Consiglio d’Europa: l’Italia al di sopra della media per sovraffollamento e suicidi in carcere camerepenali.it, 5 aprile 2019 Sovraffollamento ed enorme numero di detenuti in attesa di giudizio: per il Consiglio d’Europa l’Italia è al di sopra della media degli stati membri. Il documento della Giunta e degli Osservatori Carcere ed Europa. Non giunge inaspettato il rapporto pubblicato il 2 aprile scorso dal Consiglio d’Europa denominato “Space I” (acronimo di Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe), dal quale si evince come in Italia il tasso di detenzione sia aumentato, tra il 2016 e il 2018, del 7,5 % e che vi sono 20.000 persone in carcere, non condannate in via definitiva, di cui la metà in attesa di primo giudizio. Tra i dati più allarmanti dell’indagine statistica - relativa al periodo fino al 31 gennaio 2018 ed alla quale hanno risposto 45 delle 52 amministrazioni penitenziarie dei 47 Stati membri con eccezioni importanti come quelle, tra le altre, della Turchia, del Belgio, dell’Ungheria, dell’Ucraina e dell’Albania - vi sono indubbiamente quelli che vedono l’Italia al di sopra della media per il sovraffollamento (quarta dopo Macedonia del Nord, Romania e Francia) e la percentuale di suicidi di detenuti (dati al 2017). Non stupisce certo gli addetti ai lavori, soprattutto le Camere Penali, il Partito Radicale e le associazioni che da tempo denunciano il sovraffollamento, l’assoluta inefficacia dei provvedimenti normativi emanati e il “tradimento” sulla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Meraviglierà forse il Ministro della Giustizia e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il primo convinto che quanto si è fatto in un anno di Governo ha migliorato lo stato delle nostre carceri e che la costruzione di nuove strutture (quando? Con che tempi? Con quali risorse?) risolverà gli altri problemi, il secondo determinato nell’affermare che in Italia il sovraffollamento non esiste e che è un falso in quanto i numeri sono chiari (?) e che i detenuti stanno bene. Solo dopo il recente incontro con il Partito Radicale e l’Osservatorio Carcere Ucpi ha dovuto riconoscere che i detenuti sono effettivamente in sovrannumero. Ora la fonte è più che autorevole e certifica una situazione di fatto, seppur con riferimento al periodo d’indagine, che è andata peggiorando e che può condurre nel futuro più prossimo a nuove condanne del nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti, essendo evidente che i rimedi adottati a seguito della sentenza “pilota” Torreggiani non hanno sortito gli effetti sperati su un problema endemico e strutturale come quello del sovraffollamento. Dal rapporto del Consiglio d’Europa, in particolare, se ne può individuare come causa principale la custodia cautelare in carcere, di cui evidentemente si abusa, se l’Italia con il 34,5% risulta essere ben al di sopra della media di detenuti non condannati in via definitiva che si assesta sul 22,4%, con la Francia al 29,5%, la Germania al 21,6%. Le riforme sulla custodia cautelare che hanno voluto sempre rimarcare il concetto di extrema ratio, a nulla sono servite in un sistema giudiziario e mediatico che predilige le indagini preliminari e dimentica il processo. Un sistema che oggi è diventato ancora più carcerogeno, con previsione di pene sempre più severe e con l’introduzione di nuovi reati puniti con pene che vengono definite “esemplari”. Le novità sul rito abbreviato e il nuovo delitto di revenge porn, con pene fino a 12 anni, approvati oggi sono il tragico esempio di quello che ci attende. La Giunta, con i propri Osservatori Carcere ed Europa, continuerà a monitorare e denunciare la situazione certificata dal rapporto “Space 1” perché la politica prenda coscienza delle proprie responsabilità e l’opinione pubblica sia informata e sensibilizzata, al tempo stesso, impegnandosi ad interloquire col Consiglio d’Europa e ad intervenire avanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché sia assicurata la dignità nell’esecuzione della pena. La Giunta UCPI L’Osservatorio Carcere UCPI L’Osservatorio Europa UCPI Lavoro in carcere, Inps ingiusta di Salvatore La Barbera* Il Gazzettino, 5 aprile 2019 Desidero portare a conoscenza della pubblica opinione, l’ingiusta decisione dell’Inps nei confronti dei detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. A tali lavoratori, in caso di licenziamento, viene negata l’indennità di disoccupazione, ancorché sussista l’obbligo al versamento della relativa contribuzione È singolare la motivazione con la quale si giustifica tale pretesa: la contribuzione potrà essere eventualmente utile in futuro, nel caso di cessazione involontaria da un rapporto con altri datori di lavoro. È come se il lavoro all’interno degli istituti penitenziari fosse considerato di serie B, fatto solo di obblighi e non di diritti. È come se il proprietario di un’auto obbligato a pagare il premio Rca, in caso di incidente, non venisse coperto per i danni causati. Così si penalizzano coloro che quotidianamente svolgono lavori continuativi e non saltuari, necessari per la manutenzione ordinaria dei fabbricati, per i servizi di pulizia, di mensa, di casermaggio. In alcuni casi i detenuti vengono utilizzati in strutture produttive, quali falegnamerie, sartorie e aziende agricole. Considero tale discriminazione inaccettabile e non legittima, anche se basata su un parere ministeriale del cosiddetto Governo del cambiamento, in questo caso in peius. I lavoratori detenuti stanno pagando per gli errori commessi e svolgono la loro attività con dignità. Per la maggior parte di loro e delle loro famiglie, la retribuzione rappresenta l’unica fonte di sostentamento. Non si comprende perché questo lavoro regolare a tutti gli effetti, anche contributivi, in caso di licenziamento non debba comportare il diritto all’indennità di disoccupazione. La legge esonera dal versamento dei contributi contro la disoccupazione solamente alcune categorie di lavoratori per i quali non prevede il licenziamento. Però se si pretendono i contributi non si può negare la prestazione. Auspico la modifica di tale orientamento, anche in considerazione del fatto che tale lavoro viene ritenuto elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa. *Già direttore provinciale Inps, Consulente giuridico volontario dello Sportello Giuridico Casa di Reclusione e Casa Circondariale di Padova “E vado a lavorare”, la seconda edizione del Bando Vita, 5 aprile 2019 La Fondazione Con il Sud promuove una nuova iniziativa per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro. A disposizione 2,5 Mln di euro per interventi in grado di dare una “seconda possibilità” ai detenuti degli istituti penitenziari del Sud. L’invito è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia In Italia il fine della pena, come sancisce la Costituzione all’articolo 27, è rieducativo. Fondazione Con il Sud proprio per affermare questo principio promuove “E vado a lavorare”, seconda edizione del Bando per il reinserimento sociale dei detenuti, attraverso il lavoro. A disposizione 2,5 milioni di euro di risorse private per progetti capaci di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione nelle regioni del Sud Italia. L’invito è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia, che possono presentare proposte di progetto che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti nella comunità, anche con il fine di ridurre i tassi di recidiva. Le proposte dovranno prevedere l’avvio, durante il periodo della detenzione, di esperienze lavorative in grado di favorire l’integrazione socio-lavorativa del detenuto, ritenendo il lavoro una componente fondamentale del processo rieducativo. L’inserimento lavorativo potrà avvenire all’interno o all’esterno delle carceri in realtà già consolidate oppure attraverso la costituzione di nuovi soggetti di imprenditorialità sociale. Inoltre, grazie al protocollo di intesa recentemente sottoscritto dalla Fondazione Con il Sud con il ministero della Giustizia e con l’Anci, le proposte potranno prevedere il coinvolgimento dei detenuti in progetti di pubblica utilità e di volontariato, sempre ai fini del perseguimento dell’obiettivo di integrazione socio-lavorativa del reo. Le proposte dovranno essere formulate da partenariati che comprendano almeno una struttura penitenziaria e almeno un partner del Terzo Settore. Gli altri soggetti componenti la partnership potranno appartenere al mondo delle istituzioni, delle università, della ricerca e del mondo economico. Il bando è disponibile sul sito della Fondazione Con il Sud. È possibile partecipare tramite il portale Chàiros entro il 19 giugno. “È di pochi giorni fa la notizia del secondo Rapporto Space del Consiglio d’Europa, che definisce la situazione delle carceri italiane tra le più drammatiche del continente”, dichiara Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud. “Al centro c’è la questione del sovraffollamento, ma è inevitabile che questo tema si intrecci con quello dei servizi e delle opportunità offerte ai detenuti per compiere un vero percorso rieducativo, così come previsto dalla nostra Costituzione. Con questo bando, vogliamo riaffermare il diritto di ogni persona ad avere una seconda possibilità vera. L’abbiamo chiamato “E vado a lavorare” con l’auspicio che il lavoro possa essere davvero uno strumento di evasione dalle criticità della vita”. Tra programmi di volontariato e progetti selezionati con il primo bado carceri, la Fondazione ha già sostenuto oltre 20 iniziative. Dannata detenzione. Mappa delle carceri italiane di Gaetano De Monte dinamopress.it, 5 aprile 2019 Nelle carceri continua a morire una persona ogni tre giorni. È così da vent’anni, un arco di tempo durante il quale più di mille detenuti si sono tolti la vita. Eppure, le condizioni in cui versa il sistema penitenziario italiano dovrebbero essere ben conosciute dai parlamentari, se non altro perché i deputati lo scorso 27 marzo hanno ricevuto la mappa completa e aggiornata in 400 pagine della reclusione italiana, cioè, la relazione annuale sulla detenzione (del 2018) che il Garante Nazionale Detenuti, Mauro Palma, ha presentato al Parlamento. Un suicidio alla settimana. Un morto, per le cause più disparate, ogni tre giorni. Sono i numeri, le cifre fredde dei decessi nelle celle italiane, nei primi tre mesi del 2019. È un bollettino di guerra che si continua ad aggiornare, di anno in anno. Come ha rilevato in vent’anni di attività l’Osservatorio sulle carceri Ristretti Orizzonti nei penitenziari italiani si muore costantemente, “a causa dell’assistenza sanitaria disastrata, per overdose, per la volontà del detenuto di togliersi la vita, o, in alcuni casi, accade anche che qualcuno di loro muoia per cause e in circostanze, non del tutto chiare”. Il centro studi di Padova ha calcolato che dal 1990 a oggi sono decedute in carcere 2915 persone (i dati sono aggiornati a ieri) e, tra questi, più di un terzo sono stati classificati come suicidi. Nel carcere di Viterbo si muore spesso. L’ultimo decesso in cella è avvenuto qualche giorno fa, lo scorso 29 marzo, nel carcere di Viterbo. Si è trattato di un omicidio; come le cronache hanno riferito “un detenuto indiano, già arrestato lo scorso febbraio per tentato omicidio, ha ucciso un altro detenuto, un uomo italiano di 61 anni, suo compagno di