Il richiamo di Mattarella all’equilibrio dei magistrati tutela i diritti dei cittadini di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 8 aprile 2019 Inaugurando i corsi della Scuola della Magistratura, il presidente Mattarella ha indicato nel rispetto della deontologia e nella rigorosa professionalità i cardini del ruolo e della funzione del magistrato. Il presidente ha tra l’altro richiamato l’equilibrio, la serietà, il senso della misura e la ragionevolezza. Si sbaglierebbe a ritenere che si tratti di richiami ovvi e rituali, senza coglierne la serietà e attualità. In proposito occorre dar conto di un fenomeno inquietante, che riguarda la giustizia penale. Di esso si viene a conoscenza quando riguarda casi eclatanti o persone per varie ragioni note al pubblico. Ma si tratta di casi che sono spia di ben più vasta realtà. Troppo spesso alla conclusione delle indagini preliminari segue un processo che si conclude con la assoluzione dell’imputato. Troppo spesso una condanna in primo grado, dopo lungo tempo diventa un’assoluzione in grado di appello o un annullamento della condanna da parte della Corte di cassazione. Molto spesso l’accertamento del diritto vigente e, ancor più, la ricostruzione dei fatti oggetto del processo è difficile e ne è seriamente discutibile l’esito. Ma ciò che conta è la sentenza finale, quella che costituisce il giudicato. E se questo è assolutorio, la vicenda processuale che l’ha preceduto può anche essere stata proceduralmente corretta, ma lascia solo strascichi negativi, spesso gravemente negativi per le persone che ne sono state coinvolte, per i costi incontrati dallo Stato, per la credibilità del sistema giudiziario. All’interno della magistratura vi sarà chi dirà che quelle assoluzioni dimostrano la capacità del sistema di autocorreggersi e troverà così ragione di (autoreferenziale) compiacimento o addirittura farà intendere che il problema sta nel lassismo delle Corti di appello o della Cassazione. Ma la credibilità della magistratura deriva dalla valutazione di chi ad essa è esterno, ne vede l’opera indispensabile e preziosa, ma ne subisce anche le conseguenze negative. Le conclusioni dei processi con le assoluzioni sono fisiologiche quando si mantengano in percentuali normali, frutto dei successivi controlli. Non quando raggiungono proporzioni come quelle che si osservano ora. E tanto più quando nel corso del procedimento sono state emesse misure cautelari, come arresti, interdizioni, ecc. In questi casi non basteranno gli indennizzi previsti dalla legge. I danni sono incalcolabili e non riguardano solo le persone colpite da quei provvedimenti: famiglie e imprese ne sono egualmente vittime. E quando si tratta di soggetti eletti o nominati a cariche pubbliche il danno riguarda anche gli organi di cui sono esponenti. L’ultimo episodio è quello dell’arresto del sindaco di Riace per accuse ora smontate dalla Cassazione, che ha anche ritenuto mancanti serie esigenze cautelari che giustificassero il provvedimento. Simili casi fanno anche sorgere dubbi sul senso delle iniziative della magistratura, in sintonia con parte dell’opinione pubblica (che naturalmente ignora i fatti processuali) e occasione di sfruttamento politico. Ma si tratta solo di un ultimo episodio, di una serie impressionante. La Costituzione e le leggi impongono di non portare a processo accuse infondate o su cui pesano dubbi seri. Non basta una soggettiva convinzione dei magistrati. Plausibili ricostruzioni alternative, anche se non condivise, possono essere decisive, poiché il dubbio porta alla caduta dell’accusa, all’esito dell’indagine preliminare o nel processo. Insomma, alle parole usate dal presidente per indicare le qualità professionali necessarie ai magistrati, se ne può aggiungere un’altra, quella cardinale della prudenza. Norme penali sempre più connotate da un cupo e cinico populismo giustizialista camerepenali.it, 8 aprile 2019 L’Ucpi proclama l’astensione delle udienze per i giorni 8, 9 e 10 maggio. Eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo, disciplina della legittima difesa connotata da finalità esclusivamente propagandistiche, drammaticità della violenza di genere senza nessuna altra risposta che l’inasprimento ossessivo delle pene fino alla idea barbarica della castrazione chimica, “spazza-corrotti” e irresponsabile mancata previsione di una normativa intertemporale per la sospensione della esecuzione delle pene comprese entro i quattro anni per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della nuova legge, “decreto sicurezza” quale strumento di acutizzazione di contraddizioni sociali, condizione del carcere che ha raggiunto nuovamente allarmanti livelli di drammaticità, sostanziale abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado quale vulnus intollerabile nel nostro sistema penale. L’Ucpi, considerato che non sia più procrastinabile la esigenza di dare nel paese un forte segnale di allarme per questa sconsiderata, ossessiva gara alla promulgazione di norme sempre più eclatantemente connotate da una idea iperbolica e simbolica del più cupo e cinico populismo giustizialista, delibera l’astensione delle udienze per i giorni 8, 9 e 10 maggio. Convoca per il giorno 8 maggio una conferenza stampa in Roma per illustrare le ragioni dell’iniziativa e le specifiche critiche alle leggi esaminate. Invita le camere penali territoriali ad organizzare nella giornata del 9 maggio iniziative locali di approfondimento delle ragioni dell’astensione. Sollecita la partecipazione di tutti gli avvocati, magistrati, cittadini e studiosi alle giornate di presentazione del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, del 10 e 11 maggio in Milano. Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Delibera del 5 aprile 2019 Il Parlamento ha appena approvato l’ennesima riforma penale di matrice populista e giustizialista, che esclude la praticabilità del rito abbreviato per “i reati puniti con la pena dell’ergastolo”. La nuova legge è stata varata nonostante si fossero espressi in termini radicalmente negativi - come già era accaduto per la riforma della prescrizione - non solo i Penalisti Italiani, ma altresì l’Associazione Nazionale Magistrati ed il Consiglio Superiore della Magistratura, per non dire di tutti gli accademici auditi nel corso dell’iter parlamentare. L’UCPI ha senza esitazione denunciato che una simile riforma, ispirata ad una vera e propria idolatria della pena detentiva perpetua e ad un sempre più manifesto disprezzo del principio della finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione, appare per di più del tutto irragionevole ed ingiustificata anche rispetto agli obiettivi che dichiara di voler perseguire, posto che già con la normativa fino ad oggi vigente è consentito al giudice, nei casi più gravi, di applicare la pena dell’ergastolo anche all’esito di giudizio abbreviato, che in tali ipotesi incide solo escludendo l’isolamento diurno nella espiazione della prima parte di quella pena perpetua. D’altro canto, appare gravissimo se non addirittura ripugnante diffondere e rafforzare l’idea nella pubblica opinione che una pena di 30 anni di reclusione possa definirsi una pena “insufficiente” a sanzionare un pur grave crimine; L’adozione della nuova disciplina avrà, secondo l’unanime parere di magistrati ed avvocati, un impatto devastante sulla durata di quei processi, e sulla concreta operatività delle Corti di Assise che ora saranno, per una esigenza propagandistica tanto odiosa quanto inutile per come si è già detto, letteralmente paralizzate da un carico insostenibile di processi per loro natura connotati da particolare complessità. Anche per tale ragione, l’adozione di limitazioni per l’accesso al giudizio abbreviato appare anche in eclatante contrasto con il preannunciato intervento riformatore, di iniziativa governativa, finalizzato ad ottenere una riduzione della durata irragionevole dei processi penali nel nostro Paese. Proprio nuove misure sul rito abbreviato destinate ad incrementarne la operatività, sono tra i punti di condivisione al Tavolo ad hoc convocato dal Ministro che, a quanto dichiarato, starebbe invece per approntare un testo di legge delega coerente con gli approdi raggiunti nel confronto con avvocatura e magistratura. È di qualche giorno fa anche l’approvazione della nuova disciplina della legittima difesa, pure essa connotata da finalità esclusivamente propagandistiche, considerata la diffusa valutazione -ancora una volta condivisa da magistrati ed avvocati- circa la modestissima idoneità della nuova formulazione degli artt. 52 e 55 c.p. a poter condizionare concretamente la comunque inevitabile discrezionalità valutativa da parte del giudice di circostanze del fatto del tutto prive di oggettività, quali ad esempio “il grave turbamento psichico” di chi subisca un furto in appartamento o nel proprio domicilio; tuttavia tale riforma è foriera di gravi, potenziali attentati alla sicurezza sociale, da un lato perché finisce per armare ancor di più, in via preventiva, la violenza dell’aggressore, e dall’altro perché diffonde la convinzione che la vittima di una aggressione domiciliare, anche solo intrusiva, sia assistito da una sorta di totale impunità nella propria reazione, ciò che ovviamente non è e non potrà mai essere. La nuova consapevolezza sociale della drammaticità della violenza di genere si sta traducendo, nell’iniziativa dell’attuale maggioranza politica, in misure di dubbio impatto investigativo, e comunque destinate, ancora una volta, a mortificare le garanzie difensive e l’essenza stessa del processo accusatorio. Questa corsa sfrenata alla introduzione nel nostro sistema penale di norme tutte ispirate ai più corrivi e violenti sentimenti che coinvolgono una pubblica opinione sempre più impaurita ed incattivita dalla quotidiana semina di un allarme sociale del tutto smentito dai dati statistici diffusi dallo stesso Ministero di Giustizia, si alimenta cinicamente di ogni possibile occasione di cronaca, non riuscendo ad immaginare nessuna altra risposta che l’inasprimento ossessivo delle pene, fino alla idea barbarica della castrazione chimica, e la ricerca costante e forsennata di nemici sociali da combattere ed annientare; Intanto cominciano ad essere percepiti i concreti effetti della legislazione populista. La legge c.d. “spazzacorrotti”, altro fiore all’occhiello di questa nuova politica di marca giustizialista e populista, con il suo corollario di inutili inasprimenti di pena, sta già producendo, come ampiamente prevedibile, eclatanti difformità applicative quanto alla fase esecutiva della pena. La irresponsabile mancata previsione di una invece doverosa normativa intertemporale ha determinato la conseguenza, di per sé inaccettabile, dell’applicazione del regime carcerario anche per reati per i quali la normativa vigente all’epoca dei fatti consentiva, sin dall’inizio dell’esecuzione, la concessione di misure alternative alla detenzione. Il c.d. “decreto sicurezza”, come del resto ampiamente previsto, ha portato all’aumento del numero delle persone costrette a vivere in condizione irregolare a causa delle limitazioni della procedura di protezione umanitaria. Ancor più drammatiche sono divenute le condizioni nei centri di permanenza, ove si dà luogo al trattenimento delle persone per l’accertamento dell’identità e per le procedure di rimpatrio. Le modalità per le procedure di sgombero si stanno rivelando strumento di acutizzazione di contraddizioni sociali. La condizione del carcere, anche per la sciagurata decisione di non dare corso alla riforma dell’ordinamento penitenziario, ha raggiunto allarmanti livelli di drammaticità. Sovraffollamento e minor accesso alle misure alternative mortificano quotidianamente i più elementari diritti delle persone detenute e rendono sempre meno realizzabili percorsi di reinserimento e risocializzazione. Appare sempre più indispensabile diffondere nella pubblica opinione le corrette informazioni, legate ai dati statistici incontrovertibili, circa il reale impatto e le concrete conseguenze di questa politica della giustizia penale. Da mesi i penalisti italiani sono impegnati nella attività di denuncia in ogni sede della deriva populista in atto, segnalando incongruenze, inadeguatezze e profili di