L’Europa ci condanna. Per il ministero di Giustizia il sovraffollamento è un falso problema di Valter Vecellio jobsnews.it , 6 aprile 2019 “Evasi definitivi”. Sono quelli che, qualunque cosa possa accadere, in cella non torneranno più. Sono quelli che un giorno (una notte) fanno una corda con le lenzuola, con i lacci delle scarpe, e si impiccano; oppure inalano gas dai fornelli fino a morirne; o legano un sacchetto di plastica attorno al collo… L’ultimo di questi evasi di cui si ha notizia si chiamava Pietro Carlo A., 48 anni. L’accusa nei suoi confronti: aver ucciso la fidanzata; come siano andate le cose, poco importa, l’uomo era certamente colpevole: lui stesso aveva confessato di aver soffocato la donna, dopo l’ennesimo litigio. Una relazione complicata: entrambi abusano di alcol e droga. Dopo il delitto cerca di darsi la morte con il gas. Lo salvano. Una volta in cella ci riprova. Questa volta ci riesce, a uccidersi. I poliziotti che lo arrestano e poi lo interrogano si rendono conto che l’uomo è profondamente scosso: piange, preda di convulsioni. Dal carcere fanno sapere che Pietro Carlo A. “era monitorato e seguito”. Evidentemente non abbastanza. Portato in ospedale in condizioni disperate, dopo ore di agonie, la morte cerebrale. Una storia come tante, una manciata di righe su un fondo pagina di giornale, sono altre le “notizie” che premono, che urgono, interessano. Poco interessa anche la relazione che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale presenta al Parlamento. Senatori e deputati l’avranno sfogliata distrattamente, forse non l’hanno neppure guardata. Eppure quella relazione è una occasione per riflettere sulla crisi delle carcere e sulla “costruzione positiva di una diffusa cultura dei diritti” come osserva Mauro Palma, presidente, con Daniela De Robert e Emilia Rossi, del collegio di garanzia. Una relazione con cifre, dati, fatti. Per esempio: nel 2018 si sono verificati 64 suicidi; gli atti di autolesionismo sono stati più di diecimila. Vuol dire che chi è senza voce e non è in grado di rivendicare i propri diritti usa il proprio corpo per farsi ascoltare. Si è superata la soglia dei 60.000 detenuti presenti rispetto a una capienza regolamentare di meno di cinquantamila posti. Una cifra “figlia” della scelta di una politica repressiva sulle droghe: oltre il 30 per cento dei detenuti lo sono per violazione dell’art. 73: detenzione e piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vietate; una percentuale analoga riguarda i detenuti tossicodipendenti. L’area della sanzione amministrativa in 28 anni ha riguardato 1.280.000 giovani: per l’80 per cento dei casi sorpresi a fumare uno spinello. Nelle stesse ore arriva il rapporto Space (Statistiche Penali Annuali del Consiglio d’Europa). Certifica che l’Italia è agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri; il nostro paese è tra i peggiori del continente; davanti a noi solo Macedonia del Nord, Romania, Francia. Secondo Space sono dodici i paesi con più di cento detenuti per ogni cento posti disponibili: Macedonia del Nord: 122,3; Romania: 120,5; Francia: 116,3; Italia: 115; Moldavia: 113,4; Serbia: 109,2; Portogallo: 105,9; Repubblica ceca: 105,5; Grecia: 101; Austria: 100; Slovenia: 100.5; Danimarca: 100,5. In media, in Europa, ci sono 91,4 detenuti per ogni 100 posti disponibili. Il 31,1 per cento dell’intera popolazione carceraria italiana è detenuta per reati legati alla droga, contro una media europea del 16,8 per cento. Inoltre, l’Italia ha una percentuale particolarmente alta di detenuti in attesa di giudizio: il 34,5 per cento della popolazione carceraria, contro il 22,4 per cento della media europea. Qualche giorno fa una delegazione del Partito Radicale si è incontrata con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “C’è stato il riconoscimento sia da parte del ministro che da parte del capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria Basentini della realtà di un grave sovraffollamento nelle carceri”, dichiarano i radicali al termine dell’incontro. Sempre secondo quanto riferiscono i radicali, il responsabile del Dap avrebbe detto che “quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani è un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico”. E quei circa diecimila detenuti in più? “Sui temi affrontati c’è una divergenza di fondo. Noi radicali riteniamo che l’esecuzione penale sia illegale e abbiamo chiesto di rientrare nella legalità. Loro hanno tutt’altra opinione. Abbiamo discusso a lungo del criterio con cui vengono calcolati gli spazi a disposizione in cella dai singoli detenuti. Ma c’è stato il riconoscimento sia da parte del ministro che da parte del capo del DAP dell’esistenza di un sovraffollamento strutturale. Divergiamo però, come con tutti i precedenti governi, sul fatto che la pena oggi non corrisponde al dettato costituzionale. Per questo abbiamo fatto presente alcune cifre: sono previsti solo 999 educatori, che sono davvero molto pochi rispetto alle esigenze”. Per le toghe il 41bis è necessario, ma ci sono criticità da superare antimafiaduemila.com , 6 aprile 2019 Lo Voi: più aule con video-sorveglianza. Basentini (Dap): evitare automatismi nelle propoghe. Il 41bis si è dimostrato efficace, è migliorabile, ma necessario. È un parere unanime quello dei magistrati hanno partecipato all’incontro organizzato per i vent’anni dalla fondazione del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, reparto specializzato che si occupa dei detenuti ad alta pericolosità come mafiosi e terroristi. Il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Russo, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e quello di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri non hanno dubbi: resta necessario interrompere con il 41bis i collegamenti con l’esterno per gli affiliati a organizzazioni criminali. “Dal 41bis non si può derogare”, ha detto Bombardieri. “È un pilastro della lotta alla mafia”, ha aggiunto Russo. Anche per il Garante dei detenuti, Mauro Palma “è uno strumento oggi necessario, evitando però ogni afflizione aggiuntiva”, ha puntualizzato. Il 41bis “non è una pena aggiuntiva”, ha chiarito Lo Voi, soffermandosi sulla capacità comunicativa del sistema mafioso anche dietro le sbarre: “All’Ucciardone il 23 maggio 1992 si brindò alla morte di Falcone e il 19 luglio, dopo aver sentito il botto che proveniva da via D’Amelio, un detenuto disse ai suoi “saltò Paoluzzo” riferendosi a Borsellino”. Per questo il capo della procura palermitana, che ha indicato la necessità di “un maggior numero di aule con video-collegamento per evitare di riunire insieme in uno stesso spazio soggetti capaci di capirsi con un sguardo”. “Ci stiamo lavorando sia nelle carceri che nelle strutture giudiziarie”, ha risposto il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Basentini che ha anche richiamato l’attenzione su una criticità: “Bisogna evitare automatismi nelle proroghe del 41bis, specie vicino alla scadenza della pena”, per evitare “un’anomalia: che da un giorno all’altro il detenuto passi dal 41bis alla libertà”. Da Mattarella un freno al populismo giudiziario di Ugo Magri La Stampa , 6 aprile 2019 Il presidente a Scandicci esorta i magistrati a non farsi condizionare dal “clamore mediatico”. Il loro compito è di “applicare la legge”. I giudici non devono cedere alle pressioni mediatiche che, per qualunque tipo di reato, invocano sempre la pena massima e il massimo della pena. È invece compito delle toghe applicare la legge scrupolosamente, senza inseguire gli stati d’animo e tantomeno cercare applausi. In particolare, gli operatori della giustizia non devono mai smarrire il buonsenso: questo ha detto nella sostanza il presidente della Repubblica alla Scuola superiore della magistratura, che ha sede a Scandicci, per l’inaugurazione dei corsi 2019. Da quando è stato eletto, Sergio Mattarella vi partecipa tutti gli anni, e ogni volta si sforza di difendere i capisaldi della civiltà giuridica. Stavolta, sullo sfondo del suo discorso, c’è il cosiddetto “populismo giudiziario” che fa leva sulle rabbie collettive e va forte soprattutto sui social media. Sui social il magistrato è a rischio - Il capo dello Stato invita le giovani toghe a fare parco uso di questi strumenti che, “se non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo” degli operatori di giustizia e “offuscarne” il prestigio. Ma la raccomandazione più calda del presidente è a non farsi condizionare dai like e dai tweet, a non lasciarsi “suggestionare dal clamore mediatico alimentato intorno ai processi, poiché le decisioni della magistratura non devono rispondere alla opinione corrente - né alle correnti di opinione - ma soltanto alla legge”. Tantomeno, insiste Mattarella, “deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto “sentimento popolare”, che condurrebbero la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole del diritto”. Sbagliato giudicare a furor di popolo - Dal Colle si scorge il rischio di una deriva giustizialista della quale sono testimonianza frequenti casi di cronaca, con i giudici messi alla gogna per non avere inflitto ai condannati punizioni esemplari e per avere cercato, ove possibile, un bilanciamento tra i diversi diritti garantiti dalla Costituzione. Alcuni di questi attacchi sono stati guidati da esponenti politici che cavalcano le paure da loro stessi instillate. Il presidente esorta le nuove leve della magistratura a non farsene intimorire; rammenta loro che “anche per questa ragione nel nostro sistema la magistratura non è composta da giudici o pubblici ministeri elettivi e ovviamente”, aggiunge Mattarella, “neppure da giudici o pubblici ministeri con l’obiettivo di essere eletti”. Solo così la magistratura può essere davvero indipendente. A chi parla Mattarella sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio , 6 aprile 2019 Le parole contro la strumentalizzazione dei processi e lo spassoso plauso del M5S. La magistratura non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico alimentato intorno ai processi, poiché le sue decisioni non devono rispondere alla opinione corrente - né alle correnti di opinione - ma soltanto alla legge. Non deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto “sentimento popolare”, che condurrebbero la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole del diritto”. Con questo duro monito contro la strumentalizzazione mediatica delle vicende giudiziarie, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto ieri all’inaugurazione dell’anno formativo della Scuola superiore di magistratura. Il messaggio del Capo dello stato è stato accolto con toni entusiastici dalla compagine governativa, in particolare dal M5s. