Ergastolo. La riforma che avvicina la “bomba” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 aprile 2019 L’abolizione del rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo è legge. Hanno votato sì oltre alla maggioranza anche Leu e Fratelli d’Italia. Le toghe progressiste e gli avvocati penalisti spiegano che peserà sulla durata dei processi. E la ministra Bongiorno conferma la sua previsione: così lo stop alla prescrizione sarà come un ordigno sul sistema giudiziario. Approvata definitivamente nella serata di martedì dal Senato, la legge che esclude dalla possibilità di accedere al rito abbreviato gli imputati per reati che prevedono la pena dell’ergastolo è criticata dalle toghe progressiste e dagli avvocati penalisti. Il provvedimento è stato proposto dalla Lega ed è stato votato da uno schieramento insolito che comprende, oltre alla maggioranza, Fratelli d’Italia e Leu, con l’astensione di Forza Italia e il voto contrario del Pd. Per il ministro della giustizia Bonafede “è un segnale fortissimo che c’è la certezza della pena e non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati”. Dichiarazione curiosa, dal momento che la riforma interviene sul modo in cui la pena si assegna e non sugli eventuali e successivi “sconti”. Per magistrati e avvocati invece la novità sarà fonte di gravi problemi. I quattro consiglieri togati di Area chiedono allora che il Csm monitori gli effetti, perché “la riforma comporterà un rilevante aumento del carico di lavoro per le Corti di assise, anche negli uffici minori”. Oggi infatti la grande maggioranza dei processi che prevedono la pena dell’ergastolo vengono chiusi senza passare dalle Corti, con il giudizio abbreviato del giudice monocratico. Torneranno invece “lunghi dibattimenti penali per processi che adesso posso essere definiti rapidamente” e dunque “la disposizione è incoerente con il principio della ragionevole durata del processo e della riduzione della custodia cautelare”, spiega la segretaria di Area, Cristina Ornano. Che poi ricorda come si tratti di “un intervento mai invocato dagli operatori della giustizia, che chiedono anzi un ampliamento del ricorso ai riti alternativi”. Il tutto avviene mentre non si vede la riforma del processo penale (la legge delega era stata annunciata da Bonafede per febbraio), al contrario si avvicina la data (gennaio 2020) in cui la prescrizione non potrà più funzionare come tagliola per i processi più lunghi, perché il governo l’ha cancellata dopo il primo grado. La stessa ministra Bongiorno ieri ha ripetuto che “se la riforma della prescrizione entrerà in vigore mentre i processi durano ancora tantissimo tempo, avremo l’effetto bomba atomica sulla giustizia”. L’Unione della camere penali ha espresso “ferma censura e profondo sconcerto” per una legge che “segna un ulteriore arretramento del livello di civiltà della giustizia penale in Italia. Invece di riflettere sulla compatibilità tra l’ergastolo e il principio costituzionale per cui la pena deve tendere al reinserimento nella società, il legislatore interviene perfino sulle norme processuali per assicurarsi che l’ergastolo non potrà mai essere evitato”. Intervistato dall’agenzia Redattore sociale, il professore di diritto penale Glauco Giostra ha indicato più di un “baco” nella legge, per esempio quello che spingerà tutti gli imputati a chiedere comunque il rito abbreviato, anche per vederselo respingere. Solo in questo caso, infatti, se il reato verrà ridimensionato nel processo, potranno accedere ugualmente allo sconto di pena. Anche se la giustizia non avrà risparmiato un giorno. Niente sconti di pena se c’è l’ergastolo di Paolo Colonnello La Stampa, 4 aprile 2019 L’altro ieri il Senato insieme alla legge sul “revenge porn” ha approvato, un po’ più in sordina, anche l’abolizione del rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo. Norma prevista da un disegno di legge che porta la firma del sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni e che è stata votata dalla maggioranza con la curiosa adesione di Leu. Si tratta di una legge che si muove nello spirito di quell’estremismo sanzionatorio che ha prodotto la discutibilissima norma sulla legittima difesa e che trova nell’intento punitivo la sua ragion d’essere. Apparentemente ragionevole (chi commette un reato da ergastolo non ha diritto a sconti di alcun tipo) e favorevole alle ragioni delle vittime, modifica la sostanza dell’articolo 438 del Codice di procedura penale che indica i presupposti del giudizio abbreviato, escludendo di fatto quell’uguaglianza di fronte alla legge richiamata dall’articolo 3 della Costituzione. Chi infatti si è macchiato di un reato di sangue grave non potrà più, al pari di altri cittadini imputati, accedere all’istituto del giudizio abbreviato rinunciando ad alcune prerogative della sua difesa ma ottenendo in cambio lo sconto di un terzo della pena. Che, nel caso di un ergastolo - così prevedeva l’articolo 442 cpp, anch’esso modificato - consiste nel trasformare un “fine pena mai” in 30 anni di prigione, oppure un “ergastolo con isolamento diurno di 6 mesi”, in “solo” ergastolo. Quindi, non esattamente dei regali: chi accede al rito abbreviato sapendo di meritare un ergastolo non è un “furbetto” azzeccagarbugli, ma solo un individuo che sceglie di offrirsi un’opportunità, minuscola, di rinascita. Ma tant’è: il messaggio che si vuole far passare è di estremo rigore e di certezza della pena. Peccato che in questo modo si distrugga però un altro messaggio di altrettanta importanza e sempre di rango costituzionale: che la pena, per essere efficace, deve essere rieducativa e tendere perciò al ravvedimento dell’individuo, non al suo annientamento. Inoltre si obbligheranno le corti d’assise agli straordinari, con il “rischio” persino di insperate assoluzioni, magari per insufficienza di prove. Perché in fondo la via delle affermazioni di principio, in diritto, non porta mai molto lontano. Ergastolo, stop al rito abbreviato di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 aprile 2019 Glauco Giostra: “Appesantirà giustizia già ansimante”. Approvato in via definitiva ieri in Senato il disegno di legge di riforma del rito abbreviato. Il commento di Glauco Giostra, ordinario di Procedura Penale all’università Sapienza di Roma: “Nuova legge crea seri problemi andando, tra l’altro, ad ingolfare i ruoli della Corte d’Assise”. Niente più rito abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Con 168 voti favorevoli, 48 contrari e 43 astensioni, il Senato ieri sera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di riforma del rito abbreviato. “Con l’approvazione di questa legge in Senato diamo un segnale fortissimo a tutti i cittadini di questo Paese - ha commentato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede -. Il messaggio è che c’è la certezza della pena, non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati quando ci sono reati gravissimi”. L’approvazione del provvedimento, tuttavia, suscita anche forti perplessità. Come quelle espresse da Glauco Giostra, ordinario di Procedura Penale all’università Sapienza di Roma, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’Ordinamento penitenziario e consulente ministeriale per numerose altre riforme del sistema penale. Professore, cosa pensa della nuova legge? Penso che ad un problema esistente si è risposto, come troppo spesso capita, con una soluzione che non lo risolve, anzi, che ne genera altri, ma che può essere utile dare in pasto all’opinione pubblica per raccogliere consensi. C’è da dire che l’opinione pubblica resta spesso sconcertata di fronte a drastiche riduzioni di pena. Che necessità c’è di prevedere certi sconti sulla base della scelta del rito? “Ogni ordinamento che, come il nostro, è incentrato sulla formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, fa ricorso, per la sopravvivenza del sistema, a riti speciali. Cioè a procedure semplificate nelle quali la rinuncia da parte dell’imputato alla garanzia del dibattimento e la relativa accettazione ad essere giudicato sulla base degli atti di indagine, è premiata dallo Stato con una riduzione di pena. Per il giudizio abbreviato la riduzione è di un terzo della pena temporanea inflitta, mentre l’ergastolo, sino all’approvazione di ieri, era sostituito con la reclusione a 30 anni, e in caso di ergastolo con isolamento diurno veniva eliminato l’isolamento”. Non si può negare che, soprattutto quando la riduzione per la scelta del rito abbreviato si somma a quella per il concorso di circostanze attenuanti, si determinano abbattimenti di pena difficilmente accettabili dal comune senso di giustizia… “Certo. Per questo le dicevo che un problema esiste, soprattutto quando alla riduzione per la scelta del rito si cumula quella per il riconoscimento delle attenuanti generiche. Ma la legge non lo risolve, ignora le possibili soluzioni adeguate e crea serissimi problemi alla giustizia”. Andiamo con ordine. Perché dice che non lo risolve? “Dopo l’approvazione della legge, chi a seguito di abbreviato viene condannato a trent’anni continuerà a vedere ridotta la pena a venti anni. È davvero più inaccettabile di questo sconto quello di cui poteva usufruire chi, avendo scelto il rito abbreviato, si vedeva applicata la pena dell’ergastolo invece della pena dell’ergastolo con isolamento diurno? Oppure trent’anni invece che l’ergastolo? La verità è che la riduzione di un terzo della pena per i reati più gravi è eccessiva. Lei pensi che un condannato per ottenere una riduzione di pena di dieci anni con la misura della liberazione anticipata dovrebbe tenere in carcere una condotta irreprensibile e impegnata per 40 anni. Inoltre si consideri che chi viene giudicato con l’abbreviato ha il solo merito di aver fatto risparmiare tempo e risorse. Il condannato in esecuzione di pena, invece, di aver dato prova di ravvedimento sociale”. Come se ne esce, se il sistema ha bisogno di procedure semplificate e queste devono essere incentivate? “Si sarebbe dovuto lavorare sull’incentivo. Ad esempio, prevedere che la riduzione è sì di un terzo, ma che non possa essere superiore ad un certo tetto: ad esempio cinque anni. Per l’ergastolo si poteva lasciare il regime di conversione attuale o renderlo anche più severo, anche intervenendo sulla cumulabilità con altre attenuanti, soprattutto con le cosiddette generiche, ma prevedendo sempre un vantaggio per chi accetta il rito abbreviato, sia per una giustizia comparativa nei confronti degli altri imputati, sia per evitare problemi gravissimi all’amministrazione della giustizia”. Quali problemi prevede per l’amministrazione della giustizia? “La legge appena approvata appesantirà in maniera preoccupante una giustizia già ansimante, forse dandole il definitivo colpo di grazia. Innanzitutto, i procedimenti per reati puniti con l’ergastolo oggi definiti in abbreviato da un giudice monocratico dovranno ‘migrare’ verso la Corte di assise, andandone ad ingolfare i ruoli già ora gestiti con affanno. Ma poi, potendo l’imputazione variare nel corso del procedimento penale, si determineranno fatalmente ritorni, sbandamenti ed ingiustizie. Facciamo il caso di un’accusa per un reato punito con pena temporanea: l’imputato sceglie il rito abbreviato nel corso del quale, in seguito all’assunzione di prove, l’imputazione si aggrava e viene contestato un reato punito con l’ergastolo. Il processo deve tornare indietro e riprendere nelle forme ordinarie, vanificando quanto già fatto e non tenendo conto, di regola, delle prove assunte in abbreviato. Ancora più imbarazzante la situazione opposta: si procede con il rito ordinario, perché il reato originariamente contestato era punito con l’ergastolo e quindi preclusivo del rito abbreviato. Dice la nuova legge che, se la richiesta di abbreviato era stata dichiarata inammissibile per tale ragione, quando il giudice alla fine del dibattimento ritiene invece di condannare per un reato punito con pena temporanea, deve applicare la riduzione di un terzo di pena. A parte che in questo modo tutti gli imputati di crimini puniti con l’ergastolo saranno indotti a chiedere l’abbreviato per farselo dichiarare inammissibile (altro lavoro a vuoto per i giudici) ed ottenere lo sconto di pena dopo il giudizio ordinario qualora, come capita non di rado, venisse ‘derubricato’ il reato. Con il che avremmo il capolavoro ‘economico’ di un imputato che ha usufruito di tutte le maggiori opportunità del dibattimento e che poi lucrerà anche uno sconto di dieci anni di pena. Per non parlare dell’imputato che, rinviato a giudizio per più reati, uno dei quali punito con l’ergastolo, chiede l’abbreviato per gli altri: l’ordinamento deve far svolgere due procedimenti contro la stessa persona, con il rischio che, per le ragioni appena ricordate non si crei necessità di passaggio dall’uno all’altro. La novità legislativa costituisce, dunque, un grave fattore di appesantimento e di disordine per la giustizia, ma evidentemente era più importante esibire un’inutile muscolarità sanzionatoria”. Eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo. Fine processo: mai. camerepenali.it, 4 aprile 2019 Eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo in nome del populismo e della idolatria del fine-pena-mai, in aperto contrasto con il percorso aperto insieme all’avvocatura, alla magistratura ed all’accademia per individuare nuovi strumenti deflattivi volti a ridurre il numero dei dibattimenti e la durata irragionevole dei processi nel nostro Paese. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane ribadisce la più ferma censura ed il profondo sconcerto per la legge che ha introdotto la inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, la quale segna un ulteriore arretramento del livello di civiltà della giustizia penale in Italia. Il legislatore, anziché impegnarsi a riflettere sulla compatibilità tra la pena perpetua ed il principio costituzionale per cui la sanzione deve tendere al reinserimento del condannato nella società, interviene perfino sulle norme processuali per assicurarsi che l’ergastolo non possa mai essere evitato. E lo fa sottraendo all’imputato il diritto di essere giudicato sulla base degli atti e senza dibattimento, quasi che l’assoluzione sia un esito processuale nemmeno ipotizzabile in caso di gravi reati, nonché tacendo che fino a ieri la scelta del giudizio abbreviato poteva condurre comunque, nei casi più gravi, alla irrogazione della pena dell’ergastolo, con il solo temperamento della eliminazione dell’isolamento diurno. E’ dunque evidente come l’intervento esprima una idolatria della pena eterna, che risponde solo all’esigenza di assicurarsi un facile quanto effimero consenso in termini di esemplarità, senza curarsi non solo dei costi umani, ma anche delle gravi inefficienze che si producono sul sistema giudiziario. Deve infatti essere denunziato che l’esclusione del giudizio abbreviato imporrà sempre la celebrazione dei dibattimenti, perfino in caso di evidenza della prova, con la necessità di impegnare per anni quelle Corti d’Assise e Corti d’Assise d’Appello che già oggi hanno concrete difficoltà a costituirsi, e che ora assolveranno al compito di spettacolarizzare il processo. Un caro prezzo fatto pagare all’organizzazione giudiziaria in nome del populismo ed in aperto contrasto con il percorso aperto insieme all’avvocatura, alla magistratura ed all’accademia per individuare nuovi strumenti deflattivi volti a ridurre il numero dei dibattimenti e la durata irragionevole dei processi nel nostro Paese. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane “Sull’ingiusta detenzione serve più responsabilità” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 aprile 2019 La proposta di legge di Enrico Costa (Commissione Giustizia). Per il parlamentare di Forza Italia “serve un maggiore controllo dell’operato del magistrato. non è ammissibile che a pagare sia sempre lo stato”. “La cultura della comoda deresponsabilizzazione deve essere abbandonata a favore di un più diretto controllo dell’operato del magistrato. Non è ammissibile che a pagare sia sempre lo Stato”, afferma Enrico Costa, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, illustrando la sua proposta di legge che prevede la trasmissione della sentenza di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione ai fini della valutazione disciplinare dei magistrati. La discussione del testo è iniziata ieri in Commissione. Relatore è il collega di partito ed ex componente del Csm Pierantonio Zanettin. “Alcuni magistrati prosegue Costa - trattano le persone come numeri e non come essere umani, facendo gravare sui cittadini i mali e i problemi che affaticano il sistema giudiziario. Non subiscono alcuna conseguenza delle loro azioni e vengono anche promossi facendo una brillante carriera come se nulla fosse accaduto”. Il parlamentare azzurro, nel presentare la sua proposta di legge, ha citato la ricca casistica di errori giudiziari contenuta nell’ormai celebre archivio del sito errorigiudiziari.com, curato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. “Non c’è alcun atteggiamento punitivo nei confronti dei magistrati. La finalità di questa iniziativa legislativa è quella di agevolare la conoscenza di tali sentenze da parte degli organi che, in base a quanto già previsto dalla normativa, devono valutare se l’applicazione della custodia cautelare sia stata determinata da una negligenza grave e inescusabile, tale da consentire l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato”, precisa Zanettin. Ogni anno almeno mille persone, in precedenza sottoposte alla custodia cautelare e poi prosciolte da ogni accusa, vengono risarcite dallo Stato. Nel solo 2018 lo Stato ha pagato circa 48 milioni di euro a titolo di indennizzo per ingiusta detenzione. “Credo si possa arrivare ad una larga convergenza su questo testo. Mi piace sottolineare il fatto che sia il Pd, con Carmelo Miceli, che la Lega, con Luca Paolini, hanno già espresso un giudizio positivo su questa proposta di legge”, ha concluso Zanettin. La discussione proseguirà la prossima settimana. Dal revenge porn al rito abbreviato, le urgenze del giustizialismo show di Annalisa Chirico Il Foglio, 4 aprile 2019 Perché certi reati emozionano, ma le società che hackerano i nostri dati (lavorando per le procure) no? Salutata con favore l’iniziativa parlamentare sul “codice rosso”, viene da domandarsi se il Parlamento non possa impiegare la stessa sollecitudine nell’affrontare questioni di giustizia meno mediatiche, ma non meno preoccupanti, come la difesa dei diritti e delle libertà personali. Per comprendere l’approccio della politica nostrana alle cose giudiziarie, si osservino i fatti degli ultimi giorni. Mentre i pm napoletani scoperchiano il vaso di Pandora delle presunte malefatte imputate ad alcune aziende incaricate dallo stato di intercettare le utenze telefoniche di migliaia di ignari cittadini, il tema sul quale i deputati scoprono una sorprendente unanimità (461 voti a favore, zero i contrari) è il pomo, o meglio la cosiddetta “revenge porn”. Detto così, suona strano: riproviamo. Mentre i magistrati partenopei, guidati dal procuratore capo Giovanni Melillo, indagano i quattro titolari delle due società informatiche, titolari dell’appalto con le procure di mezza Italia, con l’accusa di aver creato un archivio riservato contenente migliaia di foto, video, conversazioni private, via Whatsapp, non si sa bene a quale scopo, i politici di ogni schieramento si arrovellano sulla porno vendetta, fenomeno deprecabile, anzi osceno e infame, ma non esattamente emergenziale. Tuttavia, sulla scia del caso Giulia Sarti, la iattura delle foto osé in rete inonda le cronache quotidiane e s’impone negli animi degli onorevoli e delle onorevoli, stimola l’esibizione di rose rosse e ammennicoli rossi, infiamma il fior fiore degli intellò, tutti unanimi, pure loro, nella condanna del “salaud” (il porco, per dirla alla francese). Ora, da queste parti non si nutre alcuna simpatia per fidanzati ed ex amanti che, per gioco o ritorsione, diffondono o pubblicano immagini sessualmente esplicite senza il consenso della persona interessata. Perciò l’emendamento approvato è di per sé positivo: colma un vacuum normativo dal momento che la fattispecie in oggetto non è riconducibile né all’estorsione (il fatto è spesso commesso per vendetta e non per un tornaconto economico) né allo stalking che esige la reiterazione della condotta. Oggigiorno la vittima può sporgere denuncia per diffamazione e lesione della privacy, troppo poco; quando la legge avrà compiuto il suo iter anche al Senato, invece, grazie all’incriminazione ad hoc il colpevole rischierà da uno a sei anni di carcere. Salutata con favore l’iniziativa parlamentare, viene da domandarsi se il Parlamento non possa impiegare una sollecitudine paragonabile per fornire una risposta ugualmente tempestiva attorno a vicende forse meno mediatiche ma non per questo meno preoccupanti sul fronte della difesa dei diritti e delle libertà personali. Come si diceva, la “pomo vendetta” è assurta alle cronache per l’esperienza incresciosa capitata a Giulia Sarti, l’ex presidente della commissione Giustizia accusata di aver denunciato in procura un suo ex collaboratore pur nella consapevolezza della di lui innocenza. Sarti, all’inizio della propria parabola politica, era già incappata in una brutta storia di hacking e foto osé, le sue, misteriosamente trafugate, forse a scopo ricattatorio; sempre lei aveva pensato bene, in tempi più recenti, di dotare il suo appartamento di un sistema di telecamere: per strani giochi erotici o, piuttosto, per l’esigenza di auto-tutelarsi in un movimento abituato a fono e videoregistrazioni? Di “porno ricatto”, quello vero, si muore, è accaduto a Tiziana Cantone, una ragazza troppo fragile per reggere l’urto dei pettegolezzi, delle occhiatacce, delle illazioni malevole; al di là del clamore mediatico del singolo caso e della legislazione d’urgenza che ne consegue, esiste tuttavia un fenomeno più vasto che ha a che fare con lo spazio della tecnologia nelle nostre vite, con l’urgenza di affermare un principio di responsabilità individuale in relazione a ciò che concediamo di noi agli altri, spesso con distrazione. Un approccio esclusivamente normativo non basta: anche se il “contratto di governo”, che tiene insieme Luigi di Maio e Matteo Salvini, suggella una visione fondata sul reato come panacea di ogni male, il diritto penale non è onnipotente. I giovani, per esempio, hanno bisogno di una “educazione digitale”, sin dalla scuola primaria, che li renda padroni del proprio smartphone, non succubi; servono pure meccanismi efficaci per la rimozione immediata dei contenuti incriminati dalle piattaforme web. Detto in altri termini, il penale serve ma non sempre, e pure nei casi in cui serve non è detto che esso sia sufficiente. La medesima illusione repressiva è all’origine della riforma del rito abbreviato che, nello stesso giorno dell’approvazione del “codice rosso”, ottiene il via libera definitivo di Palazzo Madama. Il provvedimento, licenziato dalla commissione Giustizia lo scorso 5 marzo, anche in questo caso con una celerità singolare, è diventato legge: in base alle nuove norme, se a seguito di contestazioni del pubblico ministero si procede per delitti puniti con l’ergastolo, “il giudice revoca l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato”. Chi è accusato di reati come devastazione, saccheggio, strage, omicidio e sequestro di persona aggravato, in caso di condanna all’ergastolo, non potrà più ottenere lo “sconto” a trent’anni, come avveniva fino a ieri. Pur tralasciando l’intento propagandistico insito nel “fine pena mai”, la questione è complessa, e riguarda l’approccio del nostro sistema verso i cosiddetti riti alternativi. Nell’abbreviato, per intendersi, si realizza un baratto esplicito, su base volontaria, tra garanzie ed entità della pena: l’imputato può scegliere, liberamente, di rinunciare a un dibattimento pieno, accettando dunque il pronunciamento del giudice allo stato degli atti (quelli contenuti nel fascicolo del pubblico ministero), in cambio di una riduzione della condanna. Si può contestare l’idea di fondo che le garanzie vengano confiscate sull’altare dell’efficienza procedurale, ma se invece si ammette questo principio è innegabile l’effetto benefico che tali riti, patteggiamento incluso, hanno avuto al fine di deflazionare il carico dei procedimenti pendenti. Con l’abbreviato si fa prima, e per paradosso, soprattutto nei reati di sangue a elevato impatto emotivo, la maggiore celerità va incontro all’esigenza della vittima, e dei suoi familiari, di avere giustizia senza attendere i tempi pachidermici del rito ordinario. Si aggiunga poi che trent’anni dietro le sbarre (tale era la pena massima “scontata” prima della riforma) non sono esattamente una passeggiata di salute, né un episodio secondario nell’esistenza di una persona, a meno che non si tenga a modello il patibolo di Halifax o la ghigliottina francese. Piuttosto che abboccare all’amo della facile propaganda, la domanda legittima di una pena certa ed effettiva andrebbe affrontata da un altro verso: i benefici successivi alla condanna, quelli sì che andrebbero sfrondati con una revisione organica che minimizzi gli automatismi attuali. Certe “uscite anticipate” umiliano il senso di giustizia, e riconoscerlo non è da manettari. No alle spose-bambine e sì al reato di sfregio dell’aspetto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2019 Non solo revenge porn. E neppure castrazione chimica. Ieri sera la Camera ha approvato a larga maggioranza (il Pd si è astenuto, sostenendo che si tratta di un’occasione persa) il disegno di legge per il contrasto alla violenza domestica. Il testo passa ora all’esame del Senato. Tra gli emendamenti approvati, quello presentato da Mara Carfagna (Forza Italia) per sanzionare i matrimoni o le unioni per coercizione, reato punibile anche se commesso all’estero ma comunque a danno di cittadino italiano o straniero legalmente residente in Italia. In mattinata si era consumata un’ulteriore frattura all’interno della maggioranza con il Movimento 5 Stelle che aveva votato insieme alle opposizione, affossando l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia, appoggiato dalla Lega, che avrebbe impegnato il Governo a legare la sospensione condizionale della pena per reati sessuali alla castrazione chimica. Il provvedimento agisce sia sul fronte del diritto penale sostanziale sia su quello della procedura, riconducendo la violenza domestica o di genere ad alcune precise fattispecie: maltrattamenti contro familiari e conviventi; violenza sessuale, aggravata e di gruppo; atti sessuali con minorenne; corruzione di minorenne; stalking; alcune ipotesi di lesioni personali aggravate. Quanto al primo profilo, la linea seguita è quella dell’inasprimento delle sanzioni. Per esempio, la pena per il delitto di maltrattamenti passa da una forbice compresa tra 2 e 6 anni a una tra 3 a 7 anni, fattispecie aggravata quando la condotta è in presenza o in danno di minore, di donna incinta o di persona con disabilità, oppure se il fatto è commesso con armi (in questi casi la pena è aumentata fino alla metà). Ma per i maltrattamenti potranno essere applicate anche le misure di prevenzione, modificando il Codice antimafia che già prevede intervento analogo per lo stalking. Quest’ultimo reato passa poi da una reclusione da 6 mesi a 5 anni a una compresa tra 1 anno e 6 anni e 6 mesi. Inserito ancora, nel Codice penale, il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso con pena compresa tra un minimo di 8 e un massimo di 14 anni di reclusione. Rimodulate poi le aggravanti per la violenza sessuale stabilendo che il reato commesso dall’ascendente, dal genitore anche adottivo o dal tutore è sempre aggravato (aumento di un terzo della pena), a prescindere dall’età della vittima (attualmente è aggravata solo la violenza commessa da questi soggetti in danno di minorenne). Codice rosso, e cioè massima evidenza e corsia preferenziale sul versante della procedura, perché il disegno di legge prevede che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisce subito al Pm, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà poi quella scritta. Braccialetto elettronico poi per assicurare il rispetto del divieto di avvicinamento. Castrazione chimica, Salvini non trova una maggioranza di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 aprile 2019 Alla Camera la Lega vota un ordine del giorno con Fdi. I 5 Stelle lo bocciano insieme a Pd, Fi e Leu. I leghisti si dicono “sconcertati e dispiaciuti”. I 5S: “Il centrodestra non esiste”. Un anticipo di campagna elettorale per le europee è andato in scena ieri alla Camera, durante l’approvazione del Codice rosso. L’occasione l’ha offerta il voto sull’ordine del giorno relativo alla castrazione chimica, presentato da Fratelli d’Italia: i soci di governo, 5S e Lega, hanno preso strade separate e il centrodestra si è spaccato. I gialloverdi si tallonano intestandosi a turno i provvedimenti dell’esecutivo e le iniziative parlamentari: se i pentastellati hanno puntato sul reato di “revenge porn”, il Carroccio ha scelto come bandiera la castrazione chimica. La rottura era stata sfiorata già martedì salvo poi fare, da parte di Matteo Salvini, un passo indietro ritirando l’emendamento ad hoc. Da Fdi era arrivata la stoccata: “La Lega non si faccia più ‘castrare’ dal M5S e torni a ragionare da vera forza di centrodestra”. Il partito di Giorgia Meloni ieri si è infilato nella crepa presentando un odg che invitava il governo a introdurre la castrazione chimica come condizione per la sospensione della pena, in caso di condanna per reati sessuali. La deputata di Leu, Giuseppina Occhionero, ha spiegato: “Sono avvocato, dal punto di vista legale non ha alcun senso”. Persino il leghista Giuseppe Basini si è dissociato: “Voterò contro, non credo che faccia parte né del diritto né delle nostre tradizioni un provvedimento come questo. Allora se uno ha tendenze aggressive dobbiamo permettere la lobotomia prefrontale?”