cella, dopo averlo colpito con uno sgabello. La lite sarebbe scoppiata per futili motivi”. E in riferimento all’episodio, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini era intervenuto subito con una nota stampa, annunciando di “aver chiesto l’invio delle relazioni di servizio, al fine di poter ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e valutare eventuali profili di responsabilità da parte del personale”. Scatenando, quindi, uno scontro con il sindacato della polizia penitenziaria che da parte sua non le aveva mandate a dire all’”esimio dott. Basentini”, replicando che “forse le responsabilità andrebbero ricercate in tutti quei politici e quei burocrati dell’Amministrazione Penitenziaria, che tanto si sono adoperati affinché strutture come gli O.P.G. venissero frettolosamente chiuse, per pulirsi le coscienze e per accontentare i diktat europei”. E ancora: “questi sono i risultati di scelte scellerate; pazzi criminali costretti a condividere spazi e celle con persone più o meno normali”. Punti di vista. Quel che è certo è questa vicenda ha acceso da qualche giorno i fari della politica sul carcere di Viterbo, tanto che il ministero della Giustizia ha inviato qualche giorno fa gli ispettori. Non soltanto. Il “carcere dei suicidi”, come era stato battezzato il carcere Mammagialla di Viterbo, aveva ricevuto dieci giorni fa anche la visita del Consiglio d’Europa che ha inviato in Italia una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, “con l’obiettivo di esaminare la condizione dei detenuti sottoposti al regime 41-bis e all’isolamento”. Che più di qualcosa non funzionasse all’interno del penitenziario laziale era già noto. Come aveva denunciato la scorsa estate il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, commentando la notizia del terzo detenuto morto dall’inizio dell’anno nella casa circondariale di Viterbo, il secondo suicida in cella d’isolamento “questo è il segnale di un malessere diffuso le cui cause devono essere portate pienamente alla luce”, aveva detto Gonnella. E ancora, il Garante detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. aveva riferito allora che: “l’uomo in questione, Hassan Sharaf, un detenuto egiziano di 21 anni trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore, alla nostra delegazione che lo aveva incontrato qualche mese prima aveva confidato di aver subito violenze e aveva paura di morire”. Di più, il Garante detenuti del Lazio aveva raccontato che “Sharaf mostrava alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima”. Non soltanto. Questa vicenda era finita, insieme alle denunce di altri detenuti, in un esposto inviato dal Garante alla Procura locale, il 5 giugno scorso del 2018. E, sempre riguardo al “carcere dove si muore spesso”, più di recente il Tribunale di Viterbo ha condannato due medici per il reato di omicidio colposo, “perché non offrirono una giusta e adeguata assistenza medica al detenuto”, l’ex brigatista Luigi Fallico, morto di infarto il 22 maggio 2013 nella cella numero 25 del carcere di Viterbo. Storie, di violazioni dei diritti fondamentali nei penitenziari italiani, che sono ben note. Così come le criticità di tutti i luoghi della pena, del resto, sono ben conosciute dai parlamentari italiani. Nel corso di un anno difficile per i diritti, ha spiegato il Garante nazionale Mauro Palma, preposto al controllo e prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti: “Abbiamo monitorato, visitandoli, centinaia di luoghi di privazione della libertà: carceri, luoghi di polizia, centri per gli immigrati, le Residenze sanitarie per le misure di sicurezza (Rems) le quali hanno sostituto gli Ospedali psichiatrici giudiziari”. E tanta strada c’è ancora da fare per rendere effettive le tutele dei detenuti, ha lasciato intendere Palma; l’occasione è stata lo scorso 27 marzo, quando è stata presentata la Relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Nel discorso introduttivo davanti al Presidente della Repubblica e alle più alte cariche statali, Mauro Palma ha avvertito “del rischio evidente di uno scivolamento da un diritto penale centrato sul reato, a un diritto penale centrato sull’autore, sul nemico, su intere categorie di soggetti in virtù del loro status: i soggetti socialmente deboli connotati da povertà, bisogno e desiderio di abbandonare i propri luoghi di origine. È chiaro qui il riferimento al rapporto tra la privazione della libertà e i processi migratori e su questo il Garante ha ammonito che “la relazione tra infanzia e istituzioni conduce a dire alcune cose sul difficile anno trascorso nell’affrontare i processi migratori verso l’Europa e il coinvolgimento diretto o indiretto che i minori hanno in tali contesti”. E cioè, ha continuato Palma: “per esempio, le prassi frettolose in materia di accertamento dell’età dei migranti, rischiano di attenuare la garanzia assoluta di tutela dei minori che è vanto del nostro Paese”. Ricordando, poi, alle istituzioni repubblicane riunite che “il rischio è ancora maggiore nel contesto del loro trattenimento a bordo di navi per periodi prolungati prima che venga concessa la possibilità di sbarco”. La privazione della libertà delle persone migranti, del resto, è un aspetto della detenzione che sta molto a cuore a Palma, che proprio sul caso della nave Ubaldo Diciotti era intervenuto più volte la scorsa estate, nella convinzione che “sia dovere del Garante nazionale esercitare il proprio controllo non solo sui luoghi in cui la privazione della libertà è formalmente e giuridicamente definita, ma anche sulle situazioni in cui essa si verifica de facto”. Concetti, questi, che Palma aveva espresso qualche mese fa nel corso di una lunga chiacchierata avuta nel suo ufficio romano e che, data la sensibilità, ribadirà, si presume oggi, quando nella Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia italiana, a Roma, sarà presentato il volume Norme e normalità. Standard per la privazione della libertà delle persone migranti, una pubblicazione che raccoglie l’insieme delle raccomandazioni relative alla privazione della libertà, sia de iure che de facto, inoltrate tra il 2016 e il 2018 dal Garante nazionale alle autorità competenti. E sarà proprio sulla privazione della libertà delle persone migranti, negli hotspot, nei centri per i rimpatri, nei Cie, la seconda parte di questa sorta di mappa della reclusione italiana, un viaggio-inchiesta dentro la dannata detenzione. I venti anni del Gom. Bonafede: “Baluardo dello Stato contro le mafie” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2019 Il Ministro della Giustizia al ventennale del Gruppo Operativo Mobile. Il Gom è “una eccellenza assoluta nel panorama delle forze di sicurezza, una task force che rappresenta una risorsa preziosa nel sistema della giustizia e per la sicurezza del Paese. Il mio impegno sarà costante per garantire condizioni di lavoro adeguato”. Lo ha detto ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al ventennale della costituzione del Gruppo operativo mobile (Gom) celebrato con un evento che ha offerto l’occasione per ripercorrere la storia di questo reparto del Corpo della Polizia penitenziaria. Il Gom, tra i vari compiti, si occupa della vigilanza e dell’osservazione dei detenuti sottoposti al regime carcerario speciale (41 bis), di detenuti ristretti per reati di terrorismo e di quelli che collaborano con la giustizia. Gli agenti del Gruppo, nel tempo, hanno assunto la gestione di diversi esponenti della criminalità organizzata. Il numero complessivo di questi ultimi è di 752 ristretti in regime di 41 bis, 7 islamici e un collaboratore di giustizia. Ad aprire la giornata celebrativa, i saluti del direttore del Gom Mauro D’Amico: “D’acqua ne è passata sotto i ponti, ma l’attenzione non è scemata, né si può dire che sia esaurita la “ratio” che determinò la nascita del Gruppo. Basti pensare che dal 1999 sono stati gestiti dal reparto, complessivamente, 1.945 ristretti in regime speciale ex articolo 41 bis”. Il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha definito gli agenti del Gom “nostri collaboratori: lo svolgimento della pena dovrebbe avere la stessa importanza e la stessa attenzione della celebrazione dei processi. All’Ucciardone si brindò nel ‘ 92 sia per la strage di Capaci che per quella di via D’Amelio: come facevano a sapere in carcere cosa sarebbe accaduto? Questo lo dobbiamo ricordare, quando parliamo dell’importanza del 41 bis. Il migliore ringraziamento al Gom lo esprimo con le parole di un detenuto da poco al 41 bis: “Tutto sommato mi trovo bene, perché il personale è molto più professionale”. Ci dicono spesso che abbiamo la peggiore criminalità organizzata, aggiungo io che abbiamo la migliore polizia penitenziaria del mondo”. Secondo il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, il “41 bis è uno strumento necessario e indispensabile per la lotta alle mafie. I vertici delle organizzazioni criminali lo temono oggi come allora”. Il procuratore aggiunto vicario della Dna, Giovanni Russo, tra gli applausi, ha proposto per il 41 bis “la definizione di carcere sicuro, perché rende sicura anche la comunità. Si tratta di un pilastro della lotta alla mafia”. Per il capo del Dap Francesco Basentini, “ci sono alcuni segnali che lasciano presagire un futuro complicato per l’istituto del 41 bis, che oggi è applicato in maniera parziale, a causa di diversi fattori. Penso ad esempio agli orientamenti giurisprudenziali italiani ed europei, come quelli della Corte di Giustizia. Ritengo che gli organi giurisprudenziali dovrebbero avere piena consapevolezza di cosa sia il fenomeno mafioso. Ci sono delle criticità per quanto concerne l’impermeabilità: aumenteranno le sale per le multiconferenze ma è anche vero che così si permette a tutti i detenuti al 41 bis, attraverso il particolare gergo comportamentale, di poter comunicare all’esterno. Poi alcune strutture detentive non sono oggi in grado di assicurare il divieto di comunicazione, per lo meno tra gli stessi detenuti”. E chiude con una proposta: “Si potrebbe istituzionalizzare e rendere sistemico un canale di informazioni tra il mondo delle Procure distrettuali e il Gom, o in generale l’intera amministrazione penitenziaria”. Nel corso della tavola rotonda è stato presentato infine il “pizzino” più antico della storia criminale d’Italia: un fazzoletto di cotone su cui è scritta in bella grafia la “Canzone di Amelia la disgraziata”, una missiva veicolata all’esterno del carcere da un detenuto di spicco della criminalità barese dell’inizio del secolo scorso. Legge spazza-corrotti, da Napoli primo ricorso alla Consulta di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 5 aprile 2019 Gli atti partiranno da Napoli già nelle prossime ore, destinazione Roma. Per la prima volta da quando è entrata in vigore la cosiddetta legge “spazza-corrotti” un giudice solleva questione di legittimità costituzionale della legge numero 3 del 2019, quella che prevede anche con effetto retroattivo - tra l’altro - la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e il divieto di applicazione di pene alternative per chi viene condannato per il reato di corruzione. A sollevare questione di legittimità costituzionale è stato il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Napoli Saverio Vertuccio, che ha accolto il ricorso presentato