Sovraffollamento, sfondato il muro dei diecimila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2019 Oramai è una certezza. Il trend del sovraffollamento è in costante crescita. Al 31 marzo, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.611 detenuti (il mese precedente 60.348) con il risultato che fa registrare la presenza di 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Al 28 febbraio erano 9.826 detenuti in più. Al 31 gennaio, invece, se ne registravano 9.575. Ancora prima, al 30 novembre ce ne erano 9. 419 in più, mentre a settembre erano invece 8.653. In realtà, nei conteggi, non vengono sottratte le celle inagibili o chiuse per i lavori in corso. Dall’ultima relazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, emerge che alla data del 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale, percentuale comunque positivamente diminuita di tre punti rispetto a quella riportata nella Relazione al Parlamento di due anni fa. Permangono casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia solo 24 dei complessivi 57 previsti, in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile. Ma, come più volte ha ribadito il Garante Mauro Palma, non esiste solo il problema della “dimensione”, ma anche di come dovrebbe essere concepita la cella. Cosa significa? La cella deve essere destinata al riposo, perché il luogo naturale dell’attività (e quindi della vita detentiva) deve essere fuori di essa. “A livello di sistema - si legge nel rapporto del Garante al Parlamento -, possiamo perciò dire che non deve aver corso l’abusata sineddoche in base alla quale si parla della “cella” per intendere il “carcere”. Consideriamola solo “camera di pernottamento” spostando il centro di gravità verso gli spazi esterni, comuni, sociali, relazionali, in cui si praticano attività dotate di un senso, che creano un’identità e riempiono un tempo altrimenti vuoto”. La realtà però è diversa. I rapporti sulle visite effettuate dal Garante nazionale sia a livello di condizioni materiali, sia a livello di centro di gravità della vita detentiva spostato sulla camera e non fuori di essa “restituiscono - si legge sempre nel rapporto - ancora un eccesso di inadeguatezze e una prevalenza del modello “infantilizzante” su quello “responsabilizzante”“. Ma il sovraffollamento è comunque un problema, riconosciuto dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede anche durante l’ultimo confronto avuto con la delegazione del Partito Radicale. La soluzione? Quella prospettata dal guardasigilli è la costruzione di nuove carceri, oppure convertendo le vecchie caserme dismesse. Soluzione però non condivisa non solo dal garante nazionale dei detenuti, dalla camera penale e ovviamente dal partito radicale, ma anche da Magistratura Democratica. Sono due le scuole di pensiero: da una parte c’è chi concepisce il carcere come extrema ratio e quindi la possibilità di implementare l’utilizzo delle pene alternative utili anche ad abbattere la recidiva, l’altra è quella di usare esclusivamente il carcere e riabilitare il detenuto attraverso di esso. Rimane il dato oggettivo che non aumentano le entrate visto il calo dei reati, ma diminuiscono le uscite dal carcere: una parte consistente riguardano i detenuti che provengono da situazioni di emarginazione sociale e quindi non possono accedere facilmente alle misure alternative non avendo una sistemazione stabile. Salute mentale e carcere. Nessuna resa della Psichiatria di Enrico Zanalda* quotidianosanita.it, 9 aprile 2019 In riferimento all’articolo “Salute Mentale e carcere. Il dissolversi della psichiatra, dimentica delle sue origini”, la Società Italiana di Psichiatria e le Sezioni Speciali Dipendenze e di Psichiatria Forense intendono approfondire questi temi con il Comitato Nazionale di Bioetica, al quale sarà chiesto un incontro istituzionale, per promuovere il documento nella Conferenza delle Regioni in modo da far emergere le gravi difficoltà in cui si trovano attualmente gli operatori delle ASL ed in particolare dei DSM. Riteniamo utile e corretto che l’assistenza della salute mentale in carcere venga affrontata all’interno del problema generale dei percorsi di cura dei pazienti malati di mente e autori di reato. A partire da questo documento le regioni potrebbero cogliere l’invito del Consiglio Superiore della Magistratura nella risoluzione del 24 settembre 2018 alla costituzione di protocolli operativi regionali per la realizzazione non solo delle misure di sicurezza ma del percorso complessivo all’interno e all’esterno degli istituti di pena. *Presidente Società Italiana di Psichiatria La comunicazione in carcere che frena e limita il dialogo di Ketty Volpe articolo21.org, 9 aprile 2019 Ha registri diversi la comunicazione nel carcere. Spesso limitata. Frenata. Nascosta, talvolta, tra le righe, della metafora, la comunicazione, diviene plurale, quando, in carcere, veste la divisa penitenziaria del poliziotto o del detenuto, del direttore o del difensore, del magistrato o del familiare. Un variegato mondo il carcere, poco conosciuto oltre le sbarre, in cui più d’ogni altro luogo contesto, si avverte l’esigenza di comunicare con l’altro, gli altri, dentro e fuori le mura. Modi diversi, in un mondo diverso, di dire, parlare, scrivere, trasmettere, comunicare, far sentire voci, bisogni, regole, sentimenti, discipline, emozioni. Per comunicare qualsiasi cosa, i detenuti devono chiedere una sorta di permesso autorizzazione, e lo fanno con quella che in tutti gli istituti penitenziari chiamano “la domandina” che indirizzano al direttore. Per informare la società civile, la comunità, il territorio di quelle che sono le iniziative, possibili da divulgare, utili alla umanizzazione (programmi riabilitativi, spettacoli teatrali, cineforum aperti agli studenti, laboratori di ceramica, foto e stesura di giornale, recital ecc.) la direzione del carcere si affida ad una comunicazione stringata, burocratica, che come nota stampa invia alle redazioni di giornali, agenzie, testate on line, radio e televisioni. Per entrare nel carcere e seguire gli eventi, le generalità del cronista e del fotoncineteleoperatore, devono essere comunicate alla direzione, almeno tre giorni prima, per la necessaria autorizzazione del ministero di giustizia e del magistrato di sorveglianza. È il giornalista che spesso porta alla luce casi e storie particolari di detenuti. All’interno, iter farraginosi e linguaggio burocratico stantio. “La domandina” riporta vissuti diversi, quasi sempre poveri nelle espressioni e parole usate. Molta metafora per dire senza dire e per “mandare a dire”. Iniziative editoriali pregevoli hanno aperto la strada e fatto scuola tra i giornali in carcere. In carcere si parla sottovoce. Si resta senza parole. Ne bastano poche. Nove parole o dieci, per dire, e saper dire tutto, nella “domandina”, l’istanza che si indirizza al direttore e si consegna all’educatore o al poliziotto penitenziario, per chiedere visita medica, aiuto, colloquio con parenti, giudice ed avvocato, ed altro ancora di cui si ha voglia o bisogno. Nessuna richiesta verbale. Solo la “domandina” che inaridisce ancor più la già esigua comunicazione in carcere e frena e limita il dialogo. Anche da qui quel dire gergale e parlare cifrato, in codice, per capirsi e non farsi capire a seconda. 6e40 per esempio sta per tipo poco affidabile, che se può, ti frega. Si è preso a dire così, 6e40, dall’articolo 640 del Codice Penale che contempla la truffa. Il gergo dei detenuti risente e riporta gerghi dialettali, modi di dire della malavita, slang e parole degli zingari. Non tutti capiscono, ma, dentro, si impara e si parla giocando sul doppio e triplo senso. La berta è la pistola. Viene anche chiamata tamburo, baiaffa, cannone, canterina, o, ferro, pezzo, rabbiosa, ravatto. Bedy è il carabiniere. Bella l’evasione. Accavallato sta per armato. Briosa è la galera, come casanza è il carcere. Il corvo è l’ufficiale giudiziario. Fare la ricotta significa vivere con i soldi che ti passa una prostituta. Il circuito dei camosci sono carceri speciali. Professore sta per capo intelligente e turista si dice di chi entra in carcere per un reato che non ha niente a che fare con la malavita. Spetta di diritto una telefonata a settimana. Dieci minuti di conversazione. Per parlare al telefono si fa la domandina. Nella richiesta bisogna indicare le generalità del familiare e si allega lo stato di famiglia o una autocertificazione. Non si possono chiamare numeri di telefoni mobili, d’uffici o pubblici. Solo numeri privati. Le telefonate non vanno registrate né ascoltate. Tranne in casi particolari. Per i detenuti stranieri si chiede al Consolato di verificarne il numero dell’utenza. L’agente segna il tempo. Poco prima dello scadere dei dieci minuti consentiti, avverte: “Salutare, tempo finito”. Mai populismo giudiziario di Paolo Borgna Avvenire, 9 aprile 2019 Hanno lasciato il segno, nei giorni scorsi, due auspici formulati, in circostanze molto diverse, dal presidente Sergio Mattarella e dal giudice della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Il Capo dello Stato, promulgando la legge che istituisce la Commissione d’inchiesta sulle banche, ha sentito il bisogno di sottolineare, con una lettera ai presidenti di Camera e Senato, la necessità che si eviti il rischio che l’ampio mandato conferito alla Commissione non sfoci in un controllo sull’attività creditizia o in indebite istruzioni della politica a Bankitalia o alla Bce. Nelle stesse ore, Giuliano Amato, in una circostanza molto meno formale (un’intervista al “Venerdì” di “Repubblica”), invitava i cittadini a “non lasciare sola” la Corte Costituzionale. E spiegava il senso di questo invito: in tutto il mondo le Corti Costituzionali adottano “decisioni che per definizione contrastano le decisioni adottate dalla maggioranza politica”. Le loro, pertanto, sono necessariamente decisioni che tutelano le minoranze, soprattutto “sul terreno dei diritti umani perché qui si determina una naturale diversità di ruolo tra i Parlamenti e le Corti”. Colpisce che questi moniti giungano da due uomini che, provenendo da ruoli accademici, rappresentano oggi il massimo livello nelle nostre istituzioni di garanzia; ma, in passato, hanno a lungo praticato la politica (entrambi sono stati parlamentari e ministri). E della politica conoscono grandezza, pulsioni e debolezze. Si intravede, sullo sfondo delle loro parole, il timore per la presente fase storica europea, caratterizzata da populismi che rivendicano un rapporto diretto, privo di intermediazioni, fra capi politici e popolo. E dunque mal tollerano il ruolo delle istituzioni che tutelano i valori fondanti la Repubblica, sottraendoli alla disponibilità delle maggioranze politiche del momento. C’è la preoccupazione verso un populismo politico, capace di captare i disagi reali dei ceti deboli nell’era della globalizzazione, ma incapace di dare reali risposte positive a questi disagi. C’è inoltre, sul fronte della giustizia, la preoccupazione per un populismo giudiziario che - facendo leva su obiettive gravi carenze del nostro sistema - alimenta parole d’ordine assai diffuse tra i cittadini: bisogno immediato della condanna; utilizzo del processo come risposta demagogica all’allarme sociale e come anticipazione della pena; lo “spirito del popolo” che nella celebrazione del processo dovrebbe andare oltre la Legge. Sono ingredienti ben noti nell’insorgenza di ogni sistema totalitario. E che, coniugandosi con il populismo politico, snaturano la tipica funzione di equilibrio del giudice. Senza dimenticare che la storia del Novecento ci insegna che, quasi sempre, chi ha fomentato queste pulsioni è poi stato vittima, qualche anno dopo, di feroci giustizie sommarie. La preoccupazione di un’indistinta e vaga missione risanatrice e purificatrice della funzione del giudice è riecheggiata, pochi giorni fa, nelle parole di Sergio Mattarella ai neo magistrati: “La magistratura non deve mai farsi suggestionare dal clamore mediatico dei processi, non deve farsi condizionare da spinte emotive evocate da un presunto e indistinto sentimento popolare” perché i magistrati “non devono rispondere all’opinione corrente e a correnti di opinione, ma solo alla Legge”. Non saremmo però fedeli interpreti del monito del Presidente se ci limitassimo ad additare con scandalo i frutti avvelenati che ci vengono proposti; senza adoperarci, con intelligenza e costanza, alla soluzione dei problemi reali che gonfiano le vele di chi quei frutti propone. Un piccolo recente libro di Loris Campetti (‘Ma come fanno gli operai’, Manni ed.) - descrivendo il cambiamento culturale degli operai delle grandi fabbriche del Nord - ci ricorda quali sono questi problemi: precarizzazione del lavoro; microcriminalità diffusa nei quartieri popolari delle grandi città; necessità di un’accoglienza dei migranti più generosa di quanto oggi non sia, ma sicuramente più ordinata; una giustizia ancorata a solide garanzie, ma con tempi meno scandalosamente