. Mentre il 5S Andrea Colletti aveva bollato l’odg come “palesemente in contrasto con la Costituzione e le convenzioni internazionali”. Risultato: i 5 Stelle hanno votato no con Pd, Fi e Leu; la Lega, con diversi assenti, si è ritrovata da sola con FdI. Odg bocciato: 383 voti contrari e solo 126 favorevoli. Dai banchi di Fdi è partito il coro “Nazareno, Nazareno” (rievocando così il patto dell’epoca Renzi) all’indirizzo di Fi, vista ormai come estranea alla nuova destra, quella che ha fatto network al Congresso mondiale della famiglia di Verona. Da Forza Italia la replica di Mariastella Gelmini: “Non siamo la stampella di nessuno. La corsa Salvini-Meloni a scavalcarsi a destra si schianta contro i numeri. Il convoglio sovranista è deragliato in partenza”. E Stefano Mugnai: “La maggioranza di governo, unitissima nella ‘castrazione economica’ del paese, si è spaccata su quella chimica. È una deriva anticostituzionale e antiscientifica”. Salvini non arretra e anche ieri ha ripetuto: “Stupratori e pedofili vanno arrestati e curati”. Nel pomeriggio le solite fonti, fronte Carroccio, hanno fatto trapelare l’irritazione verso l’alleato: “Sconcertati e dispiaciuti del voto del M5s con Pd e Fi”. È la ministra Giulia Bongiorno a fare il punto: “Il ritiro dell’emendamento sulla castrazione chimica non è stato una marcia indietro ma un differimento. Può rientrare in un ddl della Lega, da sottoporre anche ai 5Stelle. Verrà presentato con Salvini, sarà un provvedimento più organico e avrà come oggetto reati gravissimi, come la pedofilia”. I pentastellati hanno tenuto fermo il loro no: “Apre uno spiraglio alle pene corporali” ha spiegato il capogruppo alla Camera Francesco D’Uva. Lo scontro è soprattutto politico così fonti grilline hanno ribattuto: “Il M5S è rimasto coerente: per noi la castrazione chimica non può essere una soluzione e non è nel contratto di governo. Riguardo al voto in aula, se si è trattato di ‘verificare’ una maggioranza alternativa, il tentativo è fallito. Il centrodestra non esiste più, neanche su questi temi. Non esiste altra maggioranza senza il M5s”. E sullo sconcerto leghista: “La misura è una presa in giro verso le donne. Ci vuole la certezza della pena, quello che ha fatto il ministro Bonafede alzando il minimo e il massimo delle pene”. Mentre volavano gli stracci, il Codice rosso ieri è stato approvato alla Camera con 380 sì e l’astensione di Pd e Leu. Tappa successiva il Senato. Il provvedimento velocizza l’azione penale per i reati di violenza domestica e di genere, aumenta le pene per maltrattamenti contro familiari o conviventi, sfregi al viso, stalking e violenza sessuale. Porta da 6 a 12 i mesi i tempi per sporgere denuncia, introduce il reato di “revenge porn”. Con un emendamento a firma Mara Carfagna (Fi) si introducono pene da 1 a 5 anni per chi induce a contrarre matrimonio o unione civile mediante violenza, minaccia o persuasione fondata su precetti religiosi. Inoltre ci sarà sostegno economico per gli affidatari di orfani di femminicidio. Sì alla riforma della class action. Per le imprese rischio costi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2019 Di sicuro è un cambiamento radicale. Che, nelle intenzioni dei sostenitori, dovrà portare a un significativo aumento delle azioni collettive. Ieri il Senato ha approvato definitivamente la riforma della class action (introdotta con un blitz nella manovra del 2008: passò con un emendamento approvato per un voto e un senatore sbagliò a votare). Larga la maggioranza (206 sì, 44 no e 1 astenuto) che ha dato il via libera al passaggio dell’azione di classe dal Codice del consumo al Codice civile. Cambiamento che non è solo formale, visto che, nei fatti, condurrà a un’immediata estensione della platea dei soggetti che potranno promuovere la richiesta di risarcimento: non più i soli consumatori, ma chiunque ritiene di avere subìto una lesione di “diritti individuali omogenei”, oltre che le associazioni rappresentative dei diritti oggetto della tutela. Ad allargarsi è inoltre il perimetro oggettivo di applicazione. Anche se sono confermate individualità e omogeneità dei diritti, la legge individua nella class action lo strumento utile per tutte le ipotesi di responsabilità contrattuale (in linea con la disciplina vigente) e quelle di responsabilità extracontrattuale, oggi limitate a pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali. Per esempio, nel caso del dieselgate, la disciplina attuale fa valere “solo” la lesione alla normativa sulla concorrenza (prodotto diverso da quello pubblicizzato); in futuro si potranno far valere anche lesioni a diritti come quello alla salute o all’ambiente. Esulta il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede che sottolinea come “l’azione di classe sinora era limitatissima e aveva diversi paletti che l’avevano resa inutilizzabile nel corso degli anni. Ora diventa uno strumento generale che i cittadini, deboli da soli, potranno utilizzare, unendosi per fare valere i propri diritti”. Bonafede tiene a ricordare che la class action potrà essere usata anche dagli imprenditori e tuttavia fortissime restano le perplessità di Confindustria che, più volte anche nel corso dei lavori parlamentari, ha espresso contrarietà su una serie di punti. Tra questi, oltre alla vastissima estensione dell’ambito di applicazione, almeno altri due aspetti qualificanti: la possibilità di adesione alla classe anche dopo la sentenza che ha definito la causa e i compensi premiali dovuti al rappresentante comune della classe e agli avvocati dei ricorrenti. Tutti elementi che rischiano sia di fare da volano al contenzioso sia da moltiplicatore dei costi da sostenere. Rispetto alla versione iniziale del testo sono state introdotte alcune modifiche significative, escludendo, per esempio, la retroattività, con la nuova disciplina che si applicherà cioè alle condotte illecite poste in essere solo dopo l’entrata in vigore; l’estensione da 6 a 12 mesi del periodo transitorio: la riforma si applicherà dopo un anno dall’entrata in vigore; la possibilità per il giudice di sospendere, per gravi e fondati motivi, la liquidazione delle somme da corrispondere a titolo di risarcimento; l’unicità dell’azione, evitando di avviare, per gli stessi fatti e contro la medesima impresa, più azioni di classe. La competenza è affidata alle sezioni specializzate in materia d’impresa, con una procedura articolata in tre fasi: ammissibilità, decisione e (eventuale) liquidazione. Confermato il meccanismo di ingresso nella classe attraverso manifestazione di volontà (opt in, a distinguere l’azione di classe italiana dalla class action degli Stati Uniti, dove si è inseriti automaticamente nella classe) che può avvenire in 2 momenti dopo l’ammissibilità oppure dopo la decisione. Paita, Boschi, Lucano. Tre storie da repubblica della gogna di Giuseppe De Filippi Il Foglio, 4 aprile 2019 Ci ricordano perché il processo mediatico è il collante del cambiamento populista. Un’assoluzione confermata in Appello, un’archiviazione decisa dalla procura (la seconda), un annullamento di condanna deciso in Cassazione. Il tutto nel giro di poche ore. Raffaella Paita, ora deputata del Pd, esce definitivamente dalle accuse di responsabilità penali per le conseguenze dell’alluvione che colpì Genova nel 2014, quando era assessore regionale alla Protezione civile. A Pier Luigi Boschi vengono archiviate, dopo quelle relative ai prospetti informativi per le obbligazioni, anche le accuse relative alla bancarotta fraudolenta causata dalla liquidazione all’allora direttore generale di Banca Etruria Luca Bronchi. A Mimmo Lucano viene annullato con rinvio il divieto di dimora nella sua Riace e soprattutto sparisce tutta quella serie di possibili imputazioni che andavano da reati relativi agli appalti sulla raccolta dei rifiuti all’organizzazione di matrimoni combinati e quindi al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono tre casi diversi, certo, ma tenuti insieme ora dalla coincidenza temporale della loro triplice conclusione positiva per le persone coinvolte e ovviamente, di più nel caso di Boschi, dei loro parenti. Ma tenuti insieme anche, negli anni, perché purtroppo si tratta di anni, dalla canea giustizialista che li ha utilizzati senza risparmio sui due fronti, quello giornalistico e quello politico. Facendone tre casi esemplari a uso di una comunicazione violenta e distorcente. C’erano, in quelle vicende, i tre filoni buoni per qualunque occasione di urlo televisivo ma anche di intervento polemico in Parlamento o di allusione velenosa in un editoriale. C’era l’accusa improvvisata ma senza appello perché solo mediatica che colpiva, come si direbbe per un antibiotico, ad ampio spettro: il centrosinistra in generale, il renzismo, la sinistra solidale e favorevole all’accoglienza. Con storie, si diceva, perversamente esemplari da sbattere in pagina a volontà: l’incapacità e le connivenze nell’amministrazione locale, la distruzione del risparmio, le complicità bancarie e quindi il potere, il business della bontà. Tutta quella robaccia che abbiamo sentito e sentito urlare o insinuare e che è entrata come un fatto, come qualcosa di realmente accaduto, come un punto di partenza, una base, da cui discutere, nel nostro dibattito pubblico. Ha cambiato stagioni politiche, ha rimescolato le aspettative dei cittadini, ha imposto un’agenda che ora sta impazzendo nelle stesse mani di chi l’ha creata (il giustizialismo è una bestia che mangia anche chi la scatena). Dimostrando come si può essere giustizialisti e spietati da parte grillina, specializzandosi, Travaglio aiutando, contro la famiglia Boschi. E da parte leghista, talk-show cantando, dedicandosi con accanimento al mite (ma per fortuna anche tostissimo) Mimmo Lucano, sul quale rovesciare violenza verbale, disprezzo, irrisione. Coadiuvati in questo dalla esorbitante Giorgia Meloni, che deve mettere un di più rispetto al già truce Matteo Salvini per farsi notare, e si fa ricordare per l’invito sarcastico a Roberto Saviano perché portasse le arance all’arrestato dopo averlo difeso in pubblico. Populismi, insomma, che convergono, anche, per via giudiziaria. Eravamo quattro amici davanti alla gogna che volevano cambiare l’Italia. Molto più simili di quanto si dica, resi uguali, anzi, dalla prova di tre vicende giudiziarie in cui bisognava far vedere chi si era veramente. Come sempre mostrando la natura di chi giudica di più o alla pari di quanto si mostri quella di chi è giudicato. Figlia del boss vince il concorso, il Viminale non la vuole assumere di Riccardo Arena La Stampa, 4 aprile 2019 Gisella Licata, laureata e incensurata, ha vinto il concorso del ministero dell’Interno. Ma la procedura è stata sospesa. Il ricorso al Tar dopo 3 mesi di attesa per la firma del contratto. Il padre ha tre ergastoli, lei - come si dice - è “esente da pregiudizi”, non ha nemmeno una multa per divieto di sosta, non beve, né si droga. Il padre è Vincenzo Licata, boss di Grotte, un centro che è a un tiro di schioppo da Racalmuto, il paese della ragione, luogo natale di Leonardo Sciascia. E proprio da una storia o da un articolo di Sciascia sembra tratta la storia di Gisella Licata, figlia di Vincenzo, mafioso pluriergastolano della provincia di Agrigento. Una storia semplice, in apparenza, sulle colpe del padre, mafioso da quattro omicidi e da carcere duro, il famoso 41 bis. “Ero bambina, non so nulla, non potevo sapere niente: che c’entro io con mio padre?”, ha detto Gisella, che oggi ha 36 anni, è laureata in Giurisprudenza e ha vinto un concorso al ministero dell’Interno: i posti in palio erano 250 ma poi la graduatoria è stata fatta scorrere e sono stati assunti tutti gli idonei. Anche lei, che era 414ma, ha così superatole prove “per titoli ed esami di personale altamente qualificato, appartenente al profilo professionale di funzionario amministrativo”. Gisella Licata, però, nel “ruolo del personale dell’amministrazione civile dell’Interno, da destinare esclusivamente alle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e alla commissione nazionale per il diritto d’asilo”, a occuparsi cioè di migranti, non può andare. Almeno finora. La sua assunzione, che le era stata comunicata il 28 dicembre 2018, con la nota protocollo 0117894, è stata infatti bloccata dal Viminale. Il 14 febbraio la figlia del boss ergastolano si sarebbe dovuta presentare per “la sottoscrizione del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato e la relativa assunzione in servizio”. L’agognato posto fisso, assegnato alla prefettura di Palermo, ma alla figlia del mafioso. E anche se lei personalmente non ha fatto nulla di nulla, né le viene contestato un qualsiasi ruolo, passato o attuale, nelle attività illegali del padre (che tra l’altro è in cella da vent’anni), due giorni prima della firma del contratto, il 2 febbraio, ha appreso che non se ne sarebbe fatto nulla. Dalla questura di Agrigento, il 18 gennaio, era partita un’informativa che aveva fatto cambiare idea al ministero guidato dal vicepremier Matteo Salvini: “Si verrebbe a configurare - le hanno scritto nella nota 0008764 - una situazione inconciliabile rispetto all’immissione nei ruoli di questa amministrazione, nella quale vengono svolte funzioni di particolare delicatezza, anche in materia di pubblica sicurezza”. Vanno così fatti approfondimenti “in ordine al possesso delle qualità morali e di condotta incensurabile”. Dunque “la procedura di assunzione è al momento sospesa”. Le colpe dei padri, dunque. Un rifiuto che sarebbe illegittimo, tant’è che l’avvocato Girolamo Rubino, incaricato dalla giovane donna, ha fatto ricorso al Tar del Lazio, che martedì “è entrato in riserva”, come si dice nel gergo forense: la richiesta è di sospendere la sospensione e di consentire a Gisella Licata di prendere servizio. Ma è alta la probabilità che il Tribunale amministrativo si dichiari incompetente, a favore del giudice del Lavoro, di Palermo o di Agrigento: perché si tratta di un rapporto di lavoro potenzialmente già instaurato. L’informativa su di lei è negativa ma ammette che Gisella Licata personalmente risulta “di regolare condotta in genere e immune da precedenti e pendenze penali, non è dedita all’alcool né all’uso di sostanze stupefacenti”. Due sentenze della Corte costituzionale, la numero 108 del 1994 e la 391 del 2000, non la pensano come il ministero: il possesso delle qualità morali e di condotta va riferito esclusivamente alla specifica persona del candidato e sono state dichiarate incostituzionali le norme che imponevano di considerare anche i precedenti per alcuni reati a carico dei “parenti in linea retta entro il primo grado (genitori o figli, ndr) e in linea collaterale entro il secondo (fratelli o cugini, ndr)”. Prima di allora un regio decreto de11941 (decisamente in altri tempi) dava l’ultima parola “all’apprezzamento insindacabile del ministro competente”, se vi fossero stati dubbi sull’appartenenza a “famiglia di estimazione morale indiscussa”. Nei casi trattati dalla Consulta si discuteva di assunzioni in polizia, mentre Gisella Licata andrebbe a fare il funzionario civile. Insomma, la figlia del mafioso potrebbe pure andare a lavorare in prefettura. Ivrea (To): che successe quella brutta notte del 2016 nel carcere? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2019 Interrogazione di Walter Verini (Pd) al ministro Bonafede sui presunti pestaggi. “Chiediamo al ministro della Giustizia quale esito ha avuto l’indagine amministrativa attivata dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e quali iniziative di competenza siano state adottate”. Parliamo dell’interrogazione parlamentare presentata venerdì scorso, a firma del deputato del Pd Walter Verini, in merito ai presunti pestaggi che sarebbero avvenuti nel carcere di Ivrea nella notte tra il 25 ed il 26 ottobre 2016. Di quei pestaggi il Dubbio ne diede conto per primo dopo pochi giorni. Nell’interrogazione di Verini viene ricordata la relazione del 15 dicembre 2016 del Garante Nazionale, relativa alla visita effettuata presso la casa circondariale di Ivrea, a seguito delle denunce di alcuni detenuti e del Garante comunale di violenze fisiche e azioni repressive nei loro confronti. Si legge, sempre nell’interrogazione, che la visita del Garante nazionale “finalizzata alla verifica dei fatti verificatisi nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016” era stata “originata dalla segnalazione pervenuta all’Ufficio in ordine ad azioni repressive violente che sarebbero state messe in atto dalla polizia penitenziaria nei confronti di alcuni detenuti in protesta e dai riscontri ricevuti dai primi interventi di monitoraggio richiesti dal Garante Nazionale ai Garanti territoriali ed effettuati il 30 ottobre dal Garante comunale, Armando Michelizza, e il 2 novembre dal Garante Regionale Bruno Mellano”. In sostanza, l’onorevole Verini chiede al guardasigilli Bonafede se è a conoscenza dei fatti e quali iniziative sono state intraprese dopo l’indagine amministrativa. Da ricordare che sono due i procedimenti aperti, nonostante riguardano le stesse presunte violenze, dove erano finiti sotto inchiesta alcuni agenti penitenziari e detenuti coinvolti. La Procura ha chiesto l’archiviazione per entrambi, però il legale di Antigone Simona Filippi per il primo e l’avvocato Luisa Rossetti per il secondo, hanno fatto opposizione, smontando pezzo per pezzo l’intero impianto delle richieste di archiviazione. A febbraio scorso c’è stata l’udienza davanti al Gip che ha accolto l’opposizione su una parte del procedimento, mentre sull’altro ancora, sempre sugli stessi fatti denunciati da Antigone e dal Garante nazionale, l’udienza preliminare è stata fissata per il 5 giugno. Ribadiamo che l’evento più clamoroso si sarebbe verificato nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016: infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut, a seguito delle quali aveva indagato la procura di Ivrea. Questi episodi furono riscontrati dalla delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, dove venne confermata l’esistenza della cella liscia chiamata “l’acquario”, poi chiusa - grazie alla segnalazione del Garante, Santi Consolo, ex direttore del Dap. La visita, effettuata da Emilia Rossi, componente del collegio del Garante, insieme a Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte, era stata effettuata per verificare l’attendibilità della denuncia. “Senza entrare nel merito degli accertamenti della Procura - spiegò Emilia Rossi riassumendo il rapporto i due aspetti più inquietanti sono: la presenza di due celle di contenimento - una denominata “cella liscia” dallo stesso personale dell’Istituto, l’altra chiamata “acquario” dai detenuti che oltre ad essere in condizioni strutturali e igieniche molto al disotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano e di integrare una violazione dei più elementari diritti delle persone detenute, costituiscono un elemento che accresce la tensione presente nell’Istituto”. Il secondo aspetto segnalato riguarda l’assenza da oltre quattro anni di un comandante della Polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla Casa circondariale. Nel rapporto si apprese che la delegazione, nel corso della visita, ha potuto effettuare i controlli nei reparti interessati dalla denuncia: dalla cella di isolamento alla sala d’attesa dell’infermeria, collocata al piano terra lungo lo stesso corridoio al fondo del quale è posta la sezione isolamento, dove secondo la denuncia dei detenuti si rinchiudevano e si punivano le persone irrequiete da contenere. Il Garante aveva annotato che quanto verificato nel corso della visita “ha reso oggettivo riscontro alle denunce e alle segnalazioni, quantomeno in ordine agli elementi di natura materiale e strutturale”. Interessante non solo il riscontro della cella liscia, denominata “L’acquario”, ma anche di una seconda cella di isolamento che era situata nel reparto infermeria fornita soltanto di un letto collocato al centro della stanza, ancorato al pavimento, dotato del solo materasso, peraltro strappato e fuori termine di scadenza. Gli assistenti di polizia penitenziaria avevano affermato alla delegazione del Garante che quella cella non veniva utilizzata da qualche anno. In realtà subito sono erano stati smentiti dagli atti delle annotazioni degli eventi critici esaminati dalla delegazione. Nella relazione del vicecomandante Commissario Paolo Capra, in ordine ai fatti accaduti nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, veniva riportato testualmente, infatti, che il detenuto A.N.P.A., prelevato dalla stanza numero 8 del quarto piano, “veniva condotto in infermeria e successivamente allocato in una cella priva di arredi al reparto piano terra”. Roma: Torre Maura, la polveriera che si ribella ai rom di Flavia Amabile La Stampa, 4 aprile 2019 “Vi bruciamo vivi, dovete andarvene da qui”. “Vieni a vede ‘ndo vivo”. Maurizio insiste, si incammina lungo una delle strade del quartiere di Torre Maura, periferia est di Roma, zona di edilizia improvvisata, rancori accumulati e promesse mancate. Apre un portone di lamiera zincata, sale su per due rampe di scale dalle pareti scrostate, apre una porta. Rumori di un programma in televisione, odore di sugo, crepe, macchie di umido, una bacinella in bagno piena di acqua sotto il lavandino. “E quanno l’aggiusto? Devono cambiare tutti i tubi, ce l’hai tu i soldi? Io no e me lo tengo così, con la goccia giorno e notte. E io devo pensà che a quelli danno un posto dove vivere dove gli aggiustano tutto e tutto funziona? A quelli che hanno le Mercedes e i conti in banca e che l’altra sera sono venuti a rubare nelle nostre case? Piuttosto gli sparo!”. “Quelli” sono i rom, colpevoli di più o meno tutto, quanto i richiedenti asilo o chi lavora in Campidoglio. Fanno tutti parte della stessa categoria di persone buone solo per creare problemi, mai per risolverli. E Maurizio di problemi che nessuno può risolvere ha una lista lunga quanto il lungotevere che immaginato da qui è un luogo straniero, lontano, un pezzo di un’altra città. Non serve a fermarlo sottolineare la contraddizione dei rom ricchi che vanno a rubare nelle case di chi non ha nulla come lui. Da queste parti sono abituati alle contraddizioni, è la loro vita, nessuno ci fa più caso. Nessuno più ricorda di aver votato i Cinque Stelle alle ultime amministrative e di essere scesi ora in strada proprio contro Virginia Raggi e i suoi. Né la giunta ama sottolineare che quello che in queste ore sta accadendo a Torre Maura è il frutto del Piano Rom approvato dal Campidoglio. Un “capolavoro da applausi”, si era complimentato Beppe Grillo. Il capolavoro si basa sulla chiusura dei grandi campi, uno dei mostri sociali di Roma, ma ha come conseguenza non del tutto secondaria la necessità di trovare un posto a migliaia di persone. Un obiettivo fallito due volte, commenta Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio: “Il Comune di Roma, con nonchalance, aveva scelto di praticare il modello dei “centri di raccolta rom”, quello inventato da Alemanno e smantellato da Mafia Capitale. Con una mano (e soldi europei) chiudere i campi (o almeno tentare di farlo), con l’altra aprire costosissimi campi di nuova generazione (con fondi comunali) denominati “centri di raccolta rom”. Ha fallito. Perché è un sistema che viola i diritti umani, è costoso (più di 2 mila euro mensili a famiglia), la popolazione non lo accetta”. E a questo punto arriva il secondo fallimento. “La decisione del Campidoglio, avvenuta nella notte, di ricollocare le famiglie rom altrove ha sancito la sconfitta totale di tutte le parti in causa”, conclude Stasolla. Anche se il Comune ha ceduto alle proteste in tanti sono ancora in strada nella notte dopo l’auto incendiata, i cassonetti rovesciati e i panini calpestati. Enzo, 52 anni, idraulico: “Meglio controllare se li mandano davvero via. Questa è Torre Maura, la devono lasciare a noi!”. “Siamo abbandonati”, conferma Sergio Brigantini del Comitato Inquilini di Torre Maura - Abbiamo bisogno di strutture, di sicurezza, dimezzi pubblici, di un mercato. Nessuno ci ha mai dato nulla. Ci portano solo i rom”. Il trasferimento è una decisione del Comune, il centro di Torre Maura invia Codirossoni ha vinto un bando europeo come struttura di accoglienza. È stata considerata più funzionale, nuova e agibile rispetto al luogo dove erano finora ospitati i rom. La signora Gabriella sorride con amarezza: “E ce credo: quello era il nostro ospedale, ce curavamo lì. E poi c’hanno mandato gli stranieri e ora i rom. E noi? Dove ci dobbiamo andare a curare?”. Non ci sono solo gli abitanti del quartiere a controllare che i rom vengano portati via. Ci sono anche tanti componenti di Casapound, volti noti e meno noti. Arrivano quando cala il buio a far salire il livello di provocazioni. “Scimmia di m... te ne devi andare, esci fuori che ti ammazzo”, urla uno a un rom all’interno del centro. “Dobbiamo bruciarli vivi”, aggiunge un altro. Quando poi arriva un furgone per portare via il primo gruppo di rom dal centro, in una via laterale scoppia una bomba carta mentre qualcuno colpisce con calci e manate il pulmino. Poi lo guardano andare via intonando lo slogan “Italia, fascismo, rivoluzione”, l’Inno di Mameli e tenendo il braccio destro ben sollevato nel saluto fascista. Qualcuno se la prende con la sindaca Virginia Raggi ma senza crederci troppo: “Ha preso i voti e ci ha abbandonati”, dice la signora Andreina. L’unico rappresentante del Campidoglio è il delegato alla Sicurezza di Roma Capitale, Marco Cardini, Arriva in mattinata, pochi minuti: più contestazioni che parole ufficiali. “Sono qui per rassicurare la parte sana del quartiere e gettare acqua sul fuoco. La mia priorità è verso i 33 minori ospitati qui”. “Ma li mortacci vostra!”, gli urlano in coro gli abitanti. Roma: la Capitale e quel senso di ingiustizia inascoltato di Luca Ricolfi* Il Messaggero, 4 aprile 2019 Riassumiamo i fatti. L’altro ieri i residenti di Torre Maura (quartiere di Roma) hanno dato vita a una rivolta, con vari episodi di violenza e di intimidazione, quando si sono accorti che il Comune stava trasferendo 77 rom in un centro che, fino a poco prima, aveva ospitato alcune decine di migranti. Gli abitanti di Torre Maura, recentemente “liberati” della presenza dei migranti, non ci hanno visto più quando se li sono visti sostituire con i rom. L’operazione rientra nella cosiddetta “terza via” di Virginia Raggi: trovare un compromesso fra il buonismo “senza sé e senza ma” della sinistra e il cattivismo, anch’esso senza se e senza ma, della Lega e del suo leader Salvini. L’idea è (o meglio era) di sgomberare i campi rom, assicurando percorsi di reinserimento individuale (formazione, lavoro, alloggio, ritorno in Romania), ampiamente finanziati dalla mano pubblica. Una strategia già tentata senza grande successo l’estate scorsa con il campo rom di Prima Porta (Camping River). Oggi, forse scottata da quell’esperienza, la sindaca la riformula in modo un po’ più filosofeggiante: “Su migranti e campi rom sto portando avanti la terza via: inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili. Semplificare i temi complessi è sbagliato”. Giustissimo, ma più facile a dirsi che a farsi. Perché portare in blocco 70 rom in un quartiere degradato, che ha già enormi problemi, dallo stato penoso degli alloggi comunali ai roghi dei cassonetti, che cos’è se non un modo semplicistico di affrontare il problema? (e infatti l’Amministrazione comunale ha già fatto macchina indietro: i 70 rom, in massima parte donne e bambini, saranno portati tutti via entro una settimana). Semplicistico, soprattutto, è prendersela con l’ira popolare senza comprenderne le ragioni. Ragioni che non giustificano in alcun modo gli atti violenti e le manifestazioni di odio (su cui già indaga la Procura) ma che hanno una loro macroscopica consistenza. Proviamo a riassumerle, una ad una. Prima ragione. La gente non capisce perché si continui a parlare di periferie degradate, della necessità di riqualificarle, dell’urgenza di un ritorno della politica nei quartieri, e poi non riesce né a tener pulite le strade (che è il minimo sindacale per un’amministrazione), né a garantire la sicurezza (che è il minimo sindacale per uno Stato), e come se questa assenza non fosse già abbastanza colpevole scarica su un territorio già stremato i problemi di specifici gruppi sociali (migranti e rom), peraltro noti per un tasso di criminalità superiore alla media. Seconda ragione. La gente non capisce perché un cittadino italiano ordinario, per vivere, debba sbattersi in cerca di un lavoro e di una casa, mentre alcuni gruppi sociali “speciali” paiono godere di una sorta di diritto a reddito e alloggio. E ancor meno capiscono che altre minoranze sventurate, questa volta costituite da cittadini italiani, non godano di altrettanti diritti e attenzioni (“andate via, fate venire i terremotati che stanno sotto la neve!” è una delle frasi che si sono ascoltate durante le proteste a Torre Maura). Terza ragione. La gente non capisce la “terza via” perché sa perfettamente come andrà a finire: il lato buonista premierà le persone fragili (o presunte tali), il lato cattivista resterà lettera morta. Perché è facilissimo spendere soldi dei contribuenti o dell’Europa per gestire l’accoglienza, è praticamente impossibile arginare i comportamenti illegali (le periferie non sono sufficientemente presidiate dalle forze dell’ordine, intere porzioni del territorio sono in mano alla criminalità, chi infrange le leggi può tranquillamente essere arrestato e liberato decine di volte). La realtà, temo, è che la Terza via, attuata con tanta improvvisazione (pare che dell’operazione di trasferimento a Torre Maura non fosse stato informato neppure il presidente grillino del VI Municipio, di cui Torre Maura fa parte), non possa che rafforzare la reazione cui pretende di porre un freno. Certo, se si pensa che le reazioni rabbiose al trasferimento dei rom siano dovute alla rozzezza del volgo romano, o all’estrema destra che soffia sul fuoco, aizzando i peggiori istinti popolari, allora non c’è niente da fare: fascismo e razzismo avanzano tenendosi per mano, e tocca ai sinceri democratici resuscitare antifascismo e antirazzismo, i due grandi anticorpi alla disumanizzazione trionfante. C’è però anche un altro modo di mettere le cose. A giudicare dai resoconti della protesta, dalle frasi e dagli slogan che si sono sentiti, il sentimento centrale che pare animare la protesta non è l’odio ma, forse più semplicemente e umanamente, un forte, fortissimo, disperato senso di ingiustizia. Chi fatica a sbarcare il lunario in un quartiere degradato, non riesce a capire perché i migranti non siano inviati in altri quartieri delle città (già: perché?), soprattutto in quelli del politicamente corretto i cui abitanti manifestano orgogliosamente in favore dell’accoglienza. Ma soprattutto non capisce un’altra cosa: perché, nella distribuzione delle risorse pubbliche, la maggior parte dei cittadini siano lasciati soli, a giocare la loro difficilissima battaglia individuale per la sopravvivenza, mentre ad alcuni gruppi e minoranze (rom e migranti innanzitutto) è accordata una speciale precedenza e attenzione, il tutto senza che alcun merito, o fragilità estrema, giustifichi una tale differenza di trattamento. *Fondazionehume.it Aversa (Ce): assolto l’ex direttore dell’Opg, Adolfo Ferraro di Raffaele Sardo La Repubblica, 4 aprile 2019 L’ex direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario scagionato dall’accusa di aver utilizzato metodi coercitivi contro gli internati. “Giustizia è fatta, ho passato una vita ad aiutare i malati, per me queste accuse erano paradossali”. “Assolto perché il fatto non sussiste”. È finita poco dopo lo 13 l’odissea giudiziaria di Adolfo Ferraro, l’ex direttore dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa che, insieme ad altri diciassette medici della struttura, era stato rinviato a giudizio