“E vado a lavorare”. 2,5 milioni di euro per il reinserimento dei detenuti al Sud ildenaro.it, 7 aprile 2019 Nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena, la Fondazione “Con il Sud” promuove “E vado a lavorare”, la seconda edizione del bando per il reinserimento sociale dei detenuti, attraverso il lavoro. A disposizione 2,5 milioni di euro di risorse private per progetti capaci di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione nelle regioni del Sud Italia. L’invito è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia, che possono presentare proposte di progetto che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti nella comunità, anche con il fine di ridurre i tassi di recidiva. Le proposte dovranno prevedere l’avvio, durante il periodo della detenzione, di esperienze lavorative in grado di favorire l’integrazione socio-lavorativa del detenuto, ritenendo il lavoro una componente fondamentale del processo rieducativo. L’inserimento lavorativo potrà avvenire all’interno o all’esterno delle carceri in realtà già consolidate oppure attraverso la costituzione di nuovi soggetti di imprenditorialità sociale. Inoltre, grazie al protocollo di intesa recentemente sottoscritto dalla Fondazione con il Ministero della Giustizia e con l’Anci, le proposte potranno prevedere il coinvolgimento dei detenuti in progetti di pubblica utilità e di volontariato, sempre ai fini del perseguimento dell’obiettivo di integrazione socio-lavorativa del reo. Le proposte dovranno essere formulate da partenariati che comprendano almeno una struttura penitenziaria e almeno un partner del Terzo Settore. Gli altri soggetti componenti la partnership potranno appartenere al mondo delle istituzioni, delle università, della ricerca e del mondo economico. Il bando è disponibile sul sito della Fondazione Con Il Sud (www.fondazioneconilsud.it). È possibile partecipare tramite il portale Chàiros entro il 19 giugno 2019. “È di pochi giorni fa la notizia del secondo Rapporto Space del Consiglio d’Europa, che definisce la situazione delle carceri italiane tra le più drammatiche del continente - dichiara Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione. Al centro c’è la questione del sovraffollamento, ma è inevitabile che questo tema si intrecci con quello dei servizi e delle opportunità offerte ai detenuti per compiere un vero percorso rieducativo, così come previsto dalla nostra Costituzione. Con questo bando, vogliamo riaffermare il diritto di ogni persona ad avere una seconda possibilità vera. L’abbiamo chiamato ‘E vado a lavorarè con l’auspicio che il lavoro possa essere davvero uno strumento di evasione dalle criticità della vita”. Sul tema delle carceri, la Fondazione ha già sostenuto oltre 20 iniziative, tra programmi di volontariato e progetti selezionati con il primo bando Carceri. Lavoro detenuti. “Mi riscatto per…”, un modello anche per il Messico di Marco Belli gnewsonline.it, 7 aprile 2019 La prossima settimana una delegazione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sarà a Città del Messico per partecipare alla Conferenza internazionale organizzata dall’Onu sui programmi di reinserimento sociale e sulle buone pratiche internazionali e illustrare il modello “Mi riscatto per Roma”. “Crediamo che il progetto possa essere di grande interesse per il Messico e per questo abbiamo intenzione di verificarne la sua trasferibilità. Il nuovo Governo Messicano ha inserito le buone pratiche italiane come modelli da seguire per la riformulazione del piani di sicurezza della nazione, in cui il sistema penitenziario occupa un ruolo strategico”. Così scriveva nel dicembre scorso il Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) in Messico, Antonino De Leo, al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, invitando una delegazione ministeriale nella capitale del Paese nordamericano per illustrare il progetto avviato nel 2018 con il Comune di Roma e al quale sono seguite analoghe intese con le principali città metropolitane e numerosi comuni italiani. Il modello, infatti, è stato finora replicato a Milano, Torino, Palermo, Livorno e Napoli. Gli importanti risultati raggiunti dall’Italia con i programmi di lavoro di pubblica utilità in favore dei detenuti diventeranno presto, quindi, un modello per il Governo Federale Messicano sotto l’egida delle Nazioni Unite. La Conferenza, che si svolgerà presso la sede del Senato con la partecipazione dei vertici del Governo Federale e del sistema penitenziario messicano nonché del Rappresentante Unodc, costituirà la necessaria premessa per un accordo istituzionale fra i due Paesi finalizzato al trasferimento del modello di successo italiano sotto gli auspici delle Nazioni Unite, cui seguirà l’istituzione del tavolo tecnico per la sua implementazione nel sistema messicano. L’eccesso di leggi penali nasce dall’eccesso di rancore di Gabrio Forti La Lettura - Corriere della Sera, 7 aprile 2019 L’ultimo in ordine di tempo è il reato di “revenge porn”. E ne arriveranno altri: viviamo un’epoca di “nomorrea penale”, si moltiplicano cioè le norme e le sanzioni che dovrebbero assicurarne l’osservanza. Ma l’inflazione di punizioni non fa altro che veicolare l’idea di un’umanità non pensante, fatta di automi da ridurre all’obbedienza con la minaccia e la coercizione. Il copione è noto e collaudato. Una vicenda di cronaca attira l’attenzione sulla sofferenza - grave, reale - di uno o di molti. Se c’è di mezzo un personaggio in vista, è più facile che diventi il tema del giorno. Ecco allora che a qualcuno viene l’idea di una proposta di legge, meglio se penale. A quel punto il problema viene ghermito dal vortice di un dibattito concitato sulle formulette da adottare per il novello reato: viene - per così dire - prematuramente “giuridicizzato” e così sprofonda in un sarcofago di pietra, dal quale sarà sempre più difficile udire distintamente le voci reali delle vittime di quei fatti e di quanti per competenza ed esperienza potrebbero suggerire più ragionate modalità di intervento. Ridotti a qualche riga sul pezzo di carta del prossimo editto, i contorni del problema si definiranno in funzione dei fantasiosi emendamenti con cui ognuno sfogherà il proprio zelo riformatore. Dove la luce è più forte, diceva Goethe, l’ombra è più nera, tutto attorno. È già accaduto, molte volte. I drammi dell’immigrazione, dei morti sulle strade, delle violenze di genere, delle contaminazioni ambientali sono già stati rinchiusi nel sarcofago di altrettante nuove figure di reato: l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, l’omicidio stradale, lo stalking, l’inquinamento ambientale eccetera. Non si ha notizia che qualcuno di questi problemi sia stato risolto o anche solo alleviato dalle formule magiche legalistiche, dalle nuove “gride” di cui parlava il Manzoni. Si sa solo che carceri e tribunali ne sono stati ulteriormente oberati. E ora spunta l’idea di questo nuovo reato, a cui si è appioppato un termine inglese: revenge porn. È sintetico e pragmatico, l’inglese. Pungola ad agire (nella versione nostrana del pragma: punire, colpevolizzare, biasimare). L’etichetta messa lestamente sul sarcofago di turno esime poi dal pensare a cose più complesse: l’immensa questione della tutela dei diritti digitali, della regolazione dei colossi del web, dell’educazione affettiva (e tecnologica) dei giovani. Come disse lo scrittore russo, premio Nobel per la letteratura, Iosif Brodskij, il dito indice assetato di biasimo oscilla tanto più selvaggiamente quanto è (o anzi è stata in partenza) minore la determinazione a cambiare qualcosa. E un dito che andrebbe estratto con parsimonia, altrimenti si tramuta in sberleffo per chi lo agita. Lo sapeva bene anche il giurista Francesco Carrara che, a proposito dell’ipertrofia legalistica, già a fine Ottocento parlava di “nomorrea penale” (dal greco nómos, legge, e rein, scorrere, colare, spandere). Ogni moneta, anche quella delle leggi, va incontro a una fatale svalutazione quando circoli in quantità eccessive. A quel punto le norme vengono corrotte, intossicate, dalla loro moltiplicazione e, soprattutto, dall’eccedenza delle sanzioni che dovrebbero assicurarne l’osservanza. La tossicodipendenza esige di aumentare continuamente la “dose” per ottenere l’effetto desiderato. Il punto è che le norme - singolarmente e, soprattutto, nel loro insieme “di sistema” - non contengono solo prescrizioni di comportamento, ma rilasciano nel tempo un alone simbolico che concorre alla cultura di un’epoca e di un Paese. L’inflazione di sanzioni (potremmo chiamarla “sanzionorrea”) ha come effetto, oltre alla ineffettività, di insediare nelle mentalità un’antropologia povera, primitiva, dove l’essere umano è raffigurato non come soggetto pensante, mosso dalle convinzioni più che dalla paura, ma come un automa da ridurre meccanicamente all’obbedienza con la minaccia e la coercizione. C’è, alla base, l’idea che la soluzione per le sofferenze di qualcuno stia tutta nell’inventarsi future sofferenze anche per qualcun altro. Il che, oltre a esserne un prodotto, è a sua volta un fattore di formidabile rinforzo