lunghi. Le soluzioni a tutti questi problemi ci sono: il nostro tessuto civile e sociale ha in sé le competenze necessarie per metterle a punto. Perché questo Paese e le sue istituzioni sono ricchi di donne e uomini che ogni giorno, senza urlare, esercitano la pratica di un umile ma proficuo e solidale riformismo. Si tratta solo di organizzarli e di non disperdere il loro patrimonio di conoscenze e di capacità. Avvocati: “Deriva giustizialista” nella riforma del processo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2019 Alla fine tutta l’insofferenza dell’avvocatura per la politica della giustizia penale targata Lega e 5 Stelle si cristallizza in un pacchetto di mozioni approvato a larghissima maggioranza dal Congresso nazionale forense convocato a Roma in sessione ulteriore rispetto a quella dell’ottobre scorso a Catania. E se quest’ultima aveva fatto registrare un’ampia apertura di credito a una maggioranza inedita e a un ministro avvocato, pochi mesi dopo la disillusione è diffusa. Bonafede neppure si è presentato e nemmeno ha mandato quel messaggio scritto che permette in genere di salvare le apparenze. E allora, visto che uno dei cardini della discussione era rappresentato dal processo penale, il contenuto delle mozioni, condivise dalla platea congressuale che sabato le ha votate dopo avere applaudito venerdì la notizia dell’astensione dalle udienze indetta dalle Camere penali, si muove tra l’aperta polemica e l’avvertimento preventivo. Quanto alla prima, si mette nero su bianco la contrarietà a quella che viene bollata come vera e propria “deriva”, approdo di un “vento giustizialista”: la richiesta sempre più insistente di pene esemplari che in qualche caso propongono pure un attentato al diritto all’integrità fisica del condannato. E poi la prescrizione, con un intervento che da subito è stato contestato dall’avvocatura, perché, si ripete in maniera quasi ossessiva, oltre che compromettere un principio di equità e civiltà giuridica rischia di rivelarsi inutile, dal momento che la gran parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari. Di qui allora l’opportunità di individuare forme di estinzione dell’azione penale, con previsione di improcedibilità per mancato rispetto dei termini, e forme più incisive di controllo giurisdizionale sulle indagini. Dal congresso arriva anche la proposta di introdurre quattro fasce di prescrizione a seconda della gravità del delitto, da 20 a 5 anni. Da modificare poi anche le misure interdittive antimafia che oggi, tra l’altro, impediscono alle imprese un reale contraddittorio anche davanti al prefetto. A non convincere della riforma anche le limitazioni all’appello e il trasferimento di competenze in materia di notifiche dalla polizia giudiziaria agli avvocati. Processo mediatico, una giustizia-show priva di garanzie di Nunzio Smacchia* Gazzetta del Mezzogiorno, 9 aprile 2019 Ormai sempre di più si rimane morbosamente affascinati, coinvolti dal turbinio dei gossip, delle chiacchiere e dei crimini che quotidianamente invadono la carta stampata e la televisione; in questo modo il delitto diventa spettacolo e avvince la gente con le sue sfumature e i suoi interrogativi. I fatti criminosi fanno audience, riempiono decine di talk show, nei quali si vedono sfilare esperti, innocentisti e colpevolisti. I fatti criminali, e il modo con cui sono raccontati, sono l’anima e l’essenza dell’attuale società, si è invasi da notizie dei media e non si può fare a meno di parlarne e di discuterne. Si è creata una sorta di dipendenza quotidiana alla diffusione di notizie criminali al punto di esserne condizionati, di stilare un’agenda dei fatti mediatici. L’era digitale trasforma le immagini e le diffonde nella quotidianità, appannando la distinzione tra il virtuale e il reale, in un contesto in cui ciò che conta è l’apparire e non l’essere, dove la realtà si sdoppia tra concretezza e finzione, e tutti vanno alla ricerca della notorietà e del successo attraverso la professionalità del proprio essere. Accade spesso che in ogni episodio criminale, che suscita terrore e angoscia negli spettatori, gli operatori dei mass-media, specie quelli televisivi, si precipitano sull’avvenimento come se fosse uno spettacolo d’intrattenimento; e la spettacolarizzazione della giustizia ha inizio! La ricerca eccessiva dei particolari è aperta e si dà corso alla sfilata dei personaggi coinvolti a vari livelli: dalle diverse figure professionali, all’indagato/imputato e alla sua famiglia, che diventano subito personaggi, e per finire alla vittima, che spesso viene trascurata. Da qualche tempo si è creato un forte connubio tra delitto, criminologia e scienze forensi alimentato soprattutto dallo sviluppo indiscriminato di fiction, film, libri, dibattiti, articoli, seminari, master e specializzazioni universitarie. Oggi, paradossalmente, i colpevoli di molti reati sono più difficili da scoprire, nonostante il grande progresso scientifico e i numerosi mezzi tecnologici a disposizione, e le indagini sono sempre più complesse da portare a termine, perché le scene del crimine non di rado sono inquinate fin dall’inizio. In passato, la stampa, soprattutto quella televisiva, svolgeva il suo ruolo con cautela e discrezione, non si sbattevano “mostri” in prima pagina, non si emettevano sentenze fuori dai tribunali e non c’erano presentatori che ricostruivano negli studi televisivi con plastici le scene dei crimini e gli itinerari percorsi dagli autori dei delitti, e in particolare non c’erano tecnici che per ottenere visibilità scenica confondevano ancora di più le idee e i fatti. Oggi, molti indossano la toga per riprodurre in televisione e sulla stampa i processi e per catturare l’attenzione degli spettatori e dei lettori fanno a gara nel gioco della vittima e del carnefice. Il pubblico che si forma è quello di una platea di solitari, come se si trovassero davanti a un film, spettatori appartati della “giustizia-spettacolo”, si rendono perfettamente conto che quello che stanno vedendo non è reale, eppure si lasciano andare alla commozione, all’inquietudine, alla speranza e al sogno. Quando esce un articolo, quello scritto “appartiene” al lettore, dal quale toglierà o aggiungerà qualcosa di suo, lo interpreterà secondo la sua visione critica, per poi parlarne o passarlo ad altri, ingenerando un effetto mediatico che in gergo si chiama moltiplicatore della notizia. La televisione attuale si nutre di “crimine”, s’ispira ad esso, servendosene per avere successo. Ci si chiede a questo proposito se troppi programmi di natura “criminosa” possono condizionare la coscienza di chi li guarda, influenzarne la psicologia o il comportamento in una concezione estesa del crimine in sé e della sua rappresentazione. Gli studiosi del settore ritengono che lo spettatore in qualche modo si identifichi nel concetto di crimine e si faccia un’idea precisa tra vittima e colpevole in una visione manichea del mondo tra buoni e cattivi. La Tv spesso fa le indagini parallele, che risultano fuorvianti, e vengono fatte più per soddisfare l’audience che per amore della verità. Si è creata, in un certo senso, una cultura massmediologica che mette a rischio quella legale, giudiziaria e che si sostanzia essenzialmente sul sensazionalismo. Ci si concentra troppo sulla personalità dell’autore del reato, o presunto tale, a scapito della vittima, nei cui confronti c’è poca attenzione. Perché? Forse per la ragione che non ha più “vita”, e non desta più interesse, come negli omicidi. I mass-media in molti casi anticipano i processi reali, ma così facendo rompono quell’equilibrio tra cronaca, riservatezza e verità giudiziaria, danneggiando spesso la tutela della vittima e condizionando fortemente l’opinione pubblica. In definitiva, dall’informazione sul processo e sui suoi protagonisti si passa al processo celebrato sui media; si va sempre più diffondendo la tendenza a ripercorrere liturgie terminologiche della giustizia ordinaria, ricostruendo una sorta di “aula mediatica” in alternativa al foro giudiziario, alterando la serenità di chi deve realmente giudicare. Nel processo giudiziario il cittadino è garantito dai soggetti istituzionalmente preposti ad amministrare giustizia; nel processo mediale, al contrario, il cittadino si espone al giudizio della folla mediatica. Cresce nella coscienza sociale l’idea malsana che il miglior giudice sia l’opinione pubblica, perché nell’inconscio generale è insito il sogno della democrazia diretta, la gestione della res publica da parte della pluralità. Ma la Corte di Cassazione ha messo ordine in questa disputa, decretando che “A ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici la funzione di verificarne la fondatezza e al giornalista l’incombenza di dare notizia nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività”. *Criminologo Pavarin: “Legge Spazza-corrotti incostituzionale” di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 9 aprile 2019 La legge Spazza-corrotti potrebbe essere incostituzionale nella parte in cui non prevede alcuna norma transitoria, con la conseguenza di imporre le nuove sanzioni, più severe rispetto al passato, anche a chi ha commesso reati prima della sua entrata in vigore. A sollevare la delicata questione è il Tribunale di Sorveglianza di Venezia presieduto da Giovanni Maria Pavarin che, ieri, ha sospeso la trattazione del caso relativo al geometra veneziano Antonio Bertoncello, coinvolto nello scandalo delle mazzette all’Edilizia privata, condannato per corruzione in relazione ad episodi commessi tra il 2002 e il 2011, trasmettendo gli atti alla Corte costituzionale, affinché si pronunci in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 6, lettera b della legge 3 del 2019. Dall’entrata in vigore della Spazza-corrotti si tratta del primo caso sottoposto alla Consulta da un Tribunale di Sorveglianza, ma non sarà sicuramente: nel nostro ordinamento è ormai assodato che nessuno può essere condannato per un fatto che non sia reato nel momento in cui è commesso, così come non può essere inflitta una pena superiore a quella originariamente prevista. Ma ora in discussione ci sono le modalità di esecuzione della pena e, in particolare, la possibilità di poter scontare la condanna con modalità alternative al carcere, tra cui l’affidamento in prova ai servizi sociali. La Spazza-corrotti nega assolutamente tale possibilità ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione (concussione, corruzione, peculato) nel caso in cui non abbiano risarcito il danno e non abbiano collaborato con la giustizia. Per chi ha commesso reati di questo tipo dall’entrata in vigore della nuova legge in poi non si discute: l’esecuzione della pena si svolgerà così. Ma è legittimo applicare il regime più punitivo anche ha chi il reato lo ha commesso prima? Fino a pochi mesi fa la giurisprudenza era costante nel sostenere che, non trattandosi di regole per l’accertamento di reato o l’irrogazione della pena, ma semplicemente di esecuzione della stessa, vale “il principio tempus regit actum e dunque una normativa che introduca una più severa disciplina è immediatamente applicabile”. Ma, recentemente, sulla base di un pronunciamento della Corte dei diritti dell’uomo, la Cassazione ha mutato linea, sostenendo che non si può “cambiare le carte in tavola” senza prevedere una norma transitoria, perché chi ha commesso un reato in precedenza non poteva avere piena consapevolezza di quali sarebbero state le conseguenze del suo gesto. Sul caso Bertoncello, la Sorveglianza di Venezia scrive che, sulla base della vecchia normativa, vi sarebbero stati elementi per concedere al geometra l’affidamento in prova, come chiesto dall’avvocato Tommaso Bortoluzzi; percorso impossibile, invece, con la Spazza-corrotti. In Veneto la questione riguarda anche l’ex amministratore della società autostrade Padova-Venezia, Lino Brentan, da pochi giorni messo in carcere, all’età di 71 anni, per scontare un residuo di 15 mesi per episodi di corruzione del 2010 e in attesa della decisione della Corte d’appello, a cui ha fatto ricorso l’avvocato Giovanni Molin. “Abbiamo già avviato una discussione con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per dirimere la questione sollevata oggi dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia - ha dichiarato ieri il leghista Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia del Senato - In tempi brevi si troverà sicuramente la quadra e la questione sarà superata con un intervento legislativo idoneo”. Separare le carriere nella magistratura. Sarà la volta buona? di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 9 aprile 2019 Il Parlamento ci riprova: in Commissione Affari costituzionali della Camera iniziano le audizioni sulla separazione delle carriere dei magistrati, una proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalle Camere penali e incardinata in quota Forza Italia. Non è detto che sia la volta buona, perché il ministro della Giustizia Bonafede è ferocemente contrario