illegittimità costituzionale che caratterizzano ogni singola legge. Incessante è stato l’impegno perché nel Parlamento si aprisse la discussione ora in corso, sulla proposta di legge di iniziativa popolare, promossa da UCPI, volta a realizzare l’effettiva terzietà del Giudice, necessario presidio per la compiuta realizzazione del processo di tipo accusatorio. L’Unione ha promosso una mobilitazione che ha coinvolto l’intera comunità dei giuristi sul tema della prescrizione, la cui sostanziale abolizione dopo la sentenza di primo grado è vulnus intollerabile nel nostro sistema penale al quale dovrà porsi rimedio prima che gli effetti di quella improvvida legge possa definitivamente travolgere senso di giustizia e ragionevolezza dei tempi processuali. La mobilitazione proseguirà con la presentazione e l’approfondimento, per iniziativa di UCPI, dei temi del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. L’iniziativa, destinata a coinvolgere tutti gli operatori e l’Università è volta a rappresentare, sul piano culturale, la risposta del pensiero democratico liberale al populismo e al giustizialismo. È convincimento dei penalisti italiani che non sia più procrastinabile la esigenza di dare nel paese un forte segnale di allarme per questa sconsiderata, ossessiva gara alla promulgazione di norme sempre più eclatantemente connotate da una idea iperbolica e simbolica del più cupo e cinico populismo giustizialista. Ciò premesso e considerato, l’UCPI PROCLAMA secondo le vigenti regole di autoregolamentazione, nel rispetto delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, e dunque, in attesa di una più certa e consolidata loro interpretazione, con esclusione dei processi con imputati detenuti in custodia cautelare, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 8, 9 e 10 maggio 2019 convocando per il giorno 8 maggio una conferenza stampa in Roma per illustrare le ragioni dell’iniziativa e le specifiche critiche alle leggi esaminate; INVITA le Camere penali territoriali ad organizzare nella giornata del 9 maggio iniziative locali di approfondimento delle ragioni dell’astensione SOLLECITA la partecipazione di tutti gli avvocati, magistrati, cittadini e studiosi alle giornate di presentazione del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo del 10 e 11 maggio in Milano; DISPONE la trasmissione della presente delibera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, ai Capi degli Uffici giudiziari. Il Presidente, Avv. Gian Domenico Caiazza Il Segretario, Avv. Eriberto Rosso “Colleghi giudici state attenti, la tragedia di Stefano può ripetersi” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 8 aprile 2019 Torino, il presidente della Corte d’appello dopo il caso del mancato arresto del killer. L’amarezza per il ciclone che si è abbattuto sulla sua Corte d’Appello. La resa di fronte alla mancanza di personale amministrativo all’origine del problema che ha portato a lasciare in libertà l’assassino di Stefano Leo, il giovane sgozzato ai Murazzi del Po. E la decisione di chiedere più attenzione alle cancellerie e di lanciare un monito ai presidenti di tutte le Corti d’Italia: “Scriverò a tutti i colleghi per avvisarli: quello che è capitato a Torino potrebbe succedere ovunque”. Presidente Edoardo Barelli Innocenti, sono trascorsi alcuni giorni dalla bufera sulla mancata esecuzione della sentenza di Said Mechaquat. Quali sono le iniziative che intende assumere? “Sono davvero sconfortato, ripeto: non siamo corresponsabili dell’omicidio. Ho indetto una riunione con il presidente di sezione, per individuare chi sia il funzionario che ha maneggiato quel fascicolo. E chiamerò tutti i presidenti e andrò personalmente in tutte le cancellerie, chiedendo di prestare particolare attenzione di fronte ad alcuni reati anche sotto i tre anni e per i reati ostativi alla sospensione della pena, affinché non succeda più”. Lei teme che possa accadere ancora però? “Certamente. Anche per questo ho intenzione di scrivere a tutti i colleghi d’Italia che ricoprono la mia funzione per avvisarli. Potrebbe succedere anche a loro, ovunque ci sia troppo arretrato”. Arretrato e mancanza di personale sono i nodi della questione. Perché? “Siamo l’imbuto dove tutto si arena, il vaso di coccio del sistema giudiziario, perché? L’arretrato è un problema che ci trasciniamo dalla riforma del giudice unico, i cui effetti si sono riversati a partire dal 2000-2001 sulla Corte, che ha assunto su di sé i ricorsi di tutti i tribunali del distretto. Con la riduzione dei tempi della prescrizione, poi, i giudici hanno meno tempo per fare gli appelli e le pendenze si sono impennate”. Proprio a Torino c’era stato il precedente nel 2017 dello stupro prescritto dopo 15 anni con le scuse al popolo italiano. “Tra Roma, Napoli, Torino e Venezia si produce la metà delle prescrizioni d’Italia. Noi a Torino stiamo migliorando: nel 2016 avevamo una percentuale di prescrizioni del 40 per cento, nel 2018 siamo scesi al 30. Ma c’è la mancanza di personale su cui noi presidenti non possiamo fare nulla. Per ogni giudice servono due o tre cancellieri in più”. Lei ha spiegato che quello che è successo è stato causato dalla mancanza di personale. Scatenando polemiche come fosse una mancata assunzione di responsabilità. Come replica? “Di fronte ad alcune reazioni cadono le braccia: gli uomini di Stato dovrebbero capire la situazione, altrimenti come si fa a fare squadra? Avanza il pressapochismo. Non si è compreso che in un ufficio giudiziario c’è un presidente che non è un factotum. C’è anche un direttore amministrativo che è preposto all’organizzazione del personale e ai servizi di cancelleria. Noi magistrati abbiamo il compito di vigilanza, possiamo osservare come sta funzionando una sezione, e segnalare le criticità. Ma è il dirigente amministrativo che organizza il lavoro. Il nocciolo è questo: io ho la vigilanza, ma non ho gli strumenti per governare il personale”. Ora il ministro Bonafede ha annunciato rinforzi. “Giovedì scorso ero a Roma in una riunione con i procuratori generali e i presidenti delle Corti d’Appello: abbiamo fatto presente tutte queste criticità in una lettera che abbiamo consegnato al ministro chiedendogli nuove assunzioni. Non riusciamo a stare dietro alla cosa più importante che è l’amministrazione della giustizia. La giustizia non può essere solo un costo: per farla funzionare bisogna investire”. Tornando all’omicidio di Stefano Leo, ha riscontrato di chi sia la responsabilità effettiva? “Non dei giudici che hanno fatto tutto bene, rispettando i tempi. Quella sezione era già problematica e i cancellieri si sono trovati in difficoltà quando i giudici hanno raddoppiato le sentenze da 90 a 160 al mese. Manca un coordinatore: il direttore amministrativo Valerio Tenga ha assunto su di sé il ruolo di facente funzioni. Già nei mesi scorsi i due presidenti di quella sezione avevano lanciato un allarme. E io l’avevo detto al dirigente: “Non può fare tutto lei, serve qualcuno che coordini ogni giorno il lavoro dei cancellieri e distribuisca i compiti”, Ma lui mi ha risposto: “Non ho trovato nessuno in grado di assumere questo ruolo”. Caso Cucchi. Il generale Nistri alla famiglia: “Arma parte civile contro i carabinieri” di Carlo Bonini La Repubblica, 8 aprile 2019 Una lettera di quattro pagine su carta intestata “Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri”, a inchiostro stilografico e dalla calligrafia rotonda, consegnata a mano la mattina di lunedì 11 marzo a Ilaria Cucchi, spinge la storia della morte del fratello Stefano, le sue conseguenze, oltre un confine che, in nove anni, non era ancora stato superato. Il generale Giovanni Nistri torna infatti a inginocchiarsi di fronte al dolore di Ilaria e a quello dei suoi genitori affidandosi non più soltanto al valore simbolico di un gesto e di parole che condividono un lutto. Ma assumendo un impegno destinato a modificare significativamente il contesto dei due processi che vedono imputati e indagati militari, ufficiali e generali dell’Arma per l’omicidio di Stefano e per il depistaggio nella ricerca delle sue responsabilità. Nistri si impegna con Ilaria e la famiglia Cucchi non solo a procedere disciplinarmente nei confronti degli autori del pestaggio e delle calunnie (i cinque carabinieri attualmente a giudizio nel processo in Corte di Assise), ma a muovere con ulteriori iniziative nel procedimento a carico di quegli otto ufficiali che hanno trafficato nel tempo per coprire la verità. Che si sono avvalsi del diritto al silenzio. Nei cui confronti si sono chiuse le indagini. E di cui, di qui alle prossime settimane, la Procura chiederà il rinvio a giudizio. Un’iniziativa su tutte. Chiedere alla Presidenza del Consiglio l’autorizzazione a costituire l’Arma parte civile nel processo per depistaggio ai suoi militari qualora nella richiesta di rinvio a giudizio appariranno evidenti le circostanze che la vedono parte lesa. La visita a sorpresa - La lettera, dunque. È la mattina dell’il marzo quando Ilaria la riceve. E nel modo scelto per recapitarla è a ben vedere un primo corto circuito emotivo. L’ultimo carabiniere in uniforme che aveva bussato alla porta dei Cucchi era stato, giovedì 22 ottobre 2009, un maresciallo che aveva in mano un annuncio di morte di burocratica ferocia. Un invito alla nomina di un consulente di fiducia che avrebbe dovuto presiedere all’autopsia di Stefano. Ebbene, lunedì 11 marzo, alla porta di Ilaria è un generale di brigata. Si chiama Roberto Riccardi. È il portavoce del Comandante generale. Si scusa per il disturbo e dice di avere con sé una busta che il generale Nistri vuole sia consegnata personalmente nelle sue mani. “Gentile Signora Ilaria Cucchi - è l’incipit - ho letto con grande attenzione la lettera aperta che ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Sabato scorso, a Firenze, nel rispondere a una domanda di una giornalista, pensavo a voi e alla vostra sofferenza, che ho richiamato anche nel nostro ultimo incontro. Pensavo alla vostra lunga attesa per conoscere la verità e ottenere giustizia. Mi creda, e se lo ritiene lo dica ai suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà”. Agli occhi di Ilaria, quel riferimento lessicale a “Suo” fratello Stefano con l’uso della maiuscola è qualcosa di più di un vezzo formale. È un risarcimento umano di quella che, nell’aula dove si processano gli imputati dell’omicidio di Stefano, ha vissuto come un’umiliazione. Ascoltare il generale di corpo d’Armata Vittorio Tomasone, comandante provinciale dei carabinieri a Roma quando Stefano fu ucciso, definirlo a più riprese “il geometra Cucchi”. “Abbiamo la vostra stessa impazienza - prosegue Nistri - perché il vostro lutto ci addolora da persone, cittadini, nel mio caso, mi consenta di aggiungere: da padre. Lo abbiamo perché anche noi - la stragrande maggioranza dei carabinieri, come lei stessa ha più volte riconosciuto, e di ciò la ringrazio - crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria”. Le responsabilità nell’Arma - La lettera del Comandante generale si avvicina al cuore della questione. Quella che, nel tempo, ha finito per scavare un solco di profonda diffidenza tra Ilaria, la sua famiglia, e il Comando Generale dell’Arma. Che cioè il richiamo all’accertamento definitivo della responsabilità penale dei singoli diventi un alibi per nascondersi e posporre al tempo infinito necessario alle sentenze per passare in giudicato, atti e iniziative che impegnino il vertice dell’Arma nella propria autonomia. Lasciando così i “molti” irrimediabilmente prigionieri della forza di ricatto, spacciata per “spirito di corpo”, dei “pochi”. “Proprio il rispetto assoluto della legge - argomenta Nistri - ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, “chi” ha fatto “che cosa”. Nell’episodio riprovevole delle studentesse di Firenze (il riferimento è alla violenza sessuale inflitta da due carabinieri a due ragazze americane nel settembre del 2017, ndr), il contesto era definito dall’inizio. C’erano responsabilità dei militari sin da subito impossibili da negare, almeno nell’aver agito all’interno di un turno di servizio e con l’uso del mezzo in dotazione, quando invece avrebbero dovuto svolgere una pattuglia a tutela del territorio e dei cittadini. In questo