dal penalista Carmine Ippolito, difensore di un infermiere dell’ospedale Cardarelli condannato con sentenza definitiva a un anno di reclusione perché ritenuto responsabile di aver fatto parte di una “cricca” che dirottava a imprese funebri amiche le pratiche dei defunti che arrivavano all’obitorio del più grande nosocomio del Mezzogiorno. Tecnicamente, nel suo ricorso l’avvocato di Vincenzo Pizza (questo il nome dell’ormai ultrasettantenne e già pensionato infermiere) sollevava dubbi di legittimità costituzionale nella parte in cui la nuova legge “non prevede disposizioni di disciplina intertemporale in riferimento agli ordini di carcerazione emessi nei confronti di coloro che hanno commesso fatti per i quali sono stati giudicati prima dell’entrata in vigore della normativa che ha previsto la maggiore afflittività del trattamento sanzionatorio”. Tradotto in soldoni: essendo stato il parasanitario condannato prima che venissero introdotte le nuove norme anticorruzione ad una pena inferiore ai quattro anni (che consentirebbe l’accesso a misure alternative alla detenzione), la difesa ritiene che vi sia una lesione del diritto costituzionalmente protetto dal condannato. Lo spirito della legge “spazza-corrotti” andrebbe in tutt’altra direzione - e questo è il motivo che ha indotto il Gup a sollevare questione di legittimità davanti alla Consulta - quando inserisce il reato di corruzione tra quelli che impediscono la concessione di benefici alternativi alla pena in carcere. Solo poche ore dopo la decisione presa dal Gup di Napoli da Lecce è giunta la notizia di un secondo ricorso alla Corte Costituzionale. A muoversi, nel pomeriggio di ieri, sono stati i giudici della Corte d’Appello di Lecce che hanno investito la Consulta nell’ambito di un processo per peculato relativo a denaro sottratto alla Asl di Taranto e arrivato a Lecce a seguito di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione nel 2013. Legittima difesa. Ci sono leggi presentate per come esse non sono di Carlo Valentini Italia Oggi, 5 aprile 2019 Per correre dietro agli slogan che lisciano un certo sentimento di un blocco elettorale di riferimento si finisce nel campo delle fake: provvedimenti che esaltano l’afflato collettivo di chi tifa per quella svolta, salvo poi subentrare la frustrazione della delusione. È quanto sta accadendo a proposito della legge sulla legittima difesa che è stata presentata, in buona parte, per quella che non è. Innanzitutto è stato veicolato il messaggio che ci si può difendere da sé, tanto che unanimemente varie inchieste realizzate nelle armerie hanno indicato che è aumentato il numero di coloro che si sono recati in negozio a chiedere un’arma. Salvo poi sentirsi rispondere che nulla è stato modificato sui meccanismi di vendita e quindi occorre essere in possesso del porto d’armi, rilasciato (dopo un’istruttoria) dal prefetto. Intendiamoci, acquistare un’arma è una questione delicata e sarebbe stato abominevole liberalizzarne (o quasi) la vendita. Ma l’immagine del Far West (proposta dalle opposizioni) e quella di “ognuno d’ora in poi potrà difendersi” (veicolata dai promotori) non corrispondono alla realtà. L’iter per entrare in possesso di un’arma è (giustamente) rimasto quello dì una volta, nulla è mutato. Il secondo impatto riguarda la legittimità della difesa. Un problema sollevato dai fatti di cronaca in seguito alla tortura giudiziaria cui era sottoposto chi si difendeva, arrivando all’abnorme concessione di risarcimenti a coloro che si macchiavano del reato ma erano stati oggetto di una reazione che gli aveva procurato danni fisici. Anche in questo caso all’opinione pubblica è arrivata la suggestione di un diritto insindacabile a reagire con ogni mezzo. Invece sarà sempre l’autorità giudiziaria a decidere se la reazione si basava sulla difesa e non su altro. C’è da aggiungere che la riforma prevede la presunzione che la difesa sia legittima nel caso in cui ci si senta in pericolo, cancella di fatto la possibilità di risarcimento, concede un sostegno economico a chi subisce il danno nell’ipotesi venga indagato. Questi aspetti della legge sono meno appariscenti ma qualificanti sul piano della sicurezza. Mentre, come sottolineano preoccupati i poliziotti, più armi significa più pericolo, anche per chi deve intervenire. Quindi attenzione alle leggi-bandiera, che fanno sventolare quello che non c’è. Se fossero più pensate e calibrate riuscirebbero meglio a raggiungere l’obiettivo per cui sono varate. “Niente pistole facili” Così i 5S arginano Salvini. La proposta di Crucioli e Ferrara di Francesco Lo Dico Il Dubbio, 5 aprile 2019 Un’anagrafe per le armi da fuoco e vincoli più restrittivi per chi le tiene in casa, che possono far scattare il sequestro di pistole e fucili in caso di disturbi psicologici. L’artiglieria del Movimento è pronta a cannoneggiare la corsa agli armamenti lanciata dalla tolda di comando del Carroccio, grazie a un disegno di legge che porta la firma dei senatori Mattia Crucioli e Gianluca Ferrara. Prima c’è stato il varo della legittima difesa, poi il progetto di allentare le maglie per l’acquisto di bocche da fuoco firmato da settanta leghisti e stoppato da Salvini tra le polemiche. Un uno-due micidiale che ha fatto scattare l’allarme in casa Cinque Stelle. Dopo la corsa agli armamenti lanciata dall’alleato, diventa più concreto il pericolo di dare la stura ad altri casi come quello di Traini, il killer di Macerata che era in cura da tempo per disturbi border line, ma era legittimo possessore di sei pistole sportive, nonostante al poligono nessuno lo avesse mai visto. E così il M5s ha deciso di correre ai ripari, grazie a un disegno di legge snello ma efficace. Il primo articolo modifica il testo unico di pubblica sicurezza. Per avere il nulla osta dalla questura chi vorrà dotarsi di un’arma da fuoco dovrà esibire un certificato del medico provinciale, o dell’ufficiale sanitario, o di un medico militare, che dovrà documentare, oltre all’assenza di malattie mentali come avviene oggi, anche l’assenza di “disturbi psicologici, compresi i disturbi della personalità”. Il secondo articolo della proposta prevede invece l’istituzione di “un’anagrafe informatizzata dei detentori di armi”. Di che si tratta? In buona sostanza, una volta recepite le segnalazioni dal personale medico- sanitario, le aziende sanitarie locali dovranno accedere alla banca dati e avranno l’obbligo di segnalare entro tre giorni alle Autorità di Pubblica sicurezza eventuali riscontri negativi del profilo psico-comportamentale dei pazienti a rischio. E a quel punto scatterà la tagliola: le forze dell’ordine dovranno procedere immediatamente al sequestro delle armi. “L’obiettivo del provvedimento - spiega al Dubbio il cofirmatario della legge Matta Crucioli, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato - è fare in modo che gli operatori sanitari che hanno informazioni su soggetti in cura per malattie mentali o che hanno disturbi della personalità, pericolosi per sé o per gli altri, abbiano accesso alla banca dati informatizzata per verificare se questi siano detentori di armi. In quel caso le persone a rischio dovranno subito essere segnalate alle autorità competenti, che provvederanno alla revoca di autorizzazioni e licenze”. Un vero e proprio cambio di paradigma, rispetto alla disciplina vigente. A oggi, quando si richiede il permesso di tenere in casa un’arma, occorre infatti presentare un certificato medico che attesti l’assenza di rischi di un uso improprio. “Ma è anche vero - chiosa il senatore del M5s Crucioli - che una volta ottenuto il permesso il soggetto non viene più monitorato per 4 o 5 anni, a seconda della durata della licenza”. Con possibili e nient’affatto trascurabili effetti collaterali. “Se anche il medico individua qualche patologia psicologica nel paziente, non è in grado di sapere se questi è possessore di un’arma, e in ogni caso non ha il dovere giuridico di segnalarlo alle autorità”, sottolinea Crucioli. È questo il cuore del ddl grillino: mettere finalmente in comunicazione sanità e forze dell’ordine, due mondi che oggi non si parlano. Spesso con conseguenze nefaste. “Lo stimolo a lavorare sul provvedimento - racconta l’altro coautore del ddl, Gianluca Ferrara - ci è giunto dalla Onlus di Viareggio Ognivolta”. La ministra Bongiorno: “Codice rosso è priorità. Sulla castrazione convinceremo i 5S” Angelo Picariello Avvenire, 5 aprile 2019 Intervista a Giulia Bongiorno: “Riproporremo la castrazione chimica con un disegno di legge: terapia solo con il consenso dell’interessato e sempre reversibile. Sarà utile a prevenire la pedofilia”. Giulia Bongiorno è fiduciosa che lo strappo nella maggioranza sulla “castrazione chimica” possa essere superato. “È una terapia all’avanguardia, altro che preistoria. Si tratta di un trattamento farmacologico, accettato a certe condizioni - che io condivido - dal Consiglio d’Europa”, ricorda la ministra della Pubblica amministrazione. Era stata proprio lei a chiederne il rinvio, di fronte alla ferma opposizione del M5S, ma è convinta che il discorso potrà essere ripreso in seguito. Una questione più che altro nominalistica, quindi? Di certo il nome evoca ferocia, ma la “castrazione chimica” non ha niente a che vedere con la castrazione fisica. È un trattamento inibitorio della libido, che deve essere volontario e del tutto reversibile. Inoltre ci dovrà es sere il consenso pieno e informato della persona che vi si sottopone. Una volta spiegate bene tutte queste cose, sono convinta che le incomprensioni con gli alleati potranno essere superate. Come intendete procedere? Con un disegno di legge organico che spieghi meglio il provvedimento si capirà bene che si tratta di una misura che - essendo volontaria e reversibile - è adeguata all’esigenza di prevenire la reiterazione di alcuni reati gravi, come la pedofilia. Il “Codice rosso” invece è passato. Ma più che creare sempre nuove fattispecie giuridiche non sarebbe più urgente rafforzare la prevenzione, i consultori, i centri di ascolto? Qui non si creano nuove tipologie di reato. Con questa norma brevissima, di tre righe, si stabilisce solo che una donna che denunzia una violenza deve essere sentita subito. Il nome Codice Rosso richiama il sistema di priorità in uso al pronto soccorso. Ma non si rischia di agire sempre sull’emotività suscitata da casi di cronaca? Per quanto mi riguarda non c’è niente di emotivo, legato a casi recenti: è una proposta alla quale penso da decenni. Ho incontrato negli anni, già da quando ero avvocato a Palermo, donne che presentavano denunce per abusi e violenze sessuali, ma venivano massacrate, anche uccise, prima ancora di venire ascoltate o che si aprisse un procedimento. Pensavo fin da allora che fosse dovere dello Stato aiutare subito una donna che chiede aiuto. Poi con l’associazione ‘Doppia difesa’ abbiamo lanciato insieme a Michelle Hunziker questa proposta, Codice Rosso, fatta propria dalla Lega e poi anche dagli alleati di M5S, e alla fine è stata condivisa un po’ da tutti. Credo che la donna che ha avuto delle lesioni, o ha dei rischi imminenti, vada ascoltata subito. E ora questo principio è garantito dalla legge. Ma se sulla castrazione chimica lamentate una percezione sbagliata, su altre questioni, come la legittima difesa, non è accaduto il contrario, visto che i casi sono 3-4 