di quella “cultura” del lamento, di pervasivo bisogno popolare di giustizia sommaria e irriflessa, che carica il giudizio e la giusta riprovazione per i comportamenti negativi, di un sovrappiù di risentimento, ira, astio, vendetta, rivalsa. Non a caso nel 52° Rapporto sulla situazione sociale del Paese - 2018 del Censis si parla di un’Italia “preda di un sovranismo psichico”, “che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria - dopo e oltre il rancore - diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”. La stessa riforma della legittima difesa (si legga quanto ne ha scritto magistralmente sul “Corriere” del 28 marzo Luigi Ferrarella) in gran parte dei suoi contenuti, ma specialmente nel modo in cui è stata presentata all’opinione pubblica, è espressione di questa ansia punitiva. Ben più che di un genuino interesse alla tutela dell’incolumità pubblica e della legalità, ne segnala, nei fatti, il fallimento, visto che legittima un ulteriore trasferimento sulle spalle del cittadino del contrasto a una criminalità che, tanto più se così aggressiva ed efferata come la si vuole presentare (ma le statistiche italiane ci dicono il contrario), lo vedrà comunque soccombente. Armatevi, difendetevi, è il messaggio. Affar vostro se non riuscirete a prevalere nel duello con il ladruncolo di turno, che nel frattempo magari si sarà ben armato, visto l’arsenale che potrebbe attenderlo oltre l’uscio del fortilizio domiciliare. Poi però l’Italia continua a essere largamente inadempiente rispetto alla fondamentale direttiva Ue n. 29 del 2012, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, non avendo ancora, a differenza di vari altri Paesi europei, allestito servizi di assistenza alle vittime di tutti i reati. Servizi indispensabili, secondo la direttiva, perché la vittima sia posta nella condizione di comprendere ciò che le è accaduto e di essere compresa nei suoi bisogni. Bisogni il cui ascolto può servire, molto, anche a prevenire le vittimizzazioni future. Il filosofo Spinoza nel suo Tractatus politicus 4), dichiarava di non voler “deridere, né compiangere, né tanto meno detestare le azioni umane, ma comprenderle” (humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere). Comprendere le persone, le loro vite e le loro storie è il presupposto per proteggerle e risolvere i loro problemi reali. Ma ormai comprendere alle orecchie zelanti, astiose e sovreccitate degli odierni riformatori, e non solo alle loro, suona come assolvere. Roba da buonisti. Vade retro intelligere. Crolla la fiducia nella giustizia. Gli italiani: condanne troppo soft di Antonio Noto* Il Giorno, 7 aprile 2019 Il tema della giustizia ha rappresentato il leit-motive dei precedenti governi, però allora era fortemente influenzato dalle vicende di Berlusconi e quindi qualsiasi tentativo di riforma della macchina giudiziaria veniva politicizzato ed etichettato come legge ad personam. In questa settimana a risaltare agli onori della cronaca è stato il caso di Said Mechaquat che ha ucciso un 33enne a Torino, in un momento in cui, per una sentenza mai eseguita, si trovava libero mentre avrebbe dovuto scontare la sua pena in carcere. Gli italiani vivono in maniera contraddittoria l’emergenza giustizia e se da una parte hanno una flebile fiducia nella magistratura dall’altra esprimono una forte critica nei confronti dell’apparato burocratico che il più delle volte è causa di lungaggini e di procedimenti inutili e dannosi per lo stesso cittadino. Infatti il giudizio sulla giustizia in Italia (intendendola cosa diversa dalla magistratura, quindi come macchina burocratica) è abbastanza basso e in netto calo negli ultimi 10 anni. Oggi solo il 30% della popolazione esprime fiducia nella giustizia ma se si pensa che 10 anni fa la quota dei giudizi positivi era del 46% si può notare come in questi anni ci sia stata una elevata crisi di credibilità, non ancora risolta, e neanche affrontata in maniera decisa da tutti i parlamenti che si sono succeduti. È da evidenziare anche che se 10 anni fa l’insoddisfazione era espressa maggiormente dagli elettori di centrodestra ed in misura minore da quelli del centrosinistra, oggi la tendenza è cambiata e le opinioni negative sono trasversali tra i vari elettorati, senza particolari differénzazioni rispetto ai partiti votati. Situazione un po’ diversa, ma non completamente, per quanto riguarda la fiducia nella magistratura in particolare. Infatti se è vero che il 43% dichiara di avere un giudizio positivo è anche vero che 10 anni fa il livello di fiducia si assestava al 50%. Analizzando in maniera più approfondita le insoddisfazioni emergono alcune carenze. Per esempio, anche se il 58% dei cittadini concorda con i tre gradi di giudizio, al contempo il 63% ritiene invece che il tempo necessario dell’iter per arrivare a una sentenza definitiva sia uno degli elementi che incide negativamente nella percezione del sistema giustizia. E interessante questo dato in quanto non si mette in discussione la massima garanzia che si conferisce all’imputato nel difendersi fino al terzo grado, bensì i tempi entro i quali il percorso giudiziario si conclude. Per la prescrizione, invece, il 52% degli italiani vorrebbe allungare i tempi in quanto si ritiene che un reato commesso, in teoria possa non essere anche mai prescritto. Se poi si passa alle esperienze personali il giudizio diventa maggiormente critico. Chi ha avuto a che fare con la giustizia esprime un giudizio sfavorevole: il 54% dice di non essere stato soddisfatto dell’iter giudiziario, il 58% afferma che la pena inflitta alla persona denunciata è stata di portata minore rispetto alle aspettative. Inoltre un cittadino su cinque dichiara di essere stato una vittima della malagiustizia. Non solo. In questo contesto si interpreta anche il risultato non eccelso sulla certezza della pena. Infatti per il 57% degli italiani è considerato solo un principio astratto. *Istituto Sondaggi Noto Il ministro Bonafede: “Assunzioni e task-force mobili per garantire certezza della pena” di Maddalena Oliva e Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2019 Sentenze non eseguite per carenza di personale. I piani per evitare altri casi come quello dell’omicida di Torino che doveva già essere in carcere. Ministro Bonafede, la cronaca offre da settimane casi di polemica per cui la magistratura finisce sotto attacco. L’ultimo è Torino... In questi anni, i vari legislatori hanno scaricato sulla magistratura la loro mancanza di assunzione di responsabilità. Prima di far diventare tutto polemica, bisogna studiare i fatti e lavorare perché certe situazioni non si ripetano. Un conto sono le sentenze e gli sconti di pena sui femminicidi: per cui abbiamo inserito nel Codice rosso un articolo che prevede che le attenuanti non debbano essere più prevalenti sulle aggravanti, e stabilendo, nella legge sul rito abbreviato, nessuno sconto di pena per i reati gravi per cui è previsto l’ergastolo. Il caso di Torino, però, pone altre questioni. Ho attivato l’Ispettorato del ministero per capire se è negligenza di un singolo o un problema di sistema. Quante sono le sentenze definitive non eseguite? Non è ancora un dato disponibile, avvierò un monitoraggio Corte per Corte. Negli anni abbiamo visto svuota-carceri, indulti, tutti provvedimenti che indebolivano la certezza della pena. Le condanne non possono essere scritte con l’inchiostro che si cancella... Bisogna innanzitutto riaffermare questo principio, che, per me, va di pari passo con la funzione rieducativa della pena. E poi c’è una questione relativa alla tenuta economica del sistema. Come interverrà? Sono in arrivo le attese assunzioni di 903 assistenti giudiziari “con scorrimento delle graduatorie”, e di 1.850 funzionari per cui bisogna fare i concorsi. Ho inoltre avviato un piano di investimento di risorse che prevede l’iniezione di 3mila unità come personale amministrativo; 360 magistrati già vincitori di concorso, assunzioni già deliberate dal passato governo, finora bloccate; 1.300 agenti di polizia penitenziaria già nel 2019; più un aumento di pianta organica di 600 nuovi magistrati. E poi, da giugno, il piano di digitalizzazione del processo penale, importantissimo. Il Procuratore Francesco Greco parla, se guardiamo alle scoperture dell’organico, di una “questione settentrionale”: solo a Milano il 37%... Come detto, stiamo lavorando alla nuova pianta organica. La novità è che non sarà statica: il numero dei magistrati assegnati a ogni Procura potrà modificarsi, a seconda delle necessità, ed esisterà una task-force “mobile”, dedicata a coprire le scoperture. Non tutto si fa per legge, a volte basta una buona organizzazione. Lei più volte ha detto che, dopo lo scontro politica-magistratura degli anni del Berlusconismo, la sua mission è parlare di giustizia senza nessuna ideologia, con l’obiettivo di renderla affidabile per il cittadino… Con le leggi di giustizia fin qui approvate ci stiamo provando: è la migliore risposta al pantano politico che ha caratterizzato i vent’anni precedenti. Questi risultati vengono spesso oscurati dal dibattito sul “pantano politico” attuale. Penso