caso, abbiamo purtroppo fatti sui quali discordano perizie, dichiarazioni, documenti. Discordanze che saranno però risolte in giudizio. Le responsabilità dei colpevoli porteranno al dovuto rigore delle sanzioni, anche di quelle disciplinari”. Il cambio di passo - È una premessa che non sembra scostarsi di un millimetro da quanto sostenuto da Nistri negli ultimi mesi (anche su questo giornale). Ma, per la prima volta, ne è diverso il corollario. Rompendo il canone del silenzio, il generale decide infatti di legittimare la scelta di chi, militare dell’Arma e testimone del pestaggio di Stefano, ha deciso di accusare due suoi colleghi. Il carabiniere Francesco Tedesco che, per altro, proprio questa mattina deporrà nell’aula di Corte d’assise. Chiedendo, al contrario degli ufficiali che hanno testimoniato prima di lui tacendo o farfugliando dei “non ricordo”, di essere ripreso televisivamente. “I tre accusati di omicidio preterintenzionale - scrive infatti Nistri - sono già stati sospesi. Non sono stati rimossi, è vero. Ma è pur vero che se ciò fosse avvenuto si sarebbe forse sbagliato. Faccio al riguardo due esempi. Oggi emerge che uno dei tre - secondo quanto egli ha dichiarato accusando gli altri due - potrebbe essere innocente. Erano innocenti gli agenti della Polizia Penitenziaria che pure erano stati incolpati e portati a giudizio”. Le prove occultate - Il passaggio su Tedesco è funzionale a quello successivo. A ben vedere ancora più impegnativo. Perché affronta l’onta, persino peggiore del pestaggio, che l’Arma porta nell’omicidio di Stefano: quella del depistaggio. Su cui - ecco la seconda novità - Nistri assume un nuovo impegno. “Indefettibile”. “Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d’Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere”. Nel commiato del Comandante generale, è un ultimo inchino in cui l’omaggio al dolore di Ilaria suona come scomunica della cultura dell’omertà. “Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono. Con sinceri sentimenti. Giovanni Nistri”. Ma il commiato, nel chiudere la lettera, apre una nuova partita. Ed è il generale Riccardi a illustrarla a Ilaria per averne personalmente discusso con Nistri. Il Comandante generale - le spiega - se la richiesta di rinvio a giudizio degli otto militari accusati di depistaggio ne offrirà giuridicamente lo spazio, è intenzionato a chiedere alla Presidenza del Consiglio l’autorizzazione a costituire l’Arma come parte civile nel processo. È un coraggio che il vertice dell’Arma non aveva avuto al momento del rinvio a giudizio dei cinque carabinieri oggi a processo per omicidio. E che ora invece trova per la catena di comando accusata di averli coperti. Dopo nove anni, il generale Nistri attraversa dunque il suo Rubicone. E quella lettera a una sorella orfana del fratello diventa dunque un messaggio al Paese e ai centomila uomini in divisa che comanda. Il “cattivo maestro” di Battisti: “Perché dico no all’ergastolo” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 8 aprile 2019 Verona, l’ex ideologo dei Pac, oggi volontario cattolico: “Cesare si era dissociato già nel 1981”. “È più utile e giusto mettere le sue capacità a servizio delle vittime o della società offesa”. Il passato che non passa ha il volto di un uomo seduto in salotto, nella sua casa in centro storico a Verona. I capelli grigi di un pensionato che è stato un giovane rivoluzionario del post Sessantotto. Lo sguardo mite di un condannato per banda armata che ha pagato il suo debito con la legge (tanto da ottenere la riabilitazione) ed è oggi un volontario cattolico sul fronte della giustizia (ma fuori dal carcere). Il sorriso timido che s’increspa in una smorfia di fastidio, ogni volta che il suo nome e il suo cognome vengono associati alla figura di Cesare Battisti. “Non mi sono mai nascosto, però basta, sono trascorsi quarant’anni”, mormora Arrigo Cavallina, “l’ideologo dei Proletari armati per il comunismo”, per citare un’altra delle etichette che gli stanno appiccicate addosso da quattro decenni. Ma sulle sue spalle grava appunto la dolorosa consapevolezza di essere stato colui che, nel penitenziario di Udine, nel 1976 politicizzò quello che fino ad allora era stato solo un delinquente comune. E così, a dieci giorni dalla confessione di Battisti, per la prima volta Cavallina accetta di parlarne pubblicamente con il Gazzettino. Si è chiuso un cerchio? “La confessione di Cesare non aggiunge niente alla verità storica. Oltre a non fare nomi, come d’altra parte facemmo anche noi dissociati, lui stesso non avrebbe da dire assolutamente nulla che non sia già noto. Ma è triste pensare che una storia si chiuda con la sepoltura di una persona, per quanto si sia comportata in modo sgradevole, dentro l’isolamento di un carcere. Del resto tutti gli ergastoli sono brutte chiusure”. Quale sarebbe una bella chiusura, a suo parere? “Un’altra specie di pena. Il che non vuol dire sottrarsi alla responsabilità, anzi, credo che ci sia più riconoscimento di responsabilità e più utilità sociale nel mettere le proprie capacità lavorative e intellettuali, dopo aver fatto dei danni, a servizio delle vittime dirette, o almeno della società offesa nel suo insieme. Tanto più a distanza di quarant’anni dai fatti. La nostra Costituzione dice che lo scopo della pena è tendere alla rieducazione del condannato: giustamente i padri costituenti immaginavano che il colpevole, fresco delle trasgressioni compiute, avesse bisogno di capirle. Ma qui parliamo di una persona che dopo l’evasione dal carcere nel 1981 non ha più commesso reati, visto che la latitanza non lo è, secondo il codice penale italiano”. Vuole forse dire che la rieducazione alla pena di Battisti è già avvenuta, malgrado i 38 anni di fuga? “Voglio dire che Cesare si era già dissociato 38 anni fa. Lo so per certo perché ne abbiamo parlato”. In quale occasione? “Nel nostro ultimo colloquio, appunto nel 1981. Ci trovavamo a Rebibbia, dove lui credo fosse in transito per un processo, mentre io ero detenuto. Avevo avuto la grande fortuna di essere destinato a un carcere dove esisteva un’area per noi dissociati, il che mi metteva finalmente al riparo dai grossi pericoli che avevo sfiorato ad esempio a San Vittore, dove eravamo destinatari di feroci vendette da parte degli irriducibili, spesso attraverso ergastolani che non avevano nulla da perdere nell’accoltellare qualcuno. Era la prima volta che lo rivedevo, dopo l’incontro da liberi del 1979 in cui eravamo ormai in notevole disaccordo. Cesare mi disse che dov’era recluso doveva stare molto attento a non manifestare la sua dissociazione, perché viveva in mezzo a brigatisti ancora in servizio e avrebbe corso seri rischi per la sua vita. Inoltre quel giorno lui convenne con me sul fatto che l’esperienza che avevamo fatto era non solo conclusa, ma anche sbagliata all’origine. Ne ebbi un’ulteriore prova con la sua evasione dal carcere di Frosinone, aiutato da un gruppetto legato a Prima Linea: per un attimo pensai che si facesse reclutare di nuovo, invece scappò via, non rimase a fare il combattente”. Però si proclamò sempre innocente, pur sapendo di non esserlo, stando a quanto ha ammesso adesso. “Cesare si è ritrovato, prima in Francia e poi in Brasile, circondato da persone che lo sostenevano perché ritenevano che in Italia ci fosse una minaccia per la democrazia, che i processi politici avessero criminalizzato gli innocenti, che lui fosse un uomo dalle idee sovversive ma che non avesse fatto nulla di male. Se avesse ammesso di aver contribuito ad ammazzare quattro persone o avesse riconosciuto che i processi erano stati sostanzialmente giusti, avrebbe perso ogni supporto e sarebbe stato estradato: così, fra la menzogna e l’ergastolo, ha scelto di dirsi perseguitato pur di restare libero. Sia chiaro, non lo sto giustificando, ma non vorrei essere stato nei suoi panni. Chi ora lo attacca, chieda a se stesso quello che mi chiedo io: cosa avrei fatto? Personalmente non lo so”. Lei però ha scelto di dissociarsi subito e, a differenza di Battisti, non ha materialmente assassinato nessuno, pur essendo stato condannato per concorso nell’ideazione dell’omicidio di Antonio Santoro. “Lasciai i Pac perché non ero d’accordo con l’idea di uccidere Pier Luigi Torregiani e Lino Sabbadin. In quell’ultima riunione dissi agli altri: voi andate per la vostra strada e io vado per la mia. Ma questo non mi solleva dalle responsabilità morali, quelle cose sono successe sulla spinta che ho dato anch’io, fornendo alla banda Pac un apporto ideologico importante”. In quali termini? “Non c’era più la speranza di una rivoluzione globale, però avevamo l’aspirazione di autonomia, di non sottostare alle leggi del mercato, che non sono solo economiche ma anche culturali e educative. Perciò credevo che il nostro piccolo gruppo potesse riorganizzarsi una vita senza cedere alle lusinghe della merce. Invece da un certo punto in avanti vedevo che gli altri pensavano che il loro essere rivoluzionari si esaurisse nel combattimento politico all’interno della fabbrica, dopodiché andava benissimo passare il resto della giornata al bar o tenere le armi in mano per sentire un certo senso di potere. Oltretutto guardandomi indietro mi accorgevo che, una alla volta, le persone erano state ammazzate o incarcerate e che il popolo, quello che secondo noi avrebbe dovuto darci ragione, in realtà non ci poteva vedere. Insomma, un fallimento”. Per lei Battisti è ancora “un malavitosetto romano dall’intelligenza vivace”, come lo definì dieci anni fa, o uno spettro che la ossessiona da quaranta? “Sicuramente uno spettro. Ma la colpa non è sua, dato che i rapporti si sono interrotti tanto tempo fa, bensì vostra, di voi giornalisti intendo”. E lei chi è stato per Battisti? Un cattivo maestro? “L’espressione è brutta, però purtroppo è qualcosa di vero. Peraltro lui non è l’unica persona per la quale la mia conoscenza ha pesato. Una mia ex fidanzata non si sarebbe mai sognata di dedicarsi alla politica estremista, se non fosse stata in relazione con me, il che le ha causato un sacco di guai, di cui paga ancora il conto. Come spiego ai ragazzi che incontro nelle scuole, un reato non coinvolge solo chi lo compie e chi lo subisce, ma anche la gente che si spaventa, i familiari dell’autore, i parenti della vittima...”. A proposito: perché non li ha mai incontrati, se non dentro alle aule di tribunale, com’è capitato con la vedova Sabbadin? “Chiedere di incontrarli mi sembrerebbe di infliggere loro una nuova violenza inutile”. Cosa pensa degli intellettuali che continuano a difendere Battisti, sostenendo che il 41-bis sia un sistema di tortura? “La critica a quel regime ha i suoi fondamenti. Anche il rapporto di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ha messo in evidenza l’incongruenza tra la giusta finalità del sistema e le misure concrete di attuazione. Detto ciò, però, questi intellettuali dovrebbero informarsi meglio: in Italia non c’è carcere per oppositori politici”. E che idea si è fatto dei suoi ex compagni tuttora latitanti, come i veneti Luigi Bergamin e Paola Filippi? “Sono un po’ preoccupato per il vento politico che tira adesso tra Italia e Francia. Parliamo di persone che hanno sbagliato, ma che da 40 anni conducono una vita assolutamente regolare. A chi gioverebbe la loro carcerazione? Non alle vittime, non ai cittadini. Non distruggiamo altre vite: meglio una giustizia riparativa, anche per loro, come per Cesare”. Andrebbe a trovarlo in carcere ad Oristano? “Assolutamente no. A lui non importerebbe niente e io non saprei cosa dirgli. Non avrei né consigli da dare né rimproveri da fare. Chi sono io per giudicare? E poi penso che le orecchie sappia tirarsele da solo, dopo quarant’anni”. Alle sezioni Unite se l’archiviazione per tenuità del fatto va iscritta nel casellario giudiziale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2019 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 6 marzo 2019 n. 9836. Va rimessa alle sezioni Unite la questione se il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto sia soggetto o no all’iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera f), del Dpr 14 novembre 2002 n. 313. Lo ha stabilito la sezione prima della Cassazione penale con la sentenza 9836/2019. Il contrasto - Vi è