con l’accusa di maltrattamenti e sequestro di persona nei confronti di alcuni internati. Ha pronunciare la sentenza il giudice monocratico del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Orazio Rossi, che ha mandato tutti assolti. Il pubblico ministero, Ida Capone, aveva chiesto per tutti la condanna a 2 anni e 2 mesi di carcere. “Giustizia è stata fatta - dice subito l’avvocato Domenico Ciruzzi, che ha difeso nel processo Adolfo Ferraro insieme all’avvocato Alessandro Motta-ma, senza fare polemiche - aggiunge subito - è il caso di sottolineare che questa era un’indagine partita su un input politico, giusto, di denuncia, ma che la magistratura aveva fatto ricadere sugli elementi più deboli della catena di comando”. A far scattare l’indagine penale su fatti tra la fine del 2006 e gennaio 2011 era stata la commissione d’inchiesta del Senato sull’Opg, presieduta dal senatore Ignazio Marino. Seguì anche un’ispezione dei carabinieri del Nas. In pratica, Ferraro e gli altri medici venivano accusati di aver utilizzato i letti di contenzione per gli internati dell’Opg. “Ma hanno accusato la persona sbagliata - dice ancora l’avvocato Ciruzzi - Ferraro ha lottato una vita intera contro i metodi coercitivi degli Opg, contribuendo a modificare la legge. Lui era direttore ad Aversa, ma in quanto componente della commissione Sanità e giustizia varata dal parlamento, si era fatto promotore di un emendamento, poi appi-ovato, che in pratica dimezzava il suo ruolo di direttore, perché equiparava gli Opg a strutture sanitarie. Ferraro ha sempre creduto di poter curare i malati psichiatrici con metodi non violenti. È stato lui a togliere i letti di contenzione con il progetto “Le ali ai letti”. Ha denunciato più volte quello che non andava negli Opg con Dario Fo e con altri artisti. Ha denunciato le condizioni di questo mostro che era l’Opg. Per aiutare i detenuti - continua Ciruzzi - è stato minacciato, ha dovuto denunciare per diffamazione le guardie carcerarie che avevano una resistenza culturale verso ipotesi di terapie e di trattamenti dell’Opg”. “All’epoca - dice visibilmente soddisfatto lo psichiatra Ferraro -ho chiesto tre volte di essere sentito dal pm, ma non mi hanno mai preso in considerazione. Evidentemente avevano già la loro idea di colpevolezza. I capi di imputazione di cui dovevo rispondere per me erano offese personali, perché sono in contrasto con tutta la mia vita. Mi si accusava di aver lasciato i malati senza attività trattamentali, quando io sono quello che li ha aiutati. Avrei consentito le coercizioni, Nel corso del processo, però, si è scoperto che io ero quello che li aveva tolti i letti di contenzione. Un paziente invitato come testimone contro di me, non solo ha parlato male delle guardie, ma ha detto anche “il dottore Ferraro mi ha salvato la vita”. Ferraro fu anche vittima di un attentato incendiario alla sua auto negli anni in cui il suo ruolo all’interno dell’Opg cambiò per effetto delle nuove norme “Sono stato direttore fino al 1 aprile del 2008 - spiega Ferraro - grazie al decreto legge di cui io ero l’artefice. Ho fatto in modo che la sanità penitenziaria passasse nella sanità pubblica. Lo consideravo quindi il primo passo per la distruzione degli Opg. Mi sono trovato, però in una situazione strana. Da una parte il carcere che voleva riappropriarsi di quello che era il passato e dall’altro l’Asl che mi ha lasciato senza contratto, senza soldi. Avevo fatto in modo che i pazienti costassero solo 15 euro al giorno. Quando me ne sono andato hanno messo un sacco di gente e i pazienti sono costati 170 euro al giorno. Ovviamente c’era un business milionario che non volevano che gestissi. Sono stati anni di inferno, ma anche prima ero nell’occhio del ciclone. Mi hanno incendiato l’auto perché volevano mandarmi via. Ero diventato una persona scomoda. Ora - dice Ferraro - finalmente l’incubo è finito”. L’Opg di Aversa, insieme agli altri cinque “manicomi giudiziari”, fu chiuso nel marzo 2015 e le competenze trasferite alle Rems (Residenze perle misure di sicurezza della Campania). Ma ad oggi restano ancora circa 700 persone con problemi psichiatrici nella carceri perché non c’è posto nelle Rems. Taranto: i detenuti diventano muratori grazie ad un corso Formedil inchiostroverde.it, 4 aprile 2019 In carcere si può anche diventare muratori: il Formedil Cpt Taranto, infatti, ha appena concluso il corso riservato a 10 detenuti per la figura di “operatore per la realizzazione di opere murarie”, finanziato dalla Regione Puglia nell’ambito dell’ avviso n. 1/2017 del Por Puglia. Si è trattato di un’esperienza impegnativa ed importante, che ha potuto contare sul sostegno convinto e costante della direzione della Casa Circondariale di Taranto, sul lavoro di un team di progetto molto qualificato e su una forte motivazione dei partecipanti. Il corso, della durata di 900 ore, di cui 600 destinate alle esercitazioni pratiche, ha consentito di qualificare i corsisti in varie tipologie di lavorazioni edili, consentendo loro di imparare sul campo e di contribuire, grazie al percorso formativo, alla manutenzione di alcune parti dell’edificio penitenziario. Essi potranno presto utilizzare queste competenze in lavori interni all’Istituto e, a conclusione del periodo detentivo, potranno contrare su un’opportunità in più di reinserimento sociale e lavorativo. Non solo, avranno anche la possibilità di riprendere il percorso scolastico ai fini del conseguimento di un titolo di studio. Il percorso didattico, insieme alle finalità professionalizzanti, ha contestualmente offerto un adeguato sostegno ai processi di rieducazione e di reinserimento sociale. Venerdì prossimo, 5 aprile, alle ore 10, nei locali della casa circondariale di Taranto, in via Carmelo Magli 1 si terrà l’incontro conclusivo per tracciare un bilancio dell’attività svolta. Interverranno l’assessore regionale alla Formazione Professionale Sebastiano Leo, la dirigente della Regione Puglia responsabile del progetto Anna Rosa Squicciarini, la direttrice della Casa Circondariale di Taranto Stefania Baldassari, i vertici del Formedil Cpt Taranto. Livorno: a fare la guida turistica o a pulire parchi, intesa per reinserire detenuti Il Tirreno, 4 aprile 2019 Detenuti a pulire parchi o a fare da guide in alcuni luoghi simbolo della città. In sostanza un coinvolgimento diretto nei lavori socialmente utili delle persone con una condanna penale definitiva. È stata firmata un’intesa alla direzione della casa circondariale “Le Sughere” per questo progetto innovativo che vede il coinvolgimento anche di Francesco Basentini, direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il numero uno delle carceri italiane ha sottolineato il grande valore del progetto “Mi riscatto per Livorno”, ideato dal garante comunale per i diritti dei detenuti, Giovanni De Peppo, in collaborazione diretta con il sindaco Filippo Nogarin. Un progetto siglato anche dalla coordinatrice dell’ufficio di sorveglianza di Livorno, Paola Boni, dalla responsabile per le Sughere, ValeriaMarino, e dal direttore del sistema penitenziario livornese, Carlo Mazzerbo. Alla presenza del garante regionale Franco Corleone. Con la firma del protocollo prende dunque il via la prima esperienza di coinvolgimento in attività fuori dal carcere di persone con condanne definitive. Sarà un’equipe dell’area trattamentale a selezionare i detenuti idonei a svolgere questo tipo di attività tra chi già beneficia della disciplina dell’articolo 21, che prevede la possibilità di lavorare all’esterno, e quelli meritevoli per buona condotta. L’elenco delle persone idonee verrà poi segnalato al direttore del carcere che provvederà a condividerlo con l’ufficio di sorveglianza che opera sul territorio livornese e che è preposto a dare il via libera a questo tipo di attività. A questo punto scatterà una fase di formazione che verrà coordinata dalle tre realtà che hanno già dato disponibilità a usufruire di questo servizio: Aamps, l’associazione Reset e l’associazione del Palio marinaro. “Con questo progetto - sottolinea il numero uno del Dap, Francesco Basentini - Livorno dimostra tutta la sua lungimiranza che consentirà di risolvere il problema del reinserimento dei detenuti. L’idea che la popolazione reclusa diventi una risorsa è un’idea che senza la collaborazione di tutti i soggetti interessati, l’amministrazione comunale e la magistratura di sorveglianza in primis, sarebbe impossibile realizzare. Benevento: “Carceri e Giustizia”, all’Unisannio l’incontro sul trattamento dei detenuti anteprima24.it, 4 aprile 2019 Il giorno 5 aprile 2019 presso la sede di Via Calandra (ex Facoltà di Giurisprudenza) dell’Università degli Studi del Sannio si terrà il primo incontro del ciclo di seminari organizzato dalle associazioni Elsa Benevento ed Articolo 3 con la collaborazione della sede beneventana di Amnesty International. Nell’incontro, che è focalizzato sul tema “Carceri e Giustizia”, si discuterà sul trattamento dei detenuti nelle carceri italiane e non. Ospiti della tavola rotonda saranno il Prof. Flavio Argirò, professore di Diritto Penale dell’Unisannio; il Prof. Carlo Longobardo, professore di Diritto Penale della Federico II di Napoli; l’Avv. Serena Ucci, dottore di ricerca in Diritto Penale alla Federico II di Napoli; il Prof. Felice Casucci, professore di Diritto e Letteratura dell’Unisannio e infine la Dott.ssa Maria Elena Orlandini neolaureata in Giurisprudenza all’Unisannio che farà anche da moderatore dell’incontro. Durante l’incontro vi sarà modo per gli ospiti di partecipare attivamente ponendo domande o portando suggestioni ai relatori in modo da aprire un dibattito nell’alveo del tema dell’incontro. L’evento è aperto a tutti e sono previsti crediti per altre attività agli studenti del corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Sannio. Ferrara: apre al pubblico il Galeorto, l’orto coltivato dai detenuti estense.com, 4 aprile 2019 Interno Verde: “Un’occasione per coltivare solidarietà verso realtà che spesso vengono trascurate”. Interno Verde apre al pubblico il Galeorto, l’orto coltivato dai detenuti. “Sarà un momento importante - assicurano gli organizzatori - per promuovere i valori di scambio e condivisione che guidano l’intera organizzazione del festival. Un’occasione per coltivare solidarietà verso realtà che spesso vengono trascurate. L’associazione è felice di poter continuare la positiva collaborazione con la Casa Circondariale di Ferrara iniziata l’anno scorso, e proporre al pubblico ferrarese e di altre province un’esperienza di indubbio valore formativo”. L’apertura eccezionale dell’orto - che inaugurerà la quarta edizione del festival dedicato ai giardini segreti del capoluogo estense - si terrà venerdì 10 maggio, dalle 10 alle 11.30. Gli oltre 70 giardini segreti compresi nel programma 2019 invece apriranno al pubblico sabato 11 e domenica 12 maggio, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. La visita guidata all’interno dell’istituto penitenziario sarà curata dall’associazione Viale K, che si occupa di coordinare il progetto educativo: i partecipanti verranno accompagnati in un itinerario guidato dal personale della Casa Circondariale attraverso le varie aree verdi della struttura con la partecipazione detenuti, che racconteranno la loro esperienza lavorativa e formativa. “L’idea di coinvolgere uno spazio così particolare, e rendere accessibile un luogo per definizione inaccessibile, è nata nel 2018 per invitare le persone a conoscere una realtà spesso poco considerata e oggetto di pregiudizio. Interno Verde si propone come un festival di relazioni: l’obiettivo è quello di promuovere, attraverso l’interesse trasversale che la cura del giardino è capace di suscitare, una socialità spontanea e vicina, un’atmosfera inclusiva. In quest’ottica l’apertura del GaleOrto ci sembra possa rappresentare un messaggio importante. Ringraziamo già da ora sia la direzione della Casa Circondariale che il personale della polizia penitenziaria e le educatrici, per la grande disponibilità che anche quest’anno hanno dimostrato accogliendo con entusiasmo la proposta di far parte della manifestazione”, concludono gli organizzatori. Per visitare le coltivazioni nascoste tra le mura di cinta che circondano la struttura di via Arginone, e assaggiare le fragole che crescono protette tra le torrette di guardia e il filo spinato, è necessario prenotare la propria partecipazione, che dovrà essere effettuata entro domenica 24 aprile, comunicando via mail all’indirizzo info@internoverde.it i propri dati (nome, cognome, residenza, data e luogo di nascita, codice fiscale), allegando una scansione del proprio documento d’identità. L’ingresso è riservato a un gruppo di massimo 30 persone. Lo stesso indirizzo mail sarà a disposizione per dubbi o domande inerenti l’iniziativa. Milano: la danza liberatoria di Martina nella rotonda di San Vittore di Zita Dazzi La Repubblica, 4 aprile 2019 Performance con le altre detenute per la ragazza dell’acido: le gabbie esplodono come fiori. “Per fare il corpo-ci vuol la testa, per fare la testa-ci vuole il pensiero, per fare il pensiero-ci vuol l’idea”. La detenuta Dorina, quando passa di fianco alla sua amica del cuore Martina, le fa cenno col dito puntato sulla tempia e col labiale le dice: “Bisogna usare la testa. La testa! Hai capito?”