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha detto di “condividere” gli inviti alla “sobrietà” e all’“equilibrio” di Mattarella, mentre la grillina Francesca Businarolo, presidente della commissione Giustizia della Camera, ha definito quella del Capo dello stato “una grande lezione”. Eppure, a ben vedere, il richiamo di Mattarella, più che rivolgersi alle giovani toghe, sembra mettere nel mirino proprio la linea tenuta negli ultimi 12 mesi dagli esponenti del governo gialloverde attorno alle vicende giudiziarie, improntata su un’esaltazione degli istinti più forcaioli dell’opinione pubblica, spesso sfociata nella delegittimazione dello stesso operato della magistratura. Si è partiti con l’individuazione del capro espiatorio attorno al crollo del ponte Morandi, si è passati attraverso la costante critica in pubblico delle decisioni adottate dai giudici su alcuni casi molto in vista (l’omicidio Vannini, la tragedia del bus di Avellino, la famosa sentenza sulla “tempesta emotiva”, che poi tale non era, il più recente presunto stupro nella stazione Circumvesuviana), e si è infine arrivati addirittura a proporre, con una riforma costituzionale ora in discussione, l’introduzione di referendum propositivi anche in materia penale. Insomma, è come se uno studente, dopo essere stato rimproverato dal preside, dicesse: “Grazie signor preside, la sua è stata una lezione fantastica”. Prescrizione, la Lega riapre lo scontro di Andrea Fabozzi Il Manifesto , 6 aprile 2019 La ministra Bongiorno avvisa il collega Bonafede: non c’è alcun accordo sul nuovo processo penale e senza udienze più veloci la riforma non può entrare in vigore, con i 5 Stelle siamo stati chiari. “Assolutamente non si può parlare di accordo raggiunto”. Giulia Bongiorno, nel governo responsabile della pubblica amministrazione ma per la Lega ministra ombra della giustizia, smonta in tv l’ottimismo del guardasigilli titolare Alfonso Bonafede. Che ancora l’altro giorno aveva diffuso il quotidiano ottimismo. Lo stesso con il quale aveva annunciato “entro febbraio” il disegno di legge delega per la riforma del processo penale. In realtà non si è visto, e non è nemmeno dietro l’angolo. Difficile che, come tante altre cose, veda la luce prima delle elezioni europee. Un problema per la maggioranza, perché a questo punto è quasi impossibile che ci sia il tempo per approvare il disegno di legge e poi vedere esercitata la delega del governo entro la fine dell’anno. Con l’inizio del 2020, infatti, scatterà l’abolizione della prescrizione dopo il giudizio di primo grado. Gli accordi tra i 5 Stelle, che hanno voluto mettere questa norma nella legge anti corruzione, e la Lega, che ha sùbito l’aggiunta, erano che si sarebbe arrivati a quella data con i nuovi strumenti già in vigore, per accelerare i processi. Nei tribunali, infatti, l’avvicinarsi della prescrizione funziona come tagliola per le cause più lunghe. Tolta quella, i processi rischiano di diventare infiniti per i colpevoli e per gli innocenti. Bongiorno ieri lo ha ribadito: la riforma della prescrizione “può entrare in vigore purché prima si accelerino i processi”. Su questo, ha aggiunto, “con i 5 Stelle siamo stati chiari”. È l’anticipo di un nuovo scontro, perché per come è stata scritta la legge anti corruzione, lo stop alla prescrizione partirà comunque, anche senza la riforma del processo penale. La Lega dovrebbe provare a ottenere un (ulteriore) rinvio. Ma intanto sulla giustizia - anche sulla giustizia - i due partiti di governo sono lontanissimi. Bongiorno ieri ha fatto capire che la Lega non accetterà tutte le misure volte a rendere difficile la ricorribilità in appello, sulle quali invece il ministro ha già ottenuto il via libera dai magistrati (ma non dagli avvocati penalisti). “Io non voglio che si levino pezzi di processo, tantissime persone condannate in primo grado vengono poi assolte in secondo grado”, ha ricordato la ministra. Secondo la quale il problema dei processi infiniti “si risolve dando dei termini precisi ai vari adempimenti”. Che è però quello che c’era prima dell’intervento grilloleghista sulla prescrizione: termini precisi per ogni grado di giudizio. Bongiorno in realtà pensa di dare una scadenza soprattutto alle indagini preliminari - c’è già ma c’è anche la possibilità di proroga. Infine la ministra assicura: “La Lega non è manettara, siamo garantisti”. Per esempio proporrà “una più rigorosa applicazione delle misure cautelari”. Evidentemente per far dimenticare tutte le idee sulla castrazione chimica e sul “marcire in galera”, l’affossamento delle misure alternative al carcere e il divieto retroattivo di accesso alle pene alternative che è contenuto nella stessa legge anti corruzione. Ed è già stato mandato, da due diversi giudici, davanti alla Corte costituzionale Separazione giudici-pm, rilancio Lega. “E niente accordi sul nuovo processo” di Emilio Pucci Il Messaggero , 6 aprile 2019 La prossima settimana M5S e Lega rischiano una nuova frattura sui temi della famiglia. Nell’Aula della Camera la maggioranza potrebbe dividersi su una mozione presentata da FdI (lunedì la discussione generale, il voto è previsto per giovedì) che mette “la famiglia naturale al centro dello Stato” e chiede “un imponente piano di incentivo alla natalità”. Tra i 5Stelle è già scattato l’allarme: “Il ministro Fontana sta preparando un documento. Ci spaccheremo di nuovo...”. Il riferimento è a quanto accaduto mercoledì scorso su un ordine del giorno, sempre di FdI, sulla castrazione chimica dopo la decisione della Lega di ritirare il proprio emendamento, inserito all’interno del codice rosso. In quell’occasione Giulia Bongiorno ha parlato direttamente con il premier Giuseppe Conte. “Facciamo un passo indietro - la spiegazione -, ma devi far ragionare Bonafede, così non si può andare avanti. Perché anche sulla riforma del processo penale non siamo d’accordo su niente”. A chiamare Conte è stato anche Matteo Salvini: “Dobbiamo affrontare il tema della giustizia, non è possibile che M5S faccia le barricate”. Il capo dell’esecutivo ha promesso che cercherà una sintesi anche su questo argomento, ma intanto ieri il ministro della Pubblica amministrazione ha certificato lo stallo: “Sul processo penale - ha sottolineato - più volte la Lega ha fatto riunioni con il ministro Bonafede: non si può parlare assolutamente di un accordo raggiunto. Per noi è una priorità che i processi siano accelerati”. Le trattative sono ferme. Nella Commissione Giustizia della Camera arriverà nei prossimi giorni la riforma del processo civile. La Lega ha ricevuto la bozza dal ministero di via Arenula ma anche su questo fronte i tempi potrebbero allungarsi. Si riaffaccia quindi lo scontro andato in scena qualche mese fa. Il blocco della prescrizione (voluto da M5S) “può entrare in vigore purché prima si accelerino i processi. Su questo, con i 5Stelle siamo stati chiari”, puntualizza la Bongiorno. “Noi - insiste - vogliamo una riforma efficace perché sette anni di processo sono un massacro. Il tema si risolve dando un termine preciso alle procedure, ad esempio sulle indagini preliminari ci devono essere termini perentori, non ci può essere un’indagine a vita”. E,soprattutto, senza nuovo processo, per la Lega non può entrare in vigore la nuova prescrizione. Nessuna risposta del Guardasigilli. Gelo da parte dei pentastellati. La Lega in ogni caso non demorde. Dopo le Europee riaprirà anche questo capitolo. Anzi, di più: rilancerà la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, dividendo in due il Csm. Un vecchio cavallo di battaglia del partito di via Bellerio. Più di un anno e mezzo fa era stato lo stesso Salvini a firmare la legge di iniziativa popolare sponsorizzata dalle Camere penali. Legge fatta propria da FI e approdata in Commissione Giustizia a Montecitorio (la prossima settimana inizieranno le audizioni). Proprio per spingere sulla separazione dell’ordine giudiziario in due distinte categorie è nato un intergruppo parlamentare che conta una cinquantina di deputati. Il promotore è l’azzurro Costa: “L’auspicio - sottolinea - è che il governo non si metta di traverso e che funga da stimolo. I tempi sono maturi, si può registrare una convergenza in Parlamento”. La prima riunione si è tenuta qualche giorno fa. A parlare è stato il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Alla presenza di un fronte bipartisan che comprende pure gli esponenti di M5S Cataldi e Flora. La maggior parte degli iscritti all’intergruppo arriva da FI (tra questi Bartolozzi, Sisto, Zanettin, Cassinelli), ma ci sono membri del Pd come Giachetti, Scalfarotto, l’ex ministro Fedeli e Parrini; di Leu (Conte), di +Europa (Magi), del gruppo Misto (Vitiello e Colucci), di Svp (Durnwalder), di Fdi (Frassinetti, Mollicone, Varchi e Lucaselli) e della Lega (Basivi, Pagano, Paolini e Tiramani). “Noi siamo da sempre favorevoli a questa battaglia”, afferma Tiramani. “È l’Italia ad essere un’eccezione”, osserva Paolini. “Più avanti metteremo in agenda anche questo tema”, promette il capogruppo della Lega in commissione Giustizia, Turri. Sulla riforma del processo penale tensioni avvocati-Bonafede di Patrizia Maciocchi e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore , 6 aprile 2019 Mascherin: sull’avvocato in Costituzione il ministro ha mantenuto le promesse. Avvocati di lotta e di governo. Si è aperto ieri a Roma il Congresso nazionale forense, una sessione ulteriore dopo il congresso “ordinario” di Catania, per discutere, alla presenza di mille avvocati, della riforma del processo penale e civile e di giurisdizione. Una platea alla quale è stato annunciato lo sciopero indetto dalle Camere penali dall’8 al io maggio, ma anche il deposito, giovedì sera, del Ddl sull’avvocato in Costituzione da parte dei capigruppo della Commissione giustizia del Senato di Lega e5 stelle. “Diamo atto al ministro Bonafede di aver mantenuto il suo impegno - dice il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Una norma, inserita nell’articolo in della Carta che codifica il ruolo dell’avvocato nel processo, sottolineando l’esercizio dell’attività in posizione di libertà autonomia e indipendenza. La scelta è stata condivisa da tutte le forze in Parlamento”. Ma se, da una parte, il ministro incassa il riconoscimento del Cnf, dall’altra deve registrare il disappunto dell’Organismo congressuale forense per aver disertato il Congresso. “Purtroppo notiamo l’assenza del ministro in un momento difficile del dibattito sulla giustizia - dice il coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico, un’occasione persa per confrontarsi sui temi caldi”. Al momento il dialogo tra avvocatura e governo è concentrato su due tavoli di lavoro dedicati alla riforma del processo penale e civile. E se nei tavoli si respira un’atmosfera collaborativa - come sottolineato anche da Malinconico, da Mascherin e dal presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza, a inquietare gli avvocati è quel che il governo fa in autonomia. I penalisti incrociano le braccia contro il “cupo e cinico populismo giustizialista”. Il pollice verso è a largo spettro: dall’eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo, alla disciplina sulla legittima difesa bollata come propagandistica, dalla drammaticità della violenza di genere, che non trova altra risposta se non l’inasprimento delle