infatti contrasto tra l’orientamento, per vero maggioritario, secondo cui il provvedimento in questione non va iscritto, non rientrando nella categoria dei “provvedimenti giudiziari definitivi” di cui alla citata disposizione, e altro orientamento, pur minoritario, secondo cui sarebbe invece necessaria l’iscrizione, vuoi per consentire, per il futuro, l’apprezzamento del requisito della non abitualità del comportamento che è posta a fondamento dell’istituto, vuoi, in ogni caso, per giustificare la previsione dell’articolo 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, relativa all’avviso da dare all’indagato in caso di richiesta di archiviazione avanzata per la particolare tenuità del fatto, spiegabile proprio per il contenuto meno favorevole di tale archiviazione rispetto a quella per ragioni di merito (la Corte si esprime a favore di questo secondo orientamento, evidenziando che l’articolo 3, comma 1, lettera f), ricomprende comunque espressamente anche i provvedimenti definitori ex articolo 131-bis del codice di procedura penale e che, in ogni caso, per l’archiviazione per particolare tenuità la riapertura delle indagini ex articolo 414 del codice di procedura penale motivata dalla necessità di nuove investigazioni è meramente teorica, conseguendone la sostanziale stabilità del relativo provvedimento, che presuppone già l’accertamento del fatto, la sua attribuzione all’indagato e la riconducibilità all’ipotesi di particolare tenuità). Il primo orientamento - A favore del primo orientamento, cfr. in particolare sezione V, 15 gennaio 2018, Pisani, nella quale si è affermato che il provvedimento di archiviazione non va iscritto nel casellario giudiziale in questione non rientrando nella categoria dei “provvedimenti giudiziari definitivi” di cui all’ articolo 3, comma 1, lettera f), del Dpr 14 novembre 2002 n. 313. In termini, sezione III, 26 gennaio 2017, Vanzo, che, proprio sul rilievo della non iscrivibilità sul casellario, ne ha dedotto che il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non è ricorribile per cassazione, se non per far valere una nullità di cui all’articolo 127 del codice di procedura penale - come espressamente previsto dall’articolo 409, comma 6, del codice di procedura penale - in quanto, trattandosi di provvedimento non definitivo, e non essendo, pertanto, lesivo della posizione dell’indagato, non vi è interesse da parte di quest’ultimo a impugnare; nonché, sezione I, 25 giugno 2018, Matarrese, dove si è affermata la ricorribilità per cassazione dell’ordine di iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, proprio in quanto non previsto dalla legge. L’altro indirizzo - In senso contrario, invece, nei sensi qui valorizzati dall’ordinanza di rimessione, sezione V, 15 giugno 2017, Serra e altro, nell’ambito di un ragionamento che ha portato a sostenere la ricorribilità per cassazione del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità adottato senza il rispetto della procedura dettagliata nell’articolo 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale. L’udienza dinanzi alle sezioni Unite è stata fissata per il 30 maggio 2019. La responsabilità degli enti si allarga al traffico di influenze illecite di Andrea Fedi Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2019 Codice penale, articolo 346 bis - La recente legge 9 gennaio 2019 n. 3 ha riformulato le fattispecie del millantato credito (ex articolo 346 del codice penale - ora abrogato) e del traffico d’influenze illecite (articolo 346 bis Cp, profondamente modificato). Il nuovo articolo 346 bis Cp, così come profondamente riscritto, merita grande attenzione, anche (ma non solo) perché la legge 3/2019 inserisce tale fattispecie penale nell’ormai sconfinato catalogo dei reati 231 suscettibili d’innescare la responsabilità di società, persone giuridiche e associazioni per reati commessi da loro amministratori, rappresentanti, manager, dipendenti e altri subordinati. Vale la pena, dunque, scomporre la nuova norma nei suoi elementi essenziali e tentarne una prima lettura che ne evidenzi le implicazioni. I soggetti passivi del divieto sono sia l’illecito mediatore, sia chi abbia indebitamente pagato o promesso di pagare, purché non si sia giunti per qualche ragione a un vero e proprio “concorso in corruzione”, nel quale ultimo caso di applicheranno le norme sulla corruzione vera e propria. L’illecito mediatore - Quanto all’illecito mediatore, viene punito chiunque, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite, abbia fatto dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, o come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio (o membri delle Corti internazionali o delle Comunità europee, o di assemblee parlamentari o di organizzazioni internazionali, o funzionari delle Comunità europee o di Stati esteri) in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. • Dunque, la fattispecie copre sia il millantatore (vanteria su relazioni asserite ma inesistenti) sia chi abbia sfruttato vere e proprie relazioni con il pubblico funzionario. • La condotta illecita, dal canto suo, si perfeziona sia con il “dare”, sia con il semplice “promettere”, purché dazione o promessa siano “indebite”. • L’oggetto della dazione o promessa può essere tanto denaro, quanto altra utilità (un gioiello, ma anche l’assunzione di un parente). • Il beneficiario può essere lo stesso illecito mediatore, il pubblico funzionario, ma anche altri (ad esempio, un coniuge o un amico, dell’uno o degli altri). • E tale dazione o promessa può sia compensare l’illecita mediazione, o remunerare l’atto compiuto da pubblico funzionario: tanto nel caso in cui tale atto sia contrario ai doveri d’ufficio, quanto nel caso rientri nell’esercizio della funzione (ad esempio, promessa di pagamento al fine di accelerare il rilascio di un permesso cui si ha diritto). •La stessa pena si applica al pagatore o all’offerente, sempre a condizione, però, che dazione o promessa siano “indebite”. Lo scopo della norma - Non v’è dubbio che lo scopo della norma sia d’anticipare la tutela del bene pubblico e reprimere condotte preparatorie e funzionali alla corruzione. Da un punto di vista 231, un modello di organizzazione e gestione ben fatto (anche se elaborato prima della novella) dovrebbe essere già essere in grado d’intercettare molte delle condotte ora espressamente punite, ad esempio prevedendo il pagamento solo di fatture per operazioni esistenti, la selezione dei professionisti e consulenti che operano per la persona giuridica, l’assunzione di personale solo per motivate esigenze e a seguito d’idonea selezione, limitazioni nell’erogazione di omaggi e regalie, procedure per le sponsorizzazioni. Tuttavia la norma apporta alcune novità degne di rilievo, specie nel campo del lobbying, tenuto conto che la nuova fattispecie criminosa punisce chi da o promette denaro o altre utilità anche al pubblico funzionario che esercita le proprie funzioni e poteri. Potrebbe dunque rimanere il dubbio se e in che misura il lavoro del lobbista possa in qualche modo innescare la fattispecie. E potrebbe altresì opinarsi che il lobbista (che agisce per conto e nell’interesse della persona giuridica) almeno in alcuni casi possa ricadere tra i subordinati della persona giuridica (nel senso esageratamente ampio che parte della giurisprudenza 231 dà questo termine). Il discrimen sembra risiedere nell’avverbio (“indebitamente”) che deve qualificare l’attività del mediatore. In tal senso, un’interpretazione ragionevole dovrebbe essere quella secondo la quale l’indebito non scatta ogni qual volta l’”altra utilità” non è prevista come dovuta da una norma, ma solo quando quantitativamente e qualitativamente sia in grado di perturbare l’imparzialità del pubblico funzionario. Viterbo: carcere di Mammagialla, 49 detenuti al 41-bis di Raffaele Strocchia tusciaweb.eu, 8 aprile 2019 Il dato emerge dall’ultima relazione al parlamento del garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Il rapporto è stato presentato a Montecitorio alla presenza del capo dello stato Sergio Mattarella, del presidente della camera Roberto Fico, del premier Giuseppe Conte, del presidente della corte costituzionale Giorgio Lattanzi, e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In Italia i detenuti al 41-bis sono 749, di cui dieci donne. Sono reclusi negli undici carceri duri della penisola. Tra cui quello di Viterbo, che ne ospita 49. Nella relazione il garante nazionale dei detenuti spiega: “Le misure del regime speciale non possono consistere in restrizioni della libertà personale ulteriori rispetto a quelle che già sono insite nello stato di detenzione ed essere diverse da quelle riconducibili alle finalità di ordine e sicurezza proprie del provvedimento ministeriale. Le misure disposte non possono violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità né vanificare la finalità rieducativa della pena”. Quattro le criticità del 41 bis riscontrate da Palma durante le sue visite nei penitenziari italiani. “L’esistenza di aree riservate, l’internamento in misura di sicurezza con il regime del 41 bis, la reiterazione dei provvedimenti applicativi e la mancata ottemperanza da parte delle direzioni degli istituti delle ordinanze della magistratura di sorveglianza che accolgono reclami e istanze inerenti il rispetto di diritti delle persone ristrette. Profili che presentano il rischio di contraddire la legittimità costituzionale dell’istituto”. Si sottolinea che con aree riservato si intendono quelle “sezioni destinate alle figure apicali delle organizzazioni criminali, in cui si applica un regime detentivo di ancora maggior rigore rispetto a quello del 41 bis”. Per risolvere queste criticità il garante si è appellato al parlamento. Ma evidenzia: “La materia che interessa il regime speciale è composta di questioni la cui complessità non consente risposte semplificate o di facile impatto mediatico. Sono questioni che richiedono soluzioni graduali e condivise tra tutte le istituzioni interessate, nella direzione della doverosa ricerca della linea di compatibilità tra le esigenze preventive di interesse generale e i principi inderogabili della carta costituzionale”. Dalla relazione emerge anche che dal primo gennaio 2018 al 31 gennaio 2019 sono state 12 le visite ad hoc del garante dei detenuti del Lazio nei penitenziari della regione. Due hanno riguardato Mammagialla. La prima, del 20 gennaio 2018, nel reparto di medicina protetta presso l’ospedale di Belcolle. La seconda, del 20 novembre 2018, nella sezione 41 bis del carcere. L’ispezione nel reparto di medicina protetta di Belcolle “è rientrata - spiega il rapporto - nell’accertamento delle strutture in grado di ospitare detenuti con particolari patologie”. I reparti di medicina protetta sono unità autonome nell’ambito dell’ospedale di appartenenza, destinate esclusivamente ai detenuti per la cura delle patologie che non possono essere affrontate in ambiente penitenziario. Nati con l’obiettivo di offrire ai detenuti ricoverati tutti i servizi specialistici presenti nel nosocomio e di assicurare un elevato livello di sicurezza, oggi i reparti sono dieci e hanno dai quattro ai 22 posti letto. “Sono strutture - sottolinea la relazione - anche ben attrezzate dal punto di vista medico, ma pensate per ricoveri molto brevi e che non sono adeguate a degenze lunghe. Il detenuto-paziente, infatti, rimane tutto il giorno all’interno della stanza, privo delle possibilità di uscire all’aperto, di avere momenti di socialità, di seguire un percorso trattamentale come è invece garantito nella detenzione in carcere. Perché mancano materialmente gli spazi, i locali e le risorse necessari per queste attività”. Alle visite ad hoc di gennaio e novembre 2018, si deve aggiungere l’ultima. Quella del 22 febbraio scorso, sempre a Mammagialla. Nel rapporto anche il ricordo, amaro, dei due suicidi avvenuti lo scorso anno nel carcere di Viterbo. Alle 22 del 21 maggio il detenuto Andrea Di Nino, 36 anni, viene trovato impiccato nella sua cella. Era in isolamento, e dal penitenziario sarebbe uscito di lì a un anno. “Per prevenire questi tragici eventi - denunciò il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia - non bisogna cercare le responsabilità ultime: chi dovesse