l’anno? Contesto che i casi di legittima difesa siano così pochi come si dice. Spesso episodi di legittima difesa vengono iscritti nel registro delle notizie di reato come casi di omicidio colposo o volontario, e non compare l’articolo 52, che regola la legittima difesa. Quindi le statistiche risultano falsate. Ma l’inasprimento delle pene che chiedete non cozza con il drammatico sovraffollamento delle carceri? Mi ritengo autenticamente garantista, e questo non è in contrasto con il principio della certezza della pena. Proporremo presto al ministro Bonafede, che sta lavorando sul codice di procedura penale, misure che andranno proprio in direzione del garantismo. È necessario essere più rigorosi sull’applicazione delle misure cautelari. Se eviteremo di ingolfare le carceri con persone in attesa di giudizio avremo uno sfoltimento notevole, si tratta anche di ridurre i tempi dei processi. Il vero dramma è vedere persone, in carcere prima dei processi, che poi risultano innocenti. Ma per le famiglie, ora non dovreste fare di più? La famiglia sta a cuore alla Lega, e già molto è stato fatto. Io credo che vada ancora di più aiutata la donna. Ad esempio, come Pubblica amministrazione, interverremo sulla conciliazione famiglia-lavoro. Stiamo facendo dei progetti in tal senso, soprattutto per il periodo delle chiusure delle scuole. La formula dello smart working (lavoro agile) va incentivata: è uno strumento importante, ma ad oggi poco utilizzato. Rischio di oblio per 1,4 milioni di sentenze penali di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2019 Cancellate all’improvviso. Un milione e 400mila condanne dovrebbe sparire subito dalla banca dati delle forze di polizia, più nota come Sdi (sistema di indagine). Sono quelle penali o le decisioni di sorveglianza speciale per le persone “pericolose” emanate prima del 1994. Il Dpr attuativo delle norme sulla privacy, destinato ai dati dello Sdi, prevede dopo 20 anni, nei casi più gravi 25, la cancellazione dei precedenti. Totale e irrecuperabile. Il regolamento è in corso di approvazione e pubblicazione. Secondo gli esperti del Viminale, in assenza di modifiche scatenerà problemi di ogni genere. La questione sta per finire sui tavoli del comandante generale dell’Arma, Gianni Nistri, del numero uno della Gdf, Giorgio Tonchi, e in particolare di Franco Gabrielli, al vertice del dipartimento Ps. Lo Sdi è interforze ma collocato presso la direzione centrale Polizia criminale dove da venti giorni è arrivato Vittorio Rizzi. Tra gli addetti ai lavori si parla di una vera e propria “mutilazione” del valore della banca dati dove ogni giorno poliziotti, carabinieri e finanzieri immettono dati. Gli esempi di attuazione delle nuove norme sono agghiaccianti. Un uomo di mezza età si aggira con fare sospetto davanti a una scuola, gli agenti però non possono allontanarlo se non ci sono precedenti nello Sdi. In realtà il soggetto da giovane aveva avuto una condanna per pedofilia ma dopo 25 anni è stata cancellata dagli archivi informatici del Viminale. Un incubo. L’oblio scatta in media ogni 20 anni, peri reati più gravi dopo 25. Incide sui processi, se il giudice chiede accertamenti sui soggetti coinvolti nei procedimenti. Falsa le autorizzazioni: il questore può rilasciare una licenza o il porto d’armi senza sapere fatti o reati ormai spariti. Riduce l’azione di prevenzione e indagine. Per le diverse inchieste di stragi avvenute 30-40 anni fa e ancora aperte l’effetto “mutilazione” è evidente. Certo, le discussioni accese tra l’ufficio del Garante della privacy oggi diretto da Antonello Soro e il ministero dell’Interno guidato da Matteo Salvini durano da diversi lustri. Ma l’attuazione delle norme sulla riservatezza per lo Sdi, a detta di tutti doverosa e incontestabile, rischia di sbattere contro esigenze di sicurezza nazionale sottolineate e rilanciate da Salvini e il governo presieduto da Giuseppe Conte. Giuseppe Tiani, numero uno Siap (sindacato italiano appartenenti polizia) ha inviato una lunga nota al Viminale. La cancellazione dei dati Sdi prospettata dal Dpr “denota come la tutela della privacy venga anteposta agli scopi istituzionali delle forze di polizia” scrive Tiani. Prendiamo il caso, il 20 marzo, di San Donato Milanese, la strage sventata, grazie alla prontezza dei carabinieri, di 51 ragazzi su uno scuolabus guidato dal senegalese, cittadino italiano dal 2004, Ousseynou Sy, che ha dato fuoco al mezzo. Dopo le numerose polemiche per i precedenti penali di Sy non verificati dalla sua azienda, il ministero dell’Interno ha inviato a prefetti e questori di tutt’Italia una prima direttiva del capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, e poi una seconda del prefetto Gabrielli. Per sottolineare l’assoluta necessità di fare ogni genere di verifiche in caso di controlli ai conduttori di mezzi pubblici, in particolare se trasporti di minori. Facile, dunque, ipotizzare l’esempio aberrante: un autista con precedenti cancellati dopo 20 0 25 anni può scorrazzare in libertà. Il rischio cresce a dismisura, il potere dei controlli ha le mani tagliate. Quasi inutile aggiungere come a giovarsi per primi di un oblio abnorme sono i professionisti del crimine, soprattutto quello oggi più subdolo e devastante. Insospettabili colletti bianchi collusi con la criminalità organizzata, grandi evasori, riciclatori di montagne di denaro sporco, dirigenti corrotti pubblici e privati. Come ha detto qualcuno sconsolato al Viminale “di privacy si può morire”. La nuova class action amplia la platea di chi esercita l’azione risarcitoria di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2019 La nuova disciplina prevista nel Codice di procedure civile in materia di azione di classe, approvata mercoledì in via definitiva dal Senato (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), cancellando ogni precedente riferimento a consumatori e utenti, introduce la facoltà di esperire l’azione giudiziaria per tutti coloro che avanzino un diritto al risarcimento di danni contrattuali ed extracontrattuali relativi alla lesione di “diritti individuali omogenei” (non più quindi, come era previsto nel codice del consumo, ad “interessi collettivi”). Ciascun componente della cosiddetta “classe”, ovvero le organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro che avranno come obiettivo la tutela dei suddetti diritti, e che saranno iscritte in un elenco tenuto dal ministero della Giustizia, saranno quindi nella titolarità di poter esperire la loro azione risarcitoria. Nella nuova normativa è stato pertanto ampliato in modo significativo l’ambito di applicazione oggettivo dell’azione, che è esperibile a tutela delle situazioni soggettive maturate a fronte di condotte lesive sia per ottenere l’accertamento della responsabilità che per avere la condanna al risarcimento del danno e alle eventuali restituzioni contrattuali ed extracontrattuali. I soggetti passivi delle azioni di classe sono individuati dalla norma (articolo 840 bis e seguenti del Codice di procedura civile) nelle imprese commerciali ma anche nei confronti di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle rispettive attività. Altro elemento di novità assoluta è la disciplina del compenso derivante dall’azione di classe che si sostanzia in una vera propria quota lite, che già autorevole dottrina (si veda ancora Il Sole 24 Ore di ieri) ha paragonato ad una sorta di anticipazione di danni punitivi in quanto somma aggiuntiva al risarcimento tradizionale classico. Questa nuova voce di danno sarà una somma che, a seguito del decreto del giudice delegato, il soggetto passivo in caso di condanna dovrà corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e al difensore dei partecipanti all’azione di classe. Questa nuova voce di danno sarà liquidata attraverso una percentuale dell’importo complessivo derivante dalla condanna principale che i destinatari delle azioni di classe saranno condannati a pagare. Tale percentuale secondo la nuova normativa verrà calcolata in base al numero dei componenti la classe in misura inversamente proporzionale, sulla base di sette scaglioni progressivi: da 1 a 500 componenti, in misura non superiore al 9%; da 501 a 1.000, in misura non superiore al 6%; da 1.001 a 10.000, in misura non superiore al 3%; da 10.001 a 100.000, in misura non superiore al 2,5%; da 100.001 a 500.000, in misura non superiore all’1,5%; da 500.001 a 1.000.000, in misura non superiore all’1%; oltre 1.000.000, in misura non superiore allo 0,5%. È evidente che l’introduzione di questa nuova azione di classe non potrà non avere effetti immediati e diretti anche sui bilanci e gli accantonamenti dei fondi rischi ed oneri delle aziende pubbliche e private,e dovrà anche essere analizzato il trattamento fiscale dei risarcimenti erogati ed erogandi. Nel caso dei bilanci delle aziende i criteri di prudenza nel valutare i contenziosi dovranno letteralmente fare i conti con la nuova norma che oltre ad ampliare l’ambito dei diritti estende significativamente la platea dei soggetti passivi ed attivi con la possibile moltiplicazione dei risarcimenti e delle percentuali aggiuntive e punitive previste. Relativamente al trattamento fiscale andrà valutato se e in che misura sarà possibile la deduzione del risarcimento da parte del soggetto erogante e l’eventuale tassazione del risarcimento del soggetto percipiente. Infine, visti i nuovi rischi per le imprese, andranno valutate le assicurazioni professionali esistenti e probabilmente saranno introdotte nuove forme di coperture assicurative. “Il saluto nazista è una manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita” di Manuela Messina La Stampa, 5 aprile 2019 Motivazione shock di una sentenza con cui sono stati prosciolti dei neonazisti. Avere urlato il motto nazista “Sieg Heil” alla cerimonia commemorativa per i caduti della Repubblica sociale italiana, nell’aprile di due anni fa al Campo X a Milano, è “una manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita”. Così per il giudice di Milano Maria Angela Vita che ha assolto “perché il fatto non sussiste” tre giovani che ostentarono simboli fascisti e nazisti il 24 aprile 2016 alla manifestazione che ogni anno si svolge al cimitero Musocco, nel capoluogo lombardo. I tre - Alessandro Botrè, 30 anni, Alessio Polignano, 43 anni e Liliane Tami, 27 anni - erano finiti a processo per avere violato l’articolo 5 della legge Scelba, che sanziona appunto chi compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e delle organizzazioni naziste. Gli imputati infatti non solo gridarono lo slogan della Germania di Hitler ma fecero il saluto romano ed esposero lo stendardo della “Associazione combattenti 29esima divisione granatieri Waffen-Ss”. Il giudice sostiene che è diritto dei cittadini esprimere liberamente il proprio pensiero, quando con non vi sia pericolo concreto per la “tenuta dell’ordine democratico”. Peccato che nella stessa Costituzione non solo non vi sia traccia di forme di tutela verso qualsiasi manifestazione del pensiero che porti a ideologie totalitarie, ma anzi la stessa carta vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Scrive il giudice della settima sezione penale del Tribunale milanese che i “simboli fascisti e nazionalsocialisti ostentati nel corso della cerimonia” sono stati una “manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, all’interno di un contesto commemorativo (e non un attentato concreto alla tenuta dell’ordine democratico) e come tali, pertanto, privi di quella offensività concreta vietata dalla legge”. Il giudice ha valutato infatti che la norma della Legge Scelba punisce “quelle manifestazioni del partito fascista che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste”. Ma nel caso della cerimonia al campo X, le “circostanze e le modalità della cerimonia funebre (…) pure a fronte dell’ostentazione da parte degli odierni imputati di gesti, comportamenti ed emblemi indiscutibilmente di stampo fascista e nazionalsocialista, non appaiono, al Tribunale, tali da suggestionare concretamente le folle, ed indurre negli astanti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista”. Per di più ha sottolineato il “carattere esclusivamente commemorativo” e “pacifico” della cerimonia che era “esclusivamente rivolta ai defunti, in segno di omaggio e di umana pietà, senza alcuna finalità di restaurazione di carattere fascista o nazionalsocialista”. Sentito in aula al processo, Botrè, che è iscritto all’ordine dei giornalisti della Lombardia, aveva ammesso di avere voluto evocare i “valori del nazionalsocialismo”. Per Polignano si trattò invece solo di un “ricordo storico”. Sequestro penale di stipendi e pensioni con limiti di garanzia di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2019 Il sequestro penale di stipendi e pensioni è subordinato alle limitazioni previste in caso di pignoramento civile. A precisarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 14606/2019 A un imprenditore indagato per omesso versamento Iva venivano sequestrate preventivamente somme depositate sul proprio conto. L’interessato, ritenendo applicabile le regole del codice di procedura civile sul pignoramento, ne chiedeva la restituzione evidenziando che si trattava di stipendi. Infatti a norma dell’articolo 545 del Codice di procedura civile le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro, comprese quelle dovute per licenziamento e pensione, nel caso di accredito sul conto intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento. Se invece l’accredito è stato eseguito alla data del pignoramento o successivamente, le somme possono essere pignorate nei limiti previsti da altre norme (variabili da un quinto alla metà). La richiesta di dissequestro era respinta e l’interessato ricorreva per Cassazione. Evidenziava, tra l’altro, che il divieto di sequestro delle somme in argomento costituiva regola generale dell’ordinamento processuale, finalizzata alla tutela di un diritto fondamentale garantito dall’articolo 2 della Costituzione. Detto limite opererebbe non soltanto in caso di sequestro presso il datore di lavoro obbligato alla corresponsione, ma anche in caso di versamento con accredito bancario, senza che possa opporsi l’intervenuta “confusione” nel patrimonio dell’interessato allorquando - come nella specie - fosse stata fornita prova documentale della provenienza. La Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che nonostante l’articolo 545 faccia riferimento al pignoramento, le regole previste devono ritenersi espressione di un principio generale sicché deve farsene applicazione anche con riguardo al sequestro penale e, segnatamente, quello preventivo. Secondo i giudici, non sarebbe ragionevole ritenere in questo campo applicabile l’opposto principio secondo cui, una volta versati sul conto del debitore gli emolumenti si confondono nel patrimonio perdendo la loro natura alimentare. La sentenza enuncia così il principio di diritto secondo cui il sequestro preventivo non può essere eseguito su somme corrispondenti al triplo della pensione sociale giacenti sul conto del destinatario della misura, se tali somme sono riconducibili a emolumenti corrisposti nell’ambito del rapporto di lavoro o d’impiego. Monza: da detenuti ad imprenditori, prende il via protocollo per il reinserimento sociale di Massimo Chisari mbnews.it, 5 aprile 2019 Dare una seconda possibilità, guardando al lavoro come ad uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale. Questo è l’obiettivo che ha mosso associazioni di categoria e istituzioni, nell’avviare un progetto formativo dedicato all’imprenditorialità e rivolto agli ex detenuti. “Il nostro intento è quello di avvicinare il pianeta del carcere al mondo del lavoro, che toglie dall’ozio e dà dignità”. Lo aveva spiegato la direttrice del carcere di Monza, Maria Pitaniello, lo scorso 15 maggio durante la firma del protocollo di intesa, il primo a livello nazionale, per il reinserimento lavorativo di ex detenuti. Ed è sull’onda di questo protocollo, che proprio ieri, mercoledì 4 aprile, all’interno della sede dell’Ordine dei Commercialisti di Monza ha preso avvio il corso di orientamento all’autoimprenditorialità. Si tratta di un progetto che asseconda la vocazione degli ex detenuti presi in considerazione. Quella di voler fare qualcosa di proprio nella vita, sfruttando delle specifiche capacità. Ma, soprattutto, vuole essere un modo concreto per allontanarli dall’illegalità. A spiegarlo è stato proprio Giuseppe Airò, presidente della sezione dibattimento penale del tribunale di Monza. Il magistrato ha posto l’accento sulla necessità di far intravedere agli ex detenuti che un’altra strada esiste. “Un modo concreto - ha spiegato - per combattere la recidiva. Del resto - chiarisce Airò - se non hanno un aggancio con la vita vera, sono portati a delinquere ancora”. E in questo caso la statistica fa da testimone. Il livello di recidiva di chi lavora scende ad un 19% circa. Quello di chi non lavora, invece, sale al 70%. Responsabilizzare, quindi, diventa la parola d’ordine. E c’è chi vuol fare il parrucchiere e chi l’artigiano. C’è, in sostanza, chi ha voglia di rimettersi in gioco ed avere una seconda possibilità. “Aiutati che il ciel ti aiuta”, dice il detto, ma in questo caso, senza un aiuto che viene dall’alto, i buoni propositi sarebbero rimasti tali. “Investire nella risocializzazione di queste persone - sottolinea Airò - ha un ritorno in termini di sicurezza collettiva”. Ed è qui che subentrano le associazioni di categoria. Da Assolombarda ad Apa Confartigianato, passando per Unicredit che, come ha raccontato Massimo Giannotti, ha fornito micro crediti a persone non bancabili. Il corso è rivolto ad un gruppo di 15 persone, tutti in affidamento o in regime di messa alla prova. Mentre il corso, si ricorda, è strutturato all’interno della sede dell’Ordine dei Commercialisti. Prevede sette incontri per un totale di 14 ore, ogni mercoledì dalle 16 alle 18. Due ore tonde durante le quali si avvicenderanno in cattedra diversi esperti. Quelli di Assolombarda, per quanto riguarda l’idea di impresa. Gli esperti dell’Ordine dei Commercialisti per i moduli di fiscalità e finanza, ed esperti di Unicredit per i moduli di competenze bancarie e finanziamenti all’imprenditoria. Ultimi, ma non ultimi, gli esperti di Apa Confartigianato, per i moduli di marketing e comunicazione. Una formazione a tutto tondo, insomma, che vuole promuovere una vocazione verso competenze ben specifiche. “In un contesto economico come quello attuale - ha commentato Fabio Colombo, vicedirettore del presidio territoriale di Assolombarda - è importante stimolare l’imprenditorialità e supportare percorsi formativi che abbiano al centro la crescita delle parti più fragili della società”. Dello stesso avviso è stato Federico Ratti, presidente dell’Ordine dei Commercialisti, che ha sottolineato l’importanza del percorso formativo. “Questo progetto - ha spiegato - va nella direzione voluta dal protocollo e siamo lieti che questo corso sia svolto presso la nostra sede, che ospita iniziative rivolte al mondo economico e sociale”. Palermo: licenza media o diploma, il sogno dei detenuti-studenti di Cinzia Valente gnewsonline.it, 5 aprile 2019 Studiare all’interno del carcere per costruirsi un futuro diverso. I detenuti reclusi a Palermo nei penitenziari dell’Ucciardone e Pagliarelli tornano sui libri. Sono in tanti quelli che dietro le sbarre cercano di conseguire la licenza media o una qualifica che consenta di avere una possibilità in più per reinserirsi nella società a fine pena. Molti, dovendo scontare tra i due e i cinque anni, scelgono di mettere a frutto il tempo studiando e il percorso preferito è quello del settore alberghiero. All’Ucciardone per la prima volta quest’anno tre detenuti concluderanno l’intero percorso superiore e in totale sono circa 120 quelli che hanno ripreso gli studi. Al Pagliarelli i corsi dell’alberghiero sono seguiti da circa 120 reclusi mentre altri hanno scelto di frequentare quelli per ottico e odontotecnico. In 50 stanno cercando di portare a termine le scuole medie. La direttrice, Francesca Vazzana, conta di coinvolgere nell’arco di due anni altri 400 detenuti in corsi professionali organizzati dalla Regione. Verranno così formati pasticcieri, coltivatori, muratori ed elettricisti, professionalità da far valere una volta fuori dal carcere. Alcuni detenuti vengono assunti direttamente dall’istituto penitenziario, altri riescono a ottenere misure alternative alla detenzione per poter lavorare all’esterno. Dalla Sicilia esempi di impegno che caratterizzano storie di riscatto per realizzare concretamente un percorso di riabilitazione e reinserimento. Busto Arsizio: teatro dal carcere, l’umanità di “Ginestre” al Sociale di Francesco Tomassini malpensa24.it, 5 aprile 2019 “Perché fiorire si può e si deve anche in mezzo al deserto”. A portare in scena “Ginestre”, ispirato dal libro “Essere Esseri Umani” di Marta Zighetti, sarà un gruppo eterogeneo di attori detenuti e liberi, accompagnato dal coro Macramè diretto dal maestro Marco Belcastro. Lo spettacolo, che debutterà al Teatro Sociale mercoledì 10 aprile alle 21, è stato realizzato in collaborazione con la direzione della casa circondariale e dell’area educativa dell’istituto, e con il sostegno dell’assessorato ai Servizi sociali di Busto Arsizio guidato da Miriam Arabini. Il ricavato dell’evento andrà a sostegno delle attività dell’associazione Oblò in carcere. Storie del passato e aspirazioni per il futuro - “Echi di letterature antiche si intrecciano a storie di vita in cui ferite e sogni, motivi di orgoglio o di vergogna, eredità di ricordi e sguardi sul futuro dipingono con struggente delicatezza la parabola del nostro essere al mondo”. Lo spettacolo “Ginestre” richiama quel fiore del deserto che Giacomo Leopardi, quasi prossimo alla morte, sceglieva come simbolo dell’eroica capacità dell’uomo di sopravvivere al trauma e alla sofferenza per progredire oltre ad esse, grazie al mutuo aiuto e alla cooperazione con “l’umana compagnia”. Sotto la guida della regista Elisa Carnelli, l’eterogeneo gruppo dei “Contaminati” (attori detenuti e liberi cittadini che recitano fianco a fianco) ha messo in campo la propria umanità per svelarsi e svelare con coraggio le dimensioni del nostro essere. Storie del proprio passato e aspirazioni per il futuro, dal coltello che un bimbo di sette anni lancia alla propria madre, al proclama “sono nato criminale, ma non morirò criminale”. Scorci di storie commuoventi ed intense, raccontate con immagini che cercano il simbolico. Collaborazione tra individui e umana compassione sono i temi del saggio “Essere esseri