcianum di Venezia: è la raccolta ragionata di tesi di laurea, poesie, racconti e disegni dei detenuti premiati al concorso “Sulle ali della libertà”. Pubblichiamo la prefazione di don Luigi Ciotti. “Il carcere che funziona non è quello che priva della libertà, ma quello che produce libertà”. Queste parole - tratte dal lavoro di Francesco Argentieri, fresco vincitore del concorso “Sulle ali della libertà” ideato dall’associazione “L’Isola Solidale” per la promozione della cultura negli istituti di pena - mi sembrano una splendida sintesi del senso e del valore di questa iniziativa. Sì perché “l’umanità” e la “funzione rieducativa” della pena a cui esplicitamente richiama l’articolo 27 della Costituzione, si realizzano non solo rispettando le persone detenute nella loro inviolabile dignità - il carcere non può essere uno strumento di ritorsione - ma offrendo loro anche opportunità di cambiamento affinché, uscite dal carcere, diventino una risorsa sociale, cittadini che tutelano e costruiscono il bene comune. La cultura e il lavoro giocano da sempre in questa trasformazione un ruolo cruciale perché il lavoro è prima di tutto espressione di sé, delle proprie passioni, inclinazioni e talenti (fatto salvo, ovviamente, per quelle forme di sfruttamento e umiliazione - ahinoi tanto diffuse - che sono la negazione stessa del lavoro). D’altro canto, la cultura è la strada maestra per diventare persone consapevoli, persone che scoprono quanta vita c’è oltre gli angusti confini dell’io, oltre i suoi impulsi di potere e di affermazione, il suo storpiare e ridurre la libertà ad arbitrio. E quando si diventa consapevoli e dunque ci s’interroga sul senso del proprio agire - riflessione che non smette mai di accompagnarci - le nostre azioni non possono più volere né commettere il male perché sono azioni che non esprimono un “io” isolato, ma un io incluso in un “noi”, in costante relazione con gli altri e con la Terra che ci ospita, dunque azioni animate da una libertà responsabile, da un desiderio di essere liberi con gli altri e non contro o a scapito loro, come continua a fare quell’individualismo che sta distruggendo il tessuto sociale e il pianeta, che mercifica i beni comuni e prosciuga anime e cuori da ogni senso di fraternità, condivisione, corresponsabilità. Ecco allora che le parole di Francesco (nome oggi non semplice da portare…) diventano uno stimolo importante: la privazione della libertà prevista dalla pena deve trasformarsi - se non vogliamo trasformare le carceri in discariche sociali - in strumento per costruire una libertà vera, responsabile, che sia di beneficio alla persona detenuta, ma anche a tutta la comunità. Non è semplice e tuttavia indispensabile, di questi tempi. Tempi in cui è prevalsa un’idea distorta di sicurezza, una sicurezza elevata a “idolo” e, come tale, propagandata da certa politica che costruisce nemici immaginari per coprire le proprie omissioni e responsabilità. Ecco allora che l’accanimento contro gli immigrati, la riduzione della tragedia dell’immigrazione a un problema di ordine pubblico e di pattugliamento delle frontiere, sono comode scorciatoie per nascondere o manipolare la verità, per non riconoscere che le paure e le angosce della gente nascono dal vivere in una società che non ha più nulla di sociale e di socievole, ridotta a spazio dove vince l’individualismo estremo del “mors tua, vita mea”, dove crescono le disuguaglianze e le povertà e dove il lavoro, quando c’è, è degradato a prestazione occasionale e malpagata, ormai prossima allo sfruttamento. Una deriva che, in nome di una idea falsata e opportunistica di sicurezza, ha via via smantellato negli anni lo Stato sociale per fare sempre più spazio a uno Stato penale, teso unicamente a punire e a escludere. Con riflessi evidenti anche sull’impianto giuridico, perché è da quella falsa sicurezza, e dalla politica che ne ha fatto un cavallo di battaglia, che sono uscite leggi come la “Bossi-Fini” sull’immigrazione, la “Fini-Giovanardi” sulle droghe, la “ex Cirielli” sulla prescrizione dei reati, leggi che, dicono i giuristi più illuminati, sono le prime responsabili del sovraffollamento carcerario e della difficoltà se non impossibilità in molte carceri di conferire alla pena l’indirizzo sociale e inclusivo previsto dalla Costituzione. Per fortuna non dappertutto è così: ci sono oasi di resistenza, realtà dove associazioni e istituzioni uniscono forze e impegno per ridare speranza alle persone detenute e dunque a tutti