alla riforma, in perfetta sintonia con l’Anm, ma per la prima volta c’è un’adesione trasversale di deputati appartenenti a tutti i gruppi parlamentari, oltre 40, con la presenza a sorpresa anche di qualche Cinque Stelle. La separazione delle carriere è un vecchio cavallo di battaglia del centrodestra, e fece capolino anche nella bicamerale D’Alema, ma si è sempre arenata anche se - basta scorrere un manuale di diritto comparato - l’eccezione in questo campo è l’Italia. Il relatore, Paolo Sisto, ha tenuto a specificare che l’obiettivo non è quello di mettere i pm sotto il controllo del potere politico, ma di garantire ope legis l’indipendenza del giudice dal pm, parlando di una “divisione funzionale” tra chi accusa e chi giudica e di una “battaglia di matrice costituzionale per dare la certezza ai cittadini che chi giudica non strizza l’occhio a chi accusa”. Del resto, il modello del giusto processo previsto dall’articolo 11 della Costituzione non può realizzarsi senza un giudice terzo. Dunque, a fronte di una giustizia che non funziona, è indispensabile mettere in condizione il nostro sistema giudiziario di diventare più equilibrato ed efficiente. In questa prospettiva, la separazione delle carriere rappresenta lo strumento fondamentale per assicurare l’effettiva parità processuale tra accusa e difesa, i cui diritti sono stati troppo spesso compromessi da un esercizio anomalo del potere accusatorio. Troppe volte i pm, trasformando l’obbligatorietà dell’azione penale in una sconfinata discrezionalità, sono riusciti a imporre il principio della presunzione di colpevolezza dei soggetti indagati, dando vita a inchieste che, formulato il giudizio di primo grado, sono poi cadute in appello o in Cassazione. Ma dopo che gli imputati erano già stati condannati sui media in via preventiva. Il mito della magistratura infallibile alimentato dalla narrazione strabica degli anni di Tangentopoli ha perso molto appeal, anche se resta uno zoccolo duro e organizzato di paladini della giustizia utilizzata come palestra giacobina. L’esperienza dell’ultimo quarto di secolo ha ampiamente dimostrato che una riforma è ineludibile. Ma ogni volta che si parla di separazione delle carriere viene sempre rispolverato lo spauracchio della P2, un mero pretesto per non affrontare una questione cruciale. Anche perché uno dei primi fautori della separazione delle carriere fu il giudice Falcone che scrisse testualmente: “La faticosa consapevolezza che la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice”. Tema da affrontare senza paure, scrisse Falcone, “accantonando la spauracchio della dipendenza del pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, puntualmente sbandierati quando si parla di differenziazione delle carriere”. Una grande lezione di civiltà giuridica che non andrebbe dimenticata soprattutto ora che i seguaci della dottrina Davigo sono al governo. Anm: “Omicidio dei Murazzi colpa di carenze negli organici” di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2019 La paralisi della giustizia passa dalla carenza degli organici amministrativi. Lo sostiene l’associazione nazionale magistrati (Anm), secondo cui la tragica vicenda dell’omicidio di Stefano Leo a Torino impone una riflessione comune sulla situazione degli uffici giudiziari. Quella dell’Anm, presieduta da Francesco Minisci, è una sostanziale replica alla decisione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede di mandare gli ispettori al tribunale di Torino. Il problema, stando alle cronache e all’analisi dell’associazione, sta nei ritardi della macchina della giustizia. L’assassino, infatti, doveva essere in carcere almeno da nove mesi, da quando nel maggio del 2018 la Corte d’Appello di Torino aveva rigettato il ricorso del suo difensore contro una condanna a un anno e sei mesi per maltrattamenti in famiglia. Una decisione, quella del secondo grado, che aveva reso definitiva la sentenza di condanna. Il caso “dell’omicidio di Stefano Leo - dice l’Anm - impone, nella sua assurda tragicità, di prendere atto della situazione di gravissima carenza degli organici del personale amministrativo del settore Giustizia”. Per l’associazione, “l’assenza di assistenti, cancellieri, funzionari rende più difficile e lento pronunciare sentenze e, una volta che queste sono state emesse, ne impedisce la immediata esecuzione”. Il caso “verificatosi a Torino - continua - con la mancata trasmissione alla Procura della sentenza irrevocabile per la sua esecuzione, che avrebbe potuto portare alla carcerazione del condannato, non è stato determinato da un “errore” del singolo e, purtroppo, non è un caso isolato, né una eccezione”. Negli uffici giudiziari, ricorda l’Anm, ci sono “enormi arretrati a causa del numero troppo eseguo di addetti. La giustizia - insiste il sindacato delle toghe- non è solo la magistratura. I magistrati subiscono l’assenza di risorse e soffrono della impossibilità di fornire un servizio all’altezza delle aspettative dei cittadini”. Caso Cucchi. “Era a terra, gli fu dato un calcio in faccia” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 9 aprile 2019 La testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco. L’udienza davanti alla Corte di assise per la morte del geometra trentenne. “Chiedo scusa alla famiglia. Ero terrorizzato e i colleghi mi dissero “fatti gli affari tuoi”“. Ilaria Cucchi: “Dopo 10 anni in aula è entrata la verità raccontata dalla voce di chi c’era”. Al processo per la morte di Stefano Cucchi è il giorno della testimonianza di Francesco Tedesco, uno dei tre imputati - con Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro - per omicidio preterintenzionale. Lui che alcuni mesi fa ha confessato il violentissimo pestaggio nei confronti di Cucchi. “Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile” ha detto in aula all’inizio del suo interrogatorio. Poi il carabiniere ha iniziato a raccontare cosa è successo la notte dell’arresto di Cucchi, il 15 ottobre del 2009, nella caserma della Compagnia Casilina , incalzato dalle domande: “Al fotosegnalamento Cucchi si è rifiutato di farsi prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito, Cucchi ha dato uno schiaffo a Di Bernardo, uno schiaffo figurativo, ridicolo. D’Alessandro ha avvisato Roberto Mandolini (maresciallo dei carabinieri imputato di falso e calunnia nel processo bis per la morte di Stefano, ndr) che non voleva fare il fotosegnalamento e lui disse di rientrare. Di Bernardo e Cucchi hanno continuato a battibeccare e il primo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento, poi una spinta e il giovane è caduto. D’Alessandro gli ha dato un calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano”. In sintesi Cucchi riceve prima uno schiaffo poi un calcio e quindi cadendo a terra batte la testa, al punto che si sente il rumore. “È a quel punto che riceve un altro calcio, stavolta in faccia”. Il premier Conte: “Difesa si costituirà parte civile” - Sugli ultimi risvolti del caso Cucchi si è pronunciato anche il premier Giuseppe Conte, a margine di un evento alla Triennale di Milano: “Vi posso anticipare che il Governo è ben favorevole alla costituzione di parte civile in giudizio dell’amministrazione della Difesa”. “Ho avuto paura” - Continua a raccontare Tedesco, a rispondere alle domande del pm. “Ho avuto paura, mi sono trovato in una morsa dalla quale non sarei potuto uscire. Per questo ho parlato dopo nove anni”, ha detto il carabiniere superteste e imputato, replicando al pm Giovanni Musarò che gli chiedeva perché non avesse raccontato prima del pestaggio. “Avevo letto che Riccardo Casamassima (altro maresciallo dei carabinieri, principale teste nel processo contro cinque carabinieri, ndr) aveva cominciato a parlare - ha aggiunto - e capii che quel muro stava cadendo”. La lettura del gravissimo capo d’imputazione con il quale veniva contestato l’omicidio preterintenzionale “ha poi inciso molto, così come il pensare che ci potesse essere un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. Mi colpì che c’era scritto quello che avevo vissuto io, quello che avevo visto io. Non sono più riuscito a tenermi dentro questo peso”. Le parole del legale di Tedesco - Dopo il lungo racconto di Tedesco, questo è stato il commento dell’avvocato Eugenio Pini, riguardo alle parole del suo assistito: “Per me è la vittoria umana di una persona che per anni ha cercato di poter raccontare i fatti ma le pressioni subite glielo hanno impedito”. Ha poi aggiunto: “Da ora ci si deve ricordare e tenere ben presente che quando si parla del famoso muro di gomma, bisogna riferirlo non solo alle persone che dall’esterno hanno cercato di conoscere la verità, ma anche a chi da dentro ha cercato di raccontarla. Tedesco è una persona che, avendo difeso Cucchi durante il mancato fotosegnalamento e il pestaggio, ha dimostrato di volere salvaguardare e preservare la vita umana”. Drammatica deposizione - Tedesco ricorda quei drammatici momenti. “Basta, finitela, che c... fate, non vi permettete - racconta di aver detto ai colleghi. Aiutai Cucchi ad alzarsi, gli chiesi come stesse, mi rispose che stava bene. “Io sono un pugile”, mi disse. Ma si vedeva che era intontito”. “Dire che ebbi paura è poco. Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C’era agitazione. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza”. “Una sera venni chiamato al telefono da Di Bernardo e D’Alessandro che mi dissero “fatti i c... tuoi su quello che è successo, mi raccomando”“. Poi il carabiniere ha spiegato il ruolo di Mandolini che all’epoca dei fatti era a capo della stazione dove venne eseguito l’arresto: “Dopo la morte di Cucchi gli chiesi come dovevamo comportarci se chiamati a testimoniare e lui mi disse “tu devi seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere”“. La testimonianza di Tedesco ha permesso di riscrivere la vicenda per la quale, a suo tempo, erano stati giudicati alcuni agenti di polizia penitenziaria, completamente estranei al pestaggio. Ilaria Cucchi: “La verità è entrata in aula” - “Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno. Le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma (il riferimento è alla lettera scritta da Nistri, ndr) ci fanno sentire finalmente meno soli, si è schierato ufficialmente dalla parte della verità”. Queste le parole di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, dopo le dichiarazioni in aula del superteste Francesco Tedesco. “A differenza di quello che qualcuno dei difensori in ogni udienza dà ad intendere, chi rappresenta l’Arma non sono i difensori degli imputati ma è il loro comandante generale, che ora si è schierato ufficialmente dalla parte della verità - ha aggiunto Ilaria. Sentivo il carabiniere Tedesco descrivere come è stato ucciso mio fratello e il mio sguardo cercava quello dei miei genitori che ascoltavano raccontare come è stato ucciso il loro figlio. È stato devastante, ma a questo punto quanto accaduto a Stefano non si potrà mai più negare”. La lettera - Nei giorni scorsi il pm Giovanni Musarò ha chiuso le indagini nei confronti di otto carabinieri che, successivamente (e fino ai giorni nostri), avrebbero tentato di depistare l’inchiesta della Procura, intervenendo sui verbali e omettendo di consegnare documenti all’autorità giudiziaria. Fra questi ultimi figurano il generale Alessandro Casarsa, ex comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già comandante del Nucleo investigativo, indagati rispettivamente per falso e favoreggiamento. Prima dell’udienza era stata diffusa una lettera del comandante generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni Nistri che segna un radicale cambio di atteggiamento nei confronti del processo. “Il momento è arrivato. Lui c’era (riferendosi alla deposizione di Tedesco ndr.) e finalmente può raccontare”. Ha scritto, lunedì, Ilaria Cucchi in un post sul suo profilo Facebook. “L’abbraccio dell’Arma ci arriva oggi caldo e finalmente rassicurante. Il generale Nistri ci è vicino e non manca di farci sapere che il suo dolore è il nostro, che la nostra battaglia di verità è anche la sua. “Destituire Tedesco sarebbe stato un errore”. L’Arma non rimarrà spettatrice nei confronti dei depistatori. I giudici ora abbiano coraggio e responsabilità ed acquisiscano quei documenti di verità imbarazzanti che fanno ora paura solo agli imputati di oggi”. Caso Cucchi. La giustizia vale più dello spirito di corpo di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 9 aprile 2019 La legalità costituzionale, che comprende in sé il diritto all’inviolabilità della propria integrità psico-fisica e dunque il diritto a non essere maltrattati e torturati, non si ferma sulla soglia di una caserma dei carabinieri. A quasi due lustri dalla morte di Stefano Cucchi, dopo anni di indagini, dopo processi finiti nel nulla, dopo maldicenze e ingiurie nei confronti della famiglia di Stefano, dopo deviazioni e tentativi di infangare ingiustamente alcuni agenti di Polizia penitenziaria, giunge, inaspettata alla