umani” di Marta Zighetti a cui lo spettacolo poeticamente si ispira, traducendo in azioni, immagini e racconti biografici la lucida sintesi che la psicoterapeuta opera nella descrizione della nostra specie dal punto di vista culturale, biologico, psicologico e neuro scientifico. L’Oblò e l’esperimento Contaminazioni - L’associazione di promozione sociale L’Oblò Onlus Liberi Dentro, costituita nel 2016, nasce dall’esperienza dei suoi fondatori fra carcere, teatro e scuola. Si occupa di realizzare interventi riabilitativi e risocializzanti attraverso l’uso di terapie a mediazione artistica per favorire il benessere psicofisico e la qualità della vita di detenuti, ex-detenuti e le loro famiglie. L’esperienza maturata nel carcere di Busto Arsizio dal 2008 negli ultimi anni si è ampliata e aperta alla cittadinanza. Nella primavera del 2017 L’Oblò Onlus ha lanciato l’esperimento di Contaminazioni, una serie di laboratori espressivi per persone libere e diversamente libere che si sono svolti nella casa circondariale sotto la guida di professionisti esperti in vari settori (scrittura drammaturgica, vocalità espressiva, danza e movimento). Ispirandosi ai temi trattati nel libro “Essere esseri umani” della psicoterapeuta Marta Zighetti, tutti i sabati mattina, per un anno, un gruppo di una decina di appassionati di teatro è entrato in carcere e ha lavorato fianco a fianco con gli attori detenuti nella creazione di “Ginestre”, il nuovo spettacolo teatrale della compagnia L’Oblò. Migranti privati della libertà, le raccomandazioni del Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 aprile 2019 Presentato a roma il volume con i consigli per gestire il fenomeno. La detenzione amministrativa diventa sempre di più uno strumento cardine del governo per gestire il fenomeno migratorio. Una detenzione, quella per i migranti sprovvisti di un regolare titolo di soggiorno destinati al rimpatrio, che non riesce a distinguersi da quella penale. Anzi, il paradosso vuole che i migranti rinchiusi nei centri per il rimpatrio, sono addirittura meno tutelati rispetto ai detenuti ristretti negli istituti penitenziari, perché non esiste infatti un ordinamento che dettagliatamente ne regoli quotidianità e tutele, né una magistratura chiamata a vigilare con continuità su ciò che accade al loro interno. Questo e altro ancora viene evidenziato nel volume “Norme e normalità. Standard per la privazione della libertà delle persone migranti” presentato ieri, a Roma, presso la Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, dal Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. A moderare l’incontro è stata la giornalista di Internazionale Annalisa Camilli, hanno partecipato in qualità di relatori Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, Donatella Di Cesare, professore ordinario di Filosofia alla Sapienza e Mario Morcone, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, Daniela de Robert, componente del Collegio del Garante nazionale e Massimiliano Bagaglini, responsabile dell’Unità organizzativa “Privazione della libertà e migranti” del Garante nazionale. Il volume contiene le raccomandazioni suddivise in tre capitoli: la privazione della libertà de iure, quella de facto e quella relativa ai voli di rimpatrio forzato. Tre mondi diversi che il Garante ha osservato e analizzato, visitando più volte tutti i Centri e monitorando tutte le fasi delle procedure di rinvio dei migranti nel loro Paese a seguito di una espulsione o di un respingimento differito. Tre raccomandazioni offerte a tutti gli attori coinvolti: le Istituzioni innanzitutto con cui il Garante nazionale collabora per innalzare sempre i livelli di tutela dei diritti di ogni persona, ma anche gli Enti gestori dei Centri, i giudici di pace, gli avvocati, la società civile, il mondo dell’Università e della ricerca. Ma le raccomandazioni, alla luce della rilevanza sociale e politica che la detenzione amministrativa sta assumendo in Italia e non solo, con inevitabili ricadute sulla cultura generale del nostro Paese, non bastano e quindi il Garante ha inserito nel volume anche l’elaborazione di standard per la privazione della libertà delle persone migranti. Uno strumento, ancora una volta fondato sull’esperienza dell’osservazione diretta, realizzata con le visite non annunciate ai Centri. Sono, in sintesi, delle linee guida elaborate tenendo conto delle draft European Rules on the administrative detention of migrants e degli standard internazionali applicabili alla materia. Nel 2018 sono passate nei Centri di permanenza per il rimpatrio 4.092 persone. Numeri relativamente piccoli, ma nemmeno tanto se si considera che di essi a essere stati effettivamente rimpatriati sono stati in 1.768, poco più del 43%. Niente a che vedere, tuttavia, con le dimensioni delle migrazioni degli anni passati. Ma, come si legge nell’introduzione del Volume a firma di Daniela de Robert, “dietro ogni numero, dietro ogni singola cifra ci sono volti”. Esattamente come quelli rappresentati nel murales di Lampedusa che viene scelto come copertina del volume, “ci sono persone, vite che portano con sé speranze, sogni, delusioni, dolori, gioie, disperazioni, violenze subite, dignità perse o ritrovate. Vite che i numeri non conoscono e non raccontano”. La Lega lavora per aumentare le armi in circolo, il Movimento per ridurne la diffusione. Il Carroccio voterà mai una legge, come quella di Crucioli e Ferrara, che va in direzione opposta rispetto alle politiche sicuritarie inseguite da Salvini? Sul punto la risposta di Ferrara è perentoria. “Noi tiriamo dritto. Non permetteremo mai che l’Italia si trasformi negli Stati Uniti, soltanto per far contente le lobby delle armi. Se la Lega o qualunque altra forza politica non voterà la nostra legge - conclude Ferrara - dovrà assumersi la responsabilità etica e politica e del prossimo omicidio o femminicidio compiuto da soggetti disturbati”. I nuovi italiani di Cristina Giudici Il Foglio, 5 aprile 2019 Sono due milioni gli under 18. Come gestire il cambiamento. Parla un ricercatore di Fondazione Agnelli Milano. Persino Stephen Ogongo, giornalista di origine kenyota che recentemente ha fondato il movimento Cara Italia con l’intento di portare i nuovi italiani alle amministrative (da tenere d’occhio perché fa sul serio), pochi giorni fa ha postato un video molto ripreso in rete per chiedere a Matteo Salvini di fare qualcosa di sinistra e approvare lo ius soli. O meglio, di fare quello che non ha fatto la sinistra. Il tema è destinato a diventare un tormentone nella campagne elettorali che ci attendono. Secondo Nando Pagnoncelli sul tema dello ius soli il paese è statisticamente spaccato a metà, anche se secondo l’ultimo sondaggio Quorum/YouTrend per SkyTg24, con un campione di mille interviste raccolte tra il 29 e il 30 marzo 2019, il numero degli italiani favorevoli al diritto di cittadinanza in virtù del luogo di nascita arriva al 62,8 per cento. In ogni caso, sondaggi a parte, sembra ogni giorno più difficile evitare di fare i conti con i cambiamenti socio-demografici. E soprattutto con quel milione di minorenni che ambisce ad ottenere il passaporto italiano. Anche perché quando la legge basata sullo ius sanguinis venne introdotta, nel 1992, i figli degli immigrati residenti in Italia rappresentavano il 2 per cento della popolazione - come ha rammentato recentemente su lavoce.info Alessandro Resina. Quando si parla di immigrazione e integrazione - termini che non sono sinonimi, come pare nella vulgata social, e che indicano temi complessi - si finisce prigionieri di un dibattito sterile e condizionato da una palese mancanza di discernimento. Meglio allora chiedere una spiegazione e qualche idea interpretativa a Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli, che di questi fenomeni si occupa da tempo. Gli abbiamo chiesto di tratteggiare un disegno-identikit di quelli che il ricercatore definisce “i figli dell’immigrazione”. Molina, da vent’anni osservatore attento delle dinamiche di integrazione studiate attraverso la lente del percorso scolastico, spiega innanzitutto che le cifre sono sottostimate. E ce ne fornisce di inedite. “Se si prende in considerazione chi ha già la cittadinanza, chi è figlio di coppie miste e tutti quelli nati all’estero parliamo di due milioni di nuovi italiani solo nella fascia di età fra O e 18 anni. Numeri importanti che rappresentano il 20 per cento dei minori italiani e in alcune città del Nord, come Brescia ad esempio, arrivano ad essere il 39 per cento”. Perciò i dati reali sui minorenni stranieri che restano sommersi nel caotico dibattito mediatico e politico sono i seguenti: 1 milione e 600 mila nati in Italia, 400 mila nati all’estero. “Attenzione a non sovrapporre cittadinanza e nazionalità”, avverte però Molina. “La cittadinanza è concetto giuridico che definisce il perimetro di diritti e doveri, mentre la nazionalità è determinata da una lingua comune e da fattori culturali comuni. Altra cosa ancora è l’integrazione. Dai questionari Invalsi sugli studenti, tutti gli allievi nati in Italia da genitori stranieri (che non parlano bene o affatto l’italiano) raggiungono il 50 per cento di capacità di apprendimento della lingua rispetto ai loro coetanei, ma sono più veloci con l’inglese e la matematica. E infatti sono numerosi quelli che, una volta conclusi gli studi, (cittadinanza permettendo) si trasferiscono all’estero. Sia per le conoscenze delle lingue straniere sia per l’attitudine a spostarsi che proviene dal loro background”. Difficile fare un ritratto nitido dei figli dell’immigrazione, ma Molina ci prova. “È difficile formulare un giudizio complessivo, ma le cose non sono andate così male. Al contrario di altri paesi, in Italia gli immigrati hanno preferito giocare la carta dell’essere uguali più che del voler essere diversi. Una politica della casa inesistente ha anche evitato scelte controproducenti, come quelle che hanno concentrato l’immigrazione in ghetti: in Italia gli immigrati si sono mescolati agli italiani insediandosi negli spazi interstiziali. La maggioranza ha trovato lavoro, ha cercato il dialogo con gli italiani e si è adattata alle regole del gioco”. Molina non pare preoccupato dalla prepotenza populista, però. “Le stagioni politiche soffrono di pendolarismo, rispetto all’immigrazione”, osserva. “A una fase di apertura eccessiva ne segue sempre una di chiusura, ma bisogna essere lungimiranti perché la storia sarà più forte della nostra capacità di condizionarla. Infatti la legge 91 sulla cittadinanza pensata con una logica difensiva non ha impedito che negli ultimi anni ci siano in media 200 mia concessioni di cittadinanza ogni anno”. Ora, però, tutte le naturalizzazioni saranno frenate dal decreto sicurezza che raddoppia i tempi di attesa (portandoli fino a 4 anni dal momento della richiesta) e rende ancora più complicato l’iter anche per quel tipo di immigrati che la retorica salviniana a parole esalta: i regolari che lavorano, studiano e pagano le tasse. Dilemma: cosa succederà a migliaia di studenti privi di cittadinanza, che escono dalle università ma non possono andare a fare i master all’estero, concorrere ai bandi pubblici, entrare nelle istituzioni? Quale costo sociale avrà continuare a frenare l’integrazione? Migranti. “Servono standard per la detenzione amministrativa” di Carlo Lania