noi. Realtà dove la parola giustizia e la parola umanità s’incontrano e si completano l’una con l’altra, perché l’umanità è l’unità di misura della giustizia e solo un mondo giusto è un mondo che può davvero dirsi umano. Le riflessioni accurate, profonde spesso illuminanti di queste persone detenute sono un prezioso frutto di questo connubio. Don Luigi Ciotti Fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera Reggio Calabria. Oggi, 10 dicembre, convegno organizzato dal Garante dei detenuti ildispaccio.it, 10 dicembre 2019 “Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”. È questo il titolo dell’evento organizzato dall’Ufficio del Garante Metropolitano della Città Metropolitana di Reggio Calabria delle persone private e limitate nella libertà personale, presieduto dal Dott. Paolo Praticò, che si svolgerà domani 10 dicembre 2019 dalle ore 15.00 presso Palazzo Alvaro (Rc). La scelta della giornata del 10 dicembre non è stata lasciata al caso. Difatti, ogni anno in tutto il mondo si celebra la giornata internazionale dei diritti umani. Per tale motivo, l’Ufficio del Garante Metropolitano ha ritenuto essenziale creare le condizioni per un momento di confronto su temi dai quali e per i quali non si può prescindere. Un momento di riflessione ed approfondimento sull’importante ruolo che ogni soggetto qualunque sia il proprio ruolo nella società, è chiamato ad avere rispetto alla valorizzazione della dignità umana ed all’osservanza della tutela dei diritti umani. Prenderanno parte ai lavori illustre personalità operanti nei più svariati campi del sapere. Sarà presente il Presidente del Consiglio delle Camere penali, Avv. Armando Veneto, la Presidente del C.P.O. R. Calabria Dott.ssa Cinzia Nava, il Provveditore Vicario D.A.P. Calabria dott. Rosario Tortorella, la Presidente dell’ASA dott.ssa Maria Virgillito, lo psicologo e psicoterapeuta dott. Girolamo Lo Verso, la Presidente dell’Arcigay “I due mari” Reggio Calabria dott.ssa Michela Calabrò ed il dott. Emilio Campolo, Responsabile area educativa della Casa Circondariale di Rc “G. Panzera”, oltre ai Presiedenti degli Ordini degli Avvocati di Rc Avv. Rosario M. Infantino, al Dott. Campolo in qualità di Presidente degli Ordini degli psicologi e il dott. Danilo Ferrara come Presidente degli ordine degli assistente sociali. L’evento è accreditato presso l’Ordine degli Avvocati e degli assistenti sociali con il riconoscimento di n. 3 cf. Benevento. Corso di make-up per le detenute, con Alessia Luciana Macari e Oliver Kragl Comunicato stampa, 10 dicembre 2019 In data 12.12.2019 presso questo Istituto avrà inizio il corso di Make-up destinato alle detenute della sezione femminile. Questa Direzione ha accolto, infatti, con molto interesse l’idea progettuale dei signori Alessia Luciana Macari, nota web star, e Oliver Kragl, calciatore del Benevento, che hanno espresso la volontà e la disponibilità a titolo volontario di attivare un laboratorio di make-up che veda coinvolte le detenute della sezione femminile di questo istituto. La proposta, tesa all’acquisizione di strumenti utili alla “cura della persona”, oltre a costituire una ulteriore valida offerta di attività ricreativa volta al benessere psicofisico delle detenute, rappresenta anche una efficace idea per un futuro sviluppo professionale che faciliti il reinserimento sociale delle detenute. La direzione Reggio Calabria. Catechesi per tutti i detenuti, in carcere i docenti dell’Issr avveniredicalabria.it, 10 dicembre 2019 Il 2 dicembre è iniziata una attività presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria. Si tratta di un corso di catechesi dal taglio essenzialmente teologico. Ne ha dato comunicazione il cappellano della casa circondariale, don Carlo Cuccomarino Protopapa, con una lettera inviata a tutti i sacerdoti. “L’iniziativa - spiega don Cuccomarino - nasce da un elevato interesse che i detenuti hanno manifestato in questo anno verso le verità della nostra fede e nei confronti del fenomeno religioso in generale. Ho ritenuto opportuno pertanto affidare la risposta alle loro tante domande a persone competenti interessando a tal fine l’Istituto Superiore di Scienze Religiose con il quale è stato siglato un partenariato per l’organizzazione e lo svolgimento del corso”. Il corso, che ha incontrato subito la benedizione da parte dell’arcivescovo e l’approvazione del direttore del carcere, ha come tema il Credo e prevede un numero di ventisette ore di lezioni ripartite tra Sacra