Sovraffollamento, Italia bocciata dal Consiglio d’Europa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2019 Per il rapporto “Space” siamo tra i peggiori prima di Macedonia del Nord, Romania e Francia. Il tasso di detenzione complessivo in Europa è diminuito del 6,6% tra il 2016 e il 2018, ma l’Italia figura tra i Paesi dove la detenzione è aumentata, con l’aggravante del sovraffollamento e del numero dei detenuti in attesa di giudizio superiore alla media europea. Parliamo delle statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa per il 2018 (Space), rese pubbliche nella giornata di ieri. Questa diminuzione del livello europeo conferma una tendenza iniziata nel 2012 quando il tasso di detenzione, indicatore principalmente determinato dalla durata delle pene detentive, ha iniziato a scendere. La riduzione in 27 amministrazioni penitenziarie nel 2018 è stata accompagnata da una diminuzione della durata media della detenzione, scesa da 8,8 a 8,2 mesi (- 6,8%) in tutta l’Europa. Al contrario, la percentuale di detenuti in custodia cautelare è aumentata dal 17,4% al 22,4% della popolazione carceraria totale. I paesi in cui il tasso di detenzione è diminuito maggiormente sono stati la Romania (- 16%), la Bulgaria (- 15%), la Norvegia (- 11,6%), la Finlandia (- 9,9%) e la Macedonia del Nord (- 9,7%), seguiti da Armenia (- 8,7%), Lettonia (- 8,4%), Lussemburgo (- 7,1%), Estonia (- 5,7%) e Cipro (- 5,5%). Dall’altro lato, i tassi di detenzione sono aumentati maggiormente in Islanda (+ 25,4%), Italia (+ 7,5%), Paesi Bassi (+ 5,9%), Danimarca (+ 5,8%) e Montenegro (+ 5,5%). Dalla iconografia messa a disposizione dal rapporto Space, il nostro Paese risulta il quarto Paese europeo con più detenuti rispetto ai posti disponibili al 31 gennaio del 2018. Ma non solo. Il rapporto Space evidenzia anche che l’Italia primeggia, tra i grandi Paesi europei, per la percentuale di detenuti non condannati in via definitiva, ovvero il 34,5% rispetto a una media europea del 22,4%. In numeri assoluti si tratta di 20mila persone, di cui quasi la metà sono in attesa di un primo giudizio, mentre gli altri hanno fatto appello o sono entro i limiti temporali per farlo. L’altra caratteristica delle carceri italiane è l’alta percentuale di detenuti condannati per reati legati alla droga. In Italia sono il 31,1% rispetto a una media europea del 16,8%. Da ribadire che si tratta di dati che risalgono al 31 gennaio del 2018, ma prendendo in considerazione solo il sovraffollamento, va ricordato che recentemente il Garante nazionale delle persone private della libertà nella sua relazione in Parlamento lo ha confermato. Infatti, secondo gli ultimi dati aggiornati al 26 marzo, i posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di penali italiani sono 46.904, ma ci sono 60.512 persone. Quindi 13.608 detenuti in più, con un sovraffollamento del 129%. Per quanto riguarda il tasso di detenzione, invece, la novità rispetto ai dati del Consiglio europeo risiede nel fatto che il numero di persone finite in carcere è diminuito: sono 887 in meno, quindi l’aumento del sovraffollamento è dovuto alla minore possibilità di uscita. Cosa significa? Meno ricorso alle misure alternative. I motivi sono molteplici, dalla situazione culturale del momento che porta i magistrati a concederle di meno, fino ad arrivare all’aspetto della marginalità sociale nel momento in cui diversi detenuti non hanno requisiti materiali per poter beneficiare delle misure alternative alla detenzione. Ma c’è la questione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Come ben descritto dall’ultima relazione del Garante nazionale, quel disegno di riforma era compreso nel Piano d’azione messo in atto dal governo per dare seguito agli obblighi imposti dalla sentenza pilota della Cedu “Torreggiani”. Una sentenza che oltre alla ricerca di soluzioni organiche e non emergenziali, per superare il problema del sovraffollamento, imponeva di rimodulare l’esecuzione della pena e la vita detentiva in termini rispettosi di tutti i principi dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. La messa in atto di quel lavoro