pene e l’idea “barbarica” della castrazione chimica, alla “spazza-corrotti” priva di una norma transitoria per sospendere le pene per i vecchi reati, fino al decreto sicurezza che amplificale contraddizioni sociali. Nel cahier de doleance anche la situazione delle carceri e la prescrizione che ferma gli orologi dopo il primo grado. Sembrerebbe abbastanza per parlare dell’ennesima frattura con l’avvocatura. Ma il presidente del Cnf Andrea Mascherin smorza i toni. “Non c’è nulla di nuovo, le critiche sollevate sono note e ci auguriamo che il dialogo con il governo porti a scelte condivise”. Per il governo le tensioni con gli avvocati non sono l’unico ostacolo: tra le divergenze all’interno dell’esecutivo c’è anche l’assenza di un accordo, come annunciato ieri dal ministro Giulia Bongiorno, sulla riforma del processo penale. Per Bongiorno, la necessità di accorciare i tempi dei processi non può comprimere le garanzie. Si sta arrivando a definire una tipologia di reati e di pene con la fotografia di Mauro Mellini L’Opinione , 6 aprile 2019 La tendenza attuale è quella di commisurare l’entità delle pene al clamore mediatico suscitato da certi fenomeni. Ammetto di avere il torto di essere vissuto troppo a lungo. Ma è in questi ultimi anni e mesi che ne sto vedendo di tutti i colori. E dire che alle soglie della mia giovinezza mi ero illuso, nientemeno, di poter vivere in un’era di ritorno alla ragione, alle regole certe, cioè alla libertà. Per di più sono andato a fare l’avvocato, l’“uomo di legge”. Così mi trovo, alla mia ragguardevole età, a che fare con fenomeni incomprensibili, che sono la negazione di quel trionfo della ragione, della stagione illuminista, interrotta ma non distrutta dal fascismo. Pensate che ho sempre, fino a oggi, ritenuto che compito del cosiddetto giurista (cosiddetto è sopravvenuto) fosse quello di confrontare ogni fatto socialmente negativo o meno e pericoloso o meno, con la legge. Pensavo, questo mi avevano messo in testa, che in un certo libretto, in genere di piccolo formato, detto “Codice Penale” ci fosse quanto dovesse bastare per vedere se ogni fatto fosse lecito o illecito, da potersi, volendo, compiere liberamente, oppure illecito così che lo Stato promette a chi voglia rendersene responsabile, quel tanto di pena che una graduazione generale di quel tanto di pena da infliggere per ogni specifica (cioè ben precisata e descritta) ipotesi di “illecito penale” con eventuali diminuzioni o aggravanti per altrettanto specifiche “circostanze”. I codici avevano lunga vita. Quando ho varcato i cancelli dell’Università il Codice era poco ancora giovane, risaliva ad alcuni anni prima, al 1930. C’erano, da parte di professori e studenti, continui riferimenti al “Vecchio Codice” che risaliva, nientemeno, a Giuseppe Zanardelli. Oggi, se vado in una libreria e chiedo una copia del Codice, mi rispondono che hanno solo quello dello scorso anno. Sissignori. Il Codice, che è ancora il Codice “fascista” del 1930, è stato manipolato, modificato, aggiustato (cioè per lo più peggiorato) continuamente. E le case editrici mettono sulle copie “aggiornate” l’anno dell’edizione, scritto con caratteri cubitali: “2016”, “2018”. In uno studio legale per i codici ci vuole un’apposita scansia. Oramai età, circostanze, reazioni psicologiche mi hanno imposto di non tenere più dietro alle “innovazioni”. Voglio vivere più serenamente possibile gli ultimi anni della mia vita. Ma a turbarmi sono i titoli dei giornali, le voci di mezzibusti televisivi che oramai snocciolano in inglese, in un più o meno approssimativo italiano, il lessico delle “novità”, di nuovi reati e di nuovi istituti giuridici. Giuridici, per modo di dire. Sono quelli dello stalking, dell’“omicidio stradale” e, poi, la “nuova legittima difesa” (che non è nuova e che non ti difende manco per il cavolo). La scala dei disvalori delle varie fattispecie di reato con la corrispondente scala delle pene è stata completamente stravolta. A essa è stata sostituita una graduatoria secondo le esigenze, al momento, della “lotta” a questa o quella forma di criminalità. La tendenza, però, è quella a commisurare l’entità delle pene al clamore mediatico di certi fenomeni. Ma, sempre più velocemente, sopravanza la tendenza ad adeguare le pene per tutti i reati di un certo tipo al clamore e alle impressioni suscitate dall’ultimo caso che di tale crimine si è verificata. E a farne un “nuovo” reato più grave. C’è il rischio che scompaia e venga sostituito il più antico dei crimini: l’omicidio. Oramai i pennivendoli dei più autorevoli giornali si stanno adeguando al nuovo termine, dovuto ai lumi della scienza di non so quale tanghero: se è uccisa una donna non è “omicidio” ma, nientemeno, “femminicidio”. Se l’innovazione farà presa è ineluttabile che nasca il “maschicidio”, il “gaycidio”, il “bambinicidio”, il “vecchicidio”. E ineluttabile sarà pure l’“adeguamento” delle pene alle “diversità” mediatiche di così svariati crimini. Un crimine diverso per ogni fatto diverso. Ed una pena diversa, non solo per discrezione del giudice, non solo per aggravanti e diminuenti. Ma per il nuovo “genere”: diciottennicidio, atleticidio, bellicidio, brutticidio. Leggo in un titolo di un giornale: “Arriva il reato di ricatto sessuale”. Ricatto, estorsione sono reati da sempre, quale che sia lo strumento, la minaccia. Di che si tratterà? Per quanto ciò mi faccia semplicemente incazzare, finisco per sorprendermi e interrogarmi di che si tratti e che cosa ci sia di “nuovo”. Finisco però con il correre con il pensiero a questa “rivoluzione lessicale” del diritto. Solo lessicale? Il diritto, in mano ai Toninelli, (ed ai suoi compari) va semplicemente a farsi benedire. La legittima difesa come metafora di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione , 6 aprile 2019 A cose fatte (per ora, mentre già s’annunciano contromisure direttamente o indirettamente restrittive), la nuova legge sulla legittimità della difesa può essere riguardata come una metafora della mentalità del progressismo italico, che è del resto molto variegato. Lasciamo stare il richiamo al Far West, che, quando non evoca i ricordi giovanili della stagione cinematografica dei western americani e degli spaghetti western nostrani, costituisce soltanto un maldestro riferimento storico e giuridico perché nel duello all’americana la legittima difesa era implicita ed insindacabile giudiziariamente in quanto chi estraeva per primo la pistola, se sparava in ritardo, restava ferito o ucciso da chi estraeva la pistola per secondo. Quindi, di fatto, i duellanti versavano dall’inizio in condizioni di reciproca difesa legittima (una proporzionalità ante litteram, sembrerebbe!). Prendiamo invece la prima, più onnicomprensiva obiezione alla nuova legge: è lo Stato che deve garantire la sicurezza dei cittadini. Vero. La funzione primordiale dello Stato è proprio questa: difendere i cittadini verso l’esterno e verso l’interno. Ma chi sono quelli che invocano tale protezione nel caso specifico? Proprio quelli, appunto, che amano lo Stato “pacifista”, disarmato, in politica estera e “buonista”, indulgente, in politica interna. Tale obiezione, in genere, non evidenzia soltanto l’ipocrisia di chi la prospetta, ma anche la sua fragilità argomentativa. La necessità, dunque la legittimità, della difesa personale riguarda, in base a ciò che accade di norma, fattispecie nelle quali, per definizione, l’intervento delle forze di polizia non c’è o non ha potuto verificarsi in tempo utile a scongiurare la reazione vitale, violenta, della vittima. La legittima difesa, che la legge garantisce, riguarda un “momento spaziotemporale” contraddistinto da una condizione di “assenza virtuale” dello Stato: momento e condizione nei quali vige il principio, pur’esso di diritto, vim vi repellere licet, risalente nientemeno al Digesto che lo codifica traendolo dalle origini della legge romana. Pare pertanto che solo politici faziosi e intellettuali poco intelligenti possano biasimare e condannare la difesa personale invocando l’esclusiva statale nelle ipotesi in cui lo Stato non c’è per assunto. La verità incontestabile è che la legittima difesa, in se stessa, non avrebbe neppure bisogno della sanzione di una legge, iscritta com’è nella natura atavica dell’essere umano, sia agente sia giudicante. Un’altra obiezione alla legittimità della difesa personale è che essa equipara la proprietà privata alla vita umana giacché esclude la punibilità di chi preserva i suoi beni a scapito della salute del delinquente che gliel’insidia con minaccia, forza, inganno, violandoli. Qui emerge con prepotenza il pregiudizio illiberale contro la proprietà materiale, distinguendola dalla vita del proprietario. Ma la libertà dell’individuo non è che la proprietà del suo corpo, come insegna Locke, un po’ più autorevole di codesti oppositori, i quali invocano “i diritti inviolabili dell’uomo” contemplati malamente dall’equivoco articolo 2 della Costituzione, dimenticando invece che i diritti naturali sono stati teorizzati, affermati, prescritti da Locke con le seguenti immortali parole: “L’uomo ha dunque per natura il potere non solo di conservare la sua proprietà - cioè la vita, la libertà e i beni - (l’inciso è di Locke, il corsivo è nostro!) contro le offese e gli attentati degli altri uomini, ma anche di giudicare e punire le altrui infrazioni a quella legge, con la pena ch’egli è convinto quel reato meriti, perfino con la morte nel caso di crimini la cui efferatezza, a parer suo lo richieda. Ma, poiché nessuna società politica può darsi o sussistere se non ha in sé il potere di salvaguardare la proprietà e, in vista di ciò, punire le infrazioni commesse da tutti coloro che a quella società appartengono, la società politica si dà lì e solo lì dove ogni singolo ha rinunciato a quel naturale potere e lo ha affidato alla comunità in tutti i casi in cui non sia impedito dal chiedere protezione alle leggi da essa stabilite” (John Locke, “Trattato sul governo”, a cura di Lia Formigari, Editori Riuniti, 1974, pagina 113). Il giudice di Torino si scusa. In Italia 50 mila “graziati” da sentenze non eseguite di Luigi Ferrarella Corriere della Sera , 6 aprile 2019 Il caso dell’assassino di Stefano Leo condannato ma libero. Magari fosse solo “un” errore, e magari riguardasse solo Torino, il fatto che l’assassino, il 23 febbraio, di Stefano Leo, Said Mechaquat, avesse alle spalle una condanna a 18 mesi (per maltrattamenti familiari nel 2013) emessa nel 2016 e divenuta definitiva nel maggio 2018, ma da allora non ancora trasmessa dalla Corte d’appello alla Procura per l’esecuzione. Sarebbe persino consolante. E invece, in giro per le Corti d’appello d’Italia, sono almeno 50.00o le sentenze irrevocabili non ancora messe in esecuzione a causa delle carenze dei cancellieri, che devono svolgere tutti quei successivi adempimenti necessari a produrre gli effetti di una sentenza. “Siamo qui da esseri umani prima ancora che da magistrati”, e “come rappresentante dello Stato mi sento di chiedere scusa alla