Scrittura, Teologia fondamentale e Teologia morale. Le lezioni saranno tenute da docenti che insegnano presso l’Issr, per quest’anno: don Sasà Santoro, don Tonino Sgrò, padre Giuseppe Saraceno e don Nino Iannò. Roma. Calcio femminile al carcere di Rebibbia organizzato da Atletico Diritti Comunicato stampa, 10 dicembre 2019 Il prossimo 14 dicembre, a partire dalle ore 10.00 presso la Casa Circondariale di Rebibbia Femminile si terrà il torneo di Natale di calcio a 5, organizzato dalla Polisportiva Atletico Diritti con il patrocinio del Coni Regionale del Lazio e dal Centro Sportivo Italiano (Csi). La squadra di casa di Atletico Diritti, composta dalle atlete ristrette presso l’istituto romano, incontrerà la rappresentativa femminile del Vaticano (della quale fanno parte alcune giocatrici che lavorano presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma) e l’Atletico San Lorenzo. Parteciperanno inoltre alcune rappresentanti della Nazionale Italiana Parlamentari che, capitanate dalla Sottosegretaria al Mibact Lorenza Bonaccorsi, e grazia al supporto dell’Associazione Italiana Calciatori, per l’occasione giocheranno insieme alle ragazze dell’Atletico Diritti. Tra i presenti ci saranno anche il Garante regionale del Lazio per i diritti dei detenuti, Stefano Anastasia; il Prorettore con delega per i rapporti con scuole, società e istituzioni dell’Università Roma Tre, Marco Ruotolo; il Presidente del regionale del Coni, Riccardo Viola; il Presidente provinciale del CSI, Daniele Pasquini. È stato inoltre invitato, e si è in attesa di conferma, Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. La Polisportiva Atletico Diritti, nata a Roma nel 2014 su iniziativa delle Associazioni Antigone e Progetto Diritti, con il patrocinio dell’Università Roma Tre, e con l’intento di coniugare sport e integrazione (un impegno riconosciuto anche dal Coni che ha premiato la società nell’ambito del bando “Sport e integrazione”), è attualmente composta da una squadra di calcio a 11 maschile, una squadra di basket, una squadra di cricket e la squadra femminile di calcio a 5 composta dalle detenute ristette nel carcere romano di Rebibbia femminile. Quest’ultima, nel 2018, primo anno di attività, ha svolto degli allenamenti settimanali e ha affrontato in diverse occasioni la Nazionale delle Parlamentari, la Nazionale di Miss Mamma, una rappresentativa di studentesse dell’Università Roma Tre e di operatori e operatrici dell’Istituto. In quest’ultima occasione è intervenuto anche il Presidente della Camera dei Deputati, l’On. Roberto Fico. Dallo scorso mese di settembre invece, le ragazze, sono impegnate nel campionato Open femminile di calcio a 5 organizzato dal CSI. Per partecipare è necessario accreditarsi entro e non oltre il 12 dicembre p.v., inviando una e-mail all’indirizzo segreteria@antigone.it, indicando nome e cognome, luogo e data di nascita di chi parteciperà. Andrea Oleandri, Ufficio Stampa Associazione Antigone Le leggi cambiano, la mentalità no di Dacia Maraini Corriere della Sera, 10 dicembre 2019 Nonostante le grandi conquiste legali, dobbiamo constatare che viviamo ancora in una società fondamentalmente patriarcale, in cui gli uomini hanno dei privilegi a cui molti non vogliono rinunciare. Da una ricerca dell’Istat sugli stereotipi di genere, risulta che il 39,3 % degli uomini italiani ritiene che lo stupro possa essere evitato se veramente una donna lo vuole e il 23,9% ritiene che le donne provochino violenza col loro modo di vestire. La cosa triste è che molte donne concordano con questi stereotipi che evidentemente sono ancora molto diffusi nonostante i cambiamenti che sono seguiti al 68 e al femminismo. Chiaramente le leggi si cambiano abbastanza rapidamente, ma la mentalità no. Nonostante le grandi conquiste legali, dobbiamo constatare che viviamo ancora in una società fondamentalmente patriarcale, in cui gli uomini hanno dei privilegi a cui molti non vogliono rinunciare. Ma c’è anche un linguaggio delle immagini a cui è difficile sottrarsi. Il vestito che mostra le forme di una donna fa parte della comunicazione imposta dalla cultura dei padri. Tutto nasce dall’idea che il corpo femminile sia fonte di un desiderio pericoloso per l’uomo. Se una donna non vuole essere aggredita, deve coprirsi (come in effetti costringono a fare le società totalitarie musulmane). Strano, perché è una ammissione di debolezza: come a dire che il desiderio maschile non ha la capacità di autoregolarsi. Nelle nostre società