vigilare o perché non fosse stata disposta un’adeguata vigilanza. Ma serve un intervento di sistema, sull’intero ambiente penitenziario, che renda più accettabili le condizioni di detenzione e le relazioni umane all’interno del carcere, che faciliti quelle con l’esterno e che limiti alle estreme necessità l’isolamento, considerato dall’organizzazione mondiale della sanità e dallo stesso accordo stato-regioni una vera e propria condizione a rischio suicidario”. Il 23 luglio, invece, Hassan Sharaf, detenuto egiziano di 21 anni, viene trovato impiccato nella cella d’isolamento dove era appena stato trasferito. “Per scontare - rivelò il garante Anastasia - una sanzione disciplinare per un fatto risalente a marzo. Appena arrivato in sezione, tempo due ore, si è impiccato”. Sharaf muore dopo una settimana di agonia all’ospedale di Belcolle. Nel reparto di terapia intensiva, dove era stato ricoverato in coma. Da Mammagialla, dove era arrivato (da un carcere di Roma) a luglio 2017, sarebbe uscito da lì a un mese. Il caso, sul quale la procura di Viterbo ha aperto un’indagine contro ignoti per istigazione al suicidio, è diventato di livello internazionale. È stato per giorni sulle pagine dei principali organi d’informazione egiziani e, per almeno due volte, le autorità del Cairo sono venute in città. Nel rapporto anche le note di Anastasia su questi due suicidi. Una è indirizzata al direttore del carcere di Viterbo, Pierpaolo D’Andria, e ha ad oggetto la richiesta di chiarimenti sull’esecuzione della pena di Sharaf. Secondo il garante, “Hassan non doveva essere a Viterbo. Gli ultimi mesi che gli restavano da scontare erano per una vecchia condanna del tribunale per i minorenni. E quand’è così la legge consente ai giovani adulti, ovvero ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni, di espiare la pena in un istituto minorile”. L’altra nota contiene un esposto e una richiesta di incontro urgente al procuratore capo di Viterbo circa “asseriti episodi di violenza a Mammagialla”. A giugno 2018 Anastasia invia alla procura del capoluogo della Tuscia un esposto con le dichiarazioni, tra cui quelle di Sharaf, di una serie di “detenuti che lamentavano di essere stati vittime di abusi da parte degli agenti di polizia penitenziaria, in specie nella sezione d’isolamento” del carcere di Viterbo. Salerno: disposto il trasferimento di tutti i detenuti coinvolti nella rissa a Fuorni di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 8 aprile 2019 In tutto, si tratta di una ventina di persone, tra salernitani e napoletani. Appena due giorni prima, si erano scontrati forse per una questione di “leadership” interna, ferendo anche la direttrice del carcere Rita Romano. Tutti trasferiti: è il destino che attende i detenuti coinvolti nella maxi-rissa al carcere di Fuorni, nel Salernitano, durante la quale era rimasta ferita anche la direttrice del penitenziario, Rita Romano. È quanto disposto da Francesco Basentini, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Una volta venuto a conoscenza dei fatti, Basentini ha chiesto alla Direzione Genetale Detenuti e Trattamento del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di provvedere immediatamente al trasferito di tutti le persone coinvolte, che saranno dunque sparpagliate in istituti di altro Provveditorato, in osservanza alla circolare già emanata nei mesi scorsi sui detenuti violenti. In tutto sono circa una ventina i detenuti che saranno raggiunti dal provvedimento, tutti napoletani e salernitani. Qualche giorno fa, forse per una questione di “leadership” interna al carcere, vi era stata una violenta rissa tra i due gruppi, nella quale era rimasta contusa anche la direttrice del carcere di Fuorni, Rita Romano. Una notizia che aveva suscitato scalpore, anche se vi era stato un precedente simile appena un anno fa sempre nel medesimo carcere e sempre tra gruppi di detenuti salernitani e napoletani. Anche in quel caso vi era stato il ferimento di un responsabile delle forze dell’ordine, un agente della penitenziaria che venne travolto dal cancello sfondato dai detenuti salernitani per raggiungere i rispettivi “avversari” napoletani e regolare conti interni. Alla fine però è arrivato in queste ore il via libera al loro trasferimento in altri istituti, dove si spera potranno scontare le proprie pene (si tratta di detenuti in carcere per reati comuni) in tranquillità e senza creare scompiglio all’interno delle carceri. Salerno: Cirielli (FdI) “Bonafede cancelli regime delle celle aperte” askanews.it, 8 aprile 2019 L’aggressione subita dalla direttrice del penitenziario di Fuorni. “Presenterò un’interrogazione parlamentare urgente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo l’aggressione ai danni della direttrice del carcere di Fuorni (Salerno) Rita Romano da parte dei detenuti nel corso di una rissa”. Lo annuncia in una nota Edmondo Cirielli, Questore della Camera dei deputati e parlamentare di Fdi. “L’incapacità del ministro Bonafede sta esponendo quotidianamente la polizia penitenziaria ad aggressioni: il regime delle celle aperte, introdotto dal governo Pd, va cancellato. O almeno rivisto. Mentre il personale va aumentato e minuto di strumenti di difesa come il taser”, spiega Cirielli. “Rivolgo un appello alla Lega ad appoggiare la nostra battaglia parlamentare finalizzata alla cancellazione del regime delle celle aperte, restituendo dignità e sicurezza agli agenti. Altrimenti sarà corresponsabile di quanto di grave sta accadendo nelle carceri italiane”, continua il Questore. Saluzzo (Cn): rinasce il biscottificio nel carcere “Morandi” di Giulia Scatolero La Stampa, 8 aprile 2019 Al lavoro i detenuti, l’attività nella casa di reclusione era ferma da quattro anni. Saranno sfornati prodotti da forno e pasticceria a consumo interno. Rinasce il biscottificio della casa di reclusione “Morandi” di Saluzzo. Un laboratorio nato 8 anni fa, la cui attività era interrotta da quattro, per impossibilità della cooperativa, all’epoca gestore, di proseguire nel progetto. Martedì sarà inaugurato il percorso avviato dalla direzione del carcere con la coop Voci Erranti di Savigliano, già impegnata al “Morandi”, come associazione, per promuovere attività teatrali. “È destinato a detenuti di Alta Sicurezza - spiega Giorgio Leggieri, direttore del carcere -: con la formazione scolastica e professionale costituisce un polo rieducativo, alla cui creazione lavoriamo da un decennio. È importante che chi ha un limitato accesso all’esterno come l’Alta Sicurezza abbia possibilità di formazione e lavoro interne”. Da un mese 10 detenuti selezionati dalla direzione seguono un corso di formazione. La produzione è attesa a maggio. Quattro sono già stati assunti dalla coop. “Produrremo prodotti da forno e di pasticceria a consumo interno - spiega Grazia Oggero, presidente della coop -. Saranno venduti a prezzi calmierati, accessibili a tutti. Potranno acquistarli per il consumo personale o i colloqui con i familiari. Una parte sarà diretta al Caffé Intervallo di Savigliano che gestiamo dal 2017”. Una realtà che ha già visto l’inserimento di 5 detenuti in permesso-lavoro. “Capo mastro” Vincenzo Pallonetto, 51 anni, panettiere a Savigliano da 15 e presidente regionale dei panificatori Confartigianato: “Il volontariato fa bene agli altri e a noi stessi. Insegnando il mestiere spero di dare un’opportunità a chi è in carcere. Ho insegnato la lavorazione: aspetti concreti per l’autosufficienza economica”. Nome del biscottificio e dei prodotti, logo e packaging saranno ideati dai detenuti. Belluno: signore delle Cime e non solo, il Csi tra i detenuti Il Gazzettino, 8 aprile 2019 Il Csi supera i muri di Baldenich: dietro le sbarre non solo calcio, anche yoga e canti popolari. Si arricchiscono le attività proposte al carcere dal Centro sportivo italiano in collaborazione con altri gruppi del territorio. Da tre anni, il Csi ha ripreso un vecchio progetto di attività sportiva avviato ancora qualche decennio addietro, con lo scopo di offrire ad alcuni detenuti la possibilità di praticare l’attività sportiva, dalla pallavolo al calcio a 5, nel pur esiguo e ristretto spazio interno, per un paio di ore settimanali. Ma non solo sport. Le proposte ai detenuti sono fatte anche di momenti formativi e ricreativi. Nel mese di marzo, per esempio, si è conclusa una serie di due sedute di Yoga della Risata che ha coinvolto più di venti Guardie di Polizia Penitenziaria, in vista di una analoga serie di incontri con i detenuti. Posizioni del loto, del guerriero e saluti al sole con l’obiettivo, va da sé, di migliorare le condizioni di vita e di lavoro in un ambiente forzatamente ristretto. A livello ricreativo, sabato scorso, grazie alla collaborazione tra i responsabili dell’istituto, il gruppo di musica popolare I Proagner ha coinvolto un quarantina di detenuti in un pomeriggio di musica e canti. Alle tradizionali canzoni del repertorio classico di musica popolare, si sono alternate le esibizioni di alcuni degli ospiti, con riproposizione di canti nella loro lingua, talvolta accompagnati ritmicamente dagli strumentisti. Non sono mancate le riproposizioni di canzoni classiche italiane di Lucio Dalla, Baglioni ed altri autori noti anche ai carcerati provenienti da altri Paesi. “Il calore dei ragazzi e la loro partecipazione ai canti hanno riscaldato i nostri cuori commenta Andrea Da Sois, capobanda de I Proagner. Noi solitamente cantiamo e suoniamo per gli anziani ospiti delle case di riposo. Per la prima volta abbiamo vissuto una giornata in carcere e l’esperienza è stata molto emozionante e coinvolgente. Abbiamo riso e ci siamo anche commossi, come quando un ragazzo ha voluto cantare Signore delle Cime dedicandola al papà morto in montagna. Un’esperienza che per noi sarà un onore e un piacere ripetere”. Milano: speranze e visioni, il libro scritto dai detenuti con gli universitari di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 8 aprile 2019 Un libro realizzato a molte mani da un gruppo di studenti della Statale e detenuti del carcere di Opera: scrittori “alla pari”, per la prima volta. Il testo si intitola “L’attesa” ma dentro c’è l’intero spettro delle emozioni umane. Rappresenta, tradotto in racconti, ciò che Robert Musil chiamava “senso della possibilità”, ovvero la capacità di vedere ciò che potrebbe ugualmente essere, oltre la realtà cui bisogna giocoforza adattarsi. “La scrittura creativa invita all’immaginazione. E una chiave che aiuta tutti noi, non solo i detenuti, a superare i confini della libertà ristretta”, spiega Giuliana Nuvoli, curatrice del libro e docente della Statale. Per molti mesi, una volta a settimana, ha accompagnato i ragazzi nel penitenziario, grazie ad un progetto di didattica avviato quattro anni fa dal prof di Filosofia Stefano Simonetta. “Nei loro racconti, talvolta anche duri, i reclusi hanno trasformato l’autobiografia in un grido che chiama attenzione e rispetto, mai pietà”. A presentare il lavoro, domani pomeriggio alla Casa della Cultura, sarà anche il consigliere comunale David Gentili, esperto di carcere visto che ha lavorato a lungo come mediatore dei conflitti a San Vittore. E poi gli studenti al gran completo. “Qualcuno li pensa interessati soltanto a dare esami, invece si mostrano pronti a raccogliere le nostre proposte anche fuori dall’ateneo, quando abbiamo il coraggio e l’energia per organizzarle - sottolinea la prof Al laboratorio hanno aderito con entusiasmo. E di fronte a un tema difficile come l’attesa, che ci parla di speranza ma anche di possibile delusione, non si sono tirati indietro”. Rilancia una ragazza: “In carcere tantissimi aspettano ancora la sentenza definitiva o persino il primo processo, ma anche noi giovani siamo in qualche modo in gabbia perché ci troveremo precari e non del tutto liberi di scegliere, ad esempio se e quando avere figli. Siamo tutti in attesa - osserva. Anche i migranti che sognano una patria futura dove potere approdare. E l’uomo che ha ucciso a Torino Stefano Leo perché aveva “l’aria troppo felice?” aveva smesso di aspettare, e di sperare?”