famiglia di Stefano Leo”, rimarca ieri il presidente della Corte d’appello torinese Edoardo Barelli Innocenti con voce che gli si incrina per la commozione: “Ho anche io un figlio e, fosse successo a me, anche io sarei mortificato. Sono qui a prendermi pesci in faccia”, aggiunge, “ma è solo colpa nostra? Vengano a vedere in che condizioni siamo in cancelleria. Come capo dell’ufficio non distinguo tra giudici e cancellieri, ma la massa di lavoro è tale che, con le attuali forze, non posso garantire che quello che è successo non possa capitare di nuovo”. Le statistiche ministeriali non estraggono questo dato, e dunque è solo con una ricerca del Corriere ieri in alcune grandi sedi che si riesce ad afferrare le dimensioni del fenomeno, ben noto senza bisogno che a far finta di meravigliarsi arrivi ora il solito annuncio dell’“invio degli ispettori”. Dovunque è una corsa disperata a cercare di stare in pari con le sentenze a pene da eseguire in carcere (cioè quelle o oltre i 4 anni o per reati ostativi alle misure alternative), mandando però in coda l’esecuzione di quelle per reclusioni sotto i 4 anni (il cui ordine di carcerazione verrebbe per legge sospeso per consentire al condannato di chiedere entro 3o giorni al Tribunale di Sorveglianza una misura alternativa). In Corte d’appello a Torino, dove l’acceleratore dei giudici è passato a decidere da 70 a 160 verdetti al mese, l’imbuto di cancelleria fa però poi sì che i possibili “Said” accumulatisi siano almeno 10.00o (957 solo nella sezione del processo a Said). Roma, che sino a qualche tempo fa aveva un arretrato di 21.500 fascicoli risalenti persino a verdetti del 2007, dopo un enorme sforzo della Corte d’appello in un progetto sostenuto dalla Regione Lazio è scesa all’inizio del 2018 a comunque 15.500 fascicoli di arretrato. Se Palermo dichiara un lusinghiero equilibrio quasi in tempo reale, la Corte d’appello di Napoli invece è arrivata a stimare un arretrato di 20.000 sentenze irrevocabili da mettere in moto. Milano, in pari con le sentenze a pena da eseguire in carcere, ma sulle altre in passato giunta a sfiorare le 5.000, ora viaggia con 5 mesi di sfasamento, pari ieri ad ancora 1.537 sentenze alle quali dar corpo, e con un progetto mirato punta ad abbassare la media a 4o giorni. Brescia da 4.000 è scesa sulle ancora 2.50o sentenze da eseguire, e pure Venezia ne stima 2.000. Il denominatore comune è la carenza di cancellieri sino a un picco di 9.000 unità mancanti in 20 anni senza assunzioni, con una scopertura nazionale attorno al 22% e punte del 30% in alcuni distretti del Nord. Carenza ancor più avvertita in Appello, dove un quarto del lavoro delle già sguarnite cancellerie è assorbito da compiti amministrativi pure imposti dalla legge ma non attinenti i processi (esami avvocati, collegi elettorali, spese di giustizia, manutenzione degli uffici, ecc.). Va dato atto all’ex ministro Orlando (governo Renzi-Genfiloni) di aver bandito, appunto dopo due decenni, il primo concorso peraltro di dimensioni mostruose, partecipato da oltre 300.00o candidati; e all’attuale ministro Bonafede (governo Conte) di stare proseguendo su questa direttrice con soldi veri. Solo che i pur preziosissimi 5.50o assunti dal 2014 a oggi hanno appena pareggiato i corrispondenti pensionamenti di una categoria dall’età media ormai alta appunto a causa del lungo blocco di concorsi e turnover. E le ulteriori 4.30o assunzioni, che l’attuale governo ha finanziato per i prossimi tre anni, dovranno fare i conti non solo con i pensionamenti fisiologici, ma anche con le maggiori possibilità offerte dalla legge su “quota cento” a un bacino di pensionandi che persino la più prudenziale proiezione stima non inferiore alle 3.00o uscite su 10.00o dipendenti teoricamente interessati nei tre anni. Viterbo: un carcere dove vige il terrore. Il governo intervenga subito di Patrizio Gonnella Il Manifesto , 6 aprile 2019 “Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie”. “Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici”. “Hanno tre squadrette solo per menare detenuti”. “Aiutatemi ad andare via da questo carcere”. “Se dico qualcosa qua mi menano”. “Qui si cerca di sopravvivere alle ingiustizie e restare al proprio posto, sempre con i nervi saldi. Sempre più torno a convincermi di trovarmi in un mondo infernale. Si ricevono umiliazioni da parte delle guardie quando nelle perquisizioni che effettuano settimanalmente lasciano la tua cella sottosopra… La divisa che indossano dà loro un potere, non dà loro nessun onore e possono quindi infierire sul detenuto, come e quando vogliono, renderlo indifeso… sono diverse le storie di percosse che han subito alcuni detenuti della mia stessa sezione e rimangono celate nel silenzio. Qui si vive con la paura individuale, il buio, gli incubi. Per ora ancora sopravvivo, ma quando uscirò da questa struttura lotterò perché la verità esca fuori”. “Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Un trauma alla testa per le pizze e pugni che ho preso senza motivo perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai… Io gli rispondo che fate i mafiosi con me senza motivo… Passano quattro o cinque minuti e mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo”. Questi sono soltanto alcuni degli estratti di lettere arrivate ad Antigone da differenti detenuti reclusi nel carcere di Viterbo nell’ultimo anno e mezzo. Estratti drammatici che ci possono far solo immaginare cosa significhi vivere nel terrore della violenza che da un momento all’altro si potrebbe abbattere sul proprio corpo, distruggendo la propria psiche. Non è finita. Il 9 gennaio 2018 nel carcere Mammagialla di Viterbo si toglie la vita Abouelfetouth Mahomoud, vent’anni. Il 21 maggio Andrea Di Nino, trentasei anni, si suicida anche lui. Il 30 luglio 2018 si ammazza Assan Sharaf, ventuno anni. Tre suicidi in sette mesi non possono non destare allarme. Un brutto, nero 2018 che ha avuto una tragica appendice qualche giorno fa con l’omicidio di un detenuto da parte di un altro ristretto, sempre nella stessa prigione. Il sistema carcerario italiano è articolato, complesso. Così come molte altre istituzioni, anche quelle penitenziarie si presentano in modo molto poco omogeneo. Vi sono luoghi dove l’impegno di direttori, poliziotti e operatori sociali è tutto orientato, tra mille difficoltà, a muoversi nella legalità. Dunque ogni generalizzazione sarebbe ingiusta e scorretta. Detto questo, di fronte a tante lettere disperate, tre suicidi, un omicidio (anche se quest’ultima è un’altra storia) è dovere delle autorità pubbliche e della magistratura aprire i riflettori su quel carcere, restituire speranza a chi vive nel terrore, far entrare nel carcere Mammagialla di Viterbo i giornalisti, velocizzare le inchieste penali e amministrative che sappiamo essere pendenti, specializzare (come ha fatto la procura di Napoli) nuclei investigativi nei casi di abusi su persone private della libertà. Il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi ha preannunciato iniziative in attesa degli esiti delle ispezioni in corso. Sarebbe importante che lo Stato si costituisca parte civile nel caso in cui i procedimenti penali vadano avanti. La violenza diffusa è un modello antropologico di dominio sui corpi e non è solo la cattiveria di uno o di tanti. Il problema, sempre che si accerti che quelle violenze ci sono state (e sappiamo quanto è difficile accertarlo in un luogo chiuso, opaco, appartato quale è il carcere), è smantellare un modello dove lo spirito di corpo colpisce tutti e tutto, capire perché possa accadere che non ci siano persone in divisa o non che obiettino coscienza, che si ribellino alle illegalità. È necessario che l’inchiesta sveli il meccanismo della violenza, individui i complici oltre che i colpevoli. *Antigone Aversa (Ce): non li maltrattava, anzi aiutava i suoi detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 6 aprile 2019 Assolti il direttore dell’ex Opg e altri 16 tra psichiatri e medici di guardia. Assolto l’ex direttore del vecchio ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Non solo è innocente, ma è stato colui che ha sempre portato avanti una battaglia culturale contro i metodi coercitivi contemplati dal vecchio sistema manicomiale. Ed è vero. Adolfo Ferraro, l’ex direttore, in quanto componente della commissione Sanità e giustizia varata dal Parlamento, si era fatto promotore di un emendamento, poi approvato, che in pratica dimezzava il suo ruolo di direttore, perché equiparava gli Opg a strutture sanitarie. Ferraro, infatti, ha sempre creduto di poter curare i malati psichiatrici con metodi non violenti. È stato lui a togliere i letti di contenzione con il progetto “Le ali ai letti”. Ha denunciato più volte quello che non andava negli Opg con Dario Fo e con altri artisti. Ma non solo. Per aiutare i detenuti, ha anche ricevuto minacce, tanto da dover denunciare per diffamazione gli ex agenti penitenziari che vi operavano, visto che avevano resistenze culturali nei confronti di una diversa modalità di trattamento, più umana. L’accusa nei sui confronti era quella di aver fatto il contrario, ovvero di aver lasciato i malati senza attività trattamentali. Nel corso del processo, invece, si è dimostrato il contrario. Infatti, un paziente sentito come teste contro l’ex direttore, non solo ha parlato male degli agenti, ma ha detto anche “il dottore Ferraro mi ha salvato la vita”. Ferraro fu anche vittima di un attentato incendiario. Fu lui l’artefice del famoso decreto legge, quello del 2008, che fece passare l’assistenza sanitaria penitenziaria, all’istituto nazionale sanitario. Un primo passo, anche per il graduale superamento degli Opg. Oltre all’ex direttore, sono stati assolti anche gli altri imputati. Per tutti, 16 tra medici psichiatri e medici di guardia dell’allora Opg di Aversa, senza alcuna distinzione, l’accusa aveva avanzato la stessa richiesta di condanna: 2 anni e 2 mesi di carcere ciascuno, senza la sospensione condizionale della pena. Secondo l’accusa gli ex detenuti sarebbero state costretti a restare a letto per un periodo superiore a quello consentito e qualcuno sarebbe addirittura rimasto fermo nel letto per diversi giorni senza che nessuno si prendesse cura di loro. Quello di Aversa è stato il primo manicomio d’Italia, voluto da Gioacchino Murat nel 1813. La Real Casa dei Matti, poi rinominata Ospedale psichiatrico Santa Maria Maddalena, nata originariamente da un convento ( la Maddalena appunto), si è nel corso di quasi due secoli estesa sino a raggiungere una superficie di 170mila quadrati. Poi, nel 1998, dopo venti anni dall’approvazione della legge Basaglia, finalmente la chiusura definitiva, per poi però convertirlo in un ospedale psichiatrico giudiziario. Nel corso di due secoli, il manicomio civile di Aversa è stato il luogo di tutte le sperimentazioni psichiatriche, sia quelle “terapeutiche” che quelle architettoniche. Qui si sono sperimentati i letti di contenzione, l’elettrourtoterapia, il coma insulinico, l’ergoterapia, i primi neurolettici