libere da queste norme religiose si parla molto di libertà, ma in realtà si tratta di una autonomia di mercato. Il corpo delle donne non smette di essere considerato centro del desiderio maschile che regola e scandisce i tempi della procreazione. Quella che si afferma non è la libertà femminile ma la manipolazione di una cultura androcentrica che spinge le donne a ottenere attenzione ammiccando e seducendo. Naturalmente chi è più sensibile a questo linguaggio gradito all’altro sesso sono le più fragili e per questo conformiste, quelle che non hanno fiducia in sé stesse, le più impaurite. Sanno che per comunicare con il mondo maschile devono usare il corpo in modo seduttivo e lo fanno mortificando spesso le proprie capacità intellettive. Si salvano solo le donne che credono fortemente nella propria autonomia di pensiero e di movimento Ma è ingiusto e antistorico incolpare le giovani per il fatto che si adeguano a un linguaggio che è stato loro imposto per millenni e che sanno funzionare ancora, mentre è difficilissimo comunicare con una intelligenza autonoma e un pensiero proprio. Un grumo pericoloso di pensieri di Alberto Leiss Il Manifesto, 10 dicembre 2019 In una parola. La violenza degli uomini sulle donne e l’importanza della mediazione culturale. Vedi il progetto “Conoscere, formare per cambiare”. Una settimana fa Antonio Polito, editorialista del Corriere della sera, ha pubblicato in prima pagina un commento intitolato Come nasce la violenza degli uomini sulle donne, che conteneva affermazioni importanti. Colpito dal racconto di episodi di violenza subita da parte della ex compagna di Thomas Piketty, Aurelie Filippetti, Polito ha osservato come “la violenza riguarda pure uomini colti, eleganti, di successo, progressisti e ugualitari”. Come appunto l’autore del best seller Il Capitale nel XXI secolo, una sorta di “bibbia” globale contro le disuguaglianze ingigantite dal capitalismo finanziario. “Ci deve dunque essere un pericoloso grumo di pensieri e sentimenti comune a tutti gli uomini - proseguiva il commento - che li spinge a rivolgere contro le mogli e le compagne quel carico di violenza che nel resto delle loro relazioni sociali non si sognerebbero mai di usare”. Un pericolo rispetto al quale nessun uomo può considerarsi estraneo, che va contrastato mettendo in discussione il proprio “status” di maschi dominanti e esercitando “tutta la mediazione culturale di cui siamo capaci”. Ci ho ripensato partecipando a un incontro in un salone del Comune di Salerno, affollato da centinaia di studenti delle scuole medie e superiori, con numerosi insegnanti e genitori (per lo più mamme) in cui si presentava il bilancio del progetto Conoscere, formare per cambiare. Un percorso volto a favorire una “piena cittadinanza delle differenze contro ogni forma di violenza e discriminazione” partito quattro anni fa in una quinta classe della scuola primaria, e giunto a coinvolgere quasi un centinaio di ragazze e ragazzi nei successivi anni scolastici. Mi è già capitato di accennarne, essendo stato invitato ogni anno a momenti di scambio e di lavoro. Al centro di una attività molto ricca di ricerche, pezzi di teatro, musiche, giochi sul linguaggio e gli stereotipi sessuali, riflessioni personali, c’è stata la messa in discussione proprio di quel “grumo di pensieri e sentimenti” che sin dai primi anni di vita tende a formare un atteggiamento maschile che produce bullismo, aggressività e violenza, prima di tutto contro le donne. Tutte le persone che hanno parlato, a cominciare dal sindaco di Salerno Vincenzo Napoli, hanno elogiato questa esperienza, realizzata per l’impegno dell’associazione In movimento e la passione della sua presidente Lella Marinucci. Con l’indispensabile collaborazione delle dirigenti scolastiche dell’istituto comprensivo Rita Levi Montalcini (Barbara Figliolia, Carla Romano) dell’assessora comunale alla pubblica istruzione Eva Avossa, di altre responsabili della formazione (Annabella Attanasio, Francesca D’Ambrosio). L’efficacia di questo tipo di “mediazione culturale” è stata sintetizzata da Monica Pasquino, presidente dell’associazione S.c.o.s.s.e., da anni impegnata in questo tipo di proposte educative: l’esperienza di Salerno si è rivolta “a tutta la comunità educante”, i giovani, le famiglie, gli insegnanti, sapendo gestire gli inevitabili conflitti; si è integrata con la didattica quotidiana, non limitandosi a sporadici “interventi esterni”; è durata a lungo nel tempo. Cosa rara: da