alla discussione sulla mancata autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini sul caso Diciotti... I cittadini valutano il lavoro che si fa, non le polemiche. Sulla prescrizione, per esempio, sono stato attaccato a 360 gradi: da forze che si sono trovate incredibilmente insieme come Forza Italia e Partito democratico, e da parte di quella magistratura che da anni si batteva per un limite alla prescrizione. Eppure sono andato avanti. Ù Il dibattito sul blocco della prescrizione ha risentito anche della paura, manifestata in primis dai penalisti, di un “cupo e cinico populismo giustizialista”. C’è differenza sull’idea di giustizia tra voi e la Lega? Fino ad ora ci siamo trovati molto compatti. Giustizialismo e garantismo sono categorie che non amo, ma i penalisti sono stati coerenti. Le forze politiche, invece, quando avviene un femminicidio, o un ragazzo è ucciso per strada, gridano “giustizia!”: poi scrivo una legge sulla certezza della pena e dicono che sono giustizialista. È il massimo dell’ipocrisia. Ù È alle prese con la riforma del processo penale, ma sembra non esserci l’accordo tra M5s e Lega… L’accordo effettivamente ancora non c’è, ma ci sono stati diversi incontri in cui abbiamo lavorato bene. A breve un nuovo vertice anche col premier Conte. Il ministro Giulia Bongiorno avrebbe detto: “Non siamo d’accordo su niente”… Sono voci di corridoio. Quando poi ci incontriamo, la quadra si è sempre trovata. Anche sulla riforma del processo civile le trattative sono ferme... L’accordo politico è chiaro. Dobbiamo solo fissarne i punti in un ultimo incontro. La proposta di legge sulla separazione delle carriere tra pm e magistrati ordinari è alla Camera. Altra grana per il governo? Rispondo semplicemente che non è nel contratto. “Abbiamo problemi ideologici”, ha detto ieri Luigi Di Maio… Il Movimento 5 Stelle è post- ideologico. Siamo forze politiche totalmente differenti, ma ci guida un contratto di governo post-ideologico. Se la famiglia di Stefano Leo dovesse chiedere un risarcimento per la mancata esecuzione della pena? Lo Stato deve scusarsi con questa famiglia. E le scuse si concretizzano lavorando affinché non ci siano più casi del genere. Non parlo solo di amministrazione della giustizia, anche della sicurezza che va garantita nelle strade. È un riferimento al ministro Salvini? Le ho detto... non raccolgo provocazioni. A Napoli giustizia lumaca e sentenze non eseguite: liberi oltre settemila condannati di Gigi Di Fiore Il Mattino, 7 aprile 2019 “Quando tre anni fa lanciai l’allarme, sembrava fosse solo un problema del distretto di Napoli. Quello che è accaduto a Torino dimostra, invece, che è una difficoltà di molte Corti d’appello”. Giuseppe De Carolis, presidente della Corte d’appello di Napoli, ricorda come, tre anni fa, denunciò le oltre 32mila sentenze arretrate che i suoi uffici non riuscivano a eseguire. Ora, può dire che aveva ragione ad aver voluto accendere quei riflettori. Tre anni dopo, le cose sono cambiate. In meglio. A fine 2017, la Corte d’appello ha potuto individuare una soluzione: la creazione di un ufficio di cancelleria solo per l’esecuzione delle sentenze. Un lavoro che spetta alle cancellerie delle singole sezioni della Corte, che sono però piene anche di molti altri adempimenti. Spiega il presidente De Carolis: “Il mio allarme fu accolto dal Csm e ho potuto avviare un ufficio con 4-5 persone solo per l’esecuzione. Vanno tutti ringraziati. Con grande impegno, lavorando anche di sabato, in un anno sono stati dimezzati gli arretrati. Tre giorni fa, ho sentito il presidente della Corte d’appello di Torino che mi ha chiesto quale fosse stata la mia formula”. L’arretrato del 2016 era di 12mila sentenze con condanne detentive per più imputati. Erano l’emergenza, escludendo le 20mila sentenze con assoluzioni e prescrizioni di minore allarme sociale. Dice il procuratore generale Luigi Riello: “Noi emettiamo le ordinanze di arresto, sulla base dei provvedimenti della Corte d’appello. Dopo il primo anno dall’allarme del presidente De Carolis, la produttività nelle esecuzioni era già aumentata del 10 per cento”. Ogni magistrato dovrebbe avere almeno tre dipendenti di cancelleria ad assisterlo nella sua attività. Alla Corte d’appello napoletana, però, sono meno di due. Depositate le sentenze, l’esecuzione diventa compito delle cancellerie. Ma, per legge, l’esecuzione delle sentenze deve avere almeno un funzionario dirigente presente. Da qui la necessità dell’ufficio aggiuntivo. I magistrati, invece, sono rimasti con vuoti di organico di 13 consiglieri. Solo un mese e mezzo fa, alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario il presidente De Carolis ha illustrato i dati aggiornati sulle esecuzioni delle sentenze. “Sono dati che, naturalmente, non coincidono con le definizioni dei processi. Le sentenze esauriscono i compiti stretti dei magistrati, lasciando agli uffici di cancelleria l’applicazione delle esecuzioni”, spiega il presidente De Carolis. In un anno c’è stata una riduzione di 5mila esecuzioni di sentenze arretrate: questo però vuol dire che ci sono almeno altri 7mila condannati in libertà e in attesa che la sentenza che li riguarda venga eseguita. Un numero inserito anche nelle relazioni annuali delle forze dell’ordine che, tra gli arresti effettuati, includono anche quelli in applicazione di condanne. In teoria, sarebbero dieci gli anni di tempo prima dell’estinzione di una sentenza che preveda la detenzione di un condannato in libertà. Ma la vicenda di Torino, con Said Mechaquat condannato a maggio del 2018 a un anno e mezzo, ancora libero e diventato omicida, ripropone il tema della necessità che le esecuzioni siano rapide. “È sempre un problema di organici amministrativi, che sono del tutto insufficienti - commenta ancora De Carolis. I nostri arretrati erano decennali”. C’è un meno 5mila esecuzioni rispetto ai numeri di tre anni fa, dunque. Vanno aggiunte, però, le nuove sentenze d’appello: sono 11.187. Quando saranno diventate definitive dopo la decisione della Cassazione, anche per loro si porrà il problema della esecuzione. Le difficoltà di organico restano. Si trascinano da tempo, subendo gli effetti dei blocchi delle assunzioni e dei concorsi nella pubblica amministrazione. “Anche il presidente Edoardo Barelli Innocenti ha dovuto spiegare che la difficoltà principale, per l’esecuzione immediata delle sentenze, alla Corte d’appello di Torino è la carenza di dipendenti amministrativi nelle cancellerie”, spiega De Carolis. L’arretrato nasce sempre da scelte, condizionate dagli organici di cancelleria insufficienti. Procura e Procura generale hanno i loro uffici-esecuzioni che lavorano su impulso della Corte d’appello. Nell’eseguire le sentenze, si privilegiano le notifiche a chi è già detenuto, poi a chi è libero ma in base a criteri cronologici basati sulla gravità della condanna e del reato. Le ultime ad essere messe in esecuzione, per le conseguenze amministrative collegate, sono le sentenze di assoluzione o prescrizione. Tre anni fa, ce ne erano 20mila arretrate. “Naturalmente, nell’affrontare l’arretrato - conclude De Carolis - abbiamo dato precedenza alle condanne di chi era ancora libero. Il caso Torino insegna che sono le decisioni di maggiore allarme sociale, anche se la sentenza torinese era abbastanza recente ed è diventata esecutiva perché non è stato presentato appello e non c’era alcuna pena sospesa. Da quel caso, si comprende quanti elementi, nel merito, vanno tenuti in conto prima di dare effetto all’esecuzione”. Teramo: il sindaco D’Alberto incontra i detenuti di Castrogno ekuonews.it, 7 aprile 2019 “Saranno coinvolti in lavori sociali”. Importantissimo e proficuo incontro ieri mattina presso il carcere di Castrogno, organizzato dall’associazione il Raggio, che ha messo in campo un progetto di coinvolgimento e integrazione con i detenuti, concluso con l’invito all’amministrazione comunale per facilitare un rapporto di conoscenza con il mondo del nostro carcere. L’incontro aveva come tema “Letture e musica oltre le sbarre” con la finalità di un segnale di vicinanza e speranza attraverso la cultura come veicolo di libertà metaforica al’interno di un luogo che per antonomasia è l’ambito di privazione della libertà. L’incontro è stata l’occasione per ascoltare le esigenze di vita dei detenuti, la realtà del carcere vista con gli occhi e raccontata con le parole, talvolta anche toccanti, dei detenuti stessi che hanno manifestato la loro situazione caratterizzata spesso dalla forte sofferenza derivante dal consapevolezza degli errori commessi e dalla volontà di superarli e ricongiungersi con il mondo. In primo luogo il mondo dei propri affetti spezzati; racconti che hanno testimoniato la volontà di tornare ad avere una speranza di chiudere con il passato per costruire un futuro diverso per se stessi e per le famiglie. “Abbiamo partecipato con piacere - precisa il Sindaco D’Alberto che si è recato a Castrogno assieme all’assessore Antonio Filipponi. È stato un incontro toccante, caratterizzato dalla consegna da parte di un detenuto di una lettera in cui è raccontata