Il Manifesto, 5 aprile 2019 “Nel 2018 sono passate dai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) 4.092 persone. Ne sono state effettivamente rimpatriate 1.768, poco più del 43%”. Lo scrive il Garante nazionale delle persone private della libertà personale in “Norme e normalità”, la prima raccolta sistematica di standard e raccomandazioni sulla detenzione amministrativa. Il testo è stato presentato ieri all’Istituto dell’enciclopedia italiana, a Roma. “Scrivere le raccomandazioni ci ha posto davanti a un dilemma: rischiare di legittimare questa forma di privazione della libertà personale” ha detto il garante Mauro Palma. Il lavoro si rivolge a tutti i soggetti coinvolti nel fenomeno, dalle istituzioni alla società civile, ed è stato redatto sulla base di numerose osservazioni sul campo realizzate in un arco di 3 anni. Le conclusioni sono state discusse con organizzazioni del terzo settore e Ong per completare il quadro attraverso il contributo di chi opera quotidianamente con migranti privati della libertà. “A differenza della detenzione penale, quella amministrativa manca di norme regolatrici - ha detto Daniela de Robert, componente del collegio del Garante e coordinatrice del testo - l’Italia si deve dotare di standard anche in questo campo. Abbiamo elaborato delle raccomandazioni e vigileremo sulla loro applicazione effettiva”. Paradossalmente, le strutture di tipo penitenziario classico offrono maggiori condizioni di vivibilità e tutela dei diritti rispetto ai centri di detenzione amministrativa. Nonostante questo tipo di detenzione abbia, o dovrebbe avere, una funzione diversa da quella penale: non punitiva, ma finalizzata solo ad allontanare il cittadino straniero o a impedire l’ingresso sul territorio dello stato. Il garante ha classificato 3 tipi di luoghi in cui il fenomeno è localizzato. I Cpr, dove la privazione della libertà è disciplinata dall’ordinamento. Hotspot, sale d’attesa aeroportuali e ormai anche i ponti delle navi, dove la privazione della libertà personale avviene de facto. Gli aerei utilizzati per i rimpatri forzati. In tutti i casi sono state riscontrate numerose criticità e redatte delle proposte generali affinché i diritti delle persone migranti siano tutelati. Una questione che diventa particolarmente importante anche a fronte di un fenomeno più ampio, ben esemplificato dal “decreto Salvini”: il trasformarsi della detenzione amministrativa da meccanismo eccezionale in strumento cardine di governo dei flussi migratori. La sua diffusione e sostanziale accettazione a livello internazionale, comunque, non ne cancellano i numerosi profili di illegittimità. “Dietro il velo del linguaggio burocratico - ha detto Donatella Di Cesare, professore ordinario di filosofia all’università La Sapienza - si nasconde un’aberrazione. Le persone vengono tenute in ostaggio solo per ragioni simboliche, per scoraggiare nuovi arrivi e cercare consenso politico all’interno del paese”. Lo stigma rom tra odio e indifferenza di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 5 aprile 2019 In questo periodo a Roma la notte ha preso il posto del giorno. E non è solo per effetto del piccolo inverno ritornato. Dilaga infatti una oscura indifferenza, l’amalgama fondamentale che tiene in piedi nelle epoche l’ideologia italiana della destra, e non solo purtroppo. Da giorni è andata in scena quella che i media, con più o meno inconsapevole abitudine, hanno chiamano la “rivolta di Torre Maura”. Nella cosiddetta “gestione” dello smantellamento dei campi Rom nell’estrema periferia avviato dal Comune - col fiato elettorale sul collo del ministro dell’odio Salvini - proprio mentre si avviava una loro ricollocazione in un centro d’accoglienza finanziato dall’Ue a Torre Maura, non lontano dalla precedente collocazione, è esplosa la protesta dei “qui nun ce li volemo”, con la caccia al Rom in quanto indiscriminatamente “ladro”, la richiesta esplicita di espellerli dal quartiere, fino al gesto vergognoso di calpestare teatralmente pane e panini a loro inviati al grido teatrale di “devono morì de fame”. Quel pane che per Predrag Matvejevic è il simbolo della civiltà del mondo intero. Davanti, in mezzo, dietro il popolo “sovrano” - siamo al sovranismo di quartiere, ma non è il “dal basso” per conquistare spazi progressivi, riecco gli impuniti apprendisti stregoni dell’odio, i neofascisti di Casa Pound e Forza nuova, stavolta insieme a dividersi la torta dell’odio contro il più debole di turno. In questo caso non i migranti in fuga da guerre e miserie, ma i Rom contro i quali viene esercitato il marchio di uno stigma sociale. La “rivolta” ha avuto l’effetto di far fare marcia indietro alla sindaca Raggi, i Rom sono stati ri-deportati con tanto di saluti romani. E meno male che in piazza ieri c’era un ragazzino - riecco il mondo salvato dai ragazzini - di 15 anni, Simone, che da solo davanti al presidio di Casa Pound ha avuto il coraggio di difendere i Rom: “Questa gente è trattata come merce - ha detto. Si va sempre contro la minoranza, ve la prendete sempre coi più deboli, a me non sta bene”. Ma i mestatori di odio torneranno in piazza. Perché quello da smerciare è odio allo stato puro, alimentato dalla falsa coscienza del razzismo. Costringete infatti alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale che avete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamente connotato per il malaffare - quando il malaffare a Roma, da Alemanno, a Mafia Capitale all’attuale amministrazione comunale - alligna e risiede in ben altre sedi; impedite poi allo stesso gruppo sociale qualsiasi rapporto con l’integrazione possibile - lavoro, sanità e scuola; obbligate quel gruppo sociale alla marginalità e alla promiscuità senza collegamenti con il mondo esterno. Ecco che questo stigma sociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma. Ma attenti che l’argomento della “periferia”, dove verrebbero scaricate a bella posta tutte le irrazionalità, rischia di diventare una scusante dell’indifferenza che dilaga. È vero, il misfatto razzista si consuma nelle periferie brulicanti di questioni sociali irrisolte e di un conflitto di classe inevaso. Ma che dobbiamo fare? “Aiutarli a casa loro”? No, questo è il mondo della globalizzazione: esso è periferizzato. Roma è sostanzialmente la sua mostruosa periferia. E anche quando “diversi” e Rom, sono stati portati nelle aree storiche del centro o di quartieri “bene”, anche lì il razzismo ha dato fiato all’odio, cavalcato sempre dall’estrema destra neofascista. Come non estendere poi il concetto di periferia a tutta Europa. Dove la criminalizzazione dei Rom è all’ordine del giorno. È una fenomenologia europea che rappresenta, per tutti, il segnale di una mancata integrazione politica del vecchio Continente. Che vede l’emergere dei sovranismi nazionali non a difesa dei valori universali della democrazia e del diritto, ma dell’etos etnico come base del consenso e del potere. È l’Europa dove solo ad inizio anno ci sono stati, nel silenzio generale, tre pogrom contro i Rom in Ucraina, dove i Rom sono emarginati legalmente in Slovacchia e Ungheria. E come dimenticare che l’ex premier francese, il socialista Valls, costruì la sua improbabile fortuna elettorale pochi anni fa sulla cacciata dei Rom da Parigi. I Rom sono profughi dai loro insediamento storici, Slovacchia, Repubblica ceca, Bulgaria, ex Jugoslavia. Aspettiamo che Salvini twitti di “rispedirli” in Kosovo, dove abbiamo visto a Mitrovica il loro quartiere incendiato dalle milizie albanesi nostre alleate in guerra? I Rom, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono stati costretti alla fuga e a quel “nomadismo” che lombrosianamente i luoghi comuni dei media e della xenofobia vogliono ogni volta attribuirgli, come fosse un elemento del loro dna. Non è così, invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essi attendono ogni giorno inutilmente, relegati però nei “campi”, nella “emergenza” delle nostre società. Una domanda: visto il legame romano tra criminalità istituzionale e neofascismo, non sarà che questo ritorno in piazza delle bande nere corrisponda ad un progetto di nuova gestione emergenziale della tragedia Rom su cui lucrare, com’è già accaduto? Al contrario, il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora la scolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programma progressista di svolta in tutta Italia. A partire da Roma. E chi è rappresentante della Sinistra in Comune dovrebbe resocontare questo piuttosto che ergersi a interprete del popolo sovranista dell’odio. Occorre anche una rivoluzione culturale. Pensate che effetto farebbe - proponeva Leonardo Piasere nel suo saggio L’antiziganismo, connesso all’antisemitismo - se mettessimo la parola “ebreo” al posto delle parole “zingaro” “rom” o “nomade”, e per un popolo che ha subìto con il Porajimos, lo stesso massacro negli stessi campi di sterminio nazista della Shoah come Auschwitz. Che effetto farebbe dunque sentir parlare di “Piano ebrei”, del “Centro raccolta ebrei” e del “Campo attrezzato per ebrei”? Missione reporter: quando l’informazione è sotto attacco di Leonardo Malà La Repubblica, 5 aprile 2019 La giornalista filippina di Rippler, Maria Ressa, dal carcere alla platea di Perugia per raccontare la sua lotta quotidiana contro la censura e i troll. L’indiana Caroline Muscat e i bavagli governativi tra delegittimazione e intimidazioni. Poi, Paolo Berizzi, autore di “Nazitalia” e i giornalisti ungheresi: le voci che ogni giorno combattono per difendere i diritti umani. Un tranquillo (ma non troppo) giovedì di paura. Nel secondo giorno di Festival il giornalismo internazionale fa i conti con la violenza dei sistemi parademocratici, dove i giornalisti con la schiena dritta offrono più spazio ai bastoni dei potenti. Campeggia un senso generale di sconforto e di sconfitta, legittimo da parte di chi finisce in galera un giorno sì e l’altro pure, in chi viene continuamente diffamato e vilipeso, profanato nella sua vita privata, perfino negli affetti. Meno in chi denuncia i perversi e pervasivi algoritmi che innervano i social, con quelle pagine che impiegano un attimo in più prima di essere caricate, giusto il tempo di scandagliare i vostri dati di navigazione, i contatti della mail, le ricerche fatte su Google, così da spararvi in tempo reale inserzioni pubblicitarie su misura (se ne è parlato nell’incontro con Martin Moore, del King’s College di Londra). Come se non ci si potesse battere per sistemi ugualmente potenti che centrifughino i nostri dati e li rendano inintelligibili (quelli esistenti sono poco efficaci), come se un’informazione precisa, sintetica e chiara sugli effettivi guadagni connessi a questi sistemi non potesse suscitare una reazione attiva da parte dei lettori e dei cittadini in generale. Ma soprattutto come se fosse impossibile spiegare che padroneggiare un algoritmo da una poltrona aziendale è un conto ma farlo da uno scranno presidenziale o governativo è altra cosa e questa seconda giornata di Festival lo spiega bene. Tutto sommato, nel derby tra disincantati e velleitari, vale la pena di tifare per questi ultimi. Andiamo al sodo, all’ospite più atteso del giorno, la filippina Maria Ressa, direttrice di Rappler, il social news network incubo del presidente Duterte. Arriva di corsa, avvolta nella sua felpa rosso