luce dei precedenti storici, e per questo ancora più importante, la decisione del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri di chiedere al Ministero della difesa di costituirsi parte civile nel prossimo procedimento penale per depistaggio, che vede il coinvolgimento di alcuni militari, i quali, come abbiamo sentito e visto nelle scorse settimane, avrebbero fatto di tutto per occultare una verità invece composta da pestaggi, violenza, torture, indifferenza e morte. È questa una decisione, successivamente confermata dal presidente del Consiglio, che restituisce dignità allo Stato e allo stesso tempo ripaga le vittime delle tante offese e calunnie subite. Le istituzioni italiane molto debbono a Ilaria Cucchi e ai suoi genitori. Senza la loro caparbietà, senza il loro infinito dolore, senza la fatica di un’instancabile Ilaria, capace di fare da muro contro calunniatori e miserabili anonimi aggressori, e senza la strategia, di certo non difensiva per usare una metafora calcistica, dell’avvocato Anselmo e degli altri legali, Stefano Cucchi sarebbe stato uno dei senza nome e dei senza storia che sono morti nelle mani dello Stato. Lui invece ha un nome, ha un volto, ha un’anima, ha una storia grazie a Ilaria e a chi, con lei, ha lottato stoicamente per la giustizia e la verità. Nei casi di tortura e maltrattamenti il raggiungimento della verità storica attraverso il processo non può che essere un affare di Stato. Non è qualcosa che riguarda solo una madre, un padre o una sorella. La violenza istituzionale è sempre una questione che riguarda l’intera comunità. Non è ridimensionabile a un delitto tra privati ma è un crimine di rilevanza pubblica. È lo Stato che deve preoccuparsi di proteggere i propri cittadini dai suoi custodi infedeli. È lo Stato che deve difendere la memoria delle vittime di tortura dai loro carnefici. È lo Stato democratico che viene ferito quando la legalità si ferma sul portone di una caserma, di un commissariato, di un carcere, di un centro per migranti. Ieri il Generale Giovanni Nistri ha scritto che il dolore di Stefano è il nostro dolore. Ha ragione. Il dolore di Stefano, il dolore di Ilaria è il dolore di tutti noi. Deve essere il dolore di chi rappresenta le istituzioni, le quali non devono mai sottrarsi alla giustizia. La divisa non dà diritto all’immunità penale. Di fronte a tutti i casi di abusi, maltrattamenti, tortura lo Stato dovrebbe sempre costituirsi parte civile. La decisione annunciata dal comandante generale dell’Arma non ha precedenti significativi. Nella storia dell’Italia repubblicana le forze dell’ordine sono state sempre protette, come abbiamo visto accadere a Genova per le torture alla scuola Diaz e alla Caserma di Bolzaneto, da un insano spirito di corpo che nuoce alla verità e alla democrazia. Lo spirito di corpo non fa bene alla trasparenza; è l’elogio della reticenza. La retorica delle male marce a protezione dello spirito di corpo è solo una formula auto-assolutoria. La decisione del Generale Nistri, dunque, speriamo contribuisca a spiegare a tutti che la giustizia viene sempre prima dello spirito di corpo. Caso Cucchi. Capitano Ultimo attacca il generale Nistri: “Difenda anche i militari dell’Arma” di Francesco Grignetti La Stampa, 9 aprile 2019 Il nuovo sindacato dei militari in rotta con la politica e l’opinione pubblica. La politica vuole una svolta sul caso Cucchi. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ricevendo Ilaria al ministero, aveva già espresso chiaramente con chi stava. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ieri lasciava intuire come la pensa: “È una di quelle occasioni in cui mi piacerebbe dire qualcosa, però non dico nulla”. E dice anche il presidente della Camera, Roberto Fico: “Sono contento delle parole del generale Nistri. Questo è un passaggio molto importante, perché rafforza le istituzioni”. Ma è il governo tutto che si sta schierando. Sempre ieri, il premier Giuseppe Conte ha annunciato di essere “favorevole alla costituzione di parte civile da parte del ministero della Difesa”. Il vero colpo di scena viene dal comando generale dei carabinieri. Con una lunga lettera alla famiglia, il generale Giovanni Nistri ha annunciato la volontà dell’Arma, qualora matureranno i presupposti giuridici, di costituirsi come parte civile contro i militari imputati. Scrive Nistri ai Cucchi di “nutrire la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà”. La svolta è clamorosa. Evidentemente le novità che un passo alla volta emergono dal palazzo di Giustizia, grazie alla tenacia del procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, stanno demolendo le residue resistenze dell’Arma. A Ilaria Cucchi non sfugge il valore di queste parole. “La lettera - ha raccontato - è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi”. Un cambio di passo che però rischia di spaccare l’Arma, dove lo spirito di corpo è fortissimo e così anche la tentazione di lavare i panni sporchi in famiglia. Il malumore ha trovato voce in un neonato sindacato, il Sim-Sindacato dei militari, la cui costituzione è appena stata autorizzata dal ministro, e che da ora in avanti sarà sempre più una vera controparte per la gerarchia. “Il Sim Carabinieri - scrivono - prende atto della dichiarazione del comandante generale dell’Arma, esprimendo soddisfazione della volontà di difendere l’immagine di tutta l’Arma, nella misura in cui verrà accertata ogni responsabilità di pochi infedeli, per la tutela di tutti i Carabinieri che svolgono il loro servizio con dedizione ed onestà”. E fin qui sembrerebbe una posizione allineata al vertice. Ma non è così. “Il Sim Carabinieri allo stesso modo non può non dichiarare con fermezza, la profonda delusione e amarezza per non aver mai sentito dagli stessi vertici dell’Arma, la possibilità di costituirsi parte civile in favore e a difesa dei Carabinieri che subiscono sputi e insulti da manifestanti nelle piazze o negli stadi, dai Carabinieri che vengono insultati solo per avere indosso una divisa, dai Carabinieri che sui social vengono posti come bersaglio di frasi di odio e nefandezze al loro indirizzo e dei loro familiari”. I carabinieri raccolti nel sindacato si sentono abbandonati, insomma. In rotta con la politica e con l’opinione pubblica. “Il Sim Carabinieri auspica che da oggi, e per tutti i giorni a venire, il generale Giovanni Nistri senta l’impulso per chiedere all’Arma di costituirsi parte civile in ogni processo in cui ogni Carabinieri è parte lesa. Noi lo faremo, perché nessuno sarà mai più lasciato solo!”. E c’è da crederci, perché il presidente del sindacato è il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio, una leggenda vivente dentro l’Arma, ancorché in rotta da sempre con le gerarchie. Cella inumana se il bagno è separato dal resto con un muro alto solo un metro di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2019 Corte di cassazione - Sezione tributaria - Sentenza 8 aprile 2019 n. 15306. Se da una parte la funzione del carcere è quella rieducativa, è anche vero che il detenuto va posto nelle condizioni igienico-sanitarie minime per poter percorrere tale percorso riabilitativo. La Cassazione - con la sentenza n. 15306/19 - ha precisato che la singola cella va considerata inumana quando il bagno sia separato dal resto dello spazio con un muro alto un metro. A tal proposito la Corte ha richiamato l’articolo 3 della Convezione Edu secondo cui “va assicurato che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stato di sconforto né a una prova i intensità che ecceda l’inevitabile livello di sicurezza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. Va rilevato quindi che se la cella è di 3mq, occorre considerare tale grandezza in senso assoluto, ossia non devono sussistere letti a castello, bagni, armadi e suppellettili varie che possano decurtare tale grandezza. Così come non è possibile che la cella non abbia adeguata luce, ventilazione e temperatura. Il detenuto aveva eccepito di aver espiato la pena per lungo tempo presso il carcere di Fossombrone, presso il quale la sua cella aveva il bagno a vista. Sul punto la Cassazione è stata chiara riconoscendo le ragioni del detenuto per essere stato detenuto in spazi angusti e poco igienici. Proprietario sotto accusa se cadono blocchi dal balcone di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 7665/2019. Delle lesioni causate dallo stato manutentivo fatiscente di un balcone risponde penalmente il proprietario. Il principio è stato applicato dalla Corte di cassazione (sezione penale, sentenza 7665/2019) al caso di una condomina che era stata condannata in primo grado per i reati di lesioni personali colpose (articolo 590, commi 1 e 2 del Codice penale) e di omissioni di lavori in edifici o costruzioni che minacciano la rovina (articolo 677 ,comma 3, del Codice penale ma questo reato veniva poi cancellato in appello) perché, non avendo provveduto a eseguire i lavori necessari per rimuovere il pericolo di crollo che minacciava il suo balcone, si era resa responsabile delle lesioni personali causate a un passante, mentre transitava sotto il suo balcone, a seguito della caduta di frammenti di cemento staccatisi proprio dal balcone. La proprietaria del balcone ricorreva in Cassazione sostenendo che non le era nota la situazione di pericolo perché, per motivi di lavoro, si recava saltuariamente nell’abitazione e solo nel periodo estivo tanto che aveva incaricato, con delega orale, un “amministratore di fatto del condominio” (che era poi il marito) e, pertanto, chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata e l’esonero da qualsivoglia personale responsabilità. Colpevole di negligenza sarebbe stato qundi l’amministratore “di fatto”. La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso, ha condiviso le motivazioni dei giudici di appello i quali, sulla base delle risultanze processuali, avevano stabilito che la ricorrente non solo aveva l’obbligo di agire e predisporre i lavori necessari per la rimozione di pericolo ma che si trovava nelle condizioni concrete di rendersi conto che l’immobile di sua proprietà necessitasse di lavori per la messa in sicurezza degli intonaci stante lo stato di degrado documentato anche dai Vigili del fuoco. In ogni caso, afferma la Cassazione, indipendente mente dalla delega scritta od orale, il proprietario dell’immobile sarebbe comunque responsabile: “Il delegante dovrà essere chiamato a rispondere per il reato proprio, sia quando il conferimento della delega non sia stato adeguato (per colpa o dolo) all’assolvimento dell’obbligo, sia quando non sia intervenuto, potendolo fare, per garantire l’adempimento da parte del delegato degli obblighi, di cui rimane pur sempre titolare”. La Spezia: trovato morto nella sua cella, la procura apre un’inchiesta di Corrado Ricci La Nazione, 9 aprile 2019 Il detenuto, 28 anni, era solo, steso sul letto in stato soporoso: vani i tentativi di rianimazione. All’appello del personale sanitario per la consegna dei tranquillanti funzionali a prendere sonno non ha risposto. Steso sul letto della cella, russava profondamente. È stato scrollato, ma non si è destato. Un’anomalia che ha indotto l’infermiere ad approntare il suo trasferimento nella sala medica della casa circondariale, a procedere lì ai tentativi di rianimazione e ad allertare il 118. Quando i sanitari dell’Asl sono arrivati, non hanno potuto fare altro che constatare l’arresto cardiaco. È spirato così, nel sonno, un detenuto di 28 anni, Gianluca Elmekki, nato a Torino da genitori di origine magrebina. Nessuna traccia esterna riconducibile ad una morte violenta. Ma una morte misteriosa. Per risalire alle cause il pm di turno Maria Pia Simonetti ha disposto l’autopsia. Nessun indagato e nessuna ipotesi di reato. Solo un fascicolo aperto nella forma degli atti relativi. Quel che è certo è che il detenuto non aveva compagni di cella: era solo a scontare un fine pena per rapina. Per tornare il libertà doveva attendere ancora due anni. “Una morte assurda, sulla quale vogliamo sia fatta piena luce” dicono i familiari che, in un primo momento, avevano ipotizzato una colluttazione. Niente di tutto questo. Ma uno stato soporoso, riscontrato dai primi soccorritori, che potrebbe essere conseguenza di un abuso di farmaci o di sostanze stupefacenti. Ma in ordine a questa eventualità, e all’ipotesi di un fornitore occulto, non c’è alcun riscontro. Di qui, per fare chiarezza sul primo elemento capace di orientare le indagini in una direzione o nell’altra o ad archiviare il fascicolo per morte naturale, l’accertamento medico legale disposto dalla procura. Gianluca Elmekki era giunto alla Spezia da alcune settimane, proveniente dal carcere di Novara. Nel suo passato, la consumazioni di reati contro il patrimonio e contro la persona. I fatti contestati erano avvenuti in Piemonte. L’ultimo per il quale doveva scontare la pena ad una rapina ad un passante, in una via di Torino. Biella: nella “Casa di lavoro” anche l’unica trans internata