. Le nostre attese sono in fondo tutte intrecciate; quelle di uno riguardano anche gli altri, è il messaggio degli autori. Tra i racconti, uno colpisce in particolare, quello di Radoin Bouni, dal Marocco. Scrive: “I ragazzi sul barcone diventarono statue di pietra. Chiesero agli scafisti di tornare indietro, la reazione fu una pistola puntata e l’intimazione di tacere. In silenzio, loro iniziarono a pregare. Dopo due giorni nel mare, il gommone si rovesciò. Samir scomparve sotto”. Samir era suo fratello e su quel barcone c’era anche lui. Milano: “Biobab”, l’asilo nido nel carcere di Bollate… e c’è pure il ristorante di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2019 Metti una sera a cena in carcere. A Bollate, proprio di fronte al celebre albero della vita di Expo. Al ristorante “In Galera”, aperto quattro anni fa da un’entusiasta signora di nome Silvia Polleri, che dà lavoro e mestiere a detenuti di buona volontà. E metti di ascoltare un progetto ispirato “al valore dell’inclusione e della bella educazione”, fatto di buon senso, umanità e cultura. Un asilo nido sul confine esterno del grande complesso carcerario, aperto ai figli dei dipendenti dell’istituto, alla popolazione della zona e ai figli delle donne recluse. Perché i bambini “non devono differenziarsi per le origini familiari”. Perché i bambini sono uguali. Allineate a un lungo tavolo parallelo a una parete stanno una decina di donne, per lo più giovani, dirimpetto a un’altra fila di donne. Sono loro a spiegare quel che stanno facendo e il suo significato. Orgogliose ma anche molto emozionate, vogliose di raccontare la storia di “Biobab”, così si chiama l’asilo. Fanno un cenno intenerito all’età “in cui si gioca con l’acqua e la terra non per creare il fango ma delle gustose polpette da offrire al proprio peluche”. Offrono punti di vista inediti. Come una “funzionaria giuridico-pedagogica” che a Bollate lavora. Si chiama Simona, porta in questo asilo due gemelle. La voce le si incrina quando ricorda il giorno in cui le consegnò alle maestre sconosciute dopo averle tenute accanto a sé un anno intero, prima di tornare al lavoro. Spiega che per lei quel servizio che può sembrare pura comodità è invece sollievo vitale. Quando entra al lavoro, infatti, deve deporre il cellulare in un armadietto. Durante il giorno nessuno la può raggiungere direttamente, è tagliata fuori da eventuali urgenze delle bimbe. E altrettanto tagliato fuori è il marito, anche lui in servizio a Bollate, agente della polizia penitenziaria. “Averle qui significa non vivere nell’ansia, sapere di potere essere comunque raggiunta”. Pensi che davvero bisogna camminare per due lune nei mocassini altrui per capire, delle persone, problemi e preoccupazioni. Stesso pensiero hai quando la parola tocca a una delle donne allineate alla parete. Ha un nome dei paesi dell’est europeo. È una detenuta. E all’asilo non ha un suo figlio. Ci lavora come ausiliaria. Con sincerità una mamma racconta di avere voluto sapere per quali reati fosse stata condannata, aveva l’incubo dei reati sessuali. Nulla di questo, Z. è un’ottima aiutante delle educatrici, e forse ha le qualità per essere educatrice lei stessa. Dice di averne sei, di figli. E che quando bambini di un anno la chiamano per nome, le sembra di stare altrove, sente dissolversi il peso dei nove anni trascorsi in carcere. Questa realtà coraggiosa e sincera, che include alcune giovani signore “del territorio” (si dice così, ormai), fa capo a una cooperativa femminile, Stripes, unica in Italia “e forse in Europa”, sottolinea Dafne Guida, donna di piglio e gentile che la guida. Le mamme della zona assicurano di avere scoperto una accoglienza “pazzesca”, che genera incontri e amicizie. Che c’è da restare sbalorditi per la qualità dell’ambiente educativo, più bello di scuole che nulla hanno a che fare con la prigionia, ma che sembrano tanto più chiuse e grigie. Qui c’è l’open space, i bimbi giocano con oggetti naturali (“giocattoli effimeri”, ironizza un’educatrice), sono a contatto con la natura, hanno il loro giardino-orto. Spiega Dafne che la loro idea è di garantire ai bimbi soprattutto due diritti: il diritto alla bellezza e il diritto a “stare fuori”, espressione che in questo contesto si carica di significati subliminali. “Vedete un gruppo di bambini che gioca, che prepara il fieno da portare ai cavalli, che infilale dita dentro la terra per scoprire se sono cresciute le carote. Giochi che per i bambini che vivono dentro hanno il valore straordinario dell’incontrare il fuori: un fuori fatto di erba da toccare, di cortecce da accarezzare, di foglie da osservare, di corse da fare, di amici da incontrare. Un luogo in cui il fuori si mescola al dentro per rendere la vita dei bambini che vivono tra le mura del carcere più sostenibile, più ariosa, più bella”. “Biobab”, “In Galera”, entrambe creazioni di donne in un carcere diretto da una donna, Cosima Buccoliero, in cui, come viene detto, sono 230 i detenuti che ogni sera rientrano dal lavoro esterno. Così pensi che forse non è necessario portare terroristi e mafiosi a parlare nelle scuole per rendere il carcere più umano, per restituire speranze e fiducia a chi ha sbagliato. O no? Le metamorfosi del “killer delle carceri” e quella vita passata dietro le sbarre di Katia Ippaso Il Messaggero, 8 aprile 2019 Tutto ha inizio dal furto di una bicicletta: “La vedevo appoggiata al muro, sempre lo stesso punto, e mi piaceva. Una bici così non avrei mai potuto comprarla... La desideravo più di ogni cosa. Avevo sette anni e il mio oggetto del desiderio non aveva a che fare né con gli amici, né con il gioco... A me quelle due ruote servivano per lavorare”. Sono le parole di Nino Marano, un uomo oggi 75enne che entra in carcere nel 1965 e ci rimane 49 anni. Come Antonio Ricci, il protagonista di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, anche Nino ha bisogno di quelle due ruote per andare a fare un lavoro umile. Però la sua parabola esistenziale non diventa il simbolo del cinema neorealista. Per la verità, la sua vita non sarebbe stata oggetto di nessuna speciale narrazione, se a un certo punto Emma D’Aquino, siciliana, 53 anni, in Rai dal 1997, non si fosse imbattuta (accadeva nel 2005, quando lavorava per Tv7, la rubrica del Tg1), in Nino Marano, noto negli anni Settanta come “il killer delle carceri”. Ma è solo nell’ultimo anno che Emma D’Aquino ha deciso di sottrarre al sonno le prime ore del giorno (“Ho il vizio della disciplina: se mi devo alzare all’alba, semplicemente lo faccio”) per scrivere il suo primo libro, da poco uscito in libreria: Ancora un giro di chiave. Nino Marano. Una vita tra le sbarre (Baldini e Castoldi, 184 p., 17 euro). Un racconto limpido, sincero e appassionante, narrato attraverso la voce stessa di Marano: dall’infanzia di povertà assoluta passando per i primi furti (una bici, peperoni e melanzane), e poi le condanne cumulate, fino alla svolta violenta, agli omicidi compiuti in carcere, e infine la redenzione. Emma D’Aquino sceglie di mettere in corsivo le proprie osservazioni, di intervenire solo là dove il lettore rischia di confondersi, tra un fatto storico e l’altro. La metamorfosi del “detenuto più longevo d’Italia per reati commessi in carcere” comincia attorno al 1992, quando Nino Marano incontra la direttrice del supercarcere di Carinola, Laura Passaretti, a cui regala il disegno di una Madonna realizzato nella sua cella di isolamento. “Marano, lei le mani le deve usare solo per disegnare, ha capito?” gli dice Passaretti. Nel 2006, nel carcere dell’Ucciardone, entra in scena un’altra donna, la professoressa Giovanna Gioia, una pioniera del volontariato in carcere. Nel 2009 Marano ottiene il suo primo permesso di due giorni. Le figure femminili hanno un ruolo cruciale in questo racconto. Prima tra tutte la moglie Serina, che l’ha sorretto e atteso per tutti questi anni, e a cui Nino ha dedicato una serie di ritratti. La libertà condizionale di Marano (iniziata nel 2014) si concluderà a maggio. Intanto gli è stato concesso un permesso per assistere a Palermo alla presentazione del libro che Emma D’Aquino, un’altra donna, gli ha dedicato. Accanto a lui, l’inseparabile Serina. Quell’amore che porta la vita oltre le sbarre di Concita De Gregorio La Repubblica, 8 aprile 2019 In “Almarina” Valeria Parrella racconta di una giovane romena chiusa nel carcere di Nisida e della sua insegnante di matematica. Due solitudini che s’incrociano, due figure femminili che si fidano e si proteggono. Una specie di madre, una specie di figlia. Nessun legame di sangue. Piuttosto: un incrocio di sguardi. È un miracolo, no?, quando gli sguardi si incrociano davvero e “vedono” l’altro. È così raro, così prezioso. Puoi persino non capitare mai: si può restare per una vita intera in compagnia di chi ci ha voluti per quello di cui aveva bisogno. Cioè: essere una funzione, svolgere un compito e perciò essere amati. In virtù di quello che l’altro crede e vuole che tu sia. Ma fuori da quel ruolo - il ruolo che ti assegna chi afferma di amarti - siamo davvero visti per chi siamo? Capiti, amati a prescindere? “Mi vuoi bene anche se sono cattivo?”, chiedono a volte i bambini piccoli alle madri. Mi vuoi bene anche se non sono quello che desideri, quello che ti corrisponde, quello che serve proprio a te? E provano a essere cattivi: misurano l’amore fuori dal merito. L’amore non si merita, difatti. Si dà, ed è gratis. Valeria Parrella ha scritto un libro che racconta questo: l’amore perfetto. Quello che non vuole niente in cambio, che non ha un motivo per darsi. L’amore che c’è. Nel difetto e nel dolore, certo: perché è nel concime che nascono i fiori. Almarina, si chiama lei. Almarina s’intitola il libro, col nome di lei (edito da Einaudi). Almarina è una ragazza di sedici anni. “È una romena, o quello che ne resta dopo che il padre la violentò e la rovinò di mazzate”. Ha un fratello piccolo col quale è fuggita e di cui non sa più niente: un fratello che ha salvato, comunque. Il più bel pensiero. Almarina ha commesso un piccolo reato, per fortuna, e per fortuna è in carcere dunque. Non per strada, non nelle mani di un carnefice nuovo. È al sicuro, a Nisida, almeno per un po’. A Nisida, la prigione minorile circondata dal mare in cui chi sta lì non può bagnarsi - una pena aggiuntiva, in effetti: un desiderio senza uscita - insegna matematica una prof cinquantenne, recente vedova, vedova prima di aver avuto il figlio non venuto “Mi chiamo Elisabetta Maiorano, e non è che me lo stia chiedendo qualcuno: sono io che me lo ripeto ogni volta che passo al varco di Nisida (come mi ripeto in testa il codice del bancomat mentre sto ancora camminando verso lo sportello)”. Il romanzo inizia così, che è importante da dire perché come sempre quando si tratta di Valeria Parrella conta cosa dice - di cosa parla, cosa sceglie di indicare - ma conta quasi di più come lo dice. Con quella dimestichezza con le cose elementari e fondamentali della vita che sono l’assenza, un desiderio inatteso di carezze una notte, la solitudine, un paio di orecchini, l’ostinazione, come si spiega una moltiplicazione e soprattutto perché, si deve spiegare, a ragazzi che quando andranno via da questo posto “torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”. Elisabetta Maiorano e Almarina si vedono, e come succede senza che si possa dire perché, si fidano. “È stata sedotta, professoressa? C’è sempre un carcerato che seduce”, dice il direttore del carcere che, peccato per lui, non riesce, non sa. E certo: questa è una storia di vuoti che si trovano e si riempiono a vicenda, come tutte. Non occorre essere a Nisida per capirlo ma a Nisida tutto è più chiaro. Che poi per arrivarci in macchina, al carcere, ogni mattina, “passi sotto la galleria di Piedigrotta e sotto la tomba di Leopardi, e pure di Virgilio”. Non conta, ma conta. E passi la sbarra, e i doppi e tripli controlli di chi ti conosce a memoria ma non ti vede, si vede, e le tue due fedi (la tua e quella di chi non c’è più) le porti alle orecchie, ora. Sono i tuoi orecchini. È importante, sappiatelo. E rilevante avere fede nell’orecchio. Ascoltare, stare a ritmo della vita. La storia dell’amore perfetto comincia quando la professoressa decide di proteggere il sonno di Almarina. Il suo sonno sul banco. Quando, poi, la tocca. Perché il corpo è il posto dove abitiamo, bisogna averne cura e rispetto. Ascoltarlo sempre. Imparare da lui. Il braccio di Almarina “era un campo dissodato d’inverno. A metà