un po’ di anni percorsi simili si moltiplicano in molte realtà scolastiche, ma nei casi migliori non superano un anno, o due nel caso di progetti europei. L’obiettivo - non semplice - è ora quello di proseguire questa “buona pratica”, riproducendo e arricchendo il “format”. Il tutto è documentato in una serie di pubblicazioni in cui, accanto alle voci degli esperti, di insegnanti e genitori, a coinvolgere e a convincere sono soprattutto i racconti di ragazze e ragazzi. Presidente Mattarella, alla nazione parli dei decreti sicurezza di Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni Il Manifesto, 10 dicembre 2019 Giornata mondiale dei diritti umani. Lettera aperta al capo dello Stato. Signor Presidente Sergio Mattarella, sono trascorsi quattordici mesi da quando ha firmato il decreto legge in materia di sicurezza e immigrazione dell’ottobre 2018, con l’invio contestuale di una lettera al Presidente del Consiglio contenente alcune osservazioni. E sono passati quattro mesi dalla conversione del decreto sicurezza bis, accompagnata da una nuova lettera ai Presidenti di Senato, Camera e Consiglio dei Ministri con la segnalazione di “rilevanti perplessità” su alcuni punti della norma e la conseguente richiesta di un nuovo intervento normativo. I due provvedimenti, tuttavia, non sono stati ancora modificati e né Parlamento né Governo sono intervenuti a correggere le parti che Lei ha chiesto di modificare, nonostante evidenti e pesanti siano le conseguenze di tale inerzia sui nostri territori. Eppure, Signor Presidente, Lei ha indicato chiaramente la direzione verso cui tendere, rimarcando l’intangibilità di alcuni diritti che sono garantiti dalla Costituzione: in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia. In merito alla cancellazione della protezione umanitaria, Lei ha voluto rimarcare che nel nostro Paese è garantito il diritto d’asilo, strettamente legato all’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Riguardo alla messa sotto accusa del soccorso in mare e delle organizzazioni impegnate a salvare vite umane nel Mediterraneo, ha ricordato che nessun decreto può prescindere dalla Costituzione e da quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia: l’obbligo dei naviganti di salvare i naufraghi è prioritario e nessun divieto può essere disposto se travalica gli obblighi internazionali. Sullo sfondo rimane la questione migratoria, fenomeno epocale che va governato e che non si può far finta di rimuovere - come Lei stesso ha sottolineato - e rimane la Libia, Paese in guerra, a cui la comunità internazionale non riesce a offrire soluzioni: aumentano ogni giorno di più il caos, le violenze e le sofferenze dei cittadini libici e dei tanti migranti lì bloccati, rinchiusi nei centri di detenzione in condizioni terribili, come anche i recenti rapporti delle Nazioni unite testimoniano. Nonostante tale drammatica acclarata situazione, l’Italia e l’Unione europea continuano a supportare alcuni corpi militari libici affinché impediscano ai migranti di raggiungere le nostre coste per poi essere nuovamente rinchiusi in condizioni inaccettabili in piena violazione degli obblighi internazionali, a partire dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, oltre che, ancora, della nostra Costituzione. Per tali ragioni crediamo che si debba sospendere il memorandum del 2017 con la Libia, prima della scadenza del prossimo febbraio. In questi mesi, inascoltati, abbiamo tentato in ogni modo di supportare le richieste che Lei ha formulato. Sappiamo tuttavia che tutto questo non diverrà possibile senza un Suo nuovo autorevole intervento. Per questo auspichiamo, Signor Presidente, che, durante il Suo messaggio di fine anno agli italiani e con un messaggio alle Camere, Lei possa ribadire la necessità dell’intervento di Governo e Parlamento sui decreti “sicurezza” per far rientrare quanto prima il Paese nella legalità costituzionale e nel rispetto degli obblighi internazionali. Sarebbe inoltre un segnale importante in tal senso, dedicare un passaggio alla situazione libica e alla necessità di arrivare al più presto a soluzioni che consentano a quel Paese di trovare finalmente una stabilità e mettere fine alle violenze cui sono sottoposte le migliaia di persone rinchiuse in condizioni disumane, richiamando al contempo al rispetto dei diritti inviolabili di ogni essere umano, come sancito dalle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia. Confidando nella Sua attenzione, Le porgiamo