la sua esperienza a cuore aperto; a questa lettera risponderò, sebbene già oggi abbia anticipato ai detenuti alcune mie considerazioni”. Il Sindaco infatti ha manifestato l’intenzione di proseguire questa serie di incontri con il mondo carcerario - era la 4a volta dall’inizio del suo mandato che D’Alberto si recava a Castrogno - per creare un rapporto diretto. “L’obiettivo che ci dobbiamo porre in tutti i campi - prosegue il Sindaco - è di rimuovere le barriere, architettoniche, fisiche e soprattutto invisibili, che sono le peggiori. Stamane abbiamo voluto lanciare un chiaro segnale, aprendo uno spiraglio che consente alle istituzioni di conoscere le problematiche del carcere. All’interno dell’istituto penitenziario, infatti, ci sono persone, non numeri. Il carcere deve avere le funzioni note: punitiva, di deterrenza e di rieducazione. Questo vuol dire favorire un percorso che consenta di ripensare gli errori commessi e prepararsi al reinserimento nella vita collettiva e civile per non delinquere più. Noi istituzioni - afferma ancora il Sindaco di Teramo - dobbiamo far passare il messaggio che la comunità è unica, non c’è separazione fra noi e loro; dobbiamo favorire perciò una connessione che dia loro una prospettiva”. Proprio per questo il Sindaco con l’amministrazione carceraria ha parlato di alcune azioni da mettere in campo, con l’eventuale coinvolgimento di detenuti in lavori sociali che consentirebbero di risarcire anche le vittime e di apprendere competenze per prepararsi al ritorno alla vita libera e normale. “Faremo questo lavoro con la burocrazia penitenziaria, non è facile ma risponde anche alle esigenze delle amministrazioni che hanno sempre più bisogno di collaborazioni di questo livello. Fuori del carcere ci sono le istituzioni e c’è una comunità che ha bisogno di loro; bisogna metterli in condizione di poter costruire un nuovo futuro attraverso una fase di rieducazione e di riappacificazione con la società, soprattutto i più giovani”. Resta il problema enorme dell’eccessivo sovraffollamento del carcere di Castrogno, che rende oltremodo complicata la vita della comunità. Bergamo: la direttrice “il carcere deve aprirsi all’economia del territorio” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 7 aprile 2019 Teresa Mazzotta dal 15 febbraio è direttore del carcere di Bergamo. Non bisogna nemmeno introdurre l’argomento. Il nuovo direttore Teresa Mazzotta, 49 anni, 22 di lavoro in carcere alle spalle, pendolare in treno ogni giorno da Milano, ti riceve nel suo ufficio in via Gleno e va dritta al punto. “C’era bisogno di una svolta, ma per puntare sul cambiamento devi estirpare quello che il cambiamento lo blocca”. Non è che si riferisca solo alle accuse della Procura. Il rinnovamento a cui aspira è su più livelli e ha come obiettivo principale creare una rete forte fra carcere e territorio “perché la difesa sociale - sottolinea a più riprese - non si fa marginalizzando il carcere, ma considerandolo una realtà in cui il territorio può entrare e investire”. Il forno interno che fa pure consegne a domicilio. I corsi sui lavori di pubblica utilità. Il laboratorio per aspiranti estetiste. Passa da qui, la difesa sociale. Dal reinserimento del detenuto. Con il terremoto di giugno e gli agenti perquisiti martedì è inevitabile, tuttavia, pensare al fronte giudiziario come al punto di partenza della svolta. “Sono rimasta molto turbata, al mio arrivo, dalla prima ordinanza estremamente pesante - spiega Mazzotta, la cui nomina è diventata effettiva il 15 febbraio. Però ero consapevole della necessità di un investimento per una nuova motivazione interna delle persone che c’erano e avevano bisogno di un punto di riferimento. Ero anche consapevole che l’indagine non era finita. C’era la Procura che stava facendo il suo lavoro anche con la collaborazione della polizia penitenziaria. In parallelo, abbiamo attivato quello che significa avere cura per il territorio, così che le due strade possano convergere”. Per gli agenti indagati, ora in congedo ordinario d’ufficio, il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria regionale ha stabilito l’immediato distacco da Bergamo per motivi di incompatibilità ambientale, mentre il dipartimento a Roma valuterà eventuali sanzioni disciplinari. Sono 11 su 220, “c’è uno zoccolo veramente forte che aveva bisogno di avere proprio questa spinta anche motivazionale per il cambiamento, perché loro fanno parte del territorio bergamasco e vogliono uscire dall’istituto a testa alta, fare capire che sono per la legalità”. Per migliorarne le condizioni lavorative e non, si stanno avviando vari progetti: dai corsi di multiculturalismo (i detenuti stranieri sono il 52%) ai tornei di calcio. Devono, tra l’altro, fare i conti con il problema del sovraffollamento: su 320 posti la Casa circondariale ospita tra i 550 e i 580 detenuti. “A giugno, terminati i corsi per allievi agenti, dovrebbe esserci la possibilità di inviare forze anche a Bergamo - dice Mazzotta -. Sarebbe utile per riportare equilibrio e per inserire giovani che già nascono con l’idea dell’integrazione con il territorio”. Un riscontro su telefoni introdotti illegalmente c’era stato: “Il livello statistico fa media con quello nazionale - premette Mazzotta, tutto sommato però dai controlli e dai consigli di disciplina si evidenziava che c’erano oggetti non consentiti che accedevano. Abbiamo rafforzato la squadra all’ingresso e ai colloqui”. Salerno: “La pizza buona dentro e fuori”, ultimati i lavori edili della pizzeria in carcere di Andrea Siani zerottonove.it, 7 aprile 2019 “La pizza buona dentro e fuori” è un progetto che favorisce l’inserimento dei detenuti nel carcere di Fuorni. Da poco sono terminati i lavori edili all’interno della struttura. Tempi da record per la realizzazione della pizzeria sociale che prevede il reinserimento dei detenuti della Casa circondariale Antonio Caputo. Terminati i lavori edili all’interno del carcere di Fuorni, e tra qualche giorno è previsto anche l’arrivo e l’installazione di tutte le attrezzature. La posa della prima pietra è avvenuta solo lo scorso 25 Marzo, mentre martedì 2 Aprile c’è stato un sopraluogo di verifica dello stato di avanzamento dei lavori del Presidente della Fondazione Casamica, Carmen Guarino, accompagnata dal Direttore della struttura detentiva Rita Romano. Proseguono, intanto, le serate in calendario per la campagna di raccolta fondi. Il progetto ad oggi ha visto coinvolti ben 10 operatori della ristorazione, tra pizzerie e ristoranti del territorio, che hanno dato la propria disponibilità ad “ospitare” serate finalizzate a sostenere il progetto sociale per l’inserimento lavorativo dei giovani detenuti. Le cene di solidarietà sono volute da Fondazione Casamica insieme ai partner Fondazione Comunità Salernitana, Assessorato alle Politiche sociali del Comune di Salerno, Casa Circondariale e con la collaborazione di Fondazione Carisal). Il prossimo 10 Aprile alle ore 20.30 nuovo appuntamento al ristorante Casa Mia in via Lungomare Trieste, 146 di Salerno. Aperte le prenotazioni per i 35 posti a sedere disponibili. L’appello al sostegno per questa importante iniziativa ha dato già i suoi primi frutti. Raggiunta per il momento, grazie alle donazioni, la cifra di 22.742,00 euro. Ma serve ancora un altro piccolo sforzo per raggiungere i € 25.000,00 che occorrono per vedere realizzata la pizzeria. Il Progetto, lo ricordiamo, ha l’obiettivo di attrezzare un locale, all’interno dell’Istituto di pena di Salerno, con un forno e con tutto ciò che occorre per poter realizzare una Pizzeria e formare i detenuti con un Percorso formativo di Qualifica professionale. Napoli: “Monelli tra i fornelli”, le ricette dei giovani detenuti di Nisida di Paolo De Luca La Repubblica, 7 aprile 2019 C’è colomba e colomba. Tra tradizione e sperimentazione, quelle proposte dai ragazzi di “Monelli ai fornelli”, rappresentano una succulenta alternativa per questa Pasqua. Proseguono infatti le attività della onlus fondata nel 2015 e che svolge attività di formazione nel settore gastronomico per gli ospiti dell’Istituto minorile di Nisida. “Per questo 2019 - spiega il presidente, lo chef Luca Pipolo - proponiamo ben cinque tipi di colomba, oltre all’immancabile casatiello, sia classico che vegano”. La produzione è affidata a tre giovani detenuti, seguiti dai maestri pasticcieri Ciro Ferranino e Samuele Mascolo. “L’intera preparazione - prosegue Pipolo - è tutta artigianale: i nostri prodotti sono realizzati con lievito madre. Per i canditi e le bucce di frutta, attingiamo direttamente all’agrumeto di Nisida, anch’esso curato dai ragazzi”. Spazio ai buongustai. Le colombe proposte sono cinque. Al tipo classico, si aggiungono quella con scaglie di cioccolato (con copertura di fondente) e quella farcita di cioccolato bianco. Segue l’originale “colomba al pistacchio” e, dulcis in fundo, quella con farcita al limoncello, ovviamente di produzione “Monelli tra i fornelli”. Si potranno assaggiare in uno speciale “Colomba Day” proprio a Nidida, domenica 7 dalle 9 alle 13. Si potranno degustare e acquistare i dolci nelle loro