riformatore è valsa la chiusura della procedura di esecuzione della condanna, decisa dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa l’ 8 marzo 2016. Il destino dei decreti legislativi che dovevano dare attuazione alla riforma ha incrociato le vicende istituzionali e politiche del Paese, subendone prima il rallentamento e poi l’arresto fino alla formazione del nuovo governo, quando è ripreso il percorso legislativo. La vicenda, come ricorda la relazione annuale del Garante, si è infine conclusa il 2 ottobre con l’emanazione di tre provvedimenti con i quali, tuttavia, è stata data attuazione solo a una parte della legge delega, escludendo quelli relativi alla revisione di modalità, presupposti e procedure di accesso alle misure alternative alla detenzione in carcere, nonché alla significativa riduzione di automatismi e preclusioni rispetto a benefici penitenziari e misure alternative. Per quanto riguarda il numero altissimo dei detenuti per reati legati alla droga emerge un altro problema. Ovvero la prevalenza dei “pesci piccoli”, dal momento che la maggioranza dei detenuti per droga (70 per cento secondo i recenti dati del ministero della Giustizia) è in carcere per il solo spaccio, mentre sono molti meno i detenuti accusati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. In sintesi i ‘ pesci piccoli’ continuano ad aumentare, mentre i consorzi criminali restano fuori dai radar della repressione penale. Il Consiglio d’Europa avverte: Italia al top del sovraffollamento e del carcere preventivo di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 aprile 2019 Mentre Matteo Salvini festeggia i primi 13 detenuti romeni condannati in Italia che sono stati trasferiti nelle carceri di Bucarest (ricevendone 4 in cambio) per effetto della decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea sul reciproco riconoscimento delle pene detentive tra Stati membri, da Strasburgo arriva una fotografia delle nostre prigioni che dovrebbe far vergognare il governo giallo-bruno. Secondo la relazione Space I, realizzata per il Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio europeo) dall’Università di Losanna con i dati del 31 gennaio 2018 provenienti da 44 amministrazioni penitenziarie, l’Italia si piazza al quarto posto della triste classifica del sovraffollamento carcerario, con un’impennata del 7,5% negli ultimi due anni. E tra le cause primarie c’è la carcerazione preventiva: il 34,5% della popolazione reclusa infatti è in attesa di giudizio o della sentenza definitiva, contro il 22,4% della media europea. Nelle celle dei 206 istituti di pena italiani, ogni 100 posti disponibili ci sono 115 detenuti (e ancora al 28 febbraio 2019 c’erano 50.522 letti regolamentari e 60.348 reclusi). Peggio di noi stanno solo la Francia che ha 116,3 detenuti per ogni 100 posti, la Romania (120,3) e la Macedonia del Nord (122,3). L’Europa ha stabilito un limite oltre il quale il sovraffollamento è considerato lesivo della dignità della persona reclusa, ed è un limite che è stato oltrepassato solo da altri quattro Paesi membri: a Moldavia (113,4), la Serbia (109,2), il Portogallo (105,9) e la Repubblica Ceca (105,5). La durata delle pene detentive, però, dal 2012 è andata progressivamente riducendosi nella media europea cosicché nel 2018 si registrava un -6,8% rispetto al 2016. Al contrario, la percentuale di detenuti in custodia cautelare è aumentata mediamente in tutta Europa, dal 17,4% al 22,4% della popolazione carceraria totale. Ma su questo punto è l’Italia che primeggia, con 20 mila persone che sono in prigione senza una condanna, di cui quasi la metà in attesa di un primo giudizio, mentre gli altri aspettano i processi di grado superiore. Altra caratteristica tutta italiana è l’alta percentuale di reclusi per reati legati alle droghe: il 31,1% contro una media europea del 16,8%. Infine, i costi: le spese sostenute dai cittadini italiani per l’amministrazione penitenziaria sono tra le più alte d’Europa (al terzo posto), con 2,7 miliardi nel 2017. Pari grado con la Francia, mentre costano di più le carceri russe (3,9 miliardi) e tedesche (3,1 