i nostri più sentiti e cordiali saluti. *Gli autori sono, rispettivamente: segretario, tesoriere e presidente di Radicali italiani Torino, prima città rifugio per i difensori dei diritti umani in pericolo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 dicembre 2019 Torino sarà la prima “shelter city” (città rifugio) in Italia per i difensori dei diritti umani in pericolo. L’iniziativa è stata presentata questa mattina nel capoluogo piemontese (nella foto, un momento della conferenza stampa) nell’ambito di una serie di progetti che coinvolgono Amnesty International Italia, Cifa Onlus, Hreyn e Cooperativa Doc. Le “shelter cities” sono città disponibili a offrire rifugio temporaneo (dai tre ai 12 mesi) ai difensori dei diritti umani seriamente minacciati, all’interno dei loro paesi, a causa del loro operato. In questi anni Amnesty International Italia ha lavorato anche insieme alla Rete “In Difesa Di - per i Diritti Umani e chi li difende” per promuovere la creazione un network di città rifugio in Italia: la Rete ha coinvolto le città di Padova e Trento in cui si sta avviando un percorso simile. Il programma di ospitalità, che Amnesty International ha già sperimentato in alcuni paesi europei, intende costruire connessioni e collaborazioni all’interno della città di Torino per contribuire a costruire una comunità solidale che riconosca i rischi che i difensori dei diritti umani affrontano, provando a facilitare iniziative che sostengano il loro benessere e consentano loro di lavorare in un clima migliore. Il Comune di Torino predisporrà un alloggio adeguato per il beneficiario per tutta la durata del periodo di accoglienza. Il progetto partirà nel 2020 e, grazie al coinvolgimento della società civile sul territorio, si prefigge di valorizzare in maniera significativa il lavoro del difensore, con il duplice obiettivo di garantire un periodo di riposo temporaneo e promuovere occasioni di approfondimento e scambio con le organizzazioni della società civile. Stati Uniti. Carcere “lungo” per i bimbi, Trump studia le possibilità di Elena Molinari Avvenire, 10 dicembre 2019 L’Amministrazione lavora per creare sistemi per la detenzione sistematica delle famiglie. E si appella contro le decisioni di un giudice federale che imponeva lo stop. “Non esiste un modo sicuro di incarcerare i minori”. Questa conclusione, raggiunta da un comitato di esperti creato dall’Amministrazione Obama e stabilita da un tribunale federale, è stata formalmente messa in dubbio dal governo di Donai Trump. Per poter detenere a lungo termine i genitori e i bambini che attraverso illegalmente il confine fra Usa e Messico, l’Amministrazione repubblicana si è appellata contro la sentenza del giudice Dolly Gee, che due mesi fa ha definito le condizioni dei bambini nei centri di detenzione per immigrati “kafkiane”. È probabile che la battaglia legale finisca di fronte alla Corte Suprema, la cui maggioranza ha sostenuto nei mesi scorsi la linea di tolleranza zero della Casa Bianca nei confronti dei centroamericani che cercano asilo negli Stati Uniti. Mentre il caso giudiziario compie il suo corso, l’Amministrazione Trump lavora alacremente per creare uno dei pochissimi sistemi per l’incarcerazione sistematica di famiglie nel mondo occidentale. Nonostante il divieto del magistrato, infatti, i tempi di incarcerazione medi delle famiglie si misurano in mesi, non in giorni, e hanno effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei più giovani. Già sei bambini sono morti in meno di un anno mentre si trovavano sotto la responsabilità degli agenti di frontiera, e le associazioni di volontariato hanno registrato decine di tentati suicidi e centinaia di casi di sindrome post-traumatica. Gli psicologi dell’età evolutiva consultati dai presidenti George W. Bush e Barack Obama hanno concluso che privare della libertà un bambino, anche con i suoi genitori, “causa danni permanenti allo sviluppo”. Ma negli ultimi mesi l’Amministrazione Trump ha ordinato l’espansione di centri di detenzione come quello di Dilley, in Texas, affinché possano ospitare più di 15mila persone. La strategia mira da un lato ad aumentare i posti disponibili in strutture temporanee, che sono il punto di arrivo degli immigrati subito dopo l’arresto al confine e sono spesso sovraffollate. Dall’altro il governo Usa punta a espandere le vere e proprie prigioni (gestite da compagnie private che amministrano le carceri americane) dove i minori sono trasferiti una volta presentata