garibaldino, con ancora il biglietto aereo in tasca. Venerdì è stata arrestata e scarcerata su cauzione, lunedì, appena scesa dall’aereo, altro mandato arresto, spinta in un furgoncino con quattro membri dell’unità speciale e sette poliziotti di scorta, sempre con la stessa accusa che ha originato nove azioni legali sulle undici che le sono state mosse. Solo ieri ha avuto il permesso di espatrio, grazie all’approvazione di sei diversi tribunali, tanto che non si sapeva se sarebbe riuscita a venire a Perugia. Perché così vive una giornalista coraggiosa nelle Filippine. Mostra due video e molte diapositive, Maria Ressa, a una platea che è tutta per lei si prolunga a dimostrare come proceda la disinformazione nel suo Paese, quasi discolparsi fosse un riflesso condizionato ormai. Lei però è la più ottimista, una cieca fiducia nella sua troupe di colleghe che “fanno inchieste fantastiche e che non penso assolutamente di abbandonare fuggendo dalla mia nazione. Ancora più oggi, con le elezioni a maggio: una sconfitta delle forze democratiche potrebbe far perdere definitivamente i diritti civili della mia gente”. Maria Ressa ha creato il suo network nel 2012, mettendo insieme inchieste coraggiose con modelli partecipativi. Forte della sua esperienza trentennale nelle redazioni della Cnn a Manila e Jakarta e per Abs-Cbn News, esperta di terrorismo nel Sud-Est asiatico, lo scorso anno è stata nominata Persona dell’Anno da Time Magazine. È anche e soprattutto grazie al lavoro di Rappler se sono venuti alla luce i tanti scandali sulla corruzione del governo Duterte. Su di lei si è scatenato il trolling patriottico dei sostenitori governativi e nel web sono volate accuse di ogni tipo, fino a messaggi del tipo “assicuriamoci che venga violentata”. È riuscita a scoprire che esistevano 26 account falsi impegnati in questa campagna di delegittimazione che raggiungevano ben tre milioni di utenti. “Quando sei sotto un attacco così massiccio anche i tuoi sostenitori si defilano, hanno comprensibilmente paura. Dobbiamo svegliarci, combattere queste pallottole digitali, formare comunità resilienti”. L’aumento degli abbonamenti di Rappler del 200% spinge a qualche ottimismo. Pesantissima la storia dell’indiana Caroline Muscat, cofondatrice di The Shift News, un pugno di sabbia negli occhi del premier Narendra Modi, faccia da buono e mano di pietra con l’informazione avversa (quella poca che resiste). Modi è il premier più presente su Instagram e può contare su una flotta di “demolitori da social” che al confronto la famosa “bestia” di Salvini è un cagnolino da salotto (siamo davvero su un altro piano). Ad ogni scoop della Muscat è seguita un’ondata diffamatoria su larga scala: tweet e post su lei che odia il suo popolo, che è pagata da infiltrati stranieri (molta potenza ma poca fantasia, verrebbe da dire). Le fonti della Muscat le hanno fatto recapitare un’informativa dove c’erano gli orari delle camminate del padre, dove andavano a scuola i nipoti e tutto ciò che può servire a intimidire una cronista ostinata. All’indomani di un premio giornalistico per il suo ennesimo scoop (in una delle sue inchieste è vissuta otto mesi con otto telecamere nascoste addosso, fingendosi un’attivista scatenata del presidente) è comparso in rete un video porno dove una sua semi-sosia si esibiva senza freni, divenuto subito virale. Quando i magistrati lo hanno visionato, il tempo che la Muscat fosse dimessa dall’ospedale per una crisi di panico, si sono messi a sghignazzare, indifferenti allo stupro digitale. Minacce anche a Rana Ayyub, che ha raccolto l’eredita di Daphne Caruano Galizia, trucidata a Malta, e che ha costretto gli alti funzionari del governo maltese ad ammettere di avere profili Facebook mirati alla delegittimazione altrui. Un’azione continua e pesante ai suoi danni (“ormai per me è difficile pure fare la spesa, la gente mi attacca, e dopo la fine di Daphne si è capito che il pericolo è altissimo”), così come per il turco Yavuz Baydar, direttore di Ahval, una delle poche testate anti Erdogan, che sarà pure in difficoltà ma dispone di un ferreo sistema di controllo sui media. Qui la delegittimazione arriva fino alla cancellazione dal web, ripetuta, incessante. E l’Italia? Il nostro cronista Paolo Berizzi, autore di “Nazitalia”, un viaggio nell’Italia che si riscopre fascista, è finito addirittura sotto scorta. Dagli striscioni sugli stadi alle minacce sul web, Berizzi fa i conti ogni giorno con questo nuovo fascismo da manganello e pacca sulla spalla, molto più organizzato e strategico di un tempo, che saluta romanamente e brandisce numeri romani tatuati sulla nuca come date di scadenza, quindi porta in vacanza i bambini che non possono permetterselo e pacchi di pasta ai loro genitori. Una destra presente ovunque si manifesti disagio, pronta a soffiare sul fuoco della protesta. Una volta passate queste ultime infatuazioni politiche, teme Berizzi, li vedremo ancora più protagonisti. Per finire un salto in Ungheria, dove i media sono ormai profondamente controllati dalle forze governative. Marius Dragomir (direttore Center for Media, Data and Society), Marton Gergely (Hvg) e Andras Petho (cofondatore e direttore Direkt36) raccontano come dal 2010, anno dell’elezione di Viktor Orbán, leader del partito di destra Fidesz e già premier dal 1998 al 2002, le cose siano cambiate. Anzitutto con le prime leggi per finanziare i media sostenuti dalle aziende degli oligarchi ungheresi vicini al governo e la pubblicizzazione totale dei media statali, con la nomina di nuovi capi istituzionali, con la conseguente censura delle notizie più scomode. Per i tre giornalisti l’unica possibilità è il sostegno dell’Europa. Alla faccia del sovranismo. La Libia nel caos, smacco per Onu, Nato e Italia di Alberto Negri Il Manifesto, 5 aprile 2019 Se cade Serraj per Roma è una sconfitta secca. In Tripolitania l’Italia ha il 70% per cento dei suoi interessi economici e del petrolio dell’Eni, insieme al gasdotto Green Stream che copre una parte delle nostre forniture: questo è il vero motivo per cui ci troviamo ad appoggiare un governo sostenuto da Turchia, Qatar e Fratelli Musulmani che non vuole più nessuno. E così, se nottetempo nessuno ferma il generale libico (con cittadinanza americana) Haftar, facciamo ciaone anche a Tripoli. Salvate almeno il soldato Serraj. Nel giorno del 70° compleanno ieri la Nato ha assistito a due eventi paradossali ma prevedibili. Due stati membri, Turchia e Usa, sono sull’orlo dello scontro in Siria per i curdi, e in quella Libia, così pesantemente bombardata dall’Alleanza nel 2011 per eliminare Gheddafi, avanza nel caos più totale il generale Khalifa Haftar per far fuori il moribondo governo di Fayez Serraj a Tripoli, al cui capezzale era giunto persino il segretario generale dell’Onu. È il caso di avvertire subito il comandante Salvini: non soltanto la Libia non è un porto sicuro - e non lo è mai stato - ma forse anche lui nella capitale libica non ci metterà piede per un po’. Se cade Serraj, che avevamo portato in nave da Tunisi a Tripoli, per l’Italia è una sconfitta secca. In Tripolitania l’Italia ha il 70% dei suoi interessi economici e del petrolio dell’Eni, insieme al gasdotto Green Stream che copre una parte delle nostre forniture: questo è il vero motivo per cui ci troviamo ad appoggiare un governo sostenuto da Turchia, Qatar e Fratelli Musulmani che non vuole più nessuno. Se è vero che il Qatar ci ha ricompensato nell’ultimo anno e mezzo con una decina di miliardi di dollari di commesse militari, tra navi elicotteri e aerei, è altrettanto vero che il fronte internazionale anti-Tripoli e anti-Fratelli Musulmani si è rafforzato e ampliato dando appoggio ad Haftar, che per inciso oltre che libico è pure cittadino americano. Sarebbe una figuraccia anche per le Nazioni Unite, perché ufficialmente quello di Tripoli è il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Mentre Haftar teneva impegnato Serraj e i suoi rivali con il fantasmatico dialogo politico mediato dalle Nazioni Unite, sul campo il generale spostava i suoi soldati verso Tripoli, facendoli avanzare oppure stringendo alleanze con le milizie di città utili ad aggirare la capitale. Il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres è una brava persona ma non sveglissima in termini di strategie: è arrivato a Tripoli ieri twittando di essere “totalmente determinato a sostenere il processo politico in questo Paese per guidarlo verso la pace, la stabilità la democrazia e la prosperità”. Che Libia ci sarà domani però dobbiamo ancora capirlo. Non possiamo dire che non fossimo informati, pur nel silenzio generale di governo e opposizione, dell’avanzata militare e diplomatica del generale Haftar. Per altro sono un paio d’anni che i russi si sono offerti ai governi italiani di mediare con l’uomo forte della Cirenaica senza mai ottenere un risposta. In realtà quando c’è da fare politica estera e rischiare la ghirba anche i nostri sovranisti sono assai poco sovrani. È vero che di recente avevamo mandato a Bengasi il nostro ambasciatore Giuseppe Grimaldi Buccino ma per farsi ricevere dal generale ci aveva messo, non per colpa sua, tre giorni. Segnali inequivocabili di quanto contiamo poco o nulla anche sulla storica quarta sponda. Come si stavano mettendo le cose si era capito durante e dopo il vertice euro-arabo di Sharm el Sheik del 25 febbraio scorso dove era emerso che: 1) al generale egiziano Al Sisi, sponsor di Haftar insieme a Francia, Russia, Emirati e Arabia Saudita, era stato assegnato il ruolo di “guardiano” del Sud e della Libia 2) il generale Haftar, alleato della Francia, della Russia e dell’Egitto, stava avanzando anche nel Sud libico e aveva iniziato una manovra di aggiramento per conquistare la capitale e comunque stingerla in una morsa 3) Haftar è stato ricevuto dal principe saudita Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio del giornali Jamal Khashoggi, che è l’ufficiale pagatore anche di tutte le operazioni contro i Fratelli Musulmani, dall’Egitto alla Libia. 4) in Libia erano arrivati il comandante dell’Africom americana Thomas Waldhauser e il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, e quest’ultimo aveva avuto anche un lungo colloquio proprio con il generale Haftar. Per i francesi Haftar è una sorta di “De Gaulle libico” ma a Parigi non hanno trascurato neppure i rapporti con il clan di Gheddafi e il figlio del Colonnello Saif Islam. Insomma ci hanno scavalcato da tutti i lati. E se uno fosse proprio duro d’orecchio bastava guardare cosa stava accadendo sul terreno. Haftar aveva preso il controllo dell’importante giacimento libico El Feel, operato da Eni assieme alla Compagnia petrolifera nazionale libica (Noc), un’operazione avvenuta nell’ambito della campagna di conquista del Sud-Ovest con cui si era già impadronito dei pozzi di Sharara, i più importanti della Libia. Le recenti conquiste avevano cambiato rapidamente le relazioni di potere in Libia. Persino in Germania avevano intuito che la Libia stava cadendo in altre mani. Al punto che l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza (Swp), mentre la Germania si sfilava dalla missione Sophia, in un rapporto reso pubblico scriveva: “Haftar per Tripoli è diventato una minaccia esistenziale”. La minaccia è arrivata e in Libia, come avviene da tempo, non tocchiamo palla.