miliardi). L’ultima discarica della giustizia per 60mila detenuti di Valter Izzo ilsussidiario.net, 3 aprile 2019 L’Europa boccia l’Italia: troppi detenuti. Che restano chiusi 22 ore al giorno in celle che ne potrebbero contenere il 30% in meno. Non si pensa a pene alternative e al loro recupero. Ieri il Consiglio d’Europa ha bocciato l’Italia, agli ultimi posti per sovraffollamento delle carceri: è tra i peggiori del continente, seguito solo da Macedonia del Nord, Romania e Francia. La stroncatura arriva a pochi giorni di distanza dall’allarme del Garante nazionale per le persone detenute, Mauro Palma, che ha illustrato la relazione annuale sullo stato delle carceri alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un rito stanco e tragico al tempo stesso. Ambiente solenne, espressioni comprese, puntuali resoconti sui media. Tutto come ogni anno, e fino all’anno prossimo e alla prossima relazione che ci parlerà, salvo miracoli, negli stessi termini. Una disumanità tragica e costante: 60mila detenuti chiusi 22 ore al giorno in celle che ne potrebbero contenere il 30% in meno, centinaia di gesti di autolesionismo, un detenuto che si suicida alla settimana e una guardia carceraria al mese. Questo rito atroce non cambia da decine d’anni. Cambiano i governi, i magistrati, i giornalisti, ma non cambiano le parole d’ordine che garantiscono consenso a tutti: severità, onestà, certezza della pena, rispetto per le sentenze che spediscono il condannato - e spesso anche chi è in attesa di giudizio - in carcere, discarica ultima della giustizia. La sostanziale immutabilità della situazione ha registrato nell’ultimo anno - incredibile a dirsi - un peggioramento. Sono diminuiti i detenuti che escono dal carcere avendo diritto a una misura alternativa alla pena: ad esempio, un’attività all’esterno presso una cooperativa sociale, che affianchi i detenuti con attività di formazione per un successivo inserimento lavorativo a pena conclusa. Si tratta di 5mila soggetti con pena residua da scontare inferiore ai due anni, che se imparassero un lavoro ben difficilmente rientrerebbero in carcere. La recidiva in Italia è la più alta d’Europa: due detenuti su tre tornano a delinquere una volta scontata la pena nel chiuso di una cella. Fra quelli che imparano un lavoro, dentro o fuori dal carcere, ben pochi rientrano in prigione. Le misure alternative alla reclusione sono previste da una legge dello Stato che lo Stato disattende. Lo Stato viola impunemente le regole che si è dato in materia di detenzione e recupero del condannato, nel silenzio complice delle sue componenti. Non mi risulta un’indagine di una Procura o un’ispezione di un’Asl sulle condizioni di vita dei detenuti: il sovraffollamento delle carceri farebbe gridare allo scandalo gli animalisti se si trattasse di un allevamento. Diversi anni fa, io e gli amici di una cooperativa sociale decidiamo di rilevare un edificio scolastico delle Suore Rosminiane per destinarlo principalmente a corsi di formazione professionale. A settembre cominciano le attività didattiche e passiamo i mesi estivi a mettere a punto gli impianti, le uscite di sicurezza, i bagni per i portatori di handicap… L’ispettore dell’Azienda sanitaria locale gira piano per piano e compila un elenco dettagliato di lavori aggiuntivi: qui una porta tagliafuoco, lì uno scivolo, in cortile una ringhiera più alta eccetera. “Ma, mi scusi, andava tutto bene fino a un paio di mesi fa…”, dico mostrando i permessi che mi hanno girato le Suore. L’ispettore è comprensivo: “Vede, quando cambia il soggetto che gestisce le attività, abbiamo l’obbligo di verificare la conformità delle autorizzazioni esistenti alle leggi vigenti: e ci sono appena stati degli aggiornamenti alle normative sulla sicurezza, soprattutto per le attività didattiche”. “Mi scusi - insisto - abbiamo ragazzi che provengono da una scuola pubblica delle vicinanze che cade a pezzi… uno studente, in carrozzina, veniva aiutato dai compagni ad ogni ostacolo, ad ogni gradino”. L’ispettore si stringe nelle spalle: “Lo so. Ma lo Stato fa deroghe - o chiude un occhio - a se stesso… per voi è un’altra storia. Mi