strada fra il polso e il gomito c’era una fossa. Lì ho infilato il dito. Ci ho trovato il fango gelato, mezza faccia dentro, l’altra metà che segue con gli occhi un bambino che scappa su per la collina e vederlo andare è dolce, un pensiero che distrae dalle botte”. A un certo punto arriva Natale, anche a Nisida. E qui succede qualcosa di cui non dirò perché la sola vera recensione possibile a questo libro dovrebbe durare un secondo, essere di una parola: leggetelo. Si apre con una citazione delle lettere dal carcere di Gramsci. “E io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola che voglio educare”. Si chiude, o quasi, con questo pensiero. “Il massimo che possiamo fare, di queste camere stagne in cui viviamo, è socchiuderne un poco le porte, tenerle accostate per sentire l’altro”. È vero, grazie. È così: socchiudere un poco, solo questo possiamo. “Le invisibili”, le donne senza fissa dimora sono eroine da commedia di Chiara Ugolini La Repubblica, 8 aprile 2019 Arriva in sala il film che ha incassato in Francia 10 milioni di euro. Racconta le peripezie di un gruppo di donne che vivono per strada e delle loro assistenti sociali. Quasi tutte le protagoniste vengono da un’esperienza reale. Si fanno chiamare Lady Di, Brigitte Macron, Beyoncé, Edith Piaf, Simone Weil, la Cicciolina, Dalida, Vanessa Paradis. Nascondono la loro difficile identità dietro i nomi delle donne che ammirano. Sono senza fissa dimora, donne della strada, “invisibili” ai più, alla maggioranza di persone che incrociano agli angoli delle nostre città ma non ad altre donne, quelle assistenti sociali che della possibilità di aiutarle hanno fatto la loro missione. Anche loro in fondo sono delle “invisibili”. Forte di uno straordinario successo in Francia (10 milioni di euro al box office) e dopo aver inaugurato i Rendez - Vous, gli incontri del cinema francese a Roma, arriva nelle sale italiane il 18 aprile Le invisibili, il film di Louis-Julien Petit che racconta le vicende di un gruppo di donne senza fissa dimora e delle loro assistenti sociali. Nato da un documentario e un libro di Claire Lajeunie e da una lunga frequentazione di vari centri di accoglienza sparsi per la Francia, il film è “intriso di realtà - dice Petit - la prima realtà che volevo in tutti i modi venisse fuori è che invisibili sono anche le assistenti sociali, che lo stato non aiuta. Tutto quello che si vede nel film, la terapia, aiutare queste donne a reinserirsi nella società, trovare un lavoro, i laboratori tutto questo è non autorizzato, vietato. O almeno lo era quando abbiamo girato il film. Eppure è il modo giusto di reagire, una forma di disobbedienza civile che si vede nel film e che piano piano sta ottenendo dei risultati. Dopo l’uscita del film diversi centri si sono aperti alla sperimentazione di questo tipo di attività, il film l’abbiamo portato ovunque in Francia, l’abbiamo mostrato anche al Presidente della Repubblica. L’Europa attraversa una crisi sociale enorme e il cinema deve raccontarla ridendoci su”. La storia di Chantal “che ha ucciso suo marito perché la picchiava” e in carcere è diventata un’abile riparatrice di ogni tipo di elettrodomestico, Françoise piazzista che sa vendere qualsiasi cosa (“questo bicchiere d’acqua? Se ne compri un secondo non posso farti lo sconto ma il terzo te lo regalo”), Monique che ha lavorato in un’agenzia immobiliare per quanto tempo? “Due giorni, ma due giorni interi”, Catherine che soffre di narcolessia ma era psicanalista prima di finire in strada, “non tutti vogliono farsi aiutare” sentenzia, e poi Assia che è stata contabile ma nasconde una storia da escort, “dominatrice, naturalmente”. Sono tante donne tutte accumunate da un dolore, da una violenza, da qualcosa che le ha spezzate ma non del tutto. Tranne le attrici che interpretano le assistenti sociali e due altri ruoli tutte le donne del film sono donne che “hanno conosciuto la strada, scelte tra un centinaio che abbiamo incontrato attraverso alcune associazioni che lavorano sul territorio - dice Petit - nonostante fossero personaggi scritti ci hanno messo molto della loro verità. Queste donne sono delle combattenti, il nostro è un film tutto di donne perché quando si è per strada essere donne è una doppia pena. E i numeri parlano chiaro: il 40% delle persone senza fissa dimora sono donne che tutti i giorni rischiano le aggressioni sessuali e psicologiche”. Delle tantissime presentazioni che il regista ha fatto del film nei centri di accoglienza (Petit è impegnato nel tour internazionale del film, mentre le sue protagoniste sono rimaste in Francia a portare Le invisibili in centri, prigioni, scuole...) c’è un ricordo indelebile. “Una volta dopo una proiezione ha preso la parola una signora, elegante, compita, un po’ timida, ero sicura che si trattasse di un’operatrice ma mano mano che parlava ho capito che era un’ospite del centro. E ad un certo punto ha detto: “Io non mi ero mai resa conto di quanto lavoro queste assistenti sociali fanno per noi, che mettevano la loro vita privata da parte per no”. A quel punto le assistenti, le mie attrici, io eravamo tutti in lacrime”. Il film si inserisce nella tradizione della commedia sociale “alla Ken Loach, alla Stephen Frears, ma anche quella del cinema italiano degli anni Sessanta - dice il regista - se si parte dalla realtà e ci si mette un elemento di commedia il gioco è fatto. L’ironia, l’umorismo è fondamentale quando si affronta un tema che si fa fatica a mettere a fuoco, quando si parla di qualcosa che non si vuole vedere. Dopo il libro e il documentario di Claire Lajeunie volevo interrogare il pubblico, il potere politico, volevo che il film ottenesse qualcosa dalla società”. Tra i tanti cortocircuiti tra finzione e realtà c’è il caso dell’attrice che interpreta Chantal, personaggio che il regista ha scritto ispirandosi ad una cantante Chantal Goya, Adolpha Van Meerhaeghe, una poetessa che ha conosciuto la prigione “esattamente per gli stessi motivi del personaggio del film cioé aveva ucciso il marito perché la picchiava. Lei mi ha detto: quando vivevo per strada non avevo più nulla, mi restava solo il mio umorismo”. Il Garante della privacy è imparziale e il prossimo dovrà continuare a esserlo di Ruben Razzante* Il Messaggero, 8 aprile 2019 L’autonomia delle autorità amministrative indipendenti è stata negli anni messa a dura prova dall’invadenza della politica, che ha ciclicamente preteso di orientarne la composizione e le attività, nella direzione della difesa di appartenenze e interessi particolari. La polemica divampata all’indomani della decisione del Garante della privacy di multare per 50.000 euro la piattaforma Rousseau è solo l’ultima in ordine di tempo e conferma che nel nostro Paese anche valori neutri come la riservatezza finiscono per essere risucchiati nel vortice delle contrapposizioni tra partiti. La vicenda offre elementi opachi che mettono fortemente in discussione la regolarità delle procedure di voto su quella piattaforma e l’effettiva protezione dei dati personali dei votanti. L’imminenza delle elezioni europee ha indotto il Movimento Cinque Stelle ad attribuire un significato politico alla decisione presa dal Collegio presieduto da Antonello Soro, ex parlamentare del Partito Democratico, rinfacciando a quest’ultimo la sua provenienza dalle file dem. D’altronde è consolidata nel nostro Paese la tendenza a contestare l’obiettività degli arbitri quando prendono decisioni sgradite. Se non decidono o se decidono a proprio favore sono imparziali, altrimenti sono faziosi. Basterebbe però ripercorrere le tappe dell’operato dell’Autorità garante della privacy per cogliere una nitida linea di continuità con precedenti decisioni su casi analoghi riguardanti altre forze politiche. Nel marzo 2014 essa ha prodotto un “Provvedimento in materia di trattamento di dati presso i partiti politici e di esonero dall’informativa per fini di propaganda elettorale”. Applicandolo, l’Autorità, nell’esercizio della sua attività ispettiva, ha inflitto, anche di recente, sanzioni pecuniarie al Pd e a Forza Italia, sempre per aver trattato illecitamente i dati. Cadono quindi le accuse di partigianeria rivolte ai membri del Collegio da Davide Casaleggio, che ha annunciato, con un’abile contromossa, di aver denunciato in Procura la creazione di profili di iscritti creati con i loro dati ma senza il loro consenso. Un modo per passare al contrattacco e dimostrare sensibilità al tema della sicurezza delle procedure di voto sulla sua piattaforma. Probabilmente il braccio di ferro tra Antonello Soro e i pentastellati non avrà seguito, visto che il Presidente e l’intero Collegio dell’Autorità sono in scadenza di mandato. Entro il 19 giugno le due Camere dovranno eleggere i quattro nuovi membri (due a testa). Il Testo Unico della privacy, integrato dal digs. 10 agosto 2018, n.101, parla chiaro: “Le candidature possono essere avanzate da persone che assicurino indipendenza e che risultino di comprovata esperienza nel settore della protezione dei dati personali, con particolare riferimento alle discipline giuridiche o dell’informatica”. Sarebbe un paradosso se i grillini decidessero di far scegliere i nuovi commissari agli iscritti alla piattaforma Rousseau. L’ipotesi che i nuovi controllori siano amici dei controllati getterebbe un’ombra ingombrante su un’Autorità che rimane in carica sette anni e dunque sopravvivrebbe in ogni caso a questo Parlamento. Gli attuali commissari furono nominati all’epoca del governo Monti, quando i rapporti di forza tra i partiti non erano così netti. Ne venne fuori un Collegio pluralista e con diverse sensibilità. Oggi Lega e Cinque Stelle hanno i numeri per fare bottino pieno e lasciare a bocca asciutta le opposizioni. Sarebbe una sconfitta della democrazia. Perché la privacy è di tutti e mai dovrebbe essere immolata sull’altare delle smodate ambizioni di potere di qualcuno. *Docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma Libia. Sarraj contrattacca, Haftar in difficoltà lancia razzi su Tripoli di Francesca Paci La Stampa, 8 aprile 2019 Inizia l’operazione “Vulcano di rabbia”. Gli Usa si ritirano. Scontro con Parigi: l’ambasciatrice rischia l’espulsione. La furia delle milizie di Tripoli e Misurata contro i razzi Grad sparati dalle unità del generale Khalifa Haftar. Il secondo giorno della battaglia di Tripoli si conclude con il generale di Bengasi sulla difensiva. A fine serata, nelle strade della capitale libica risuonavano i colpi di arma da fuoco mentre gli abitanti tentavano di accumulare scorte alimentari. Il governo di unità nazionale (Gna) annuncia di aver strappato alle forze di Haftar (Lna) l’aeroporto, la strada verso Tarhouna, la zona di al Hira e di controllare dunque con sicurezza la città. Ma Haftar riesce comunque a bersagliarla con i razzi Grad, tenendo aperto lo scontro armato. Il bilancio di queste 48 ore di guerra è per ora di 21 morti e 27 feriti, ma la controffensiva di Tripoli, denominata “Vulcano di rabbia”, picchia duro. Se Haftar sperava nel sostegno della milizia salafita Rada è rimasto deluso: più che con il debole premier al Sarraj si è scontrato con la determinazione di Misurata, la città-Stato che è il vero temibile avversario. Mentre infatti l’altra grande città militare Zintan si è divisa, i misuratini, infuriati per l’ennesima alzata di testa del generale, hanno marciato compatti fino a fermarlo a 50 km da Tripoli bombardando le sue postazioni e spingendosi fino a Jufra, l’area nel cuore del Paese di cui Haftar ha vitale bisogno per ricevere i rifornimenti da Est. In realtà la partita non è affatto chiusa e, in barba alla richiesta di “tregua umanitaria” da parte dell’Onu, - ci sono i civili e almeno 6900 migranti in detenzione per cui l’Oim lancia l’SOS - si combatte ancora al Sud, compresa Garian, l’unica altura strategica in mano ad Haftar a 90 km da Tripoli. “Haftar è un traditore” ripete al Sarraj rinvigorito, che ha convocato l’ambasciatrice francese du Hellen minacciandone l’espulsione per il sostegno dell’Eliseo se non alla marcia su Tripoli di certo al suo ideatore. Due giorni fa a Dinard, su input della Farnesina, Roma e Parigi avevano firmato un documento congiunto per chiedere “una soluzione politica” alla crisi, ma la posizione francese sul dossier libico è