. Le sorride Martina, che di cognome si chiama Levato ed è nota alle cronache per le aggressioni con l’acido di cui si è macchiata quando era fidanzata con Alexander Boettcher, nel 2014. Per questo è in carcere con una pena da scontare di 19 anni e sei mesi. Era una storia d’amore malata, di cui hanno fatto le spese gli ex della ragazza, sfregiati per vendetta, e un bambino nato dalla relazione di quella che era stata ribattezzata “la coppia dell’acido”, adottato, e che per fortuna mai nulla saprà di questa brutta storia. Anche Martina, oggi 28enne, sembra non volerne più sapere nulla di quella storia. È solo una fra le dieci donne che cantano a San Vittore, intrecciandosi in una danza sciamanica nella celebre “rotonda” da dove si aprono, come braccia, i sei raggi dove sono le celle e i vari reparti del carcere. Qui celebrò messa papa Francesco due anni fa e qui recitano e giocano a far le performer, le detenute vestite di nero, ondeggianti fra il pubblico, in gran parte costituito dai colleghi uomini, leggere sulle note della canzone famosissima “Per fare un albero ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo, raccogliendo applausi e baci al volo. È una settimana che si preparano per l’intervento dell’artista Andrea Bianconi, 45 anni, uno che si è esibito in mezzo mondo, da New York a Mosca, e che quest’anno sarà uno dei protagonisti della Biennale di Venezia. Ma prima, per l’Art week milanese, il vicentino Bianconi ha voluto essere nel carcere più antico della città più internazionale d’Italia, per una rappresentazione delle sue, tutta centrata “sulle frecce che indicano la direzione da prendere, il cambiamento, il percorso - spiega. Ho costruito apposta queste gabbie di ferro che vedete, gabbie di tutte le forme che si aprono ed esplodono come fiori, e poi le maschere che si indossano per ricoprire un ruolo, per proteggersi e per nascondersi”. Come fa Martina, che rispetto alle occhiaie truci del processo, oggi sfoggia un viso pallido e sereno, uno sguardo lontano leggermente truccato col rimmel, le labbra sottolineate dal rossetto, i capelli scuri e lunghi raccolti in una coda. Chi la avvicina, capisce subito il suo legittimo desiderio di non parlare, di farsi scudo delle altre compagne di cella, di essere una come le altre. “Lasciatela stare, oggi lei non vuole riflettori. È una fra le altre, è qui perché sta facendo un bel percorso, anche grazie al teatro, alla recitazione, che aiuta a togliersi la maschera, a liberare le emozioni, a cambiare. L’ho vista trasformarsi nel tempo, è cambiata, e la sua privacy va rispettata. Noi la trattiamo come tutte le altre, che hanno una storia meno nota ma gli stessi problemi, le stesse sofferenze”, racconta la regista Donatella Massimilla, 30 anni di palcoscenico alle spalle nella scia del suo maestro Grotowski, guida della compagnia teatrale Cetec, attiva da anni in questo penitenziario, che ospita 90 donne e oltre 900 uomini. “Fantastic planet”, è il claim che urlano le detenute attrici per un giorno, sfilando fra i carcerati che si esaltano al vederle passare, tutte così belle, così femminili, così vicine, quasi toccabili, per un giorno. Durante la performance prodotta Giuseppe Frangi di Casa Testori l’entusiasmo sale alle stelle e tutti cantano sulle note di Endrigo. “L’arte dentro le mura di un carcere può essere esperienza di grande valore se, attraverso la bellezza e l’imprevedibilità delle proposte, riesce a stimolare percorsi positivi di consapevolezza e di cambiamento”, dice il direttore Giacinto Siciliano, che ha accolto il progetto di Bianconi dal titolo “Come costruire una direzione”, intervento scenico e mostra di 50 disegni sul tema della freccia esposti per un mese nel corridoio colorato da Marco Casentini che porta alla rotonda del Panopticon. Torino: mamme in carcere, un cortometraggio realizzato con il loro concorso di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 4 aprile 2019 La detenzione ordinaria per mamme con bimbi piccoli non è una cosa civile. A dirlo è Domenico Minervini, il direttore della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, ancora da molti più conosciuta come “il carcere delle Vallette”. Ed è una realtà che, nel 2011, ha portato alla fondazione degli Icam, istituto di custodia attenuata per madri. Strutture situate nei complessi carcerari ma con regole e condizioni di vita più consone alla presenza di bambini di età compresa tra o e 6 anni a fianco delle loro genitrici. Alla “Lorusso e Cutugno”, l’Icam è stata avviata con successo già da diversi anni ed è al centro di numerose iniziative formative ed educative, anche grazie alla collaborazione tra direzione carceraria, Ufficio della Garante dei Detenuti della Città di Torino e associazioni di volontariato. Il tutto nell’ottica di crescere e fare crescere, costruire speranza e riabilitare, perché il ruolo di una madre resta tale anche in condizioni inusuali come quelle della carcerazione. Martedì 2 aprile, presso il cinema Massimo, è stato presentato ad un pubblico numeroso ed interessato un cortometraggio realizzato dal regista Roberto Agagliate, La madre e il suo principe, tratto da una fiaba, poetica ma anche a tinte cupe, appartenente alla tradizione delle comunità Rom. Il cortometraggio è stato realizzato con l’attivo concorso delle madri detenute, anche per le scenografie, ed utilizza una tecnica che ricorda quella del teatro delle ombre cinesi. “Un lavoro bello e delicato”, lo ha definito la Garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, che ha presentato, prima della proiezione alcuni percorsi di inclusione e sostegno portati avanti dal proprio ufficio non solo nei confronti dell’Icam ma dell’istituzione carceraria nel suo complesso. Firenze: “Non me la racconti giusta”, un progetto artistico nelle carceri di Raffaella Ganci artribune.com, 4 aprile 2019 Si è svolto quest’anno a Sollicciano, Casa Circondariale di Firenze, il progetto autofinanziato degli artisti urbani Collettivo FX e NemO’s. Iniziato nel 2016 nel carcere di Ariano Irpino e proseguito a Sant’Angelo dei Lombardi e a Rimini, Non me la racconti giusta si svolge in collaborazione con Maria Caro di ziguline e il supporto del fotografo e videomaker Antonio Sena. Sollicciano, aperto nel 1983 nella periferia ovest di Firenze, replica architettonicamente il giglio, simbolo della città, occupando 2,5 ettari coperti dei 15 dell’intero complesso. Le distanze fra un settore e l’altro, gli uffici e i diversi spazi di servizio sono, a seconda dell’area da raggiungere, nell’ordine di chilometri. Un complesso poco funzionale secondo gli esperti, critico per le carenze strutturali e degli impianti, a cui di volta in volta si cerca di far fronte, sempre sovraffollato. Eppure, proprio le dimensioni di Sollicciano hanno permesso la creazione di due sezioni protette, una dedicata ai transessuali, l’altra a chi ha commesso reati di stampo sessuale, ed è qui che è approdato Non me la racconti giusta, viaggio nelle carceri italiane. Alla presentazione del progetto, tenutasi a Firenze il 22 febbraio, il direttore del carcere, Fabio Prestopino, ha sottolineato quanto sia stato importante coinvolgere un gruppo di detenuti ai quali è riservata una doppia esclusione: dalla società in quanto rei, dal resto della comunità carceraria per il tipo di reato commesso. “Questa è stata un’ulteriore occasione per discutere fra noi dell’amministrazione di quanto sia positivo aprirsi a forme d’arte contemporanea, capaci di veicolare con forza e immediatezza messaggi rilevanti”. Emanuele, Gianluca, Franco, Bala, Luis, Kledian, Christian, Stefano, Renzo, Azfal, Issam questi messaggi li hanno affidati alle pareti dell’area comune della Sezione 13, uno stanzone spoglio dove si guarda la televisione. In questo spazio condiviso hanno raccontato della propria vita e dell’esperienza penitenziaria, scegliendo di rappresentare gli effetti della carcerazione e la burocrazia carceraria attraverso le metafore del telecomando e del timbro. Su ciascun tasto dei quattro telecomandi, rivolti verso la TV posta al centro del muro, la parola scritta identifica il sistema, gli stati d’animo, le privazioni, le carenze. Sulla parete opposta, un imponente mano-timbro indica/giudica un uomo bloccato su un’alta pila di documenti, pronta a contrassegnare con uno snervante attendere la “domandina” (così viene chiamato il modulo 393), indispensabile per comunicare con l’amministrazione e per richiedere qualsiasi cosa, dalla visita medica alla telefonata, dal colloquio con il proprio avvocato all’acquisto di una saponetta. Ecco perché ‘pittare’ in carcere gratuitamente, autofinanziandosi, per una ragione di impegno sociale. Le carceri italiane spesso non dispongono delle risorse necessarie, cosa che incide negativamente sulla vita, oltre che dei detenuti, di tutto il personale penitenziario. L’obiettivo è riportare l’attenzione sul sistema carcerario italiano, spesso trascurato dall’opinione pubblica e gestito con fatica dalle istituzioni, per comprendere se e quanto esso sia un sistema chiuso, per riflettere sulla sua funzione, rieducativa o inutilmente punitiva. Con un’urgenza: focalizzare i temi di giustizia e di carcere, mostrando quello che accade all’interno delle mura attraverso un progetto culturale in cui i detenuti siano responsabili di tutto il processo creativo e del messaggio da veicolare, all’interno e all’esterno. Le difficoltà incontrate non sono state poche, ammettono. La macchina burocratica è lenta e farraginosa: “Bisogna essere tenaci e preparati ad aspettare tanto tempo tra la richiesta e il rilascio di autorizzazioni e permessi. Inoltre, non è stato facile fare accettare questa forma di espressione artistica. Come artisti urbani” - racconta NemO’s - “siamo stati a volte oggetto di diffidenza da parte dell’amministrazione, ma siamo riusciti a smontare il pregiudizio che l’assimila all’azione vandalica attraverso i risultati ottenuti in relazione alla collaborazione con il personale, al grado di coinvolgimento dei detenuti, alla capacità di recuperare quelli fra loro che si sottraevano per poca fiducia in se stessi, rafforzando quell’autostima che li ha resi i più entusiasti del risultato finale”. A Sollicciano il contesto non semplice è stato gestito grazie alle esperienze maturate in ambiti svantaggiati e ‘a rischio’. “È una sfida con se stessi” ? afferma Maria ? “nostra e di tutti coloro che vengono a contatto con il progetto, utile per riconoscersi ‘portatori sani’ di stereotipi e pregiudizi sui quali bisogna interrogarsi. Vanno evitate le semplificazioni che rischiano di ridurre i detenuti alla sola categoria del reato per cui scontano la pena e ti impediscono di considerarli nella loro individualità”. “Il nostro è un approccio neutrale”, - spiega NemO’s. “Non facciamo domande sul perché si trovino in carcere. La disponibilità all’ascolto, all’eventuale ansia di chi si pone in atteggiamento difensivo, l’incoraggiare al dialogo tutti i membri del gruppo, l’accogliere le loro richieste e rispondere alle domande, tutto ciò crea un clima sereno e collaborativo e si instaura un rapporto paritario senza gerarchie”. “In carcere” - continua NemO’s - “non siamo artisti, siamo tecnici che mettono a disposizione i propri strumenti per il raggiungimento di un obiettivo: permettere a tutti di raccontarsi attraverso il disegno. Messo in chiaro questo aspetto, si attiva l’interesse, si rafforza lo spirito di gruppo, la condivisione, il senso di responsabilità, la consapevolezza, individuale e collettiva, nei confronti dei soggetti e dei contenuti da rappresentare”. La conclusione la lasciamo al Collettivo FX: “Quando si becca un tizio e si mette in galera si ha la convinzione che sia risolto il problema. In realtà è il momento in cui si dovrebbe prendere atto del problema e iniziare realmente ad affrontarlo. Questo è il ruolo di uno dei luoghi istituzionali più importanti, dove girano migliaia di anime e milioni di euro. Ogni tanto mi capita, con il progetto “Non me la racconti giusta”, di vedere il mondo da lì. Pensavo di andare fuori dal mondo e mi sono ritrovato al centro del mondo”. È questa, in sintesi, la molla che ha portato quattro persone ad intraprendere un viaggio che non hanno affatto intenzione di interrompere. Intolleranza, società malata. Allarme degli psicoanalisti di Marco Garzonio Corriere della Sera, 4 aprile 2019 Gli specialisti hanno inviato una lettera a Mattarella in qualità di garante dei diritti umani e civili per segnalare il clima di intolleranza crescente. Per luoghi comuni sono visti come professionisti chiusi nei loro studi a curare le nevrosi di uomini e donne che una psicoterapia se la possono permettere; intellettuali; un po’ aristocratici; talvolta aspiranti guru che dispensano consigli su argomenti di carattere affettivo. Che gli psicoanalisti in realtà siano legati alla realtà e che questa oggi inquieti è provato da un fatto: che i “curatori d’anima” (altro loro attributo) siano usciti allo scoperto in massa e abbiano espresso denunce su eventi che sconvolgono vita quotidiana, opinione pubblica, assetti politici nazionali ed europei, cioè: migranti, sicurezza, razzismo, xenofobia, antisemitismo, paure alimentate da una politica che cerca facili consensi. Attraverso le Società Analitiche, superando antiche distinzioni di Scuole e appartenenze, gli eredi di Freud e Jung hanno scritto al presidente Mattarella in qualità di garante dei diritti umani e civili e della Costituzione perché si ascolti “un’altra Italia che esiste” e che inizia ad esprimere il “proprio profondo dissenso” (Società psicoanalitica italiana, Spi, freudiani). Intanto hanno mobilitato gli iscritti con raccolta di firme per promuovere iniziative “a tutela della salute psichica individuale e collettiva” (Centro italiano di psicologia analitica, Cipa, junghiani). È la prima volta che gli psicoanalisti lanciano un allarme di tale portata (si esprimono in termini gravi: “clima di intolleranza e disumanità”, “razzismo crescente”, timore che si generi “una società psicopatica, paranoica e autoritaria”), mettendoci la faccia con posizioni pubbliche, istituzionali. Segno che sensibilità dei singoli, crescita democratica nelle rappresentanze professionali, senso civico rinnovato stanno contribuendo a cambiare l’universo della cura individuale e lo aprono ai bisogni storici collettivi. Un consistente numero tra gli oltre mille operatori che hanno firmato i documenti sono impegnati in prima persona nella cura di profughi, richiedenti asilo, traumatizzati da guerre, abusi sessuali, sfruttamento, torture, prigioni disumane; lo fanno in aggiunta al lavoro negli studi privati dove trattano i disagi degli italiani. Come se la cura dei migranti stesse provocando una sorta di ribaltone del “prima gli italiani” rivendicato da una certa parte politica e rimettesse al centro un “prima l’umanità”; cioè quell’uomo, quella donna, quel bambino prima del Paese da cui arrivano, colore della pelle, fede. L’esperienza sul campo coi patimenti delle persone e confronto con ombre e angosce che abitano la psiche di singoli e gruppi rendono gli appelli degli psicoanalisti opportunità di: nuovi orizzonti per il dibattito pubblico; occasioni di ripensamenti; vie d’uscita onorevoli per una politica che non resti prigioniera di simmetrie, ideologie, consensi ottenuti su paura e proiezioni sull’altro “invasore e nemico”. Ciò che accade prospetta una sorta di rivoluzione culturale. Emerge un fiume carsico. Freud e Jung, ciascuno a modo suo e per quanto i tempi consentivano, avevano riconosciuto i nessi profondi tra psiche individuale e collettiva, le conseguenze prodotte su libertà personali e destini comuni delle scelte di leader e governi poi condivise anche dalle masse. Nel passato recente in Italia rispetto a chi, tra i seguaci dei fondatori preferì richiudersi nei propri studi e alla mentalità corrente sospettosa verso la psicoanalisi e tesa a rinforzare l’individuo rispetto al sociale, ci son state eccezioni importanti. Si pensi a Cesare Musatti in Comune a Milano nelle fila del Psiup; a Franco Fornari, alla sua “Psicoanalisi della situazione atomica”, sul rischio di arsenali nucleari; a Federico Fellini. Il regista, l’”analizzato” junghiano più celebre, non ha mai fatto mistero della sua ricerca sull’inconscio e delle conquiste in umanità cui possono portare il confronto con le parti oscure e l’affidamento a sogni e immaginazione. Sotto la spinta delle urgenze le prese di posizione degli psicoanalisti oggi esprimono tre novità. La prima: la consapevolezza che semplificare una realtà complessa, come fa certa politica, rischia di far esplodere fenomeni sociali disgreganti e scatenare guerre tra poveri in periferia. La seconda sta nel proposito evidente di avviare un circuito virtuoso, ponendosi come esempio di assunzione di responsabilità da parte di altre categorie che operano nel sociale e fare sistema. La terza traspare dal modi di motivare le denunce. Queste sono atti d’accusa, ma contengono in sé possibili correzioni. Se “il nostro lavoro quotidiano ci porta continuamente a misurarci con angosce, paure, sofferenze che sono figlie di un clima culturale spaventoso e spaventate” il problema sarà di unirsi per creare un clima diverso organizzando “insieme iniziative pubbliche di confronto, discussione, testimonianza” (Cipa). Se “la disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente [...] ancor più necessario è riuscire ad ascoltare anche quello che si cela sotto la paura, per trasformarla in possibilità di contatto con se stesso e con l’altro” (Spi). Il denominatore, insomma, è trasformare se stessi e le situazioni, non solo criticare; è riconoscersi “comunità di vita”, come dicono oggi i freudiani, ovvero “comunità consapevole” in