negli anni Cinquanta. Migliaia di donne e uomini, senza speranza di cura o libertà, avevano riempito le mura, tanto da costringere a una costante ricerca di spazi e nuove celle. Cambiò poco però quando divenne, appunto, un Opg. Le denunce del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e della Commissione di inchiesta presieduta da Ignazio Marino dimostrarono l’attualità di questa storia. I manicomi non possono essere altro che luoghi di violenza e sopraffazione. La storia ha insegnato non solo la necessità di chiuderli, ma anche di superare ogni dispositivo di internamento psichiatrico e le forme di violenza che trasformano i medici in custodi e i sofferenti psichici in eterni prigionieri. Salerno: rissa tra detenuti; detenuto in codice rosso, contusa anche direttrice Il Fatto Quotidiano , 6 aprile 2019 Forti tensioni e diversi feriti, di cui uno ricoverato in codice rosso, ieri, nel carcere di Salerno, a causa di una violenta rissa che ha visto contrapposta una ventina di detenuti - secondo quanto si apprende - appartenenti a gruppi contrapposti di salernitani e napoletani. Lo rende noto il sindacato Uspp. Le violenze, che sarebbero scoppiate per ribadire la leadership nell’istituto di pena, si sono verificate nella prima sezione, dove sono ubicati detenuti per reati comuni: tra coloro che hanno riportato delle contusioni figura anche la direttrice, Rita Romano. La rissa è stata sedata dopo qualche ora, dal personale in servizio nell’istituto di pena, anche grazie all’apporto di rinforzi del nucleo operativo. Sempre secondo quanto si apprende, i detenuti di una delle fazioni sono riusciti ad arrivare in contatto con i rivali dopo essere entrati in possesso delle chiavi dell’area detentiva dove si trovavano gli antagonisti. Genova: molotov sui migranti, la follia di 4 studenti. “Volevamo divertirci” di Matteo indice La Stampa , 6 aprile 2019 Il raid in un centro per richiedenti asilo a Genova. Indagati per odio razziale: “Avevamo solo bevuto”. “Avevamo trascorso la serata insieme, abbiamo bevuto parecchio e abbiamo deciso di chiuderla così, per divertirci. Io tra l’altro ho assistito con poca attenzione perché mi ero mezzo addormentato in macchina...”. A parlare in questo modo è uno studente di 19 anni che tra pochi mesi sosterrà l’esame di maturità. E lo fa appena conclusa la perquisizione dei poliziotti della Digos, che gli hanno consegnato un avviso di garanzia: insieme a tre coetanei è accusato d’aver lanciato una molotov nella notte tra il 22 e il 23 febbraio al centro per migranti “Casa Apollaro” nel comune di Davagna (hinterland di Genova), gestita da Ceis. È, quest’ultima, la onlus specializzata in progetti di solidarietà che nel capoluogo ligure ha in carico diverse strutture e si divide tra l’assistenza ai giovani vittime di dipendenze e gli immigrati. L’incendio e la fuga - La bomba aveva innescato un incendio e i 24 ospiti, tutti richiedenti asilo provenienti perlopiù da Nigeria, Ghana e Costa D’Avorio, erano usciti in preda al panico, calmati grazie al sangue freddo di un operatore: il rogo aveva distrutto una bandiera, ma si era sprigionato all’esterno esaurendosi in fretta. Ceis aveva preferito non divulgare la notizia, rivolgendosi alla questura che ha quindi avviato le indagini di concerto con la Procura. E il pm genovese Fabrizio Givri accusa ora il gruppetto d’incendio doloso aggravato dall’odio razziale e fabbricazione e porto di arma da guerra, essendo tale per la legge italiana una bottiglia infiammabile come quella impiega nel raid. Per ripercorrere il caso è necessario tornare indietro d’un mese mezzo, a un venerdì sera. In base a quanto fin qui appurato dalle forze del’ordine, i quattro amici bevono a lungo in Spianata Castelletto, suggestivo belvedere in uno dei quartieri più borghesi della città. Dopo svariate birre, salgono su una Panda e si avviano verso l’entroterra. Casa Apollaro, che è passata a Ceis nel 2014 per il lascito d’una famiglia, si trova nel comune di Davagna, nell’alta Valbisagno: sono 15 chilometri scarsi, da percorrere in parte su una strada provinciale parecchio tortuosa. La comunità poi presa di mira è insomma tutt’altro che vicina ed è, quest’ultimo, uno degli aspetti sui quali più ragionano gli investigatori. “Assurdo colpirci” - Se da una parte la Procura ritiene plausibile l’ipotesi che dietro l’attacco non si cia stato l’input d’una formazione politica, la connotazione palesemente xenofoba del gesto, e la sua preparazione, non lasciano spazio a dubbi, il bersaglio è stato evidentemente individuato con determinazione. La molotov viene preparata strada facendo e una volta scagliata nel giardino del centro esplode. Decisivo per l’indagine è il filmato registrato da una telecamera di video sorveglianza, nella cui inquadratura entra la Panda degli studenti. La Digos impiega poche settimane a dare un nome a conducente e passeggeri e l’altro ieri scattano le perquisizioni, con il sequestro di cellulari e computer, per verificare quali siano i riferimenti (ammesso che ne abbiano) di ragazzi italiani nemmeno ventenni protagonisti di un’azione simile. Ed è proprio a margine delle perquisizioni che uno degli indagati descrive l’attentato in sostanza come un diversivo improvvisato per chiudere la serata. “Casa Apollaro - spiega invece Enrico Costa, che di Ceis Genova è il presidente - è da anni impiegata in progetti apprezzati, è assurdo colpirci e quell’episodio ci ha amareggiato e preoccupato. Non abbiamo divulgato la notizia sulle prime per non alimentare il protagonismo di quei giovani”. Cuneo: saluto romano al liceo, gli studenti sospesi studieranno le storie dei migranti di Matteo Borgetto La Stampa , 6 aprile 2019 L’episodio in una scuola superiore di Cuneo: il gesto ripreso dai compagni e pubblicato su WhatsApp. La preside li ha anche invitati a visitare il sacrario degli alpini e una comunità. È accaduto a febbraio, in un’aula del liceo “De Amicis” di Cuneo. Durante l’intervallo, quattro alunni minorenni, in fila orizzontale, uno dopo l’altro fanno il saluto romano davanti a un manifesto di “Lager SS”. Una mostra fotografica sui deportati politici nei campi di sterminio, e che la scuola ospita nell’Aula Magna, per la “Settimana della Memoria”. L’insegnante non c’è. Nel compiere il gesto, in sequenza, i ragazzi si guardano tra loro. Sorridono. Tutto dura pochi secondi. Ma qualcuno riprende con il cellulare, il video inizia a girare su WhatsApp e finisce alla preside, Mariella Rulfi. Che, sentito il Consiglio di classe, ottiene il via libera per una “punizione esemplare”. Sei giorni di sospensione (che non dovrebbero pregiudicare l’anno scolastico), ma gli studenti non li faranno a casa. Seguiranno un percorso educativo di “riabilitazione”. E riflessione. La prima tappa giovedì, con la visita all’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, per discutere con gli operatori sul dramma della 2ª Guerra mondiale, le leggi razziali, l’olocausto, la campagna di Russia. Ieri, seconda tappa alla comunità Emmaus di Boves, per conoscere sia l’attività di recupero dei rifiuti e riutilizzo del materiale usato, sia e soprattutto le iniziative di impegno sociale e solidarietà a favore degli “ultimi”. Lunedì, è previsto un incontro in un centro cuneese di accoglienza straordinaria di migranti richiedenti asilo. Il provvedimento disciplinare dovrebbe continuare con la visita al Sacrario della Madonna degli Alpini sulla collina di Cervasca, luogo simbolo per le “penne nere” di tutta Italia, e con altre attività a scuola sulle tematiche dell’inclusione, della tolleranza e dell’impegno civile. Dal liceo De Amicis, nessun commento o dichiarazione: “Grazie, ma non vogliamo pubblicità”. Milano: obiettivo dignità, a colloquio con don Claudio Burgio, cappellano dell’Ipm di Valentino Maimone L’Osservatore Romano , 6 aprile 2019 “Pensare che il carcere oggi possa restituire alla società persone trasformate o guarite dalle dipendenze, è un’illusione. In Italia parliamo tanto di giustizia riparativa e riconciliativa, ma purtroppo ci troviamo ancora in un regime di giustizia retributiva”. Con queste parole don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, ha voluto segnare il suo ragionamento sulla funzione rieducativa del sistema penitenziario italiano e sull’effettiva possibilità che il detenuto, una volta libero, sia messo nelle migliori condizioni per reinserirsi nella società. L’occasione è stata un incontro della Scuola di formazione che si è tenuto recentemente a Montesilvano (Pescara), promosso dal Movimento studenti di Azione cattolica (Msac). “L’Osservatore Romano” ha voluto approfondire con lui questi temi, proprio per l’esperienza diretta che può vantare grazie al suo quotidiano contatto con giovani sicuramente complessi eppure potenzialmente in grado di essere restituiti alla propria dignità. Quali prospettive intravede nell’attuale sistema penitenziario? Sulla base della mia esperienza avverto una forte necessità di avviare un processo di cambiamento, perché sono proprio i giovani ad aver bisogno di una progettualità nuova. E invece, purtroppo, mi rendo conto che è molto difficile oggi progettare con una prospettiva moderna: servirebbe instaurare un’interazione con il terzo settore e con il privato sociale, stabilire una connessione con l’associazionismo, con volontari formati ad hoc e organizzare attività di tipo lavorativo. L’obiettivo fondamentale è ciò che questi giovani detenuti faranno una volta usciti dal carcere: come aiutarli a reinserirsi nella società? La detenzione minorile dura di solito meno di quella degli adulti, in genere coincide con la custodia cautelare. E, una volta all’esterno, questi ragazzi si ritrovano senza alcun collegamento con la realtà, quando invece potrebbe essere proprio il carcere a innescare quel circolo virtuoso che prepari al meglio i ragazzi alla vita normale che li attende fuori. Purtroppo, accade molto di rado, ma poi non è così impossibile. Un esempio? Nel carcere Beccaria una cooperativa specializzata in lavori di elettrotecnica ha aperto un laboratorio, a cui i ragazzi hanno risposto con grande interesse. La novità di questo esperimento è che i giovani possono essere assunti già durante la detenzione e poi continuare a lavorare come dipendenti, una volta tornati in libertà. Quanti ragazzi aiuteremmo a recuperare una vita normale e dignitosa fuori dal carcere, se esempi come questo fossero diffusi nelle altre strutture detentive del Paese? Il fatto che si tratti quasi sempre di ragazzi molto complessi non esclude che possano reintegrarsi nella società... Molto spesso i giovani commettono reati per una forma di protagonismo negativo, delinquono perché cercano di mettersi in evidenza rispetto ai loro coetanei, quasi volessero rivendicare una leadership basata solo su soldi e potere che devono conquistarsi con la violenza, l’arroganza e la forza. Se il carcere riuscisse a ribaltare questo protagonismo sbagliato in un protagonismo sano, si potrebbero ottenere ottimi risultati: penso al lavoro, alla scuola, alle attività