sbilanciata verso Haftar e in linea piuttosto con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Sullo sfondo del campo di un battaglia dagli esiti ancora incerti c’è il contesto internazionale segnato dalla decisione di Washington, di richiamare i diplomatici da Palm City ed evacuare il contingente a supporto di Africom, lasciando intendere di temere un’escalation. Fino all’offensiva a sorpresa contro Tripoli, Haftar vantava diversi padrini. Mosca, che a fronte di un passo forse più lungo della gamba, chiede ora una soluzione politica pur mettendo in guardia dallo strapotere delle milizie. L’Arabia Saudita, da cui arriva il soccorso salafita al generale. L’Egitto, l’unico che in nome della lotta al terrorismo non ha firmato il documento di pacificazione concordato mercoledì in vista della conferenza Onu di Ghadames da americani, britannici, francesi, italiani ed emiratini. Gli Emirati appunto, storici paladini di Haftar che hanno una base militare vicino a Bengasi e che però in queste ore restano di lato, come se aspettassero. Resta dunque il dubbio se Haftar si sia mosso da solo. Quando ha l’appoggio internazionale, come in Fezzan, infatti è inarrestabile. Libia. Migranti detenuti a Tripoli “terrorizzati e senza cibo” askanews.it, 8 aprile 2019 Per gli scontri in atto nei pressi dei centri dove sono rinchiusi. I migranti presenti nei centri di detenzione di Tripoli sono “terrorizzati” dai combattimenti in corso nella capitale libica e molti di loro sono senza acqua e senza cibo. È quanto emerge dalle testimonianze raccolte da al Jazeera in diversi centri presenti nella capitale libica. Stando ai dati Onu, sono circa 6.000 le persone presenti nei centri gestiti dal governo di Tripoli, tra cui oltre 600 bambini. “Riusciamo a vedere i militari”, ha detto un uomo nel centro di detenzione di Qasr bin Ghashir, periferia meridionale di Tripoli dove sono in corso da giorni gli scontri tra le forze del generale Khalifa Haftar e quelle del governo di Tripoli. L’uomo ha raccontato che nel centro ci sono centinaia di migranti, lasciati senza cibo da due giorni. “Il magazzino del cibo è vuoto - ha detto - la guerra va avanti e siamo rimasti anche senza acqua e senza elettricità”. Ai migranti rinchiusi nel centro di Qasr bin Ghashir è stato detto da due uomini in uniforme che saranno trasferiti in un posto sicuro, ma molti temono di essere “venduti”. In un altro centro di detenzione di Tripoli, Ain Zara, un migrante ha roferito di una situazione simile, con le guardie andate via e i migranti rimasti senza cibo. Ieri, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione proprio riguardo alla situazione nei centri di Ain Zara e Qasr bin Gashir, “che si trovano in zone dove ci sono scontri”. “Possiamo sentire il rumore delle armi. Ci cono molte donne e molti bambini qui. Ci devono portare via. Non vogliamo morire qui”, ha detto ad al Jazeera un altro migrante. Libia. Il governo manda al fronte anche gli immigrati dei Centri di detenzione di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 aprile 2019 Coinvolti sudanesi ed eritrei che in patria svolgono un lungo servizio militare. La promessa di riacquistare la libertà. Seimila prigionieri solo nella capitale. Il grido d’aiuto arriva dal centro di detenzione di Qaser Ben Gashir con un messaggio vocale whatsapp, sullo sfondo le detonazioni delle bombe. “Abbiamo caricato armi e più tardi le caricheremo di nuovo. Alcuni soldati sono andati via con le casse di armamenti, altri sono qui con noi. Gli abbiamo chiesto di riportarci in cella ma non vogliono”. Quella che era una voce che circolava da un paio di giorni trova più di una conferma. Nei centri di detenzione di Tripoli, quelli dove vengono reclusi arbitrariamente (come sottolinea l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) i migranti soccorsi in mare dalla Guardia costiera libica, dai giorni vengono distribuite vecchie divise militari. I migranti, soprattutto sudanesi ed eritrei che nei loro paesi sono costretti ad un infinito servizio militare, vengono “arruolati” dalle milizie di Al Serraji e utilizzati per rintuzzare l’avanzata dell’esercito di Haftar. Al momento con compiti di supporto, ma il precipitare della situazione fa temere che possano anche essere mandati al fronte. “Ci viene riferito - dice l’inviato dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel - che alcuni sudanesi sono stati rilasciati dai centri di detenzione, sono state date loro uniformi militari e gli è stato detto che potrebbero combattere”. Quanto costretti o quanto volontariamente, “incentivati” dalla prospettiva di ritornare liberi e di lasciare quelle carceri in cui, solo a Tripoli, sono detenuti quasi 6000 migranti, 600 dei quali bambini, non è facile da definire. Il centro di Qaser Ben Gashir sarebbe il principale serbatoio di manodopera militare con improvvisi trasferimenti in luoghi sconosciuti di decine di migranti. Diverse fonti accreditate sul territorio riferiscono che in almeno tre centri di detenzione a Tripoli sono state distribuite uniformi e ai migranti è stato ordinato di caricare armi sui convogli. A Qaser Ben Gashir, ad Ain Zara, ad Abu Salim, migliaia di migranti sono nel panico, con il terrore di fare la fine del topo in trappola. Alcuni di loro sono riusciti a far sentire la loro voce con messaggi, registrazioni e video via whatsapp. “Ci sono molti tipi di armi di cui non conosciamo neanche i nomi, pistole, fucili, mitragliatori. Ci sono molte macchine piene di grosse pistole”, è la testimonianza di un migrante riportata dall’Irish Times. Ma c’è anche un’emergenza umanitaria ormai in corso perché cibo, acqua e medicine non vengono distribuiti da giorni e in alcuni centri non c’è più neanche la luce. “Siamo molto preoccupati per la situazione - dicono i rappresentanti dell’Unhcr in Libia - soprattutto nei centri che ricadono nell’area degli scontri. Siamo pronti a supportare le opzioni che offrono sicurezza”. Lavora in condizioni difficilissime lo staff di Medici senza frontiere a Tripoli. “Il conflitto che infuria sta aumentando drasticamente la vulnerabilità dei profughi e riduce al contempo la capacità della comunità umanitaria di fornire risposte di salvataggio. Lo stesso centro di detenzione in cui pochi giorni fa il segretario generale dell’Onu ha assistito alla sofferenza e alla disperazione dei migranti è ora coinvolto in un’area di conflitto attivo con 600 persone intrappolate tra cui molte donne e bambini e in un altro centro persone sono state arruolate per lavorare per gruppi armati - conferma Craig Kenzie, coordinatore del progetto di Msf a Tripoli. Facciamo appello affinché tutti i rifugiati e i migranti detenuti siano immediatamente evacuati e chiediamo che le persone intercettate in mare non vengano riportate indietro. La Libia non è un posto sicuro, qui nessuno può garantire la loro sicurezza”. Ruanda, il genocidio rimosso di Gianni Riotta La Stampa, 8 aprile 2019 Venticinque anni fa la mattanza che l’Occidente non seppe impedire. Hutu contro Tutsi: da aprile del 1994, in cento giorni, 800.000 persone massacrate a colpi di machete. “Il 18 aprile 1994 ci nascondemmo in chiesa, avevamo dei sassi per difenderci dalle milizie, ma non servivano contro machete e granate... io sono Tutsi, in famiglia tanti si erano sposati con Hutu e un Hutu con cui giocavo al calcio mi disse “scappa, vi ammazzano anche in chiesa”. Provai a nuotare attraverso il lago Kivu, verso la Repubblica del Congo. Ci tuffammo in undici, solo io arrivai, sentii gli altri annegare, non potevo fermarmi e continuai a nuotare, solo”. Jean-Louis Mazimpaka, infermiere, 17 anni al tempo del genocidio in Ruanda. “Noi negli Stati Uniti e l’intera comunità internazionale non abbiamo fatto tutto quello che avremmo potuto, e dovuto, fare”, Bill Clinton, allora presidente Usa, sulle stragi Hutu-Tutsi. Venticinque anni dopo, le amare parole di Jean-Louis e di Clinton sugli eccidi in Africa testimoniano di una delle pagine tragiche del Novecento, 800.000 esseri umani massacrati in 100 giorni, spesso a colpi di machete, 5 milioni nella guerra civile divampata fino al 2003 mentre le democrazie scoprivano web, smartphone, globalizzazione. Fino alla Prima guerra mondiale il Ruanda era stato colonizzato dai tedeschi, che avevano eletto la comunità di minoranza dei Tutsi, “alti e di pelle più chiara”, come dirigenti, e lasciato a fare i braccianti la maggioranza Hutu, “ma non c’erano vere distinzioni etniche, tanti si sposavano o crescevano insieme”, ripetono i superstiti. Alla Germania segue il Belgio che mantiene la gerarchia sociale, poi nel 1959, nel turbolento evolversi della decolonizzazione, gli Hutu rovesciano la monarchia Tutsi costringendo all’esilio di massa, verso l’Uganda, migliaia di concittadini. Nasce, in rappresaglia, la prima milizia ribelle Tutsi, Fronte Patriottico Ruanda, Fpr, che nel 1990 rientra in armi nel Paese, fino alla tregua siglata nel 1993. “Tutto sembrava calmarsi”, ricorda un veterano, “fino al maledetto 6 aprile 1994”. Di notte un aereo di Stato con a bordo il presidente hutu Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, presidente del Burundi di etnia hutu che trattava il patto di Arusha per la pace, viene abbattuto da un missile misterioso, di cui nessuno s’è mai assunto la responsabilità, tra accuse reciproche: non ci sono superstiti. In tre mesi cadono poco meno di un milione di persone nelle vendette hutu. Era obbligatorio avere in tasca una carta di identità con impressa l’etnia, dunque ai posti di blocco nella boscaglia e nei villaggi è facile identificare chi tagliare a pezzi con i coltellacci o finire con un colpo di mitra Ak 47 alla nuca. Migliaia di donne sono rapite come schiave sessuali, mariti hutu giustiziano mogli e figli tutsi per salvarsi, sacerdoti e suore ammazzano pur di non morire a loro volta. “La radio Rtlm diffondeva le liste di proscrizione e di notte avvisavano, domani tocca alla tua famiglia, uno per uno ci colpivano”, registreranno i verbali del tardivo tribunale internazionale. Il partito di governo Mrnd mobilita la milizia giovanile Interahamwe - adolescenti e bambini in armi - che si accanisce contro i compagni di giochi, “in pochi giorni l’odio trasforma amici e vicini di casa in boia”. Lo stupro etnico è pratica quotidiana. Belgio e Onu hanno truppe e Caschi blu sul campo, ma l’ordine ferreo e ipocrita - come nei Balcani - è “non intervenire”. L’anno prima, nei giorni di “Black Hawk Down”, gli Stati Uniti avevano pagato con una strage il tentativo di stabilizzare la Somalia e Clinton non interviene mentre i francesi fanno evacuare i connazionali dal loro esercito, senza partecipare ai soccorsi. Ancora oggi il presidente del Ruanda Paul Kagame accusa Parigi di complicità nel genocidio. Ci vorranno nove anni di stragi e altri 4 milioni di morti per raggiungere una tregua, dopo che le milizie Rpf di Kagame, alleate all’Uganda, avevano raggiunto la capitale Kigali. Allora toccò agli Hutu fuggire in Congo, Tanzania, Burundi, diaspora di due milioni di persone. I bambini dell’Interahamwe pagano col sangue i massacri di cui si erano macchiati, finché le forze ribelli non raggiungono la capitale del Congo Kinshasa, deponendo il governo di Mobute Se Seko e nominando presidente Laurent Kabila. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda raccoglie testimonianze che ancora commuovono, ma i responsabili erano già morti o latitanti, 93 rinviati a giudizio, dozzine condannati, tutti Hutu. Kagame, che ha pacificato il Paese e riavviato l’economia pur tra accuse di intolleranza, lancia 12.000 tribunali del popolo nei villaggi, detti Gacaca, il giudice seduto in piazza, 1.200.000 processi, migliaia di condanne, 100.000 detenuti morti di fame in cella in attesa di giudizio. Il XX secolo ricorda l’Olocausto contro gli ebrei, le stragi degli armeni e degli ucraini, ma la mattanza del Ruanda non entra nei nostri cuori. Nacque allora, annota malinconico il verbale del Council on Foreign Relations, il concetto R2P, la responsabilità internazionale di intervenire contro la violazione dei diritti umani, che nei Balcani salverà una generazione di bosniaci e kosovari. Dura poco, Darfur, Sudan, Siria e Yemen ci provano quanto sia facile convivere con il sangue, quando è lontano dai nostri computer.