cui gli individui si realizzano, diceva Jung ai suoi. Credere alla vita comporta di essere “per” qualcuno o qualcosa. Il disporsi “contro”, invece, avvia a processi di possibile distruttività per sé prima ancora che per gli altri. Derive alla lunga difficili da controllare. Ce la si può fare a uscire dalle crisi se si è vigili in umanità. Social, app e studenti contro le mafie di Pierpaolo Farina La Repubblica, 4 aprile 2019 Dal nome si potrebbe già intuire di cosa si tratti. Quel “Wiki” porta chiunque a pensare subito a Wikipedia. E in effetti WikiMafia è una “libera enciclopedia sulle mafie”, ma non è solo quello. È stata ideata il 4 ottobre 2012 con l’ambizione di fare in ambito accademico quello che Rocco Chinnici aveva fatto in campo giudiziario con il pool antimafia, cioè riorganizzare la conoscenza sul fenomeno mafioso e renderla disponibile a tutti, in maniera chiara e semplice, in una risorsa affidabile. Di più: attraverso un uso estensivo dei social media, diffondere questa conoscenza e smontare quegli stereotipi oramai radicati nell’opinione pubblica. Un filosofo cinese, Zhu Xi, diceva che “Conoscenza e azione sono sempre indispensabili l’una all’altra, come gli occhi e le gambe: senza gambe, gli occhi non possono camminare; senza occhi, le gambe non possono vedere”. E proprio per non rendere mera retorica quello slogan che viene rilanciato ad ogni anniversario delle stragi (le loro idee camminano sulle nostre gambe), coniughiamo il nostro lavoro di “monaci benedettini” dell’antimafia organizzando eventi sul territorio e andando nelle scuole a fare formazione, oltre a promuovere campagne di mobilitazione (tra le più famose, quella che riportò nel 2014 il documentario su Pippo Fava in prima serata su Rai3 e quella che fece avere la cittadinanza onoraria di Milano a Nino Di Matteo, nel 2016). L’epicentro delle nostre attività è in Lombardia ma abbiamo costruito e stiamo costruendo “ponti” con altre associazioni anche in Europa, per dare una proiezione internazionale al nostro lavoro. Nel 2015 abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding per sviluppare MafiaMaps, prima idea di app antimafia: integrata con WikiMafia, permette a chiunque non solo di conoscere ma anche di sapere dove sono i mafiosi e cosa fanno, ma soprattutto anche chi li combatte sul territorio. Nel 2017 abbiamo organizzato “Sport contro le Mafie”, tornei sportivi il cui ricavato va a sostegno di un bene confiscato sul territorio, e nel 2018 sul nostro canale YouTube abbiamo iniziato a sperimentare un nuovo modo di comunicare il fenomeno mafioso ai giovani millennials con i “MafiaVlog”, brevi “pillole” video sui temi di mafia e antimafia. Facciamo tutto questo con una spesa di poche centinaia di euro l’anno, grazie a una quarantina di volontari (la maggior parte con base a Milano, all’Università Statale, età media: 23 anni) e senza aver mai percepito un euro di soldi pubblici (quando siamo andati a chiedere ad alcune fondazioni o soggetti privati per finanziare la ricerca e lo sviluppo per MafiaMaps, ci è stato detto che soldi non ce n’erano, quindi abbiamo smesso di perdere tempo al riguardo). Mandiamo avanti sito, app e innovazioni tecnologiche varie con le donazioni che ci arrivano da chi apprezza il nostro lavoro. Questa forse è la cosa più bella di questa esperienza: va avanti grazie a persone che danno tutto se stessi, senza chiedere in cambio nulla. WikiMafia è sì un’enciclopedia e un’associazione, ma è anche uno stile di vita: siamo francescani nelle finanze e partigiani nella lotta e ci siamo conquistati una nostra credibilità e affidabilità perché rimaniamo rigorosamente fedeli ai fatti e abbiamo un metodo di lavoro mutuato da quello dell’Accademia. Molti di noi sono entrati per caso in questo mondo, alcuni giusto per riempire dei crediti a scelta sul piano di studi all’Università, frequentando i corsi di Nando dalla Chiesa (senza il quale i due co-fondatori non si sarebbero mai conosciuti). Poi ci siamo rimasti per una precisa scelta morale: perché dopo quello che avevamo imparato, dopo quello che avevamo visto, ci vergognavamo di essere stati fino a quel momento antimafiosi solo agli anniversari delle Stragi. La lotta alla mafia in realtà è la conseguenza di una nostra precisa scelta di vita: quella di portare avanti determinati ideali, tra i quali c’è la difesa della bellezza, in tutte le sue forme. E proprio perché loro sono mafiosi 24 h su 24, pensiamo che non possiamo più permetterci il lusso di un impegno a intermittenza. Soprattutto, non possiamo più permetterci di fare la lotta alla mafia da dilettanti. Sogniamo un mondo dove tra 15-20 anni ovunque ci sia un mafioso ci siano almeno 100 antimafiosi che gli rendano la vita un inferno, come fanno loro oggi in troppi luoghi del nostro Paese. Ci dicono che per avere un futuro siamo noi che dobbiamo andarcene, ma noi da questo Paese non vogliamo andarcene: sono loro a doverlo fare. Sappiamo quanto sia difficile quello che facciamo, ma pensiamo sia indispensabile farlo. Perché come diceva un Politico d’altri tempi, si chiamava Enrico Berlinguer, “se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano a fianco dei lavoratori e degli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia”. Vale anche, e soprattutto, nella lotta alla mafia. Il M5S si smarca sui migranti: “Superare gli slogan della Lega” di Andrea Carugati La Stampa, 4 aprile 2019 Mentre si profila un nuovo braccio di ferro per una nave di una Ong tedesca che ha salvato 64 migranti in fuga dalla Libia, e che ora fa rotta verso Nord, con Salvini che già tuona (“vadano ad Amburgo”), il M5S prende ancora una volta le distanze dalla linea della Lega. E lo fa con una indagine conoscitiva a cura della commissione Affari costituzionali della Camera che ha l’obiettivo di affrontare il tema migranti con un “approccio razionale”, spiega il presidente della commissione Giuseppe Brescia (M5S), secondo cui il tema “non può essere gestito solo con slogan ed emergenze”. L’indagine durerà un anno, in audizione saranno ascoltati tutti i soggetti coinvolti, anche di opposte opinioni: dal ministero dell’Interno guidato da Salvini ai rappresentanti delle ong, passando per il ministero del Lavoro di Di Maio, polizia, forze armate, Garante dei detenuti, Commissione e Parlamento europeo, Regioni, associazioni che lavorano sull’accoglienza. La premessa di Brescia suona come uno schiaffo al capo leghista: “Il calo degli sbarchi non può essere l’unico obiettivo di questa legislatura e di questa maggioranza”. E ancora: “Questa indagine permetterà di capire meglio come affrontare le sfide rimaste irrisolte al di là dell’emergenza. Penso al nodo dei rimpatri e soprattutto alla necessità di assicurare canali legali e sicuri d’ingresso in Italia”. Si tratterà di un’analisi a 360 di tutto il fenomeno migratorio. Non solo e non tanto “porti chiusi”, dunque, ma una scrupolosa ricerca delle “buone prassi da implementare” e delle “criticità da superare”, si legge nel programma. L’aspetto che potrebbe essere più gradito dalla Lega sarà la verifica delle procedure per l’affidamento della gestione dei centri di accoglienza e l’esame delle convenzioni con gli enti gestori dei centri. E ancora: la valutazione su “periodicità ed efficacia delle attività di monitoraggio e controllo sui centri”. Insomma, una ricerca a tappeto delle inefficienze nella gestione dei fondi pubblici. Più a rischio invece l’obiettivo di esplorare le esperienze di “seconda e terza accoglienza per scongiurare il fallimento di percorsi di integrazione avviati”. O il capitolo dedicato all’“ingresso controllato dei migranti”, compresa “l’apertura di canali regolari di ingresso per lavoro, per ricerca lavoro, per accesso al diritto di asilo”, e di “canali umanitari”. Nell’immediato c’è il nuovo possibile braccio di ferro con i partner europei sulla nave della Ong tedesca Sea Eye, che ha soccorso a 30 miglia dalle coste libiche un gommone con 64 persone. Se la nave si dirigerà a Malta o a Lampedusa non è ancora chiaro: in serata alle autorità italiane non era arrivata una richiesta di porto sicuro. In ogni caso Salvini ha già detto no. Dalla Ong italiana Mediterranea, quella patrocinata da Sinistra italiana che è sbarcata a Lampedusa alcune settimane fa (Luca Casarini è stato indagato), arriva una conferma: Stefano Tria, figlio del ministro dell’Economia, che in quei giorni era a bordo di una nave di appoggio della Mare Jonio, fa parte della Ong: “È uno di noi”, twittano. Stati Uniti. Pena di morte: ritorno al Medioevo di Mario Lombardo altrenotizie.org, 4 aprile 2019 La nomina alla Corte Suprema americana di due giudici ultra-conservatori da parte del presidente Trump ha dato il primo risultato di rilievo questa settimana con una sentenza che ha abbassato drammaticamente il livello di ammissibilità dell’applicazione della pena capitale. Il caso in questione riguarda il detenuto nel braccio della morte di una prigione del Missouri, Russell Bucklew, il quale soffre di una malattia molto rara che renderebbe estremamente dolorosa la prevista procedura di esecuzione tramite iniezione letale. Un appello per la sospensione temporanea della condanna di Bucklew era stato accolto lo scorso anno dalla stessa Corte Suprema USA con una maggioranza di 5-4, ma la sostituzione del giudice conservatore moderato, Anthony Kennedy, ritiratosi lo scorso anno, con quello di estrema destra scelto da Trump, Brett Kavanaugh, ha determinato ora un ribaltamento del risultato. La condanna a morte di Russell Bucklew è legata all’omicidio nel 1996 del convivente della sua ex fidanzata. Bucklew aveva sparato alla vittima nella sua abitazione per poi rapire e violentare la ex compagna. Il 50enne residente del Missouri non aveva mai negato le proprie responsabilità né cercato di evitare la condanna a morte. La motivazione della sentenza è stata scritta per la maggioranza dall’altro giudice scelto da Trump, Neil Gorsuch, ed è consistita in un palese quanto incredibile rifiuto del principio fissato dall’Ottavo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. In base a esso, sono inequivocabilmente proibite, nell’esecuzione delle pene, “punizioni crudeli e inusuali”. Russell Bucklew è affetto da emoangioma cavernoso, una patologia congenita che produce delle formazioni ematiche in varie parti del corpo, le quali, con lo scorrimento nel flusso sanguigno delle sostanze letali iniettati durante l’esecuzione, creerebbero una condizione di dolore assimilabile alla tortura. Come ha spiegato nell’opinione di minoranza il giudice Stephen Breyer, l’iniezione letale causerebbe tra l’altro la rottura delle formazioni cresciute nella gola del condannato, provocando una situazione di soffocamento che potrebbe durare per svariati minuti prima del decesso. Prendendo alla lettera il contenuto della Costituzione americana, è difficile immaginare una condizione tale da rendere più “crudele” e “inusuale” una punizione come quella a cui sta per andare incontro Russell Bucklew. La decisione della Corte Suprema intende perciò fissare un precedente che, per i casi futuri, renderà quasi impossibile evitare un’esecuzione facendo appello all’Ottavo Emendamento. L’obiettivo dei giudici Kavanaugh e Gorsuch, assieme ai colleghi ultra-reazionari Samuel Alito, Clarence Thomas e John Roberts, quest’ultimo presidente della Corte, è dunque quello di spazzare via ogni limitazione possibile al funzionamento della macchina della morte negli Stati Uniti. Nella stessa motivazione della sentenza, il giudice Gorsuch si è infatti scagliato in maniera vendicativa anche su quelle che ha caratterizzato come tattiche dilatorie dei legali dei condannati a morte per risparmiare a questi ultimi l’esecuzione della pena. Le vicende legali, i legittimi appelli e i ricorsi di Bucklew sono diventati così semplici manovre per impedire allo stato del Missouri di fare giustizia. La sentenza emessa lunedì e le opinioni del giudice nominato da Trump hanno assunto poi una connotazione grottesca nel respingere la richiesta di Bucklew di essere giustiziato nella camera a gas per risparmiargli le sofferenze dell’iniezione letale. Secondo una precedente sentenza della Corte Suprema relativa alle esecuzioni nello stato dell’Oklahoma, se i condannati non intendono essere giustiziati con l’iniezione letale, sono essi stessi ad avere l’onere di proporre un metodo alternativo adeguato. In riferimento a questo principio, perciò, la Corte ha bocciato la proposta dei legali di Bucklew perché priva di un piano sufficientemente completo per l’uso del gas tossico, in merito ad esempio al tipo di abbigliamento protettivo che dovrebbe indossare il personale del carcere al momento dell’esecuzione della condanna. La direzione imboccata dalla Corte Suprema con il verdetto di questa settimana conferma la deriva autoritaria in atto negli Stati Uniti, con il tribunale, che dovrebbe teoricamente garantire l’applicazione dei principi democratici costituzionali, in prima linea nel minarli alla base. Questo processo sta avvenendo in un clima di profondo degrado che minaccia di spianare la strada a pratiche anti-democratiche, per non dire barbare e violente. A questo proposito, deve suonare come un avvertimento il gusto quasi sadico con cui ancora il giudice Neil Gorsuch si è dilungato lunedì nella descrizione dei vari metodi impiegati per le condanne a morte a partire dalla fine del XVIII secolo, quando i primi dieci emendamenti, noti collettivamente come “Dichiarazione dei Diritti”, furono aggiunti alla Costituzione americana. Dall’impiccagione allo squartamento al rogo, Gorsuch è entrato frequentemente nei dettagli degli effetti di questi metodi sul condannato nei momenti precedenti il decesso, con l’intento di spiegare come le conseguenze dell’iniezione letale su Russell Bucklew risulterebbero tutto sommato trascurabili al confronto. Sulla stessa linea della sentenza di questa settimana è da considerare un’altra recente decisione della Corte Suprema sulla pena capitale. Nel mese di febbraio, ancora con una maggioranza risicata, i giudici avevano respinto il ricorso di un condannato a morte di fede musulmana in Alabama che chiedeva la presenza di un imam al momento dell’esecuzione. La richiesta non era stata accettata malgrado sia consuetudine, in base al principio costituzionale di non discriminazione religiosa, che venga garantita l’assistenza di un consigliere spirituale per i condannati cristiani o di altre fedi. Settimana scorsa, infatti, per gli stessi motivi era stata fermata la condanna di un detenuto buddista in Texas. Nel panorama cupo della Corte Suprema americana, si sono distinti quanto meno alcuni commenti alla recente sentenza espressi dai giudici di minoranza. Il già citato giudice “liberal”, Stephen Breyer, ha ricordato ad esempio come lo stesso tribunale abbia stabilito una serie di precedenti che affermano la necessità di adeguare le prescrizioni costituzionali alla realtà sociale odierna. Per questa ragione, una punizione non considerata “crudele e inusuale” oltre due secoli fa può essere invece ritenuta tale nell’epoca attuale e, quindi, messa fuori legge dalla giustizia USA. Breyer, infine, ha in sostanza ribadito tutte le perplessità che aveva manifestato negli anni scorsi circa la legittimità della pena di morte nel suo complesso, soprattutto alla luce delle numerose dispute legali approdate spesso alla Corte Suprema. L’anziano giudice ha affermato cioè che, “se un detenuto non può essere giustiziato rapidamente senza che i suoi diritti siano violati”, la ragione