spiace, la prego, non mi metta in imbarazzo”. Chiusura degli Opg, garante e Cnb sulla via della riforma di Francesco Muser Il Manifesto, 3 aprile 2019 Cose inaspettate accadono in un Paese quotidianamente ricco di odio e devastato dalla propaganda. Il 27 marzo è stata presentata la relazione del Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale che ha svelato la crisi drammatica del carcere, con un sovraffollamento che colpisce dignità e diritti. Il capitolo sulla salute mentale nel circuito penale denuncia la vasta disapplicazione della legge 81 del 30 maggio 2014 in quanto si è diffusa l’errata convinzione che le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) abbiano sostituito meccanicamente “i desueti e inadeguati Ospedali psichiatrici giudiziari”. “Troppe volte si cade in questo equivoco”, si precisa. Il Garante afferma con nettezza che insisterà per la valorizzazione e la applicazione della riforma “nella piena consapevolezza che si tratta di favorire un processo culturale complesso che eviti di risolvere il tema dell’infermo di mente autore di reato, riducendolo all’esigenza di aumentare i posti letto di degenza nelle Rems e di fronteggiare una presunta, crescente domanda di ospedalizzazione”. Su questa linea si è mosso anche il Consiglio Superiore della Magistratura con una delibera del 24 settembre 2018 in cui si invitano i magistrati della cognizione e quelli di sorveglianza a considerare residuale il ricorso alla misura di sicurezza detentiva e a ben valutare i proscioglimenti per incapacità di intendere e volere e la pericolosità sociale. Nel 2017 si è realizzata una vera rivoluzione, la chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi criminali e si rivela davvero perniciosa la nostalgia per l’istituzione totale da parte di alcuni magistrati di sorveglianza e da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; per l’approfondimento di questi aspetti rimando alla rubrica di Francesco Maisto pubblicata sul manifesto il 30 gennaio 2019. Il 22 marzo è stato approvato l’ultimo parere del Comitato Nazionale di Bioetica, (Cnb) disponibile sul sito ufficiale, proprio su “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere”. Ci sono riflessioni approfondite, dati, proposte per replicare a leggende metropolitane che vengono propalate sulla rete e sui giornali in maniera irresponsabile. Il Cnb era già intervenuto nel 2013 sul tema della salute in carcere (La salute dentro le mura) ma ha ritenuto urgente esprimere un nuovo parere (approvato all’unanimità), in presenza di una grave criticità per la tutela della salute mentale, nell’ambito della salute generale delle persone in carcere. Il documento analizza in modo approfondito il valore della riforma che ha portato alla chiusura degli Opg e lamenta i ritardi normativi che dovrebbero favorire la cura non in stato di detenzione sia dei “rei folli” (le persone condannate al carcere e colpite da disturbo psichiatrico grave), sia dei “folli rei” (le persone prosciolte dalle accuse per vizio di mente e sottoposte a misure di sicurezza). Lamenta il Cnb: “L’eredità dell’Opg è ancora viva sia sul piano concreto, per la sorte tuttora incerta delle varie tipologie di malati psichiatrici che affollavano questi istituti; sia soprattutto sul piano culturale, nel persistere della vecchia visione del malato psichiatrico quale soggetto di per sé pericoloso, e dunque da contenere più che da curare”. Le raccomandazioni finali sono particolarmente pregnanti: si chiede una incisiva riforma delle misure di sicurezza per limitare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva e si afferma che “in coerenza con la finalità terapeutica delle Rems, occorre limitare il ricovero ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva”. In conclusione, il Cnb invita a riconsiderare la legislazione speciale del “doppio binario” presente nel Codice Rocco di imputabilità/non imputabilità per le persone affette da disturbo mentale che compiono un reato. L’omicidio di Viterbo deve far riflettere sulla condizione dei malati psichiatrici in carcere di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 