domanda di asilo. U. obiettivo, rivelato dallo stesso Trump, è di smettere di rilasciare le famiglie, come prevede la legge, (spesso con cavigliere elettroniche per non perderli di vista), chiedendo loro di presentarsi in tribunale quando il loro caso viene discusso. Il presidente non ha mai nascosto che l’intenzione finale è di scoraggiare nuovi immigrati dall’abbandonare i loro Paesi. Ma secondo membri dell’Amministrazione, i centri di detenzione sono luoghi sicuri. “Molti di questi bambini non hanno mai vissuto così bene come qui da noi”, ha detto al New York Times Matthew Albence, direttore dell’agenzia frontaliera federale Ice. Proteste in Iran: Italia, tacere è essere complici di Teheran di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 10 dicembre 2019 Da oltre venti giorni è in corso in Iran una protesta anti-regime che si è estesa a 189 città con una repressione terrificante. Ieri l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha parlato di almeno 7 mila persone arrestate e 208 vittime, precisando però che i morti potrebbero essere il doppio. La Resistenza iraniana, infatti, traccia un bilancio ancora più drammatico: oltre 1000 morti, 4000 feriti, 12000 arrestati. Si tratta di dati raccolti grazie a una parziale riapertura di internet che ha permesso altresì di identificare 320 manifestanti uccisi. In questi momenti tragici della storia, dare un nome a chi è morto, documentare caso per caso, resta una delle forme di rispetto della dignità umana di fronte allo scempio che ne fanno le forze dell’ordine iraniane sparando alla testa o al petto dei manifestanti. È così che sono morti anche almeno 11 ragazzini. Una realtà che il regime iraniano cerca di nascondere, limitando l’uso di internet, rifiutando di restituire le salme alle famiglie o impedendo i funerali. Mentre l’ondata di arresti continua, le carceri di Teheran sono sovraffollate. In altre città gli arrestati sono detenuti in scuole o palazzi governativi. Esponenti della magistratura in varie province dicono di voler istituire corti speciali. Le massime autorità religiose invocano impiccagioni per i “sabotatori in guerra con Dio”. Questi annunci e proclami avvengono in un Paese in cui il ministro della giustizia e capo della magistratura è quell’Ebrahim Raisi che ha fatto parte della “Commissione della morte” responsabile dell’esecuzione di almeno 30mila militanti politici nel 1988. Molti Paesi occidentali, tra cui Francia, Germania, Norvegia, Olanda, Usa e Svezia, hanno condannato la repressione, quando l’Italia mantiene un rigoroso silenzio mentre oggi si chiude all’hotel Parco dei Principi la conferenza Roma Med - Dialoghi Mediterranei dove avrebbe dovuto intervenire il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif su invito della Farnesina e dell’ISPI. Diciamo che Zarif ha avuto più senso delle cose di quanto ne abbiano il nostro ministro degli Esteri Di Maio e il presidente Conte, che lo avrebbero accolto di buon cuore. Perché oggi alla conferenza è previsto l’intervento di Seyed Mohammad Kazem Sajjadpour, presidente del think tank iraniano Ipis - Institute for Political and International Studies - noto a livello mondiale per negare la veridicità dell’Olocausto. Nel curriculum dell’Ipis non vi è solo la conferenza negazionista organizzata nel 2006 a Teheran, a cui centri di ricerca di tutto il mondo reagirono firmando una dichiarazione in cui si chiedeva di non accettare inviti da parte dell’istituto né di invitarlo. Vi è anche l’audizione alla Commissione esteri della Camera nel 2018, quando i ricercatori dell’Ipis definirono la creazione dello Stato ebraico un errore della storia, negando il diritto all’esistenza d’Israele. Nel comunicato stampa sul sito della Farnesina si legge che la conferenza Roma Med intende “contribuire ad affrontare le sfide e le opportunità del Mediterraneo “allargato”, valorizzando le grandi opportunità che offre attraverso lo sviluppo di un’agenda positiva”. Quale può essere la credibilità dello sviluppo di “un’agenda positiva” se i popoli non sono considerati e i diritti umani sono negati? Ecco perché il silenzio di questo Governo diventa una forma di complicità inaccettabile. Tanto più che l’Italia ha il merito, riconosciuto nel mondo, di aver fatto proclamare una moratoria delle esecuzioni capitali da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu grazie a una grande battaglia popolare. A tutela della credibilità del Paese, è urgente che il Governo prenda posizione