d’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2019 Erano 27, purtroppo uno di loro è morto in circostanze da chiarire, le persone internate e costrette a vivere senza lavoro. Senza lavoro, abbandonati a se stessi, uno è morto in circostanze ancora da chiarire e c’è una transessuale che, di fatto, è in isolamento e l’amministrazione penitenziaria non sa trovarle una sezione adeguata perché è l’unica internata trans d’Italia. Parliamo degli internati al carcere di Biella che al 13 marzo risultavano essere ben 27 (tra cui 6 sono stranieri), ora uno in meno perché martedì scorso è morto un ragazzo italiano di 33 anni e sarà l’esame autoptico programmato mercoledì pomeriggio per capirne le ragioni. La “casa lavoro” al carcere di Biella è stata inaugurata nel 2017, ma di fatto il lavoro non c’è e quindi, come il caso di Tolmezzo più volte affrontato da Il Dubbio, i magistrati non hanno gli strumenti per valutare la mancata pericolosità dell’internato e quindi diventa pressoché automatica la proroga per la misura di sicurezza. Ufficialmente non scontano una pena detentiva, perché hanno già pagato il loro conto con la giustizia. Per questo motivo, nel glossario del diritto penitenziario, vengono definiti “internati” per distinguerli dai “detenuti”. In sintesi, sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati ancora pericolosi. Secondo i dati risalenti al 2018, sono 330 gli internati sparsi in tutte le carceri. Alcuni sono internati in 41 bis, altri nelle sessioni normali dove ci sono i detenuti, altri ancora - e sono tanti - si trovano illegalmente internati nei penitenziari in attesa di trovare posto nelle Rems. Ma ritorniamo al caso riguardante il carcere di Biella. “Più volte ho attenzionato il ministero della Giustizia per risolvere il problema della mancanza di lavoro e trasferire gli internati in una struttura adeguata per loro”, spiega a Il Dubbio la garante dei detenuti del comune di Biella Sonia Caronni. “Doveva esserci un progetto di sartoria - spiega la Garante - c’è, ma in forma ridotta e gli internati che sono stati inviati in carcere non sono compatibili all’utilizzo degli strumenti richiesti dal laboratorio”. Quindi il progetto lavorativo per gli internati è venuto a cadere. Cosa fare? “Ho provato qualsiasi strada - racconta la Garante - ho provato a chiedere al Prap (provveditorato Regionale, l’organo decentrato del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ndr) affinché si attivasse per trovare una struttura adatta, poi si è messo in moto il territorio che aveva individuato una struttura deputata all’accoglienza per le persone in misure alternative o a fine pena, che però a causa del fallimento di una cooperativa è stata messa all’asta”. Ma una speranza si è accesa. C’è Caritas Biella disposta ad acquistarla, anche a seguito della conferenza stampa del 27 dicembre scorso organizzata dal Garante regionale Bruno Mellano. “La Caritas - sottolinea Sonia Caronni ha chiesto di mettersi in relazione con il ministero per capire come strutturare questo modello, ma finora non c’è stata nessuna risposta”. Il problema, nonostante che il territorio piemontese e diverse realtà sociali si sono messe in moto, rimane con tutte le criticità che rischiano di lasciare a se stessi gli internati, dove alcuni di loro hanno anche evidenti problematiche di carattere psichiatrico, con l’aggiunta che c’è una internata transessuale che si è fatta 360 giorni di isolamento perché non si sapeva come gestirla, visto che non può, per ovvie ragioni, stare insieme agli altri. “Solo da poco è stata trovata una sistemazione in infermeria - spiega sempre la Garante - ma si trova, di fatto, isolata da tutto il resto”. È stato richiesto al Dap una sua sistemazione presso qualche sezione per trans, ma non è una detenuta ed è il primo caso di internata transessuale. Parma: Giustizia riparativa, protocollo per sperimentare pene alternative al carcere parmatoday.it, 9 aprile 2019 L’assessora al Welfare del Comune di Parma Laura Rossi, Maria Paola Schiaffelli per l’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna di Reggio Emilia, Parma e la presidente dell’associazione Forum Solidarietà Elena Dondi hanno presentato e siglato il disciplinare di un accordo in merito alla giustizia riparativa. La giustizia riparativa come alternativa all’azione penale per dare una risposta concreta ed efficace a una serie di piccoli reati, senza arrivare a un processo ma seguendo un percorso che coinvolga in modo virtuoso il reo, la vittima e la comunità. Il modello arriva anche a Parma e ha preso la forma di un protocollo d’intesa, firmato in municipio tra enti e associazioni coinvolti forte di statistiche che vedono abbassarsi notevolmente i numeri dei recidivi che abbiamo scontato la pena attraverso forme sostitutive alla detenzione. Si realizzeranno azioni sperimentali nell’ambito della giustizia riparativa grazie a questo accordo siglato dal Comune di Parma, dall’Associazione Forum Solidarietà e dall’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna di Reggio Emilia, Parma e Piacenza e finalizzato alla realizzazione di azioni nell’ambito della giustizia riparativa. “Credo molto in questo percorso” ha esordito Laura Rossi “e vi investirò nei prossimi mesi. Molti entrano in carcere senza capire, senza fare un lavoro verso quello che hanno compiuto, senza sanare con il tempo di reclusione, la loro frattura con la società. Per i cittadini bisogna ragionare in un’ottica diversa. La giustizia riparativa abbraccia una realtà molto ampia che immagina per persone ai domiciliari un lavoro di restituzione sociale, attività di volontariato in cui saremo appoggiati da Forum Solidarietà per costruire tasselli di un accordo con la comunità”. Tra le azioni più rilevanti che si concretizzeranno vi saranno possibilità, attraverso la collaborazione e disponibilità delle Associazioni ed Enti del Terzo Settore, per le persone all’interno del circuito penale di svolgere attività gratuite in favore della collettività. Rappresenta una “chiamata” alla cittadinanza attiva del territorio di Parma. “Con il protocollo di oggi si concretizzano tipologie di attività, di messa alla prova in attività di pubblica utilità per persone in condizione di sospensione del giudizio rappresentano una risposta organizzata per una condizione che ha numeri in crescita esponenziale. La persona indagata per reato o imputata di reato può chiedere l’autorizzazione del Tribunale per svolgere ore di volontariato pubblico attraverso le quali potrà veder estinto il reato commesso. Attraverso un tempo personale e attività che “si sanno fare” che vengono svolte gratuitamente per favorire ed incrementare nel territorio le risorse idonee ad accogliere queste persone” Maria Paola Schiaffelli ha descritto così le modalità della novità giudiziaria. La GR propone la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. In altri termini, le esigenze di riparazione sono attente alle modalità possibili di ricostruzione del tessuto sociale, più che a quelle di punizione dei colpevoli: il passato non viene dimenticato, ma assunto in maniera tale da essere una spinta costruttiva a responsabilizzarsi maggiormente in futuro. Si tratta di un progetto sperimentale che prevede, inoltre, momenti di informazioni, eventi pubblici, seminari finalizzati alla diffusione e condivisione della cultura della “riparazione”. “Forum si occuperà di una funzione di “centrifuga”, di accogliere le domande e presentare il suo inserimento in realtà conosciute, al Tribunale. Un lavoro di coordinamento che punta a contesti inclusivi e che vada a stimolare un riscatto, un cambio valoriale per sé e per la società. Un’inversione di rotta rispetto ad una mentalità “parassitaria” o di separazione. Il reato oggi è visto come una rottura con il patto fiduciario col prossimo, questo strumento vuole essere un percorso di riparazione” Ha dichiarato Elena Dondi. Infine è in fase di programmazione la nascita sul territorio di uno sportello di mediazione rivolto sia alle vittime e agli autori di reato sia ai cittadini coinvolti in situazioni di conflittualità. Santa Maria Capua Vetere (Ce): visita della delegazione Pd col Garante dei detenuti casertanews.it, 9 aprile 2019 Visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere del consigliere regionale Stefano Graziano, dell’europarlamentare Pina Picierno e del deputato Piero De Luca insieme al garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. La delegazione del Partito democratico ha pranzato alla mensa degli agenti e poi visitato il padiglione femminile. Si è avuto modo di verificare le attività svolte dalle detenute, impegnate in vari progetti anche lavorativi. Al momento nella struttura ci sono circa 1050 detenuti per 400 agenti. Una carenza di organico che De Luca si è impegnato a portare all’attenzione del ministero. Graziano ha ricordato che il governo De Luca ha finanziato la condotta idrica e ha raccolto la richiesta della direttrice Palmeri per avere più specialisti ambulatoriali in modo da ridurre gli spostamenti dei detenuti per motivi medici. Inoltre avvierà una verifica per capire se ci sono le condizioni per riaprire il reparto penitenziario al San Sebastiano di Caserta. Napoli: tavola rotonda “Carcere e reinserimento sociale, una questione costituzionale” ildenaro.it, 9 aprile 2019 Venerdì, alle ore 17, presso la Biblioteca comunale di Cercola, nel napoletano, si terrà la presentazione di “Mi chiamano sbandato” edito nel 2019 da Il Galeone, del detenuto Eugenio Deidda, presente in via eccezionale grazie ad un permesso. Alla presentazione seguirà la Tavola Rotonda “Carcere e reinserimento sociale: una questione costituzionale”, evento patrocinato dal comune di Cercola e organizzato dall’associazione Dimensione Forense. La presentazione inizierà alle ore 17 con i saluti dell’avvocato Armando Rossi, consigliere del Coa, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, e poi dal presidente di Dimensione Forense, Francesco Donzelli. Il dibattito, moderato dal giornalista di FanPage Giuseppe Manzo, vedrà alternarsi al microfono Eugenio Deidda in arte Edmond, autore del libro, Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania, Immacolata Romano, avvocato penalista, Giuseppe Milazzo, avvocato penalista e coordinatore Dipartimenti di Dimensione Forense. Durante l’incontro interverrà anche il sindaco di Cercola, Vincenzo Fiengo. L’incontro verterà sul tema del reinserimento sociale per gli ex detenuti come dovere morale ma soprattutto una questione costituzionale. “Di carcere e reinserimento sociale non se ne parla mai abbastanza e noi di Dimensione Forense, che ho l’onore di presiedere, abbiamo deciso di farlo presentando il libro ‘Mi chiamano sbandato’”. Lo ha dichiarato Francesco Donzelli, presidente di Dimensione Forense. “Ringrazio - ha proseguito Donzelli - il Garante detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che ha accolto il nostro invito. Di estrema importanza è la presenza dell’avvocato Armando Rossi del Consiglio dell’Ordine di Napoli nonché componente dell’Organismo Congressuale Forense. Un ringraziamento va al sindaco del comune di Cercola che ha patrocinato il convegno offrendoci la disponibilità della biblioteca comunale. È importante che di questi temi se ne discuta sui territori, coinvolgendo la cittadinanza attiva, perché il rischio che troppo spesso si corre è quello dell’autoreferenzialità. Noi siamo invece convinti della necessità di portare all’esterno la discussione, aggregando cittadini, avvocati e istituzioni”. “Carcere e reinserimento sociale - ha concluso il presidente di Dimensione Forense - non sono problemi che riguardano solo alcuni o ascrivibili ai soli addetti ai lavori, ma sono argomenti che interrogano l’intera comunità democratica”. In merito si è espresso anche il consigliere dell’ordine degli avvocati di Napoli, Armando Rossi: “Il carcere è uno di quei temi da porre con sempre maggiore insistenza nel dibattito politico e culturale del nostro paese. La privazione della libertà non può e non deve assolutamente coincidere con la sottrazione della dignità umana del detenuto. Penso al sovraffollamento carcerario, i cui numeri raccontano il dramma di una vera e propria emergenza sociale”. “Altro tema centrale e nevralgico - ha sottolineato il consigliere dell’ordine - è quello del reale inserimento sociale dopo la detenzione: non dimentichiamo che lo scopo precipuo della pena è quello della rieducazione. Ebbene, temi importanti che interrogano tanto il Legislatore quanto tutti gli operatori del diritto. Come rappresentante del Coa Napoli e dell’Ocf ho accolto con molto piacere l’invito al convegno promosso dall’associazione Dimensione Forense”. “È importante - ha concluso Rosse - che su questi temi l’avvocatura sia compatta e coesa, facendo sentire la propria instancabile voce”. Infine Samuele Ciambriello, che si definisce come Garante campano delle persone private delle libertà personale, riguardo all’autore ha detto: “Questo libro rappresenta un