culturali come il teatro e la musica, o anche itinerari alternativi come quelli previsti dalle comunità. Uno dei ragazzi che ho seguito più da vicino è oggi il testimone perfetto di quello che sto dicendo: entrato in carcere come rapinatore, ne è uscito come educatore della comunità Kayrós che ho fondato e che guido tuttora vicino a Milano. Un percorso bellissimo che ha avuto modo di raccontare lui stesso al sinodo sui giovani davanti al Papa. Siracusa: fatti in carcere, venduti nei musei, quando l’arte si fa solidale di Giulio Giallombardo leviedeitesori.com , 6 aprile 2019 Piccoli oggetti d’artigianato realizzati dai detenuti si potranno acquistare nei più importanti siti culturali di Siracusa. È la tappa conclusiva del progetto “Mercanti del tempo”. Frammenti di storia che diventano simboli di riscatto. Teste di gorgoni, antiche monete, bassorilievi, maschere greche e reperti si fanno in cento per raccontare storie di speranza e di inclusione. Sono i piccoli oggetti d’arte forgiati dai detenuti della Casa di reclusione di Augusta, che saranno venduti a Siracusa, in alcuni siti culturali, tra cui il museo archeologico regionale “Paolo Orsi” di Siracusa, il parco archeologico della Neapolis e la Galleria regionale di Palazzo Bellomo, tutti spazi gestiti da Civita Sicilia. È la tappa conclusiva del progetto “Mercanti del tempo”, promosso dalla cooperativa sociale L’Arcolaio e finanziato dai club Rotary di Augusta, Lentini e Siracusa. Il progetto durato due mesi e terminato a dicembre, ha avuto l’obiettivo di formare un gruppo composto da una decina di detenuti, nella realizzazione di circa 700 pezzi di terracotta, che riproducono alcuni dei tesori custoditi nel museo archeologico siracusano. Il sogno è quello di creare nuovi artigiani, capaci di produrre manufatti artistici e di avviare un’attività lavorativa che possa proseguire nel tempo, grazie alla vendita sul mercato degli oggetti realizzati. Così, l’equipe di maestri d’arte, capeggiata da Gerlando Pantano, restauratore del museo “Orsi”, insieme a Federica Marchesan, Salvatore Melita e Samantha Intelisano, ha guidato i detenuti che hanno imparato a impastare l’argilla, stenderla sugli stampi, infornarla e rifinirla, dando vita a centinaia di pezzi unici. La collezione, che sarà messa in vendita anche alla Galleria civica Montevergini, dove è in corso la mostra “Archimede a Siracusa”, viene presentata domenica 7 aprile alle 11 al Museo “Orsi”, alla presenza del sindaco Francesco Italia, della direttrice del museo Maria Musumeci, del coordinatore del progetto Giovanni Romano e dell’amministratore delegato di Civita Sicilia, Renata Sansone. Gli oggetti raffigurano teste di gorgone, il Portello di Castelluccio di Noto, maschere teatrali, una moneta con l’effige di Aretusa da un lato e dall’altro una quadriga, e un’altra moneta con Archimede. Il pezzi più piccoli, a cui è stato applicato un magnete, hanno un costo che si aggira sui 5 euro, mentre i più grandi vanno dai 12 ai 15 euro e sono corredati da un piccolo cavalletto in legno. Il ricavato delle vendite sarà reinvestito nel progetto. “Siamo in una fase delicata del nostro lavoro, una specie di prova del fuoco - ha spiegato a Le Vie dei Tesori News, Giovanni Romano, presidente della cooperativa L’Arcolaio - tutto dipenderà da come andranno le vendite e dalla risposta da parte dei visitatori dei nostri siti culturali. È stata un’esperienza importante, dal grande valore educativo. I detenuti che hanno partecipato al progetto sono stati fortemente gratificati dal lavoro svolto, e si è creato un bellissimo clima con il gruppo dei formatori. Noi siamo convinti che solo in questo modo, portando delle attività che abbiano una forte valenza educativa, il carcere riesca a svolgere la sua funzione più importante”. Dal 2003, la cooperativa L’Arcolaio lavora per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e di altre categorie svantaggiate. Produce dolci della tradizione siciliana, realizzati all’interno della Casa circondariale di Siracusa, e si occupa anche di agricoltura sociale, dopo aver recuperato 13 ettari di terreni abbandonati nelle campagne di Noto. Un esempio di sviluppo solidale e sostenibile del territorio. Avellino: “No Prison”, cambiare il sistema carcerario italiano irpinia24.it , 6 aprile 2019 Il tema dell’incontro tenutosi ieri pomeriggio presso il Circolo della Stampa di Avellino è “No Prison”, cioè niente prigioni. L’incontro è stato ideato dal dottor Carlo Mele, Garante Provinciale dei diritti dei detenuti o delle persone private della libertà personale, con l’aiuto e la collaborazione dell’avvocato Giovanna Perna, penalista del Foro di Avellino e componente esperto del Tavolo del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. L’evento, moderato da Gianni Colucci, storica firma de “Il Mattino” di Avellino, ha visto gli interventi del dottor Carlo Mele, dell’avvocato penalista Quirino Iorio, tesoriere della Camera Penale Irpina e di un ex detenuto che ha raccontato la sua esperienza diretta della vita nel carcere. Il convegno è terminato con l’intervento dell’autore del libro “Basta dolore e odio No Prison”, ovvero Livio Ferrari, un libro che promuove l’eliminazione del sistema carcerario, inteso come luogo di odio e di vendetta. “Il carcere serve a chi vuole punire le persone garantendo sicurezza, pensando che i cattivi siano rinchiusi in quelle quattro mura e i buoni invece si trovino al di fuori. In carcere ci vanno i poveretti, magari chi non è assistito da un buon avvocato, infatti gia nel 1600 il carcere nasce per i poveri. Ormai il carcere è un vestito vecchio”. Il manifesto “No Prison”, scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, è un volume formato da una serie di capitoli scritti da illustri sociologi, professori universitari di rilievo internazionale, che dice di no a questo mondo di odio e di vendetta. “La pena deve essere intesa come medicinale. Basti pensare che negli anni ‘60 le persone che venivano condannate erano chiamate i paraplegici dello spirito. Questa concezione negativa della pena è sbagliata. Il carcere rappresenta l’ultimo manicomio della nostra epoca, è un luogo che produce morte. Dall’inizio del secolo si sono verificati 2212 morti in carcere e più di 1000 suicidi. Ma non solo i detenuti, anche gli agenti si suicidano. E perché? Non è l’anziano che si ammazza, bensì sono principalmente i giovani a tre mesi di uscita dal carcere, ad esempio, ad ammazzarsi, quando una volta usciti dal carcere hanno tutta la vita davanti. Perché questo? Perché appunto il carcere è luogo di morte. Questo è l’unico motivo, non ce ne sono altri”. Il convegno si pone quindi quale momento di profonda riflessione sulle luci ed ombre del mondo carcerario, tenuto conto anche della recente modifica legislativa dell’ordinamento penitenziario. Questo incontro rappresenta dunque un’occasione di discussione e approfondimento sulla funzione rieducativa della pena, tra coloro che a vario titolo frequentano il mondo penitenziario. “In questo periodo storico abbiamo costruito dei diritti sul lavoro, ma siamo passati dalla sicurezza dei diritti al diritto alla sicurezza. Nessuno dei nostri governi, non solo l’ultimo, ha studiato i motivi per cui succedono certi omicidi o suicidi, o ha cercato di capire cosa c’è dietro la criminalità. Bisogna curare il malessere che porta a fare azioni malsane, ad esempio bisogna portare il lavoro dove non c’è. Bisogna mettere in campo i moti della pace, magari facendo incontrare chi ha sbagliato con chi ha subito il danno. Tutti noi esseri umani sbagliamo, nessuno è perfetto, tutti commettiamo errori ma c’è anche da dire che tutti cambiamo. Nessun individuo può essere colpevole per tutta la vita. La restituzione del danno è fondamentale, perché le vittime spesso vengono trattate peggio dell’autore del reato. La sicurezza non si crea con le forze dell’ordine, ma con il recupero delle persone, però il mezzo adatto non è di certo il carcere”. Ormai in questa società non esiste più il rispetto. La società sta diventando sempre più cattiva. Bisogna rispettare la dignità delle persone. “Non possiamo pretendere che le persone rispettino le leggi senza che le leggi stesse siano rispettose dei diritti delle persone”. Allora bisogna combattere questa guerra con l’alfabeto dell’accoglienza, aumentando la soglia della cultura, perché la cattiveria la si fa quanto più ignoranti sono le persone. Reggio Emilia: in carcere la “Cena al Fresco” Il Resto del Carlino , 6 aprile 2019 Chef stellato ha preparato i piatti insieme ai detenuti che hanno mangiato insieme a 130 ospiti esterni. Nei giorni scorsi, nel carcere della Pulce si è svolta “La Cena al Fresco”, un’iniziativa di solidarietà ed inclusione sociale promossa nell’ambito di “B.-Diritto alla Bellezza”. La serata è stata promossa dal Comune di Reggio Emilia insieme con la Direzione degli Istituti penitenziari, nell’ambito del progetto di mandato Reggio Emilia Città senza Barriere gestito da Farmacie Comunali Riunite, in collaborazione con gli Istituti Penitenziari di Reggio Emilia ed il Consorzio Oscar Romero. Tra le tante realtà che hanno partecipato e promosso l’iniziativa, era presente anche la Pallacanestro Reggiana, rappresentata per l’occasione dal patron Stefano Landi, dal direttore sportivo Alessandro Frosini, da coach Stefano Pillastrini e dagli atleti Riccardo Cervi e Niccolò De Vico. Per la serata, l’Istituto Penale di Reggio Emilia si è trasformato: sotto la direzione creativa di Antonio Marras, in collaborazione con Tonino Serra e Modateca Deanna le mura della prigione sono sparite per una notte. Lo chef stellato Luca Marchini ha cucinato e lo ha fatto insieme ai detenuti, li ha guidati e formati per la cena di quella sera preparando piatti di alta cucina per tutti i 420 detenuti dell’Istituto e per i 130 cittadini invitati ad entrare, a cenare assieme ai detenuti e a condividere questo momento. Il ricavato della cena contribuirà ai costi di ristrutturazione della cucina e consentirà il recupero dell’area accoglienza bimbi, uno spazio interno all’Istituto dove avvengono i colloqui coi genitori detenuti. Uno spazio che, prima di ogni altra cosa, deve rispettare i bimbi, le mamme e i papà: il loro diritto ad un abbraccio, il loro diritto a un momento di gioco, a un po’ di colore, al racconto di una storia, ad un ricordo che sia il più bello possibile. La serata è iniziata visitando alcuni luoghi dell’Istituto, per incontrare e dialogare con alcuni detenuti, conoscere i progetti, in particolare quelli legati al lavoro come occasione rieducativa per i detenuti, ma anche come opportunità di business per le imprese in una logica evoluta di responsabilità sociale. Povera cara Europa, una nave senza rotta di Olivier Guez* Corriere della Sera , 6 aprile 2019 I politici timorosi alla testa delle tue piccole nazioni non capiscono che senza base culturale comune non ci sarà mai unione né solidarietà. Cara Europa, o piuttosto dovrei scriverti mia povera Europa. Ti do del tu, perché ci conosciamo intimamente, tu, mia