sulla repressione in Iran e chieda una moratoria delle esecuzioni capitali insieme a una indagine internazionale. È evidente a tutti la necessità di un cambio di rotta rispetto all’Iran dei Mullah che non può continuare a essere considerato come una soluzione delle crisi regionali, di cui è esso stesso causa. Serve invece sostenere movimenti di opposizione iraniani che abbiano programmi ispirati ai principi universali di rispetto dei Diritti Umani e dello Stato di Diritto. Che ci facciamo qui? Tutte le bugie Usa sulla guerra afghana di Giuliano Battiston Il Manifesto, 10 dicembre 2019 Afghan Papers. Svelati i documenti riservati su vent’anni di conflitto in Afghanistan. Storia di un fallimento totale. Nelle carte errori, dati falsificati e troppe morti. intanto a Doha torna in scena l’intesa Trump-Talebani. Tutte frottole. Per quasi venti anni i cittadini americani, e non solo loro, si sono sentiti raccontare balle dai più alti funzionari statunitensi sull’andamento della guerra in Afghanistan. “Facciamo progressi”, “netto miglioramento”, “questo è l’anno chiave”, erano le dichiarazioni ufficiali. Bugie. Vere e proprie manipolazioni della realtà, una realtà di segno opposto rispetto a quella ufficiale, conosciuta a tutti i livelli. È la conclusione a cui sono giunti i giornalisti del Washington Post, e in particolare Craig Whitlock, dopo aver ottenuto accesso tramite il Freedom of Information Act a più di 2.000 pagine di documenti. Sono la trascrizione di appunti e interviste con 428 persone direttamente coinvolte nella guerra afghana, tra diplomatici di alto livello, generali, operatori dell’agenzia umanitaria Usaid. Interpellati nell’ambito di un progetto - Lessons Learned, Lezioni apprese - promosso dall’ufficio dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction guidato da John Sopko, dopo tre anni di battaglie legali e due ricorsi alla Corte federale le loro dichiarazioni sono finite sulla scrivania dei giornalisti del Post. Da ieri sono a disposizione del pubblico, insieme a una serie di appunti dell’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Quelle pagine raccontano ciò che molti non hanno voluto vedere in questi anni di dichiarazioni rituali, omissioni, errori, colpevoli reticenze e troppe morti: inaugurata senza obiettivi chiari, condotta con strategie confuse, confermata per inerzia burocratica, la guerra in Afghanistan è persa, ormai da tempo. A dirlo non sono pacifisti e obiettori, ma i diretti protagonisti. Douglas Lute, generale, “zar per l’Afghanistan” durante le presidenze Bush e Obama, in un’intervista del 2015 sintetizza così la questione: “Cosa stiamo cercando di fare, qui? Non avevamo la più pallida idea di ciò per cui ci stavamo impegnando”. Il diplomatico James Dobbins, già rappresentante speciale per Afghanistan e Pakistan, la mette giù così: “Non invadiamo nazioni povere per renderle ricche. Non invadiamo paesi autoritari per renderli democratici. Invadiamo paesi violenti per renderli pacifici e in Afghanistan abbiamo chiaramente fallito”. “Cosa abbiamo ricavato da questo sforzo valso 1 trilione di dollari?” si chiede invece Jeffrey Eggers, già membro dei Navy Seal e parte dello staff di Bush e Obama. “Bin Laden se la starà ridendo”. Un fallimento colossale, nascosto falsificando dati, statistiche e sondaggi. “Ogni singolo dato veniva alterato per presentare la migliore immagine possibile”, ricorda Bob Crowley, consigliere senior per le operazioni di contro-insurgency nel 2013/14. I soldi per la ricostruzione, superiori alla capacità di assorbimento del Paese, spesi senza criterio, volano per la corruzione: “Ci venivano dati soldi, ci veniva detto di spenderli, e lo abbiamo fatto, senza ragione”, dichiara un funzionario di Usaid. “Senza volerlo, il nostro progetto più grande potrebbe essere stato lo sviluppo della corruzione di massa”, ammette Ryan Crocker, già ambasciatore in Afghanistan. Sono soltanto alcune delle dichiarazioni raccolte nelle 2.000 pagine ottenute dal Washington Post. Una parte del grande inganno orchestrato ai danni del pubblico americano per nascondere il fallimento della guerra afghana. Che oggi l’amministrazione Trump sembra voler chiudere con un negoziato: da tre giorni a Doha sono ripresi i colloqui di pace con i Talebani, interrotti bruscamente da Trump il 7 settembre, quando la firma dell’accordo era imminente. Per Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana a Doha, l’accordo potrebbe essere firmato entro due settimane.