unicum di straordinarietà ed emozioni - dice. L’autore porta al grande pubblico un proprio bagaglio esperienziale con uno strumento quasi lirico. Chiosa con un linguaggio asciutto un viaggio entusiasmante che mette insieme percorsi di vita che non temono il rischio della contaminazione, ed anzi è lui stesso a contaminare gli altri”. “Voglio - ha concluso Ciambriello - vivere l’attesa e lo stupore di incontrarlo faccia a faccia e per quelli che verranno alla presentazione garantisco che ci sarà questo un grande trasporto emotivo ed una contaminazione di idee importante”. Roma: giovedì l’incontro “Il carcere e la speranza, un percorso di vita nuova” agensir.it, 9 aprile 2019 “Il cammino di ogni essere umano, a volte, può conoscere momenti di caduta e di errore. Tutti possono sbagliare. Ma tutti hanno il diritto di essere aiutati ed accolti, per cominciare una vita nuova e tornare a dare il proprio contributo alla società”. Di questi temi si parlerà giovedì 11 aprile 2019, alle 14.30, all’Università Europea di Roma (via degli Aldobrandeschi 190) nell’incontro “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova” organizzato dall’Ufficio formazione integrale dello stesso ateneo in collaborazione con la Società di San Vincenzo De Paoli. Dopo il saluto di padre Gonzalo Monzon, direttore dell’Ufficio formazione integrale dell’Università europea di Roma (Uer) , interverranno Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, e Claudio Messina, delegato nazionale per le carceri della Società di San Vincenzo De Paoli. Verrà presentata anche la testimonianza della vittima di malagiustizia Roberto Giannoni, che ha conosciuto il carcere da innocente. Trarrà le conclusioni Carlo Climati, direttore del Laboratorio “Non sei un nemico!” dell’Università europea di Roma. “Povertà tra le povertà - afferma Gianfico - il carcere rappresenta un impegno di carità tra i più difficili e coinvolgenti”. “L’aiuto dei volontari - prosegue il presidente - non si riduce ad una visita fine a se stessa, ma coinvolge il detenuto in un percorso di recupero e prevenzione. Ed è questo che offre la Società di San Vincenzo De Paoli: non solo un sostegno materiale, ma soprattutto attenzione umana, amicizia, aiuto a redimersi, a ritrovare se stesso e un giusto ruolo nella società”. L’Associazione si preoccupa anche della cura delle famiglie che hanno congiunti in carcere, accompagnandole in un cammino di educazione alla legalità per scongiurare il fatto che i figli possano ricadere negli stessi errori dei propri genitori. Nell’occasione verrà anche presentato il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, concorso letterario riservato ai reclusi delle carceri italiane, organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il Ministero della Giustizia e il patrocinio di Camera e Senato. Milano: a cena InGalera, il ristorante nel carcere di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 9 aprile 2019 Il locale aperto nell’istituto di Bollate (Mi). In tre anni sono passate 50mila persone. Qui lavorano 14 detenuti e sono tutti assunti. L’orgoglio è tutto in quel numero: quattro. “Un numero che di certo sembrerà piccolo, insignificante a chi non sa nulla di carcere, a chi non ne mastica la quotidianità, ma che in realtà è enorme e più che un numero è un segnale. Importantissimo”. Così Silvia Polleri, presidente della cooperativa sociale “Abc, La Sapienza in Tavola”. La signora, milanese, due figli, tre nipoti, curriculum da educatrice dell’infanzia (e due anni di servizio civile in Africa, insieme al marito medico e ai due bambini, quando erano ancora piccoli), ha creato nel 2004 nel carcere di Bollate un catering (banqueting di altissima qualità), undici anni dopo il ristorante InGalera, primo e unico locale in tutta Italia, dentro le mura di una prigione (aperto al pubblico esterno). Quel quattro indica il numero delle persone che, dopo il percorso lavorativo interno, una volta fuori hanno trovato un’occupazione nel settore alberghiero. “Non un lavoretto qualsiasi, e nemmeno il part-time: una vera assunzione, a tempo indeterminato”, precisa lei. Da InGalera, il ristorante nel carcere più stellato d’Italia, come si legge nel loro sito (“Una boutade, ma ci cascano in tanti, e molti ci chiedono come abbiamo fatto a guadagnare la stella Michelin”), sono passati in poco più di tre anni oltre cinquantamila persone. “E pensare che l’obiettivo del progetto era offrire posti di lavoro e gettare le basi per il futuro. In realtà non stiamo solo dando lavoro, e quindi speranza, stiamo creando un ponte fra interno ed esterno”. Polleri racconta che spesso, mentre passa fra i tavoli, si sente tirare per una manica. “Signora, signora”, le chiedono a bassa voce, “ma i camerieri sono tutti detenuti?”. Ecco il punto. “Il ristorante offre la possibilità di vedere, a chi non si è mai posto il problema della detenzione, cosa significhi un buon percorso di riabilitazione. E questo è fondamentale, perché il “fine-pena mai” non lo infliggono i magistrati, ma la società”. Nel ristorante, aperto a mezzogiorno e di sera, lavorano 12 detenuti in esecuzione di pena e 2 in affido al territorio. “Tutti interni, tutti assunti regolarmente. Anche maitre e chef, veri professionisti: lo chef arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi, mentre nella brigata ci sono persone che avevano già esperienza nella lavorazione dei cibi ed altre partite da zero”. Il cliente è trattato con i guanti bianchi, accolto da un cameriere in livrea, seguito per tutta la cena con garbo, gentilezza. Lei ride, scherzando afferma “ho portato il bon ton in carcere”, e si spinge oltre, fino ad arrivare a dire: “è il modo giusto per ribaltare l’immaginario collettivo del galeotto brutto e cattivo”. Polleri insiste su un concetto: “A Bollate non si fa nulla che non sia previsto dalla legge”, rimarca. “InGalera aiuta a riappropriarsi o ad apprendere la cultura del lavoro, con un percorso di formazione e di responsabilizzazione. È solo il trampolino per il lungo salto esterno”. Intanto snocciola anche numeri. Nel carcere modello alle porte di Milano il tasso di recidiva è più basso che altrove. “Siamo intorno al 1796 contro una media nazionale che arriva, in certi casi, a sfiorare il 7096”. Si toglie dalle scarpe altri sassolini e spiega che nel cedolino della busta paga, a fine mese, ci sono i contributi. “Capite la logica? È straordinario: durante il regime di detenzione fanno la loro parte”. Da un anno, da InGalera si tengono anche eventi a tema. “Abbiamo iniziato con le cene con delitto, quasi scontate, nel posto giusto al momento giusto - ironizza - poi abbiamo aperto alle presentazioni di vini, e ora proponiamo serate culturali. Parlano i detenuti, le guardie carcerarie, gli operatori. È un nuovo piccolo passo in avanti, facciamo di tutto per far capire al grande pubblico l’importanza della riabilitazione, dell’inclusione, delle porte che devono restare aperte”. Siamo ai saluti. La signora è di fretta. Si concede un attimo veloce sulla sua pagina FB. Confessa di avere un nickname in tema carcere. “Altrimenti mi beccano tutti e io non ho il tempo”. Una vita di corsa: “Senza rimpianti, la gioia di regalare le ali a un detenuto è immensa. Vorrei tenerli tutti con me!”. Criminalizzare l’immigrazione serve al mercato della sicurezza di Alessandra Briganti Il Manifesto, 9 aprile 2019 È un giro d’affari di 16 miliardi di euro con una previsione di crescita dell’8% all’anno. E che l’esternalizzazione delle frontiere sostenuta dall’Ue fa lievitare a dismisura. Rendere clandestina l’immigrazione ha un suo tornaconto. Spacciarla per emergenza e dichiararvi guerra, quel tornaconto lo fa lievitare in modo esponenziale. C’è un tornaconto politico, quello dei sovranisti che basano il loro consenso elettorale sulla distorsione del fenomeno migratorio e delle dinamiche complesse che gli sottendono. C’è poi un tornaconto economico, quello dell’industria della sicurezza che ha trasformato l’Europa in una trincea militarizzata: motovedette, droni, veicoli per la polizia di frontiera, telecamere di sorveglianza, sistemi biometrici. Un giro d’affari di 16 miliardi di euro con una previsione di crescita dell’8% all’anno. Insomma un mercato in piena espansione che aumenta al crescere delle tensioni ai confini. I dati sui flussi migratori ci raccontano però che il numero di migranti giunti in Ue nel 2016, uno degli anni record in termini di arrivi, corrisponde appena allo 0.25% della popolazione europea. Una percentuale troppo bassa per parlare di invasione. Per trarre dei profitti sempre più consistenti quindi è necessario alimentare l’idea emergenziale del fenomeno. In che modo? La partita si gioca su vari livelli. La ricerca, ad esempio. Nei progetti finanziati da programmi europei come Horizon 2020 le industrie del settore figurano a volte come partner. In tali progetti si inquadra l’immigrazione clandestina come una “minaccia alla sicurezza” che può essere affrontata solo con l’uso di adeguati sistemi di sorveglianza. Quelli forniti da loro, ça va sans dire. Società come Thales, Airbus, Leonardo (ex Finmeccanica) svolgono poi un’intensa attività di lobby a livello europeo direttamente e attraverso associazioni di categoria. Per dare un’idea: la European Organisation for Security e la Aerospace and Defense Industries Association of Europe, le due associazioni più attive su questo piano, hanno speso 600mila euro in attività di lobby nel solo 2015. L’obiettivo è fornire informazioni e possibilmente influenzare le politiche dell’Ue nel settore della difesa in generale e in quello dell’immigrazione, in particolare. L’Europa si è mostrata particolarmente sensibile a questi richiami. Politicamente, l’Ue ne ha sposato la linea securitaria. Finanziariamente, ha destinato sempre più risorse alla gestione delle frontiere. Per il bilancio pluriennale dell’Ue (2021-2027) in discussione in questi mesi, la Commissione ha proposto di quadruplicare i finanziamenti per la gestione delle frontiere, portandoli da 5,6 miliardi per il periodo 2014-2020 a 21,3 miliardi per il periodo 2021-2027. Di questi 9,3 miliardi di euro andranno alla creazione di un nuovo Fondo per la gestione integrata delle frontiere (Integrated Border Managament Fund - IBMF), che raddoppia in sostanza il bilancio attuale del Fondo per le frontiere esterne e del Fondo per la sicurezza interna. Impietoso è anche il confronto tra la spesa destinata alla gestione delle frontiere e quella riservata alle politiche di asilo e dell’immigrazione, pari queste ultime a 11,3 miliardi di euro di cui la parte più consistente, il 40%, andrà a finanziare i rimpatri. Nei programmi della Commissione figura poi un ulteriore rafforzamento di Frontex. Il caso dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera è forse il più emblematico del nesso tra fenomeno migratorio e industria della sicurezza. In poco più di un decennio il bilancio di Frontex è cresciuto del 5233%, da 6 milioni di euro stanziati nel 2005 a 320 milioni di euro erogati nel 2018. Un aumento che si spiega con l’ampliamento dei poteri e soprattutto della capacità di spesa dell’agenzia che si traduce in un’eccezionale opportunità di guadagno per l’industria della sicurezza. Nonostante la pressione dei flussi migratori sia in calo, la Commissione europea ha proposto di sestuplicare il bilancio dell’agenzia, portandolo a 1,87 miliardi di euro entro il 2027. Il che consentirà di incrementare il corpo permanente da 1500 a 10000 unità e di ampliarne il raggio d’azione. Negli ultimi mesi, infatti, Frontex è impegnata a concludere una serie di accordi di cooperazione per la gestione delle frontiere con i Paesi dei Balcani. Accordi che prevedono il dispiegamento degli agenti Frontex lungo la rotta balcanica e lo svolgimento di operazioni congiunte con tali Paesi. E qui veniamo a un altro importante capitolo della politica di sicurezza europea, l’esternalizzazione delle frontiere. Ossia il tentativo dell’Europa di trasformare alcuni Paesi terzi, per lo più dei Balcani e africani, in nuove guardie di frontiera in grado di arrestare i migranti lungo il cammino verso l’Ue. L’evidenza mostra però come questa soluzione, lungi dall’arginare il fenomeno, renda più pericolose le rotte percorse dai profughi e più alto il numero dei morti. Spostare le frontiere esterne lontano da casa nostra fa sì che la tragedia umanitaria si consumi lontano dai riflettori mediatici al punto da renderla invisibile. Esternalizzare le frontiere poi comporta un’ulteriore crescita del mercato della sicurezza. Molti Paesi non europei specialmente africani ricevono donazioni e finanziamenti per l’acquisto di attrezzature e dispositivi di sicurezza che aumentano le capacità di sorveglianza delle frontiere. Anche in questo caso l’Europa ha fatto dell’immigrazione il cardine delle politiche di sviluppo verso tali Paesi. Insomma, quando li aiutiamo a casa loro è principalmente per tenere fuori i migranti da casa nostra e per aumentare i profitti dell’industria europea della