vecchia amante, e io, il ragazzo di Strasburgo, la tua capitale del cuore. Sono cresciuto sulle rive del Reno, una delle tue arterie, e mai mi sento più felice di quando mi trovo sulle autostrade e sui treni che attraversano il tuo territorio. Le curve dei tuoi fiumi, dei tuoi mari, e delle tue montagne; la maestosità delle tue città e delle tue campagne, e la ricchezza delle tue culture, e il fascino delle tue lingue: cara Europa, continui a essere l’oggetto del mio desiderio, tu, i cui pretendenti non sono più tanto numerosi, ahimè; non ho dimenticato tutto quello che ci hai dato, la pace, la prosperità, dall’ultima volta che i tuoi figli si sono uccisi l’un l’altro, settantacinque anni fa. Ma loro cosa hanno fatto di te? “Loro”, i politici timorosi che dirigono - o vorrebbero guidare - le tue piccole nazioni da vent’anni. “Loro” che fanno pesare su di te tutti i mali quando invece ti hanno costruita frigida e zoppicante, un’incapace senza volto, affinché tu divenissi il capro espiatorio delle loro viltà e ipocrisie. overa Europa, sei irriconoscibile. Loro ti hanno sfigurata, elegante dea, mutandoti in idra a sei teste (una presiede il consiglio dell’Unione europea e cambia ogni sei mesi, la seconda dirige la Commissione europea, la terza il Consiglio europeo, la quarta il Parlamento europeo, la quinta la Banca centrale europea, e la sesta l’Eurogruppo). Come identificarsi in un mostro simile? Come comprendere il suo metabolismo? A Bruxelles e a Strasburgo, ti hanno costruito palazzi funzionali. Le loro facciate sono lisce, le architetture fredde: il tutto è brutto ed evanescente. Non hanno voluto dare una identità alle tue banconote, la nostra moneta comune. Piuttosto che stamparvi sopra le immagini dei tuoi geni - Dante, Goethe, Mozart, Picasso, il pantheon è vasto - hanno scelto ponti, arcate e finestre disegnati su un computer. Eppure avrebbero potuto invitare i tuoi cittadini a pronunciarsi sulle loro illustrazioni: via internet, consultazione gentile, popolare e realmente continentale. Nemmeno hanno saputo raccontare la tua storia, né celebrare la tua eredità (che non hanno osato definire), la matrice greco-latina e giudeo-cristiana (e musulmana nelle penisole iberica e balcanica; più contestabile nei Paesi sottomessi all’Impero Ottomano per secoli, ne convengo), e la grande avventura del Rinascimento e dell’umanesimo, né denunciare i tuoi antagonismi cruenti e i tuoi crimini passati, il fascismo, il comunismo, il colonialismo. Alle generazioni future non hanno voluto trasmettere le loro tradizioni condivise, solo parole vuote e formule vaghe. Avrebbero potuto istituire corsi di storia e di educazione civica europee in tutte le scuole del continente, e formare piccoli poliglotti! Figurati. Si rendono conto che senza educazione europea, senza base culturale comune, non ci sarà mai unione né solidarietà? Certamente. In fondo, non ti vogliono. Oppure ti vogliono solo traballante, anemica. Così, cara Europa, ti hanno abbandonata in mezzo al guado. I loro predecessori avevano corso rischi folli, conoscevano le tue inclinazioni criminali, la maggior parte li aveva vissuti sulla propria pelle. Ci incamminavamo verso un grande insieme, l’avventura era collettiva, esaltante, quando tutto si è fermato. Ed eccoti, eccoci paralizzati, aggrovigliati nella rete di competenze condivise, impenetrabili, e in fondo indifendibili. Impossibile lasciarti, impossibile andare avanti, per mancanza di volontà, di coraggio, di senso della storia, degli uomini e delle donne che presiedono al tuo destino dall’inizio del secolo. A te il lavoro ingrato, emettere direttive, norme e regolamenti, controllare debiti e deficit: tu sei il cattivo gendarme finanziario, la bestia nera dei populisti, di destra e di sinistra, che si avvantaggiano approfittando di te. E tu sei indifesa. Loro speravano che il tuo cugino americano, per quanto sempre più lontano, e da tempo, avrebbe vigilato sempre sulla tua sicurezza. Eccoci ostaggi di Donald Trump poiché loro sono gli unici ad aver finto di credere alla fine della storia. Così, il provincialismo regna. Come nei bollettini meteorologici della televisione francese: al di là delle nostre care frontiere, non sappiamo che tempo ci sarà, non lo vogliamo sapere e ce ne infischiamo. Come sui canali d’informazione francesi dove da tempo i microfoni sono aperti a tutti gli imbonitori nazionalisti. La Francia non fa che auto-mutilarsi e guarda solo il proprio ombelico. Il Regno Unito va alla deriva. La Germania trema all’idea di tassare i Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon, ndt). I catalani vogliono lasciare la Spagna. La Polonia, l’Ungheria, l’Italia e qualcun altro fanno i gradassi: da soli, saranno capaci di lottare meglio contro il riscaldamento globale, le grandi migrazioni, il terrorismo. Poveri idioti! La Russia, l’America, la Cina; la Turchia, l’islamismo qatari-saudita si leccano i baffi. Sognano la rivincita e di smembrarti, di smembrare te che sei andata alla loro conquista da tanto tempo ormai. Il quadro è cupo, cara Europa, sono amareggiato, continuo a essere in collera contro quelli che hanno fatto di te una cosa insipida e senza anima, senza storia e senza volto, una nave priva di una rotta e di una guida, in balia di tutte le correnti violente. Milan Kundera, ai tempi della Guerra fredda, scrisse che l’europeo autentico aveva nostalgia dell’Europa. Oggi, sottoscrivo questa definizione, purtroppo. *Traduzione di Daniela Maggioni Migranti. Meno rifugiati in Italia, ma più detenuti in Libia L’Osservatore Romano , 6 aprile 2019 Il rapporto 2019 del Centro Astalli. Piùù precarietà, disagio sociale ed emarginazione. È quanto registra il rapporto annuale del Centro Astalli per rifugiati, presentato ieri a Roma. Oltre al resoconto delle attività in Italia legate al Servizio per i rifugiati dei gesuiti (noto nel mondo come Jesuit refugees service), il rapporto 2019 presenta statistiche e storie utili per capire cosa stia succedendo in tema di migranti e rifugiati. A partire dalla prima considerazione: il calo degli sbarchi sulle coste italiane dell’80 per cento “non può essere motivo di soddisfazione” - si legge nel rapporto - se si considera che l’85 per cento dei migranti soccorsi in mare vengono riportati nei centri di detenzione in Libia, con “conseguenze tragiche” perché la situazione umanitaria nel paese nordafricano è disastrosa. Dunque, “i primi esclusi dalla protezione sono i rifugiati che non riescono più a raggiungere l’Italia e l’Europa”. Il rapporto denuncia “il moltiplicarsi di ostacoli burocratici a tutti i livelli”, che escludono di fatto un numero crescente di migranti dai servizi territoriali e dai circuiti dell’accoglienza. Il riferimento è al decreto sicurezza approvato dal governo in Italia a fine novembre scorso, che ha messo insieme quelli che inizialmente dovevano essere due testi separati: il decreto sicurezza e il decreto immigrazione. “L’aver bloccato ogni azione di soccorso e ricerca in mare da parte di governi, Unione europea e ong non ha risolto il problema della mancanza di vie legali di accesso alla protezione: rende solo meno visibili le sue tragiche conseguenze”. “I primi frutti di una politica meno inclusiva sono già visibili”, ha avvertito il direttore del centro Astalli, padre Camillo Ripamonti. Nei sette centri di accoglienza del Centro Astalli è stato riscontrato l’aumento dei migranti e richiedenti asilo in condizione di seria difficoltà: più di 900 nuovi utenti a Palermo, con una crescita dell’80 per cento allo sportello lavoro; più 35 per cento di persone sostenute a Roma dal servizio di accompagnamento all’autonomia e 4000 che fruiscono ogni anno della mensa; 1018 persone ospitate complessivamente in Italia, di cui 375 a Roma. Oltre la metà delle persone che si sono rivolte all’ambulatorio non risultava iscritto al Servizio sanitario nazionale, un segnale - è stato sottolineato - di quanto sia complicato riuscire ad ottenere la residenza o il permesso di soggiorno. Nel 2018 sono stati 25.000 gli utenti, di cui 12.000 a Roma. 54.417 i pasti distribuiti. 594 i volontari. Migranti. Così il caso Mare Jonio può affondare il Viminale Il Fatto Quotidiano , 6 aprile 2019 La Procura chiederà all’ente marittimo internazionale se la Libia è porto sicuro. Il prossimo passo è quello cruciale. E gli occhi del Viminale sono ancora una volta puntati sulla Procura di Agrigento. Il fascicolo che vede Luca Casarini e il comandante della Mare Jonio, Pietro Marrone, indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, rischia di affondare la linea dura del governo sugli sbarchi in Italia. Casarini, durante il suo interrogatorio, ha messo sul tavolo un argomento dirimente: “Non avrei mai consegnato i naufraghi alla Guardia costiera libica perché non considero la Libia un luogo sicuro”. E la procura vuole verificare se la Libia può realmente fornire un porto sicuro. Per questo motivo, in agenda, c’è una richiesta formale all’organismo che certifica l’esistenza delle zone Sar (aree di ricerca e soccorso), ovvero l’Organizzazione internazionale marittima (Imo). In sostanza l’interrogativo è semplice: l’Imo verifica- attraverso ispezioni o altri tipi di attività l’esistenza, per gli Stati che hanno dichiarato una propria zona Sar, di un “piace of safety”, un luogo sicuro? Non si tratta di un dettaglio. Vediamo perché. Un operazione di soccorso, secondo le convenzioni internazionali, può considerarsi conclusa solo con l’arrivo dei naufraghi nel “luogo sicuro” designato. Ma qual è un luogo sicuro? Quello in cui sussistono tre condizioni: che la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia più minacciata; che le necessità umane primarie possano essere soddisfatte; che possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. Bene. Nel settembre 2018 - quando in Libia, come oggi, si verificarono scontri armati tra le fazioni in guerra - il Fatto chiese all’Imo: “A causa degli scontri sappiamo che la Guardia costiera non è in condizioni di lavorare: questo mette a rischio l’esistenza della loro zona Sar? C’è una possibilità che le venga revocata? L’Imo ha un ruolo in questa decisione?”