3 aprile 2019 Non c’è pace per il carcere di Viterbo. Già sotto i riflettori per due brutti casi di suicidio e per una serie di denunce di maltrattamenti, nella notte tra sabato e domenica un detenuto ha ucciso il suo compagno di stanza per “futili motivi” (una discussione nata intorno a un accendino, dove fosse, o per l’uso del televisore, chissà). L’aggressore è reo confesso: trentaquattrenne, viene arrestato a febbraio per l’aggressione violenta (è imputato di tentato omicidio) ai danni del suo anziano convivente; dopo pochi giorni viene trasferito da Civitavecchia a Viterbo, dopo aver aggredito il compagno di stanza e, pare, un agente di polizia intervenuto a separarli; a Viterbo è dapprima in isolamento, in osservazione psichiatrica e seguito da una psicologa, poi viene messo in stanza con la sua futura vittima, Giovanni. Giovanni è un maturo e pacifico homeless viterbese, arrestato in esecuzione di una pena per resistenza a pubblico ufficiale: fatto avvenuto nel 2011, otto anni fa. Se avesse avuto un domicilio, probabilmente Giovanni non sarebbe stato in carcere. Ma il carcere, a dispetto del suo sovraffollamento e della sofferenza che induce sui suoi ospiti, continua a essere frequentemente il domicilio coatto di persone che disturbano la quiete pubblica, il decoro urbano o l’idea che di essi hanno alcuni benpensanti. Il primo pensiero, quindi, non può che essere per lui, per Giovanni, per la vittima: che ci faceva in carcere? Era proprio necessario che vi fosse costretto per un reato da niente a tanti anni dal fatto? Poi certo ci sono le responsabilità personali. Quelle penali sembrano chiare, anche se si dovrà valutare la capacità di intendere e di volere dell’omicida, per configurarne la pena o la misura di sicurezza. Su quelle amministrative (perché Giovanni fosse in stanza con un detenuto che aveva già mostrato comportamenti aggressivi nei confronti dei conviventi), l’Amministrazione penitenziaria sta svolgendo gli accertamenti del caso. Come sempre, però, una tragedia di queste proporzioni deve indurre riflessioni anche sulle politiche e sulle misure necessarie a prevenire simili episodi. Partiamo allora dal carcere di Viterbo. Anche in questo caso, l’autore del reato vi si trovava per “ordine e sicurezza”: possibile che questo carcere debba essere condannato a ospitare detenuti che altrove abbiano tenuti comportamenti irregolari, se non proprio delittuosi? Per quale ragione si pensa che quello sia il posto giusto per loro? Perché lì la disciplina è più ferrea che altrove? Ma così siamo di fronte a una profezia che si auto-avvera: il carcere di Viterbo è considerato un Istituto punitivo, vi si mandano gli “irregolari”, gli “irregolari” si comportano irregolarmente, l’Istituto tiene fede alla sua nomea e fioccano gli eventi critici. È possibile mettere fine a questo circolo vizioso, per esempio fermando i trasferimenti a Viterbo per “ordine e sicurezza” e incentivando iniziative e attività finalizzate al sostegno e al reinserimento sociale dei detenuti? Per esempio, ma è solo un esempio, positivo e parzialmente negativo allo stesso tempo, la Direzione regionale della formazione, d’accordo con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, ha programmato tre corsi di formazione professionale per 55 detenuti: due di essi stanno per partire, uno, invece, è stato trasferito a Rebibbia per mancanza di adesioni tra i detenuti (sic!). Poi c’è il problema dell’assistenza psichiatrica in carcere, puntualmente affrontata - in via generale - nel recente parere del Comitato Nazionale di Bioetica. Se è vero che l’omicida avesse e ha problemi di salute mentale, merita di avere cure e assistenza medica adeguata. In questi giorni già abbiamo sentito appelli alla controriforma: “riaprire gli ospedali psichiatrici giudiziari” ha detto qualcuno, come se la reclusione nel manicomio criminale possa risolvere il problema della convivenza con i malati di mente autori di reato, come se quarant’anni di riforma psichiatrica fossero passati invano. No, il problema non è tornare indietro, alle vite perdute nei manicomi in nome della nostra sicurezza e