sicurezza. Una politica di sapore coloniale che riporta la Storia indietro di secoli. Libia. Allarme Onu sui migranti: “Sono in condizioni miserabili” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 aprile 2019 In alcuni centri non mangiano da giorni. L’incognita di quanti sono in mano ai trafficanti. Da almeno due giorni non mangiano e i magazzini che dovrebbero contenere le scorte di cibo sono vuoti. Come se non bastasse, poi, vedono miliziani armati aggirarsi pericolosamente intorno ai centri nei quali sono richiusi. Una situazione in cui, con il proseguire della guerra civile, potrebbe accadere di tutto. “Siamo terrorizzati”, ha raccontato uno dei migranti detenuti nel centro di Qasr bin Ghashir, alla periferia sud di Tripoli, dove da giorni i soldati del premier al Serraj si scontrano con le forze dell’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. A peggiorare le condizioni di vita delle centinaia di persone presenti nella struttura c’è poi il fatto che oltre al cibo mancano anche acqua ed elettricità. Quanto accade nei centri per migranti gestiti per il governo di Tripoli dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim), è un dramma nel dramma libico. A raccogliere le loro testimonianze è stata l’emittente Al Jazeera grazie ad alcuni telefoni cellulari sfuggiti alla sorveglianza dei miliziani. È stato così possibile sapere che, sempre a Qasr bin Ghashir, due uomini in uniforme avrebbero ordinato ai migranti di tenersi pronti per essere trasferiti, cosa che ha ulteriormente gettato nel panico uomini, donne e bambini che temono adesso di essere venduti ad altri gruppi armati. Intanto i migranti sarebbero stati usati per trasportare carichi di armi, mentre per ora non ci sono conferme alla notizia di un loro impiego per combattere le milizie di Haftar. Guerra o no, il business dei migranti in Libia non si ferma ma soprattutto l’instabilità politica del Paese rende ancora peggiori condizioni di vita che già normalmente - se di normalità si può parlare - sono insopportabili per chiunque. Secondo i dati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fino alla settimana scorsa erano 6.900 i migranti detenuti nei centri gestiti dal governo, 600 dei quali minori. A settembre dell’anno scorso, durante gli scontri tra milizie rivali avvenuti sempre nella capitale, alcune decine di migranti riuscirono a fuggire di notte dal centro in cui erano richiusi. Furono visti scappare portandosi dietro poche cose raccolte in buste di plastica, ma nei giorni seguenti vennero quasi tutti ripresi. Adesso la situazione sembra essere anche peggiore: “Le violenze stanno accrescendo ulteriormente la miseria dei rifugiati e dei migranti detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione”, ha ripetuto ieri il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Libia, Maria Ribeiro. Ma accanto ai centri “ufficiali”, dove comunque le organizzazioni internazionali riescono a entrare, c’è il buco nero rappresentato dalle centinaia di migliaia di migranti che sono invece nelle mani di trafficanti e milizie, ammassati in hangar e magazzini sparsi nel territorio. Persone alle quali in questo momento, come denuncia il portavoce dell’Oim, Flavio Di Giacomo, può accadere di tutto. “I trafficanti devono monetizzare il migrante, quindi se non è più possibile ricavare dei soldi con le traversate, perché diminuite o perché rese più difficili dalla guerra, allora aumentano le torture sui migranti per estorcere più soldi alle famiglie. Lo sappiano dalle testimonianze di quanti riescono ad arrivare in Italia e confermate dai segni visibili sui loro corpi”. Sempre l’Oim calcola in circa 700 mila gli stranieri presenti in Libia. Non tutti, però, vogliono partire. Almeno la metà proviene da Niger, Egitto e Ciad e si trova nel Paese nordafricano alla ricerca di un lavoro. “Quando la situazione politica e i combattimenti peggiorano molti di questi fanno rientro nei Paesi di origine”, prosegue Di Giacomo. I restanti 350 mila sono invece in balìa dei trafficanti. Una situazione che agita palazzo Chigi, dove si teme una ripresa in massa delle partenze di barconi carichi di disperati. “Dubito che questo possa accadere”, spiega ancora Di Giacomo. “In realtà la vera emergenza è umanitaria, sia nei centri di detenzione, sia in mare. Ora che le navi delle ong non ci sono quasi più, se i trafficanti obbligheranno i migranti a partire vorrei sapere chi andrà a salvarli”. Libia. La guerra mette a rischio gli accordi dell’Italia sui migranti di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2019 L’Italia resta in Libia. Lo fa con circa 500 uomini: i dipendenti dell’ambasciata italiana, i marinai della nave officina alla fonda nel porto di Tripoli e i circa 100 tra medici militari e logistici che lavorano ancora nell’operazione Ippocrate, all’ospedale di Misurata. E l’Italia resta anche capofila in Europa e a fianco dell’Onu per un’azione politico-diplomatica volta a far ritirare Haftar ed avviare la conferenza di Gadames il 14 aprile, primo passaggio per un percorso che porti a nuove elezioni. Un’azione congiunta e coordinata quella messa in campo anche ieri dal premier, Giuseppe Conte, dell’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Buccino (che ieri ha incontrato il presidente del Governo di unità nazionale Fayez al Serraj) e dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, Federica Mogherini. Il quadro resta sempre molto critico: il missile lanciato ieri dall’esercito di Haftar contro un hangar dell’aeroporto internazionale di Tripoli Mitiga era probabilmente diretto a colpire aderenti alla milizia salafita che non è passata con l’esercito di Bengasi ma poteva causare una strage se avesse colpito un aereo con pellegrini diretti alla Mecca. Continua una “guerra di attrito” molto più pericolosa e ideologica rispetto a quella del 2014 ma che non prevede a breve alcuna rottura dei fronti. Sul fronte delle possibili ripercussioni per le partenze di migranti c’è da segnalare che l’Oim (Organizzazione internazionale dei migranti) non ha abbandonato il Paese ma ha solo ridotto la sua operatività. Una guerra a lungo termine potrebbe comportare dei rischi sull’aumento dei flussi di migranti dal Mediterraneo centrale, ma a breve non c’è da prevedere un aumento delle partenze anche perché le città della costa da cui partono normalmente i barconi sono in mano alle forze di Tripoli sorvegliate dalla Guardia costiera. Continuano inoltre ad essere pienamente validi e implementati gli accordi già sottoscritti a suo tempo dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti e confermati dall’attuale esecutivo, come il “ponte di solidarietà” e un altro progetto per 5o milioni di euro finanziato insieme all’Unione europea che prevede di fornire assistenza e aiuti anche economici alle comunità del Nord Ovest e del Sud ma soprattutto a quelle città sulla costa come Zwara e Gasr la cui popolazione ha spesso hanno collaborato con le organizzazioni dei trafficanti di esseri umani per le partenze dei barconi. Per quanto riguarda gli accordi con i sindaci del Sud delle tribù Tebu e Tuareg già da tempo non erano più uno strumento operativo per controllare i flussi migratori da Sud ora monitorati direttamente sulla costa e in mare. Semmai la proroga della missione europea Sophia senza più dispositivo navale dallo scorso i aprile è intervenuta proprio nel momento in cui vi sarebbe stato bisogno di maggiore vigilanza affidata ora solo a sei velivoli di vari contingenti europei (l’Italia partecipa con un drone) che sorvegliano le acque libiche e le piattaforme petrolifere dell’Eni. Proseguirà invece nei prossimi mesi l’attività addestrativa a terra di Sophia per la Guardia costiera libica (già addestrati 355 uomini). L’Alto rappresentante della politica estera e di difesa Ue Mogherini ha ricordato ieri che l’Ue “non ha mai considerato la Libia un Paese sicuro e gli ultimi eventi tristemente ce lo ricordano”. La Mogherini ha spiegato che l’attività di addestramento dell’operazione Sophia dei guardacoste libici prosegue sottolineando in particolare l’importanza che si attribuisce alla componente dei diritti umani. Quanto all’ambasciatore italiano Buccino, nell’incontro avuto ieri con il premier Fayez al-Sarraj “ha confermato il rifiuto da parte del proprio Paese dell’aggressione a Tripoli e della minaccia che essa rappresenta per la vita dei civili, sottolineando la necessità di un ritorno dell’esercito da dove è venuto”. E dal Consiglio Esteri di Lussemburgo il ministro Enzo Moavero riconferma il forte sostegno italiano agli sforzi del rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Salamé. Libia. La strana guerra di Haftar e le idee nuove che servono di Franco Venturini Corriere della Sera, 9 aprile 2019 Il pericolo che i governi italiani degli ultimi cinque anni hanno sottovalutato votandosi alla causa dell’Onu condita da inutili e persino avvilenti proclami statunitensi è che la Libia diventi sempre di più il teatro di una guerra per procura tra potentati islamico-petroliferi. Cosa vuole il generale cirenaico Khalifa Haftar, e chi lo aiuta ora che i suoi miliziani mascherati da esercito assediano Tripoli? Soltanto rispondendo a queste domande potremo inquadrare correttamente l’ennesima strana guerra libica, e ricavare le indicazioni politico-militari che potrebbero servirci ad alleviare, sarebbe ora, le pesanti minacce che il caos in Libia fa gravare sugli interessi nazionali italiani. Per cominciare, Haftar vuole davvero espugnare Tripoli? È improbabile, a meno che siano le numerose e non coordinate milizie della capitale a donargliela in cambio di sostanziosi benefici. Ma Tripoli è difesa anche dagli uomini di Misurata, che sanno battersi. E un bagno di sangue non aiuterebbe la causa del generale di Bengasi. Piuttosto, bisogna capire in cosa consiste questa causa. Dal 2016 un interminabile negoziato di conciliazione tra Cirenaica e Tripolitania, tra Khalifa Haftar e Fayez al-Sarraj (un civile il cui governo è riconosciuto dalla comunità internazionale, ma che ha poche baionette sulle quali sedersi) viene condotto dall’Onu con l’appoggio particolarmente convinto dell’Italia. Dopo molti alti e bassi, più bassi che alti, dieci giorni fa il Segretario del Palazzo di vetro Antonio Guterres si è spinto fino ad annunciare il raggiungimento di un accordo tra le due parti libiche sul punto cruciale della sicurezza e della riorganizzazione militare: Haftar guiderà l’esercito nazionale come chiede da tempo, ma sopra di lui sarà una autorità civile ad avere davvero il comando. E la conferenza di Ghadames, a metà aprile, renderà ufficiale il compromesso. A Bengasi scoppia il finimondo. Il generale che vuole diventare il nuovo Gheddafi agli ordini di un civile, magari proprio al-Sarraj? Bisogna reagire immediatamente. A fine marzo Haftar, che ha già l’appoggio di Egitto e Emirati Uniti oltre a quello di Francia e Russia, compie una visita lampo in Arabia Saudita, che è da tempo la sua vera finanziatrice via il Cairo. Il risultato è che l’operazione Tripoli può scattare, ci sono i mezzi e ci sono le coperture indispensabili. Lo scopo è dire chiaramente all’Onu e a tutta la comunità internazionale che Haftar non ci sta, che se si vuole un accordo le decisioni militari dovranno spettare a lui e non ai civili, e che soltanto a queste condizioni la conferenza di Ghadames potrà aprire i battenti. E ancora: che se l’Onu e gli altri non vorranno dargli ascolto lui saprà usare la forza, e seppellire con le maniere forti un metodo negoziale che ha fatto il suo tempo. Non sorprende allora che Parigi si faccia in quattro per assicurare che la Francia non c’entra (anche se in Italia torna ad affiorare una polemica mediatica che fa piacere al governo gialloverde), che altrettanto faccia la Russia già piena di problemi tra Siria e Venezuela, che Washington ritiri i suoi pochi uomini e intimi al ben noto generale (durante l’esilio risiedeva a Langley, sede della Cia) di fermarsi subito, che persino l’Egitto dica di non essere questa volta d’accordo con Haftar e che l’Onu non annulli l’appuntamento di Ghadames il 14 aprile. A parte la probabile ipocrisia dell’Egitto, si tratta di uno schieramento che forse Haftar non aveva previsto. Più debole di quanto sembri, con le linee di rifornimento molto allungate, l’uomo forte di Bengasi rischia un boomerang devastante. Ma in fondo, se sarà saggio, gli può bastare rimanere dov’è, tenere il dito sul grilletto anche nel caso che l’arma sia in realtà scarica. Senza di noi la pace non si fa, questo gridano gli armigeri del generale. E hanno ragione, ormai dovremmo averlo capito. Se Haftar ha i suoi ricchi e potenti amici, anche al-Sarraj riceve l’aiuto di Qatar e Turchia oltre a quello del Palazzo di Vetro. Il pericolo, che i governi italiani degli ultimi cinque anni hanno sottovalutato votandosi alla causa dell’Onu condita da inutili e persino avvilenti proclami statunitensi (il “Ruolo dirigente” di Obama, la “Cabina di regia” di Trump), è che la Libia