. Se la procura di Agrigento dovesse ricevere le stesse risposte ottenute dal Fatto, per il governo, la situazione si complicherebbe parecchio: “Le aree Sar - è la risposta - sono dichiarate dagli stessi Stati, che sono parti della Convenzione Sar di Imo”. Ma soprattutto: “Imo non dichiara, né revoca, né rivede le aree Sar. Questo è compito degli Stati stessi”. Se l’Imo dovesse rispondere alla procura negli stessi termini, risulterebbe agli inquirenti una mera “bacheca”, insufficiente a stabilire se la Libia sia in possesso di un luogo sicuro. E farebbero fede le certificazioni dell’Onu, per esempio, che nega radicalmente, a causa delle costanti violazioni dei diritti umani, l’esistenza di un “luogo sicuro” per i migranti in Libia. Il che non soltanto scagionerebbe Casarini e Marrone dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: creerebbe un precedente giuridico che autorizzerebbe i soccorritori a rifiutare la collaborazione con i libici. Cancellando di fatto l’esistenza della loro Zona Sar. Ovvero: il principale argomento giuridico del governo e della sua politica di “porti chiusi”. Libia. Il segretario Onu scioccato dalla condizione dei migranti detenuti L’Osservatore Romano , 6 aprile 2019 “Sono profondamente scioccato e commosso dalla sofferenza e dalla disperazione che ho visto nel centro di detenzione di Tripoli, in Libia, dove migranti e rifugiati sono detenuti per un tempo illimitato e senza alcuna speranza di riconquistare le loro vite”: lo ha scritto su Twitter il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che si trova in visita nel paese nordafricano. “Il mio appello è rivolto alla comunità internazionale affinché comprenda la necessità che la legge internazionale sui rifugiati sia pienamente rispettata, e la necessità di affrontare il problema della migrazione in modo compatibile con la difesa degli interessi dello stato, ma anche con i diritti umani dei migranti”, ha precisato il segretario generale Onu durante una conferenza stampa a Tripoli. Tornando alla sofferenza che ha trovato nei centri di detenzione, Guterres ha affermato che “questa è non solo una responsabilità per la Libia, è una responsabilità per l’intera comunità internazionale”. Libia. Battaglia alle porte di Tripoli Haftar: “Abbiamo preso l’aeroporto” Corriere della Sera , 6 aprile 2019 L’avanzata dell’uomo forte della Cirenaica si è arrestata per ora a 30 chilometri dalla capitale. Preoccupazione del segretario Onu Guterres: “prevalga la diplomazia”. Dal pomeriggio di oggi, venerdì, la zona dell’aeroporto di Tripoli è il nuovo terreno di scontro tra le milizie di Khalifa Haftar e le truppe del governo guidato da Al Serraj. Violenti scambi di armi da fuoco vengono segnalati dai media locali. “L’esercito comincia ad assaltare l’aeroporto internazionale” aveva scritto su twitter la tv Al Hadath, che fa capo ad Al Arabiya riferendosi allo scalo situato a soli 25 km in linea d’aria dal centro di Tripoli. E in swerasta Haftar ha potuto annunciare di aver preso lo scalo. A partire da mercoledì il generale che controlla la regione della Cirenaica aveva annunciato la sua marcia sulla capitale controllata dal rivale Fayez Al Serraj . Non è ancora chiaro, tuttavia, se l’intenzione sia quella di scalzare definitivamente l’avversarioo semplicemente conquistare il controllo di una porzione più vasta di territorio in vista della conferenza di pace per la Libia. Comunque sia, la battaglia si svolge ormai alle porte della capitale: l’avanzata di Haftar aveva subito nel primo pomeriggio una battuta d’arresto a circa 30 chilometri da Tripoli, quando l’aviazione governativa aveva compiuto un raid. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è recato proprio ieri a Bengasi dove ha incontrato il 75enne uomo forte della Cirenaica per ricordargli ancora una volta che “non può esserci una soluzione militare al conflitto in Libia”. È ripartito lanciato un appello a a “evitare uno scontro sanguinoso in e attorno Tripoli”; ha poi lasciato il Paese e non ha nascosto di essere “molto preoccupato”. Libia. Cosa ha portato all’escalation del generale Haftar di Francesca Paci La Stampa , 6 aprile 2019 Un’analisi di cosa è successo negli ultimi giorni. Cosa è andato storto tra Haftar e Misurata? Non sa dirlo nessuno. Ci sono alcuni passi importanti compiuti negli ultimi giorni che precedono l’escalation con cui il generale Haftar sembra voler sferrare oggi l’ultima sfida al governo di Tripoli. Per capire cosa si sta muovendo dietro le quinte della crisi che il Consiglio di sicurezza dell`Onu, convocato in fretta e furia nella notte, tenta di scongiurare in extremis, bisogna riavvolgere un po’ indietro il film libico. Siamo alle porte Bengasi, circa due settimane fa, il quartier generale di Haftar, una costruzione nuova, imponente, sormontata dalla scritta in arabo “Esercito arabo libico”, assai diversa dalla formula usata ufficialmente di “Esercito nazionale libico”. La sicurezza, per questo incontro con una ristretta delegazione di portavoce regionali, è massima, i militari rivolti verso l`esterno presidiano ogni accesso con le armi imbracciate. L`erede indiretto di Gheddafi appare in forma, si è lasciato alle spalle la parentesi in ospedale di un anno fa e le congetture sulla sua morte imminente, guarda avanti. È passato un mese da quando nella cornice conciliante di Abu Dhabi ha incontrato il rivale al Sarraj, il capo del governo riconosciuto dall’Onu, per delineare insieme la road map auspicata dalla comunità internazionale. Eppure è cambiato tutto, Haftar, che nei mesi passati ha preso il controllo del sud della Libia, non pensa già più alla conciliazione, gli accordi si fanno ai suoi patti oppure niente e i suoi patti non sembrano negoziabili. Haftar vuole il comando supremo delle forze armate dicendosi disponibile a passare la staffetta al prossimo presidente eletto, vuole avere l`ultima parola sul primo ministro e sul governatore della banca centrale. Haftar vuole un ruolo di primo piano insomma, ed è disposto a dividerselo con Misurata, la fortissima città Stato che con Zintan combattè per la fine di Gheddafi. Ma con quale Misurata trattare è tutto un altro discorso, suo figlio ci negozia da tempo ma lui è convinto che una parte di misuratini siano “terroristi” irrecuperabili. Anche Misurata, dal canto suo, confermano fonti locali incrociate, e` disposta ad andare a vedere le carte di Haftar ma si tiene pronta al confronto finale. In questo contesto, mentre le Nazioni Unite continuano a preparare il summit di Ghadames che sarebbe tuttora in calendario la settimana prossima, è chiaro che le buone intenzioni di Abu Dhabi sono già naufragate. A remare contro, sin dall’inizio, è stato l’Egitto, grande sponsor di Haftar ma soprattutto geloso del proprio ruolo di mediatore e furioso per non essere invitato al tavolo di Abu Dhabi. Da tempo tra l`altro, confermano fonti al Cairo, l’Egitto mal digerisce che Haftar risponda a un po’ troppi padroni, Riad, gli Emirati, Parigi, Mosca... Insomma, l’Egitto è pronto a tutto per recuperare terreno e gioca su due fronti attraverso l`azione dell’intelligence civile, che ha in mano il faldone libico. Con Haftar, il Cairo si spende per il ritorno in auge dell’ un po’ eclissato consulente Fadil Laddib, suo uomo ricomparso a Bengasi in grande spolvero per l`appunto due settimane fa. Con al Sarraj spinge sui consulenti amici per portare il campione dell’Onu allo scontro con Haftar e di fatto al sabotaggio di Abu Dhabi e Ghadames. L’ obiettivo egiziano è minimizzare l’incontro di Ghadames per enfatizzare quello di luglio, già fissato e sponsorizzato dalla Unione Africana di cui il Cairo e` alla guida. Poi ci sono i sauditi, altri grandi sponsor di quell’ Haftar che il 28 marzo era a Riad per incontrare re Salman. Giochi di sponda e di rimandi, basti pensare che domenica scorsa invece, re Salman era a Tunisi con una delegazione di 1500 persone e che ha fatto di tutto per evitare, riuscendoci, la foto insieme ad al Sarraj che si trovava in città nello stesso momento e che voleva assolutamente vederlo anche solo per cinque minuti. Il resto sono altri simposi nell’ombra. Martedì scorso quello di egiziani, francesi ed emiratini a Parigi, poi un secondo round a Roma tra delegati del Golfo e libici ma non l’Italia. Infine il capitolo salafiti. Attraverso gli uffici di Riad Haftar ha guadagnato il sostegno delle brigate salafite che operano in Tripolitania, a Sabarata. Sono brigate dette salafite madkhaliste perché rispondono al dictat del predicatore radicale saudita Rabee al Madkhali che ha dato mandato di rispondere all`autorità civile, ossia in questo caso Haftar. Alcune di queste brigate sono già nell’ Esercito nazionale libico e pare che siano proprio quelle che stanno combattendo da ieri al ridosso dell’aeroporto di Tripoli dove è salafita anche la milizia che controlla l’areoporto, la Rada. Sembra il redde rationem tra Misurata ed Haftar. Cosa è andato storto tra Haftar e Misurata non sa dirlo nessuno. Fino a poco fa Haftar sembrava disposto ad accettare un primo ministro espresso dai puntelli non eterni di al Sarraj, tipo il misuratino Fathi Bashagha, considerato vicino ai Fratelli Musulmani ma anche molto molto pragmatico. Di sicuro qualcosa si è rotto. Adesso, confermano da Misurata, la volontà di combattere contro Haftar è totale, pronti a morire per Sarraj non esattamente ma contro Haftar si. E si combatte. Haftar potrebbe giocarsi tutto contro la forza già provata dei misuratini e magari sta lanciando l’offensiva per poi fermarsi e trattare da posizione di fora, ma di certo avanza, anzi manda avanti i salafiti. Finlandia. I detenuti classificano i dati per addestrare le intelligenze artificiali di Marco Tonelli La Stampa , 6 aprile 2019 Lo fanno per conto di Vainu, una startup finlandese. La questione è controversa, perché da una parte la compagnia sostiene che così, possono acquisire competenze preziose, dall’altra, secondo diversi detrattori, si tratta di vero e proprio sfruttamento. Vainu è una startup finlandese che ha sviluppato un database globale di professionisti, dedicato alle aziende. Un algoritmo gestisce l’archivio e permette la classificazione e la ricerca di informazioni. Per addestrare l’intelligenza artificiale, è necessario analizzare centinaia di migliaia di articoli online. Il tutto per comprendere se, ad esempio, con la parola “Apple” ci si riferisce al colosso di Cupertino o se si tratta di un’azienda agricola. Fino a qui nulla di strano, di solito questo lavoro è svolto da programmatori o da personale regolarmente assunto dalla compagnia. In questo caso però, il compito viene affidato ai detenuti di due istituti penitenziari (a Turku e a Helsinki). La questione è abbastanza controversa, perché da una parte la compagnia sostiene che i detenuti possono acquisire competenze preziose nel mondo del lavoro, dall’altra, secondo diversi detrattori, si tratta di vero e proprio sfruttamento. La collaborazione con il CSA (che gestisce gli istituti di pena del Paese), è iniziata tre mesi fa. Vainu paga direttamente l’ente, che ha la responsabilità di decidere quanto corrispondere ai lavoratori. Allo stesso tempo, il salario è lo stesso di quanto elargito ad un dipendente ordinario per la stessa mansione Come spiega il cofondatore di Vainu Tuomas Rasila, l’idea è nata quasi per caso. La compagnia aveva assunto un tirocinante per l’estrazione e la classificazione delle informazioni, ma non bastava. Per puro caso, la sede di Vainu è nello stesso edificio in cui si trova la sede del CSA. Per questo motivo, ai dirigenti della startup è venuto in mente di coinvolgere i detenuti. Nel sistema penitenziario finlandese, l’avviamento al lavoro è un’attività molto comune e già sperimentata. Un modello in tutto il mondo per le sue politiche progressive. In alcuni casi, i detenuti vivono in “prigioni aperte”, in cui possono muoversi e lavorare come liberi cittadini.