varianti. Per l’ingresso è obbligatoria la prenotazione (informazioni al 3388743927). Chiunque, comunque, può ordinare la propria delizia pasquale anche nei prossimi giorni, sostenendo così le attività e i progetti della onlus a Nisida. Il ritiro è direttamente sull’isolotto (anche in questo caso, previo appuntamento), o al Vomero, in via Belvedere 98. Possibile anche organizzare spedizioni in tutta Italia. A Napoli c’è anche il bar Alaska (via Scarlatti) che aderisce all’iniziativa. Il prezzo della colomba è di 17 euro, il castello costa invece 15. Grosseto: chiusura del carcere di, scatta il sit-in La Nazione, 7 aprile 2019 Sindacati sul piede di guerra: il 15 presidio davanti alla Prefettura. La protesta non si ferma. La decisione di chiudere il carcere di via Saffi a Grosseto non passerà sotto silenzio. Dopo la denuncia dei sindacati, infatti, la Uil-pa insieme a tutte le altre sigle ha deciso di passare all’azione perché il tavolo congiunto che nei giorni scorsi ha messo a confronto anche le istituzioni, non ha spostato di una virgola gli intendimenti del Governo. Che in pratica bocciano l’ubicazione della casa circondariale di via Saffi (la nuova legge prevede che le case circondariali debbano essere in posizione periferica) con la chiusura che rischia di essere veramente imminente. In barba agli oltre 50 lavoratori che sarebbero trasferiti ad altre mansioni oppure in altre strutture simili. In vista dell’ennesimo incontro che si svolgerà lunedì 15, al quale parteciperanno le autorità locali, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria e la direzione della casa circondariale di Grosseto, a partire dalle 10.30 dello stesso giorno in piazza Fratelli Rosselli, i sindacati effettueranno un sit-in per manifestare pubblicamente il “no alla chiusura del carcere se prima non si è costruito un nuovo penitenziario”. Oltre alla sigla sindacale della Uil parteciperanno in modo compatto tutti gli altri sindacati che da sempre si sono opposti all’ipotesi di chiusura. Ma contro questa ipotesi si sta muovendo anche la politica. L’onorevole Mario Lolini, infatti, nei giorni scorsi ha incontrato il sottosegretario alla Giustizia per esporre tutte le sue perplessità in seguito della decisione di togliere dal capoluogo della Maremma l’unico carcere. “Sto lavorando - ha detto il deputato della Lega - per scongiurare la chiusura del carcere di via Saffi in questo momento. Sia chiaro: chiusura che prima poi dovrà avvenire perché quella struttura non è più compatibile con le leggi dello Stato che prevedono altro per un carcere moderno e funzionale. Detto questo - prosegue Lolini - dobbiamo cercare di arrivare ad una buona soluzione che accontenti tutte le parti in causa: da una parte il Governo che ha le sue buone ragioni, dall’altra noi che dobbiamo essere in grado di trovare una soluzione che risolva al più presto questo problema. Mi riferisco all’individuazione di una zona adatta a tutte le esigenze, come quella dell’ex deposito di artiglieria. Quelle strutture sarebbero perfette per la costruzione di un nuovo carcere. C’è tutto, dalla cubatura alla logistica. Cosa che non sarebbe possibile a Massa Marittima, che ha un carcere con caratteristiche troppo diverse. Ma il carcere - ribadisce Lolini - dovrà essere chiuso e trasferito solo dopo che Grosseto possa assicurare un’altra struttura troppo importante anche per il tribunale e la Procura. Il mio intento è quello di prorogare il più tardi possibile quello che però è ormai inevitabile”. Roma: a chi giovano gli stereotipi intorno al rom di Vittorio Emiliani La Repubblica, 7 aprile 2019 Tutto quello che succede a Roma subisce una incredibile amplificazione che alla fine non fa capire molto di quanto sta succedendo. È così anche per la vicenda di Torre Maura e dei rom. C’è forse a Roma una invasione di rom? No, si calcola che di questo mosaico di etnie riunite sotto la sigla (da evitare) di nomadi, vi siano a Roma 6.559 persone, contro le 2.600 di Napoli e le 2.300 di Torino. Rapportate alla popolazione residente, costituiscono lo 0,23 % nella capitale e lo 0,26 % nelle altre due città. La politica dei campi nomadi (che nomadi non sono più, 4 su 5 hanno una casa) è stata costosa e al tempo stesso disastrosa dal punto di vista sociale e umano. Sin dal 1999 il comitato dell’Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale affermava che: “L’abitare nei campi porta non solo alla segregazione fisica della comunità rom dalla società italiana, ma anche all’isolamento politico, economico e culturale”. Solo che a Roma, anche per il maggior afflusso, magari di apolidi, da Est dopo le guerre balcaniche, quella politica è proseguita, tanto che nel 2013 il Comune di Roma spese circa 24 milioni di euro. Per segregare, di fatto, anziché includere. Ricordo che alla fine del secolo scorso il sindaco Francesco Rutelli aveva vincolato l’aiuto alle famiglie rom al fatto che i figli venissero mandati a scuola perché questo è il loro vero handicap: l’inferiorità culturale. Difatti si calcola che soltanto il 6% dei rom arrivi al diploma di scuola media o superiore: in quello stesso 2013 - in base ad un rapporto dei Radicali - su 30mila adolescenti di quella etnia, soltanto un terzo scarso era iscritto alle scuole secondarie. E ciò ne condiziona poi i livelli di occupazione. La cronaca di ieri di Repubblica ha dato conto con molta chiarezza della politica che, lentamente, viene avanti anche a Roma di sistemazione dei rom che ne hanno diritto (per il 50% sono italiani) in case popolari, sulla base di programmi, ad esempio, della Croce Rossa. Il 40% di loro ha un lavoro, contro una media però del 60% in Europa. Ma quanti ne danno conto? Pochissimi. Per cui siamo sempre di fronte alla caricatura grottesca degli “zingari” senza fissa dimora, ladri, vagabondidelinquenti “naturali” o giù di lì. Sulla quale fanno leva neofascisti e reazionari scatenando una forsennata “caccia al nomade”. Cosa aspettano i governi, i ministri dell’Interno (figurarsi Matteo Salvini) ad applicare le leggi che ci sono contro la rinascita di una forza fascista, squadrista, nel nostro Paese? Non lo sono Forza Nuova e CasaPound ? Ci vuole un coraggioso ragazzino di 15 anni per smascherarli? Infine, a Torre Maura, qualcuno ha informato dal Comune - incapace poi di controllare la situazione esasperata creatasi per sua colpa - gli abitanti dell’arrivo di 70 rom? Qualcuno ha pazientemente discusso con loro se e come inserirli. No, li hanno calati lì, e basta, come clandestini. Questa non è politica, non è democrazia. Troppo facile poi gridare “al razzista”. Napoli: presentazione del libro “Mi chiamano sbandato”, di Eugenio Deidda goldelnapoli.it, 7 aprile 2019 Reinserimento sociale per gli ex detenuti: un dovere morale ma soprattutto una questione costituzionale. È il dibattito che venerdì, 12 aprile alle ore 17, andrà in scena alla Biblioteca comunale di Cercola (via Nuova, 103 Cercola - Zona Caravita). “Tavola Rotonda. Carcere e reinserimento sociale: una questione costituzionale” è un evento, patrocinato dal Comune di Cercola, organizzato dall’associazione Dimensione Forense, ormai un punto di riferimento inamovibile nel panorama dell’associazionismo giudiziario campano ed italiano. Temi di inclusione si mescoleranno ad un’attenta lettura del diritto carcerario e costituzionale. Il tema ruota intorno alla presentazione del libro “Mi chiamano sbandato” di Eugenio Deidda, edito nel 2019 da Il Galeone. L’autore, attualmente detenuto, sarà presente in via eccezionale grazie ad un permesso. La presentazione inizierà alle ore 17 aprendosi con i saluti dell’avvocato Armando Rossi, consigliere del Coa (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli), e poi dal presidente di Dimensione Forense, Francesco Donzelli. Il dibattito, moderato dal giornalista di FanPage, Giuseppe Manzo; vedrà alternarsi al microfono Eugenio Deidda in arte Edmond, autore del libro “Mi chiamano sbandato” edito nel 2019 da Il Galeone, Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; il prof. Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania, Immacolata Romano, avvocato penalista, Giuseppe Milazzo, avvocato penalista e coordinatore Dipartimenti di Dimensione Forense. Durante l’incontro interverrà anche il Sindaco di Cercola, Vincenzo Fiengo. “Di carcere e reinserimento sociale non se ne parla mai abbastanza e noi di Dimensione Forense, che ho l’onore di presiedere, abbiamo deciso di farlo presentando il libro “Mi chiamano Sbandato - ha spiegato Francesco Donzelli, presidente di Dimensione Forense. Ringrazio il Garante detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che ha accolto il nostro invito. Di estrema importanza è la presenza dell’avvocato Armando Rossi del Consiglio dell’Ordine di Napoli nonché componente dell’Organismo Congressuale Forense. Un ringraziamento va al. Sindaco del. Comune di Cercola che ha patrocinato il convegno offrendoci la disponibilità della biblioteca comunale. È importante che di questi temi se ne discuta sui territori, coinvolgendo la cittadinanza attiva, perché il rischio che troppo spesso si corre è quello dell’autoreferenzialità. Noi siamo invece convinti della necessità di portare all’esterno la discussione, aggregando cittadini, avvocati e istituzioni. Carcere e reinserimento sociale non sono problemi che riguardano solo alcuni o ascrivibili ai soli addetti ai lavori, ma sono argomenti che interrogano l’intera comunità democratica”. Chiosa importante anche quella del Consigliere dell’ordine degli avvocati di Napoli, Armando Rossi: “Il carcere è uno di quei temi da porre con sempre maggiore insistenza nel dibattito politico e culturale del nostro paese. La privazione della libertà non può e non deve assolutamente coincidere con la sottrazione della dignità umana del detenuto. Penso al sovraffollamento carcerario, i cui numeri raccontano il dramma di una vera e propria emergenza sociale. Altro tema centrale e nevralgico è quello del reale inserimento sociale dopo la detenzione: non dimentichiamo che lo scopo precipuo della pena è quello della rieducazione. Ebbene, temi importanti che interrogano tanto il Legislatore quanto tutti gli operatori del diritto. Come rappresentante del Coa Napoli e dell’Ocf ho accolto con molto piacere l’invito al convegno promosso dall’associazione Dimensione Forense. È importante che su questi temi l’avvocatura sia compatta e coesa, facendo sentire la propria instancabile voce”. Infine Samuele Ciambriello, che si definisce come “Garante campano delle persone private delle libertà personale” dediche importanti parole allo scritto ed all’autore: “Questo libro rappresenta un unicum di straordinarietà ed emozioni - dice. L’autore porta al grande pubblico un proprio bagaglio esperienziale con uno strumento quasi lirico. Chiosa con un linguaggio asciutto un viaggio entusiasmante che mette insieme percorsi di vita che non temono il rischio della contaminazione, ed anzi è lui stesso a contaminare gli altri. Voglio vivere l’attesa e lo stupore di incontrarlo faccia a faccia e per quelli che verranno alla presentazione garantisco che ci sarà questo un grande trasporto emotivo ed una contaminazione di idee importante”. Massa senza volto né salvezza. Così abbiamo cancellato gli altri di Luigi Manconi Corriere della Sera, 7 aprile 2019 Crisi dell’empatia e nascita del sovranismo: siamo solidali ma solo verso chi ci è vicino. Esposti a migliaia di immagini di morte diventiamo più partecipi o più indifferenti? In un articolo sul “Corriere della Sera” del 18 gennaio scorso, Paolo Di Stefano scriveva della difficoltà, innanzitutto psicologica, di pensare migranti e profughi come titolari di biografie individuali e di tragedie personali e non come pezzi di un’unica e indistinta storia “per lo più molto fastidiosa o minacciosa per la nostra tranquillità”. Poi, ma assai raramente, irrompe un racconto che può modificare, almeno per una parte della mentalità collettiva, il punto di vista. Come nel caso di “una piccola vita e/o una piccola morte” ricostruita da Cristina Cattaneo nel suo bel libro “Naufraghi senza volto” (Raffaello Cortina Editore, 2018): quella di un adolescente maliano, affogato nel Mediterraneo e ritrovato con la sua pagella scolastica, ricca di voti brillanti, cucita all’interno di una tasca del giubbotto. In questo testo, la rievocazione di alcune biografie arriva a toccare grandi questioni di antropologia sociale, ma anche di filosofia politica che attraversano, spesso in maniera troppo sommessa, il dibattito pubblico. Il libro è la testimonianza di un medico legale che intende ricostruire, attraverso l’analisi dei corpi e dei reperti, l’identità ricomposta o viceversa irrecuperabile di migliaia di persone morte nel Mediterraneo. Domanda sottintesa: com’è possibile tollerare tanto strazio? Rispondere è forse impossibile, eppure non bisogna pensare che - davanti a prove in apparenza inoppugnabili - il nostro sia semplicemente definibile come il tempo dell’egoismo. Innanzitutto perché è probabile che la “quantità” di egoismo che abita il mondo non vari significativamente nell’arco di pochi decenni ma che, piuttosto, si distribuisca differentemente a seconda - oltre che del tempo - dello spazio, della disponibilità di risorse, delle dinamiche sociali e culturali. E, poi, perché è ancora più probabile che l’egoismo e il suo contrario - la solidarietà - tendano a svilupparsi in misura inversamente proporzionale, producendo l’accorciamento della solidarietà a vantaggio dell’allungamento dell’egoismo, e viceversa. È possibile, cioè, che laddove si sviluppavano solidarietà lunghe attualmente prevalgano quelle corte; e dove l’egoismo era circoscritto ad ambiti ristretti, tenda oggi a estendersi a territori sempre più ampi. Questo vale in particolare per quanto riguarda gli atteggiamenti sociali nei confronti della sofferenza altrui. “Davanti al dolore degli altri” è il titolo di un magnifico libro di Susan Sontag, pubblicato negli Oscar Mondadori nel 2006 e oggi letteralmente introvabile (l’ultima copia che ho potuto rintracciare online è costata 50 euro): e sarebbe davvero importante se la casa editrice di Segrate lo volesse ripubblicare. Ecco, la mia idea è questa: “davanti al dolore degli altri” è sbagliato ritenere che non si determini più un moto di altruismo e un sentimento di commozione e di empatia. E, forse, non è nemmeno la “quantità” e l’intensità della sofferenza provata a venire ridimensionata. È, bensì, la nozione stessa di “altri” a essere drasticamente e, talvolta persino crudelmente, rimpicciolita. La solidarietà si fa corta, cortissima, e si concentra all’interno di un perimetro sempre più ridotto, mentre l’egoismo (ovvero l’indifferenza) sembra dominare l’intero spazio al di là di quegli strettissimi confini. A determinare quest’accelerato restringersi della nozione di “altri” è una crisi talmente violenta da indurre a pensare che solo noi e la nostra piccola cerchia (di familiari, parenti, colleghi, membri della stessa comunità o corporazione o etnia) saremo in grado di salvarci. È da qui che nasce il sovranismo, e non viceversa. E c’è un ulteriore elemento che concorre a questo processo, rendendo così incerto e indistinto l’universo di immagini che compongono gli altri. Quelli che non siamo noi. Ecco l’intuizione della Sontag in quel libro introvabile. Interrogandosi sul modo in cui la bufera di immagini di brutalità e di morte ci influenza, l’autrice non si domanda solo se questa ci renda spettatori più partecipi oppure più indifferenti. La competizione fra i due sentimenti possibili di rifiuto o viceversa di insensibilità rispetto alla violenza mostrata in centinaia e centinaia di fotografie e di video, rischia di nascondere una più essenziale questione. “Non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri”, scrive Sontag. Chi siamo noi che guardiamo, che ci sentiamo quasi investiti da quella massa di informazioni visive che portano in superficie le conseguenze rovinose della carneficina di uomini su altri uomini? Se non partiamo da questa fondamentale domanda ogni immagine, per quanto puntuale e minuziosa nel testimoniare dell’orrore, rischia di semplificare, di reiterare, di creare “l’illusione del consenso”. Un esempio: sino alla fine della guerra nei Balcani, le stesse fotografie di corpi straziati e di bambini uccisi dai bombardamenti venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava modificare la didascalia e quelle morti potevano essere piegate a sostenere tesi opposte. Ecco il punto: liquidare la storia dietro le immagini significa renderle generiche e anonime. Significa svuotarle di senso, ridurle a retorica, illanguidirne la carica evocativa. Insomma, significa liquidare la politica nell’unica accezione in cui la politica può limitare e curare il dolore nostro e degli altri. Con parole diverse, dare un volto ai naufraghi. Così facendo, si tenta l’impresa più ardua e, allo stesso tempo, più necessaria. Attribuire un nome e un cognome a quell’evento altrimenti impenetrabile e indecifrabile che cerchiamo di ricondurre - per poterlo avvicinare in qualche modo - a diversi appellativi: le stragi, i genocidi, gli stermini. Dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale, che ha scandito una parata inesauribile di tutti i crimini possibili, sembrava che i massacri potessero non ripetersi più. Sembrava che garantissero questo a quei milioni di persone che erano morte o che avevano visto morire i propri cari o che pativano sofferenze indicibili. E la Dichiarazione universale dei diritti umani, della quale si è ricordato il settantesimo anniversario il 10 dicembre scorso, nasce per promuovere quell’aspirazione. È un documento fondamentale della nostra epoca, dove si trova la più lungimirante teoria della persona - in quanto essere umano e solo perché essere umano - quale titolare di diritti universali, irrinunciabili ed esigibili. Ne consegue un’impostazione “individualista” della protezione dalla violenza, che sembra ritenere la pratica del genocidio quasi un reperto del passato. Ma le cose stanno davvero così? In un recente saggio (Tutti i nomi dello sterminio, “Il Regno” 16/2018) Marcello Flores rileva come la diffusione della violenza abbia assunto nel XX secolo - e oltre il XX secolo - forme sempre nuove e sempre terribili, mantenendo tuttavia una sua “semplicità”. Un tratto, cioè, di ricorrente possibilità di reiterazione. Nel corso di questo lungo periodo storico, diversi sono stati i nomi attorno a cui si è cercato di riassumere e simbolizzare la ferocia manifestatasi durante le violenze di massa. E fu in una seduta del Tribunale di Norimberga che venne pronunciato il termine “genocidio”: una parola nuova coniata per denotare una pratica antica nel suo sviluppo moderno. Tuttavia, il reato di genocidio non rientrò formalmente nella sentenza emessa a Norimberga nel 1946, anche se esso vi era ampiamente descritto, sia sotto la fattispecie dei “crimini di guerra” sia sotto quella dei “crimini contro l’umanità”. Gli studi sui genocidi si sono interrogati a lungo sulle cause degli stermini di massa, cercando in quella denominazione i fattori qualificanti il fenomeno, partendo dall’identità (culturale, religiosa, etnica) delle vittime e, allo stesso tempo, dalla specificità di ciascuna delle manifestazioni di quel male (“Grande male” è il termine che indica il genocidio degli armeni). Ma, nonostante i tentativi della storiografia di ricondurre fatti diversi a una sola definizione, la gran parte di questi eventi non è riassumibile in una categoria unica. Ed è anche per questo che molti di essi sono conosciuti con nomi propri e differenti, utili per renderli singolari e distinguibili anche nella memoria, come lo sono stati nella realtà storica, e tuttavia confrontabili. Nasce da qui quel dibattito sull’”unicità” della Shoah che non ha trovato finora una soluzione condivisa. Ciò che possiamo dire è che mai, innanzitutto nella coscienza delle vittime, unicità ha voluto dire irripetibilità. Come ricorda Liliana Segre, nell’introduzione alla Dichiarazione universale dei Diritti umani appena ripubblicata da Garzanti, la lezione di Primo Levi resta tanto limpida quanto inesorabile: “È accaduto, quindi può accadere di nuovo”. Già 5mila licenziati nei centri per l’immigrazione di Massimo Franchi Il Manifesto, 7 aprile 2019 Decreto Salvini. Denuncia della Fp Cgil. A rischio il 40% dei lavoratori: 18mila su 40. Spariscono insegnanti di italiano e infermieri. A casa i migranti, a casa i rom - ma quale casa? - a casa chi li accoglie. Tra gli operatori nei servizi per l’immigrazione grazie al decreto Salvini ci sono già 5mila persone sottoposte a procedure di licenziamento collettivo e mobilità. Lo denuncia la Funzione Pubblica Cgil in un report aggiornato. Si tratta di figure professionali molto variegate che vanno da professionisti come psicologi, medici a operatori sociali e mediatori culturali fino al personale amministrativo delle cooperative che avevano in appalto le strutture per l’accoglienza. Nel settore lavorano circa 40mila persone in Italia di cui l’80 per cento circa nei centri di primo livello - Cas, Cara - e il 20 per cento circa in quelli di secondo livello - Sprar. Ebbene, il Decreto Salvini ha già tagliato completamente alcune figure professionali: “Gli infermieri e gli insegnanti di lingua italiana non sono più previsti”, denuncia Stefano Sabato, responsabile nazionale cooperative sociali della Fp Cgil. In più il decreto del ministro degli Interni ha ridotto drasticamente il numero di ore di lavoro di tutte le altre figure destinate ai servizi per l’immigrazione. Nel fare un bilancio a 6 mesi dall’entrata in vigore la Fp Cgil conferma che il 40% dei circa 40 mila addetti, impegnati tra Cara, Cas e Sprar, rischia il posto di lavoro: saranno 18 mila i dipendenti dei servizi interessati da procedure di esubero. Molti dei quali sotto i 35 anni di età. I tempi saranno stretti perché se già molte prefetture - sotto la pressione del ministero degli Interni - hanno già introdotto le nuove disposizioni. “Alcune prefetture, come Frosinone, Como, Cagliari e Milano sono state velocissime, ma entro l’estate tutte le prefetture appronteranno i nuovi bandi previsti entro la fine del 2019 - spiega Sabato - gli affidamenti in essere non possono essere modificati ma molte cooperative hanno già deciso di ridurre il numero di ospiti per prepararsi ai tagli”. Fra i 5mila licenziamenti già in corso ci sono realtà grandi come l’Auxilium, a Castelnuovo di Porto, in provincia di Roma, con 194 esuberi o Medihospes, che ha avviato 350 esuberi in 12 delle regioni o come il Progetto Arca e i 118 esuberi annunciati tra Milano, Varese e Lecco. Ci sono poi tante medio-piccole realtà che vivono le stesse condizioni”, fa sapere la Fp Cgil. Secondo le stime del sindacato il rapporto tra numero di operatori e numero di ospiti varierà, passando da quello 1 a 3 del decreto Minniti, ad un rapporto 1 a 8, con quello Salvini. Numeri che sono il risultato del taglio sulla spesa destinata ai servizi passato da 35 euro lordi per ospite al giorno a circa 21 euro lordi. Prendendo, ad esempio, un centro di accoglienza di medie dimensioni (adatto ad ospitare dai 151 ai 300 ospiti) diminuisce da 8 a 2 il numero di operatori diurni, e da 3 a 1 quelli notturni. In più ora è prevista una presenza di infermieri di sole 6 ore al giorno rispetto alle 24 di prima. I medici invece passano dalle 24 ore al giorno a 24 a settimana, gli assistenti sociali dalle 36 ore a settimana alle 20 e i mediatori linguistici addirittura da 108 ore a settimana a sole 24. Del tutto abolite le ore dedicate all’insegnamento della lingua e al sostegno. Una riduzione dei servizi di un quarto, nei casi più fortunati. Una situazione disperata per il settore che porta l’Fp Cgil a preparare una mobilitazione per strappare almeno ammortizzatori sociali per dare un orizzonte di ricollocazione a tutti questi lavoratori che diversamente avranno solo pochi mesi di Naspi”. Un minimo di sostegno dovrebbe arrivare per i lavoratori dell’Auxilium di Castlnuovo di Porto: dopo il presidio e la richiesta dei sindacati, i ministeri dello Sviluppo e Lavoro hanno dato una interpretazione estensiva della norma sul Fis, il fondo di integrazione salariale, l’ammortizzatore - molto meno alto e duraturo della Cassa integrazione - che non potrebbe essere usato in casi di strutture in chiusura. La Fp chiede che sia estesa a tutte le procedure di licenziamento insieme a “misure di sostegno e la ridefinizione dell’intero sistema immigrazione”. Libia. Al-Serraj accusa il generale Haftar: “Mi ha tradito”. Imprenditori italiani in fuga di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 7 aprile 2019 Il capo del governo di accordo nazionale libico ha accusato il suo rivale, che sta marciando verso Tripoli. E lo mette in guardia: “Una guerra senza vincitori”. Mentre l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, marcia verso Tripoli, con l’obiettivo di conquistare il controllo della capitale, il capo del governo di accordo nazionale libico, il premier Fayez al Serraj, lo accusa di tradimento. Non trova soluzione il caos politico del Paese, nemmeno dopo l’appello della comunità internazionale: i ministri degli Esteri del g7 hanno ribadito “che non c’è una soluzione militare al conflitto libico”. Dello stesso avviso i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, ieri, hanno espresso “profonda preoccupazione per le attività militari a Tripoli. Conferma la preoccupazione anche il premier al-Serraj, che definisce quella che sembra essere vicina, una “guerra senza vincitori”. Ma comunque promette “fermezza”. Gli imprenditori italiani in fuga - La ripresa degli scontri in Libia ha preoccupato i molti italiani che vivono e lavorano nel Paese, tanto che alcuni imprenditori hanno già lasciato Tripoli e diverse imprese stanno valutando cosa fare di fronte all’avanzata del generale Haftar. Il generale tenta di rassicurare gli stranieri, assicurando che quando l’esercito entrerà nella capitale, “un’unità speciale sarà incaricata della sicurezza delle imprese straniere e locali, delle sedi diplomatiche e delle istituzioni economiche straniere”. Tra le aziende presenti nel Paese, l’Eni che ha fatto sapere che “la situazione nei campi petroliferi è sotto controllo” e che sta “monitorando l’evolversi della vicenda con molta attenzione”. Ma secondo fonti locali in realtà avrebbe già fatto evacuare una decina di dipendenti dalla Libia, anche se l’azienda ha precisato di “non avere attualmente personale presente” a Tripoli. Sempre fonti locali spiegano anche che alcuni imprenditori, anche noti, che si trovavano in questo periodo in Libia per lavoro hanno saputo con anticipo dell’attacco ed hanno lasciato Tripoli già da alcuni giorni. Ieri è salito su un aereo per Tunisi, secondo le fonti, un gruppo di una decina di italiani. “Al momento comunque - assicura chi è in Libia - qui è tutto tranquillo, ci sono degli scontri, ma sempre fuori Tripoli, a 30-40 chilometri dalla città”. Sul sito della Farnesina c’è però ormai da due mesi l’allerta che sconsiglia di andare in Libia per “le precarie condizioni di sicurezza nel Paese”, dove vivono e lavorano diverse centinaia di italiani. Ruanda, venticinque anni dopo: come (non) si previene un genocidio di Michele Farina Corriere della Sera, 7 aprile 2019 I racconti di Adama Dieng, l’uomo “evita-messacri” dell’Onu. E la frustrazione ottimista di Carla Del Ponte, che ha indagato gli orrori della guerra dalla Bosnia a Kigali. “Ero là, due giorni prima che cominciasse. E onestamente ammetto che non lo vidi arrivare”. Adama Dieng, 68 anni, senegalese, dal 2012 è l’uomo dell’Onu per la prevenzione dei genocidi. Una funzione istituita nel 2004 dall’allora Segretario Generale Kofi Annan, nel decimo anniversario dell’ecatombe in Ruanda. Sono già passati 25 anni: il 6 aprile 1994 l’aereo con a bordo il presidente ruandese Juvenal Habyarimana fu abbattuto da due missili mentre atterrava a Kigali. I responsabili sono rimasti ignoti. È noto quanto successe nei 100 giorni seguenti. Il governo degli oltranzisti hutu sfruttò la situazione per scatenare il massacro più veloce della storia: 800 mila morti, il genocidio dei tutsi, il massacro degli oppositori hutu. Il mondo? Rimase a guardare. L’Onu ritirò gran parte dei Caschi Blu, anziché dare loro mandato di proteggere i civili: un’immobilità favorita dall’allora presidente americano Bill Clinton. Uomo di legge e diritti umani, in quei primi giorni di aprile Dieng era in Ruanda per l’International Commission of Jurists. Incontrò Habyarimana, e nella boscaglia pranzò con i capi ribelli del Fronte Patriottico Ruandese, compreso quel Paul Kagame che oggi e da 25 anni è l’inamovibile presidente di un Paese post-genocidio, dipinto di volta in volta come un regime autoritario e come un miracolo di riconciliazione. “Ero là. Si percepivano le tensioni, ma era difficile immaginare quanto sarebbe successo”. Il mondo ha le sue colpe. Dieng sostiene che allora “mancava un sistema per inquadrare i segnali di allarme”. Oggi ce l’abbiamo, almeno sulla carta. “Il lavoro che faccio è il risultato di quel fallimento collettivo. Dal grido “mai più” sono nate molte cose, per esempio la Corte Penale Internazionale, la giurisdizione sulla “responsabilità di proteggere”“. Oggi cogliamo meglio di allora i segnali di violenza di massa, “ma stiamo fallendo in termini di early action”. Azione rapida. “Paesi che parlano di prevenzione ma poi non fanno corrispondere i fatti alle parole”. Dieng cita i Rohingya in Myanmar, gli Yazidi, come le ultime ferite aperte. “Un’iniziativa che vorrei fosse realtà”: la proposta firmata da oltre 100 Paesi (Italia compresa) per impedire ai Cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza “di usare il diritto di veto su un intervento dell’Onu quando c’è il rischio di genocidio o di violenze contro l’umanità”. Dieng non è un burocrate chiuso in ufficio. Tra i suoi successi cita “la Tanzania, dove abbiamo fermato le violenze tra cristiani e musulmani”. La spina più dolorosa: “I Rohingya. Per oltre sei anni abbiamo lanciato l’allarme. La signora di Rangoon, Aung San Suu Kyi, ha preferito evitare la via scelta da Nelson Mandela”. Già: sono passati giusto 25 anni anche dalla fine dell’apartheid in Sudafrica. “E io credo che ci fosse davvero la possibilità di un genocidio perpetrato dai neri ai danni dei bianchi, se Mandela non avesse cercato la strada della riconciliazione”. Le parole sono importanti. Il mantra di Dieng è “gestione costruttiva delle diversità”. Le parole “possono essere pericolose come le pallottole”. “Le parole possono uccidere” come le lame dei machete, come dimostra la stessa esperienza del Ruanda, dove per mesi e mesi la radio filo-governativa Mille Colline ha vomitato odio contro “gli scarafaggi” tutsi preparando il terreno per i massacri. Ed è cruciale che i crimini non restino impuniti”. Anche se i tribunali non bastano certo a impedire il riaffacciarsi dei mostri. Giustizia e riconciliazione. Dieng cita la Bosnia, dove ha riscontrato “un enorme deficit di riconciliazione. Un piccolo segnale: a Monstar ho visto due scuole sotto lo stesso tetto. Una per i bosniaci e una per i serbi. Questo non è accettabile. Srebrenica può accadere ancora”. L’Europa, secondo l’uomo-cassandra per la prevenzione delle violenze, “deve essere più coraggiosa nel denunciare l’ideologia ultra-nazionalista che sfrutta le paure per piccoli guadagni elettorali. Demonizzare o de-umanizzare gli altri, che siano migranti o minoranze etniche, religiose, sessuali, è una deriva che va fermata”. Anche in Africa, dove i Paesi più a rischio in questo momento “sono Camerun e alla Costa D’Avorio”. Chi previene e chi indaga. Carla Del Ponte, 72 anni, svizzera, ha lavorato come procuratore al Tribunale per l’ex Jugoslavia così come a quello del Ruanda. “Genocidi che potevano essere evitati - dice al Corriere. C’erano i rapporti dei Caschi Blu. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avrebbe dovuto e potuto intervenire”. Del Ponte valuta come un successo il lavoro dei Tribunali: “Pensavamo che quei processi avrebbero avuto anche un effetto preventivo. E invece no. Basta guardarsi attorno. Birmania, Yemen. E la Siria, che secondo me resta l’esempio chiaro della totale impunità attuale per chi commette crimini contro l’umanità”. Del Ponte si dipinge come “assolutamente frustrata. Abbiamo lavorato tutta una vita per questa giustizia, che adesso sembra sparita. Rimango ottimista perché voglio esserlo, ma la situazione è molto, molto grave”. Pensando al Ruanda, il primo ricordo della magistrata svizzera è il caldo pazzesco al tribunale un po’ fatiscente di Arusha. A un certo punto, le hanno tolto l’incarico. “È stato quando ho cominciato ad aprire le inchieste sui tutsi, per crimini di guerra e contro l’umanità. Da Kigali hanno smesso di mandarci i testimoni per i processi sul genocidio. Avevamo elementi per indagare su tredici episodi di violenze di massa, dove i sospettati erano quelli del Fronte Patriottico Ruandese. C’erano le fosse comuni, le testimonianze. Ne parlai con il presidente Kagame, e da quel giorno è stato il gelo. Lui è volato in America, è andato dal presidente Bush, e così il Consiglio di Sicurezza dell’Onu mi ha tolto l’incarico. Ecco che cosa mi ricordo”. E l’aereo abbattuto del presidente? “Avevamo cominciato a indagare anche su quello. Avevo formato un team di investigatori molto bravi. C’erano elementi che facevano pensare al coinvolgimento dei ribelli. Ma quando me ne sono andata, il Tribunale ha fermato tutto. Sia l’inchiesta sull’aereo che sulle tredici fosse comuni”. Il genocidio del Ruanda e le lezioni che non abbiamo appreso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 aprile 2019 Iniziano oggi in Ruanda 100 giorni di commemorazioni del genocidio, di cui ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario. Come tragicamente noto, in soli 100 giorni tra aprile e luglio del 1994 furono uccise oltre 800.000 persone, in maggioranza tutsi, nel tentativo del governo ruandese in carica di eliminare quel gruppo etnico. Tra le vittime vi furono anche hutu che si opponevano al genocidio. Quel genocidio fu pianificato. Il governo ad interim che assunse il potere dopo che l’aereo del presidente Juvenal Habyarimana esplose in volo sui cieli della capitale Kigali, demonizzò intenzionalmente la minoranza tutsi, scegliendo di manipolare ed esacerbare le tensioni già in atto e ricorrendo all’odio nel tentativo di rimanere al potere. All’indomani del genocidio i tribunali di comunità, conosciuti come gacaca, hanno processato oltre due milioni di persone. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha condannato 62 persone, tra cui ex alti funzionari del governo e altre persone che ebbero un ruolo di primo piano nel genocidio. Dopo il genocidio in Ruanda il mondo concordò che l’odio e le politiche divisive non sarebbero mai più stati tollerati. In realtà, lo aveva concordato già dalla fine della Seconda guerra mondiale. Invece, solo un anno dopo ci fu il nuovo “genocidio più veloce della storia”, quello di Srebrenica in Bosnia. Il “mai più” ha dimostrato tutta la sua inutilità coi massacri in Siria e col genocidio degli yazidi perpetrato nel 2014 dallo Stato islamico. Nel 2017 poi, in Myanmar, oltre 700.000 persone di etnia rohingya sono state costrette a fuggire in Bangladesh a seguito di una crudele campagna di pulizia etnica portata a termine dalle forze armate. Migliaia di esse sono state uccise, stuprate, torturate e sottoposte a ulteriori violazioni dei diritti umani. Nei 25 anni successivi al genocidio del Ruanda il mondo ha dunque assistito a innumerevoli crimini di diritto internazionale, spesso provocati dalle stesse politiche di esclusione e demonizzazione usate nel 1994 dal governo ruandese. L’affermazione di quelle politiche erode sempre più pericolosamente i diritti umani. Esponenti politici che cercano di vincere le elezioni a ogni costo inventano in modo cinico e sistematico capri espiatori sulla base dell’identità - religiosa, etnica, razziale o sessuale - spesso per distrarre l’opinione pubblica dall’incapacità dei governi di garantire quei diritti umani che assicurerebbero la sicurezza economica e sociale. Questo ha dato luogo a pericolose narrative del “noi contro loro”, instillando paura e repressione a scapito dell’umanità e del rispetto per i diritti umani. In definitiva, dalla “lezione” del genocidio del Ruanda abbiamo appreso ben poco.