diventi sempre di più il teatro di una guerra per procura tra potentati islamico-petroliferi, con l’Italia alla finestra dopo la vana conferenza di Palermo, la Francia alla ricerca di qualche spiraglio per Total in rivalità con l’Eni, l’America assente, la Russia prudente o calcolatrice, l’Europa intera disinteressata pur sapendo che la Libia resta il più grande e atroce serbatoio di migranti, e i migranti tradotti in politica rischiano di affondare la Ue più delle elezioni di maggio. Serve, è evidente, un approccio diverso e più efficace. Siamo in grado, noi Italia, di diventare davvero “cabina di regia”, di coinvolgere pienamente e da subito Usa e Russia (e forse Cina), di organizzare (non da soli, ma per esempio mettendo alla prova l’annunciata buona volontà di Parigi) conferenze non concorrenziali tra loro e finalmente utili, di chiedere sanzioni contro chiunque alimenti la destabilizzazione libica, di scuotere l’Europa, di ipotizzare anche l’impiego di forze di pace e di interposizione d’intesa con l’Onu, di prendere insomma, visto che abbiamo davanti alla porta di casa un incendio che può diventare catastrofico, le iniziative che abbiamo sin qui trascurato nascondendoci dietro le mediazioni degli inviati del Palazzo di Vetro? Se dovessimo giudicare dalla politica estera del governo in carica, gestita nei ministeri sbagliati a soli scopi elettorali, dovremmo esprimere un cupo pessimismo. La ferocia verso i migranti che regna nei campi di detenzione libici (nella “nostra” Tripolitania!) non solleva alcuna indignazione. E dopotutto, se dovessero arrivare nuove ondate di migranti dalla Libia, la “politica della fermezza” saprebbe conquistare altri consensi rivolgendo un silenzioso grazie ad Haftar, o a chi per lui. Siria. Sulle orme di padre Paolo Dall’Oglio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 aprile 2019 Il 29 luglio 2013 arriva a Raqqa. Ha appuntamento con i capi dell’Isis, che si sono appena insediati, e di cui il mondo non sa nulla. Non è mai tornato da quell’appuntamento. La mattina di quel 29 luglio 2013 padre Paolo Dall’Oglio ha paura. L’appuntamento con Abu Lukhman è per le nove. Glielo hanno fissato il pomeriggio precedente i responsabili dell’Isis nei loro uffici ampi e luminosi del governatorato di Raqqa, dopo averlo rinviato una prima volta il 27 luglio. Ma Paolo adesso ritarda, indugia nervoso. Tanto che arriverà solo dopo le 11,30. “Se non esco dopo tre ore sappiate che sono stato rapito. Se dopo tre giorni non sapete nulla fate un comunicato pubblico”, dice ai suoi contatti locali. Dell’Isis in Siria in quei giorni si percepisce ancora poco. Padre Paolo Dall’Oglio Padre Paolo dall’Oglio È un gesuita italiano di 65 anni. Dagli anni 80 si stabilisce in Siria dove è sempre stato fortemente impegnato nel dialogo interreligioso con il mondo islamico Ciò avviene quasi un anno prima degli orrori commessi dai fanatici jihadisti con la presa di Mosul in Iraq. Paolo confusamente sa che il loro massimo leader è un iracheno, un certo Abu Bakr al Baghdadi. Vorrebbe parlargli, tutto sommato è comprensibile per uno come lui che cerca di coordinarsi con il fronte dei nemici di Bashar Assad. Messo in prospettiva sarebbe come andare a vedere Osama bin Laden anni prima dell’11 settembre 2001: si sapeva che era un estremista, però solo uno dei tanti nella galassia dei radicali islamici. Quelli dell’Isis gli dicono che Abu Lukhman è l’uomo giusto, si occupa degli affari politici nella nuova capitale dell’autoproclamato Califfato. “Però Paolo capisce subito che per lui potrebbe mettersi molto male. Nell’ufficio sono violenti, lo minacciano. Gli dicono che è un kafir, un miscredente, la sua vita non vale il prezzo della pallottola pronta per lui. Così tentenna. Non sa che fare, cammina nervosamente davanti alla casa di mio padre a due passi dal centro, dove per tre notti gli abbiamo dato una stanza. Parla a cascata nel suo perfetto arabo classico, chiede consigli, però poi non ci ascolta. Beve tè poco zuccherato in continuazione”, ci racconta Abdel Sattar Ramadan, maestro di musica 37enne, con cui Paolo allora era in stretto contatto via Facebook. E quasi con le stesse parole conferma da Istanbul per telefono Eyas Daes, il giornalista locale che aveva accompagnato padre Dall’Oglio attraverso le zone curde nel Nordest siriano, sino a Raqqa. “Paolo l’anno prima era stato espulso dal governo di Damasco, che lo accusava di attività sovversive assieme ai terroristi islamici. Ricordo il suo dispiacere per avere dovuto abbandonare Mar Mussa, il monastero dedicato al dialogo interreligioso in mezzo al deserto, che lui aveva ricostruito con le sue mani vent’anni prima. Adesso era rientrato in Siria dall’Iraq, alla frontiera non serve il visto delle autorità di Assad. Cercammo di dissuaderlo in tutti i modi. “Non tornare da quelli dell’Isis, ti ammazzeranno senza dubbio, magari dopo averti torturato”, gli dicevamo. Lui però fu irremovibile. Così lo accompagnammo anche al secondo appuntamento. Non è più tornato e noi non abbiamo atteso tre giorni per denunciarlo al mondo. Per quello che sappiamo è sicuramente morto, probabilmente ucciso molto presto, nelle prime settimane, se non addirittura le prime ore del suo rapimento”, dice a conferma di quasi tutte le fonti ragionevolmente affidabili che abbiamo consultato negli anni. Di lui non c’è traccia credibile. Mentre abbondano i racconti della sua esecuzione. Nessun ostaggio occidentale è emerso, vivo o morto, neppure dalle macerie di Baghouz, l’ultima roccaforte territoriale del Califfato nella valle dell’Eufrate caduta due settimane fa. Abdel Sattar Ramadan, 37 anni, insegnante di musica Abdel Sattar Ramadan, 37 anni, insegnante di musica, attivista Così siamo tornati a visitare Raqqa sulle orme di padre Paolo Dall’Oglio. E lo abbiamo fatto leggendo anche le pagine del suo ultimo libro, “Collera e Rivoluzione”. Il diario appassionato, militante nel pieno senso della parola, di questo gesuita 65enne che non nasconde la sua piena adesione alle ragioni di chi si ribella alla dittatura, denuncia le torture orribili dei suoi aguzzini sui civili, sino a sostenere la violenza e l’uso della forza da parte delle brigate rivoluzionarie, anche quelle islamiche. “Non ho bisogno di ripetere qui i motivi che fanno sì che io mi sia schierato dalla parte della rivoluzione, al punto di giustificare l’autodifesa armata di quel popolo tradito e abbandonato dall’opinione pubblica mondiale”, scrive. Anche durante le sue ultime conferenze in Italia ci aveva detto di condividere appieno i sentimenti di chi “è pronto a morire per la libertà”. E non a caso tutti i massimi dirigenti delle Chiese siriane locali, tradizionalmente legate a filo doppio al regime, lo hanno sempre considerato un nemico, un “agente straniero”. Ancora pochi giorni fa padre Fathi Salibah Abdallah, figura centrale della basilica siriaca ortodossa di Qamishli, pur avendo seguito in passato alcuni seminari con Paolo Dall’Oglio a Mar Mussa, lo accusava di “avere commesso errori gravissimi e non aver capito il pericolo di stare con gli estremisti musulmani”. “Paolo capisce subito che per lui potrebbe mettersi molto male. Nell’ufficio sono violenti, lo minacciano. Gli dicono che è un kafir, un miscredente. Ha paura”. Abdel Sattar Ramadan maestro e amico di Dall’Oglio Punto di partenza a Raqqa è l’edificio ricostruito da due mesi del caffè Negative. Tutto attorno i segni della battaglia terminata con la sconfitta dell’Isis oltre un anno e mezzo fa sono dominanti. Non c’è elettricità, imperversano i generatori con l’inquinamento da gasolio e il fracasso continuo. L’acqua arriva a singhiozzo nel sistema idrico forato dalle bombe in più parti. “La città aveva 600 mila abitanti, ora sono meno di 250 mila. Il 90 per cento delle case è danneggiato. Due terzi totalmente o comunque da renderle inabitabili, le restanti vanno riparate con urgenza. Costo dell’operazione ricostruzione stimato: venti miliardi di dollari. Fondi reali nelle casse municipali grazie alle donazioni internazionali: cinque milioni, noccioline. Nell’emergenza la municipalità si limita a tenere aperte le strade. Gli abitanti devono arrangiarsi da soli se vogliono tornare nei vecchi edifici”, spiega il responsabile della Commissione per la Ricostruzione, l’avvocato 55enne Abdallah Al Arian, i cui uffici sono poco distanti dal caffè. Nel suo diario ha scritto: “Non ho bisogno di ripetere qui i motivi che fanno sì che io mi sia schierato dalla parte della rivoluzione”. Mentre lo intervistiamo è lui che spontaneamente racconta di padre Paolo. “Il gesuita era un personaggio molto noto da noi. Sono contento di parlarne alla stampa italiana. Tanti gruppi sunniti lo consideravano un leader da rispettare e un ambasciatore della rivoluzione nel mondo. Come uomo di Chiesa con una profonda conoscenza del nostro Paese poteva denunciare alla comunità internazionale le atrocità commesse da Assad assieme ai suoi alleati russi e iraniani. Io sono certo della sua morte. Il primo a raccontarmela una sera dell’estate 2015 è stato un mio vecchio vicino di casa, il 46enne Abu Sham Jarabulsi, che era un leader dell’Isis poi morto nei combattimenti di Meyidaine. Era professore di matematica, stavamo cenando assieme, mi disse che aveva visto il cadavere e non ho alcun motivo per non credergli. La stessa versione mi arrivò da Abu Ali Al Sharei, giudice capo della corte islamica dell’Isis qui a Raqqa. Non ne fecero un video semplicemente per il fatto che l’Isis non era ancora organizzato. Fosse successo qualche mese più tardi, l’immagine della morte di Paolo Dall’Oglio sarebbe stata usata nella propaganda contro i ‘Crociati’. Entrambi mi dissero che Paolo venne arrestato negli uffici del governatorato da due militanti: Samer al Muteiran, che ora potrebbe trovarsi nelle celle curde, e Adnan Subhi al Arsan, che potrebbe essere scappato in Svezia”. E come venne ucciso? “Era un infedele. Fu picchiato duramente subito. Una versione parla di un prigioniero che lo avrebbe accoltellato nella loro cella poco dopo urlando che così lui sarebbe andato in paradiso per aver eliminato un miscredente. Un’altra riporta di un’esecuzione vera e propria a colpi d’arma da fuoco entro quel mese d’agosto”. Dall’Oglio ha tre obiettivi: organizzare un’azione moderatrice tra i gruppi islamici; creare un’alleanza con i cristiani; mediare per liberare alcuni ostaggi dell’Isis Al Negative Paolo Dall’Oglio aveva organizzato i primi incontri, visto i responsabili locali di Al Nusra e Ahrar Al Shams, due organizzazioni islamiche che in quel momento contrastano l’estremismo dell’Isis. Il secondo giorno si sposta all’Apple, un caffè più in centro, proprio di fronte a una chiesa distrutta con la dinamite dai jihadisti. Ha paura di essere arrestato. Con il suo computer si muove ogni poche ore tra i due caffè, dove può utilizzare il wifi. “Paolo ha tre obbiettivi. Vorrebbe esercitare un azione moderatrice tra i gruppi islamici per creare un fronte comune. Continua a ripetere che senza l’unità interna la rivoluzione è destinata a fallire. In secondo luogo lavora per facilitare il dialogo tra popolazione cristiana e musulmani in rivolta. Sa che le gerarchie ecclesiastiche locali lo odiano. Lo vorrebbero espulso o morto. Ma spera che i fedeli cristiani possano stare dalla sua parte. Il terzo obbiettivo è la liberazione di un paio di attivisti islamici moderati che l’Isis tiene in carcere. Purtroppo non ottiene alcun risultato”, continua Abdel Sattar. A Raqqa, ci sono tre grandi fosse comuni. In una in particolare, ci sarebbero 2mila corpi persone scomparse nelle carceri sotterranee. Il responsabile delle fosse comuni di Raqqa, il 40enne Yasser Khamis, dice: “È qui che dovremmo cercare”. Le strade precorse da Paolo nel centro della città sono oggi costellate di rovine e macerie. Solo alcuni negozi di vestiti e due o tre chioschi di kebab, hummus, falafel e insalate hanno faticosamente riaperto. Il grande palazzo del governatorato venne ridotto in briciole dai bombardamenti americani nell’estate 2017. Al suo posto c’è un profondo cratere. Anche le celle sotterranee, dove probabilmente venne chiuso il gesuita, non esistono più. Della sua possibile sepoltura parla invece il 40enne Yasser Khamis, responsabile della ricerca delle fosse comuni per la municipalità. “Dal 9 gennaio 2018 a oggi abbiamo scavato in particolare tre grandi fosse comuni dell’Isis. Le vittime stimate nella regione di Raqqa sono oltre 7 mila. Sino ad ora abbiamo trovato 4.030 cadaveri, di cui 570 sono stati identificati”. E Paolo? “È tra gli ostaggi stranieri che stiamo cercando. Potrebbe trovarsi nella fossa comune di Fheha, nella zona di Kasr al Jummah, circa cinque chilometri in linea d’aria dal centro città. Ci sono acquitrini a marcite. Le piogge copiose degli ultimi mesi la rendono quasi inagibile, occorre raggiungerla in barca. I capi di Isis che abbiamo catturato ci dicono che potrebbero esserci 2 mila corpi e che là venivano buttati i resti di chi moriva in carcere. Ma va verificato”.