può risiedere nel fatto che, “semplicemente, non esiste un modo costituzionale per implementare la pena capitale”. Kenia. Il rischio che il silenzio diventi condanna: su Silvia Romano impalpabili segreti di Antonella Rampino Il Dubbio, 4 aprile 2019 Inghiottita dalla strategia del silenzio, che pure in casi di rapimento in zone a rischio è considerata d’obbligo. Di Silvia Romano, la giovane cooperante milanese rapita il 20 novembre del 2018 nel piccolo villaggio in Kenia nel quale prestava supporto all’infanzia per la onlus Africa Milene non si hanno notizie certe. Saranno 5 mesi tra poco. Tace la Farnesina a tutti i livelli, dall’Unità di crisi fino al ministro. Tacciono le Procure - che recentemente hanno lanciato un allarme, rendendo noto che da mesi il Kenia rifiuta di accogliere la richiesta di invio in loco di investigatori italiani: non esistendo alcun trattato di cooperazione in materia con quel Paese, è legittimo chiedersi se davvero i Ros in Kenia avrebbero qualche chance di rintracciare l’ostaggio, o se si stia semplicemente cercando di comunicare alla pubblica opinione che si han le mani legate. Tace la politica e il Parlamento, opposizioni comprese dato che il Pd ha depositato un’interrogazione esattamente all’indomani del rapimento, ma non ha mai chiesto che venisse calendarizzata sempre in omaggio alla strategia del silenzio. Tace, soprattutto, la famiglia di Silvia Romano, il papà e la mamma separati, e chi ha potuto parlare con loro li descrive come ugualmente disperati, e ugualmente determinati a tacere. E così il silenzio è diventato humus perfetto per parole in libertà. A cominciare a quelle sparate dalla polizia di Malindi: abbiamo arrestato i sequestratori, abbiamo localizzato la zona di prigionia, siamo a un passo dal liberarla, e così via fino al 21 gennaio, giorno dal quale le autorità keniote tacciono. E nel mezzo altre parole, sui giornali locali, circa la fine, le molte possibili fini che Silvia Romano potrebbe aver fatto, spacciate per verità e che non val neanche la pena di riportare. E ancora altre parole, invece autorevoli, che han pesato e pesano su quello che potrebbe essere l’esito del sequestro, hanno contribuito a far vivere alla pubblica opinione con terrore quella strategia del silenzio, che per un caso di rapimento in zona a rischio banditismo e di confine col terrorismo somalo sarebbe per l’appunto normale. Subito dopo il sequestro infatti alcuni quotidiani italiani hanno riportato la posizione del ministro dell’Interno Salvini, “non si parla di alcun riscatto”, “Salvini ha dato ordine ai servizi segreti di non pagare alcun riscatto”. Naturalmente, e come ovvio in democrazia, il responsabile dell’ordine pubblico sul territorio nazionale non ha nulla a che vedere, né può “dare ordini” ai servizi segreti, che dipendono da Palazzo Chigi, e direttamente dal presidente del Consiglio. Ma quelle parole hanno addensato sulla strategia del silenzio una nuvola cupa: il rischio, il retro-pensiero se si vuole, che quella giovane vita italiana potesse essere stata abbandonata a se stessa, rea di testimoniare quei valori di solidarietà tradizionali che oggi il Belpaese sembra combattere. Non è così, e lo sappiamo con certezza dal 15 marzo, da quando Sergio Mattarella ha scandito poche chiare parole: “È inalterato l’impegno, al massimo livello, per riavere in Italia Silvia Romano”. Un paio di settimane dopo, il premier Giuseppe Conte rivela che “c’è stato un momento in cui sono stato confidente che fosse a portata di mano un risultato positivo: i gruppi criminali sono stati individuati, ma non siamo ancora riusciti a venirne a capo, e a raggiungere quel risultato per cui lavoriamo da mesi”. Una frase a braccio, anche un po’ contorta, il cui significato appare in filigrana: i servizi segreti sono all’opera. Presumibilmente, e si spera, in loco. Ma possibile che alla pubblica opinione, molto desta sul caso e tenuta meritevolmente all’allerta sui social da Pippo Civati di “Possibile”, non possa esser detto chiaramente, in modo compiuto e organico che Silvia Romano e altri cittadini nelle sue stesse condizioni non sono stati abbandonati dallo Stato? Il modo per render conto agli italiani senza mettere a rischio gli ostaggi c’è. Basta usare il debito riserbo nel rispetto della verità, ripetere davanti al Parlamento quel che il premier ha detto in un salotto televisivo, senza fare del silenzio una strategia. Libia. Il generale Haftar ordina di “liberare Tripoli dai terroristi” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 4 aprile 2019 Il governo Serraj dichiara l’allerta generale. Una colonna di 300 veicoli si muove da sud verso la capitale: “Libereremo la madrepatria dal terrorismo”, ha detto il portavoce del generale. Nella notte i primi scontri. Il ministro Bishaga: “Difenderemo la capitale”. Il segretario dell’Onu Guterres è arrivato in serata a Tripoli. Il governo di Tripoli ha dichiarato questa sera l’allerta generale dopo che l’esercito del maresciallo Khalifa Haftar ha annunciato la partenza dal sud della Libia di una colonna di 300 autoblindo. Il contingente ha ricevuto dal comando della Libyan National Army di Haftar l’incarico di “liberare Tripoli dal terrorismo”. In nottata, secondo quanto riporta la Reuters, si sono verificati i primi scontri. L’allarme del governo del presidente Fayez Serraj è stato rilanciato anche dal ministro dell’Interno Fathi Bishaga. In un comunicato rivolto ai cittadini di Tripoli, Bishaga scrive: “assicuro il nostro popolo libico che le forze del Ministero degli Interni sono pronte e pienamente capaci di affrontare qualsiasi tentativo di minare la sicurezza della capitale o mettere in pericolo la sicurezza dei civili. Non c’è modo di porre fine alla crisi se non attraverso mezzi politici e pacifici, la sicurezza di Tripoli non potrà essere scalfita”. La reazione del governo Serraj e del ministro Bishaga arriva dopo che per ore i media vicini al generale Haftar hanno annunciato il via all’operazione militare organizzata per “spazzare i terroristi da Tripoli”. La terminologia è simile a quella che la Libyan National Army di Haftar ha adoperato prima del lancio delle operazioni contro i gruppi militari che occupavano Bengasi e poi Derna. “Libereremo la madrepatria dal terrorismo”, ha detto il portavoce di Haftar, il generale Ahmed Mismari. L’ufficiale non ha specificato nel dettaglio se le forze della Lna hanno il compito di entrare a Tripoli, ma ha poi aggiunto “non vogliamo Tripoli per il potere o per i soldi, vogliamo Tripoli per la salvezza, per la dignità e il prestigio di uno Stato forte”. L’offensiva del generale Haftar è stata annunciata proprio mentre il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres è arrivato in serata a Tripoli, dove domani incontrerà il presidente del Consiglio presidenziale Serraj. Su Twitter, Guterres ha scritto di essere “totalmente determinato a sostenere il processo politico in questo Paese per guidarlo verso la pace, la stabilità la democrazia e la prosperità”. Il segretario generale dell’Onu è arrivato a Tripoli proveniente dal Cairo, dove ha definito “essenziale riunificare le istituzioni libiche” per “evitare qualsiasi scontro e per creare le condizioni che permettano di stabilizzare la situazione”. Nei piani di Guterres c’è anche venerdì un incontro con il generale Khalifa Haftar a Bengasi. I curdi temono una nuova aggressività della Turchia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 aprile 2019 Una considerazione che rimbalza dagli uffici politici di Rojawa ai capi militari sul terreno: Erdogan ha subito una sconfitta elettorale nel suo Paese e adesso per distogliere l’attenzione e cercare consensi tra le fasce nazionaliste potrebbe rilanciare l’opzione militare. E se adesso il nemico ferito diventasse più aggressivo? Ancora non sono finiti i rastrellamenti tra le macerie dell’ultima roccaforte Isis lungo la valle dell’Eufrate nel villaggio di Baghouz e già i comandi dell’enclave autonoma curda nel nord-est della Siria spostano truppe e munizioni verso i confini con la minaccia di sempre: la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Dunque rinforzano le posizioni attorno Kobane e concentrano l’attenzione sulle regioni contese di Manbij, dove si sono attestati i loro contingenti dopo essere stati battuti con gravi perdite pochi mesi fa dall’offensiva dell’esercito turco assieme alle milizie siriane sunnite sue alleate nella ridotta di Afrin. A rendere il ridispiegamento ancora più rapido è una considerazione che rimbalza dagli uffici politici di Rojawa (come si definisce la zona di autogoverno curdo) ai capi militari sul terreno: Erdogan ha subito una sconfitta elettorale nel suo Paese e adesso per distogliere l’attenzione e cercare consensi tra le fasce nazionaliste potrebbe rilanciare l’opzione militare contro i curdi. Tutto sommato non sarebbe la prima volta che un leader del suo rango individua nel “nemico esterno” una valvola di sfogo e lo strumento per tornare sulla cresta dell’onda. Così, le elezioni municipali turche s’impongono con forza all’ordine del giorno dei dirigenti di Rojawa. E’ evidente che il loro insistere sulla promessa americana, assieme a inglesi e francesi, di volere lasciare al loro fianco circa 1.400 soldati scelti serve, non tanto come deterrente contro le truppe di Assad, quanto piuttosto da barriera di fronte alle mire egemoniche di Erdogan. “E’ stata la diplomazia di Ankara a convincere i russi a bloccare i nostri tentativi di negoziato diretto con il governo di Damasco”, ripetono gli alti responsabili della politica estera curda. Per loro si apre ora una nuova sfida: non essere dimenticati dagli alleati di ieri per sopravvivere. Iran. Impiccati 11 detenuti per traffico droga progettoitalianews.net, 4 aprile 2019 Ieri, in un carcere di Shiraz nell’Iran centrale, è stata eseguita l’impiccagione di undici detenuti condannati per traffico di droga. Le esecuzioni per droga sono frequenti in Iran, dove si rischia la pena di morte anche per stupro, adulterio e rapina a mano armata. Il traffico di droga è un fenomeno che preoccupa nella Repubblica islamica, Paese di transito per il contrabbando di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan, principale produttore mondiale di oppio, col quale ha in comune 900 km di confine. Brunei. Entra in vigore la legge coranica, pena di morte per omosessuali e adulteri di Valerio Sofia Il Dubbio, 4 aprile 2019 Nel piccolo e ricchissimo sultanato del Brunei, patria del lusso e dell’ostentazione, da ieri la legge è amministrata secondo la sharia, la legge islamica più integrale. Il che comporta nello specifico che gli adulteri e gli omosessuali (e anche chi va contro i precetti musulmani e per l’insulto e la diffamazione del profeta Maometto) possano essere condannati a morte, e per di più attraverso il metodo della lapidazione pubblica e delle frustate. Previste inoltre l’amputazione di una mano per i ladri, la flagellazione pubblica per chi abortisce, multe per chi non prega il venerdì, punizioni serie per chi sottopone i bambini a pratiche religiose diverse da quelle musulmane, e un contrasto senza indulgenza al consumo di alcool, di droghe e di altre sostanze illegali. Nello staterello del Borneo governato dal 1967 dal sultano Haji Hassanal Bolkiah (da tempo considerato uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di 20 miliardi di dollari) la sharia era stata già introdotta nel 2013 per tutti gli abitanti di fede islamica, cioè la quasi totalità della popolazione di 430 mila abitanti. Ora la legge islamica è stata introdotta nel codice penale con data di entrata in vigore ieri, il 3 aprile. Bisogna dire che la pena di morte in Brunei (per altri reati) non è mai stata abolita, ma non si assiste a una esecuzione capitale dal 1957. Inoltre continua almeno per ora ad essere garantita una certa libertà religiosa per un terzo della popolazione composta dagli indigeni e di cinesi immigrati. L’ufficio del primo ministro del Brunei ha ribadito che il Paese aveva già prima un “sistema giudiziario islamico”, applicabile solo ai musulmani più dei due terzi della popolazione - l’altro alla società civile, che riguarda tutti gli abitanti del sultanato. “Con la piena entrata in vigore di questa legge islamica dal 3 aprile, i due sistemi continueranno ad operare in parallelo al fine di mantenere la pace e l’ordine e preservare la religione, la vita, la famiglia e individui, qualunque sia il loro genere, nazionalità, razza o confessione”, recita la dichiarazione. Lo stesso Sultano Haji Hassanal Bolkiah ha dichiarato: “il mio intento è quello di criminalizzare e dissuadere da atti contrari agli insegnamenti dell’islam e allo stesso tempo proteggere i diritti legittimi degli individui, delle società e delle nazionalità, indipendentemente dalla loro fede e dalla razza”. Non risultano ferme prese di posizione contro le decisioni del Sultano da parte delle cancellerie diplomatiche internazionali e nemmeno dagli organi delle Nazioni Unite, con l’eccezione dell’Alto commissario per i Diritti umani dell’Onu, Michelle Bachelet, che ha chiesto con forza al Governo del Sultanato di rivedere questo “codice penale draconiano”, le cui norme “crudeli e inumane”, “violano gravemente il diritto internazionale sui diritti umani”. Amnesty International ha esortato il Brunei a ‘fermare immediatamente’ l’attuazione delle nuove pene, definite ‘profondamente sbagliate e atroci’. Chi è sceso in campo massicciamente è il mondo dello spettacolo: primo fra tutti George Clooney, seguito da Elton John e da alcune conduttrici televisive americane: il loro invito è a boicottare gli hotel di lusso posseduti dal Sultano in tutto il mondo, compresi il Principe di Savoia a Milano e l’Eden a Roma. Non solo Brunei: i sette Paesi dove c’è la pena di morte per gli omosessuali Corriere della Sera, 4 aprile 2019 In Iran, Arabia Saudita, Yemen, Nigeria, Sudan e Somalia i gay possono essere uccisi. In altri Paesi è solo “un’opzione” mai praticata. I rapporti omosessuali illegali in 70 Stati. Con la nuova legge del Brunei che renderà punibili i cittadini omosessuali e gli “adulteri” con la lapidazione, duramente condannata da mezzo mondo e da personaggi pubblici come Elton John e George Clooney, il sultanato è diventato il settimo Paese al mondo in cui è in vigore la pena di morte per relazioni tra persone dello stesso sesso, illegali in un numero molto più alto di Stati: secondo l’associazione internazionale Ilga sarebbero ancora 70, in molti dei quali si può arrivare anche all’ergastolo. La pena capitale invece è attiva in sei Paesi che fanno tutti parte delle Nazioni Unite. Tre sono in Asia (Iran, Arabia Saudita, Yemen) e tre in Africa (Nigeria, Sudan e Somalia), dove viene effettivamente praticata. È un’opzione possibile per la legge - ma di cui non si sono registrati casi recenti - anche in Mauritania, Emirati Arabi, Qatar, Afghanistan e Pakistan. La scelta del sultano del Brunei prevede l’introduzione delle pene più severe della sharia, le leggi religiose contenute nel Corano. Non sono molti i Paesi musulmani ad applicare gli hudud, cioè le punizioni più dure previste dal codice per “peccati” come l’adulterio, lo stupro, l’omosessualità, il furto e l’omicidio. Raramente queste punizioni massime vengono messe in atto, perché manca una confessione o la testimonianza di diversi uomini adulti musulmani. Molti Stati includono solo alcuni aspetti della sharia, che è invece la base del diritto in Arabia Saudita, dove spesso la pena “si limita” a centinaia di frustate.