della nostra indifferenza. No, il problema è andare avanti nel solco di una riforma incompiuta che, prima o poi, dovrà affrontare il nodo della responsabilità penale dei malati di mente autori di reato, ma che intanto deve garantire la migliore e più qualificata assistenza psichiatrica anche in carcere per il tempo (speriamo breve, brevissimo), in cui imputati o condannati con problemi di salute mentale vi siano trattenuti. A Viterbo, anche a Viterbo, ci si sta lavorando, intanto con un potenziamento delle ore di presenza in carcere degli psichiatri, domani, speriamo, con l’attivazione di un’articolazione di salute mentale adeguata alle necessità terapeutiche dei suoi ospiti. Poi, infine, c’è il problema delle alternative al carcere. Dalla riforma penitenziaria approvata in ottobre, il governo ha sciaguratamente escluso le alternative al carcere per i detenuti con problemi di salute mentale e finanche la sospensione pena per le condizioni di incompatibilità. La Corte costituzionale si pronuncerà a breve su questo ultimo punto, togliendo - spero - le castagne dal fuoco a un legislatore cieco e inconsapevole. Ma resterà il problema della riduzione del carcere a extrema ratio nel trattamento penale del malato di mente autore di reato, della previsione di adeguate ed efficaci alternative alla detenzione. Servono leggi, ma serve anche una diversa attenzione del territorio, delle sue politiche e dei suoi servizi, che sappiano prendere in carico e sostenere i malati di mente autori di reato sul presupposto che se la malattia può essere cronica, la colpevolezza non lo è: come per tutti può e deve estinguersi con la fine della pena, nella possibilità di una vita diversa. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Italia-Romania: oggi volo dell’Aeronautica Militare per scambio detenuti agenparl.eu, 3 aprile 2019 Piano di volo sulla tratta Roma-Bucarest-Roma organizzato oggi dallo SCIP (Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia) e l’Aeronautica Militare con un a bordo “passeggeri particolari”. Si tratta di 12 uomini ed una donna arrestati in Italia: 4 condannati per omicidio, 7 per riduzione in schiavitù, sequestro di persona violenza sessuale e induzione alla prostituzione e 2 per rapina e ricettazione. Sull’Hercules C130J della 46ma Brigata Aerea, scortati da personale dello SCIP, viaggeranno diretti in Romania i 13 criminali che, in applicazione della Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea che determina il reciproco riconoscimento tra stati Ue delle pene detentive, sconteranno il carcere nelle patrie galere. Lo stesso volo tornerà dalla Romania con a bordo 4 cittadini romeni che erano ricercati dall’autorità giudiziaria italiana con mandati d’arresto europei e che sconteranno la pena in Italia. I tre uomini ed una donna, rintracciati nel paese balcanico, annoverano condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso, furto, istigazione e favoreggiamento della prostituzione, falsificazione documenti. Il paziente lavoro investigativo della Polizia e dell’Arma dei Carabinieri ha avuto il sostegno in campo internazionale dello SCIP, articolazione della Direzione Centrale della Polizia Criminale. Le operazioni di cattura dei quattro latitanti, effettuate dalla polizia romena, sono state coordinate in quel paese dall’Esperto per la Sicurezza del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia di stanza a Bucarest, capo dell’Ufficio Coordinamento Regionale per l’Europa Orientale della Direzione Centrale. All’arrivo a Ciampino, espletate le formalità dell´arresto presso l’Ufficio di Polizia di Frontiera Aerea, i 4 saranno trasferiti presso le competenti case circondariali a disposizione delle autorità giudiziarie. Mosaici di carta. Frammenti di francobollo per il progetto “filatelia nelle carceri” di Danilo Bogoni artslife.com, 3 aprile 2019 Se c’è un luogo nel quale il proverbio “fare di necessità virtù”, questo è il carcere. Luogo di giusta e umana espiazione, ma anche luogo di “rieducazione” così da restituire i ristretti alla società emendati, dove il concentrato di limitazioni è elevato al massimo grado. Questo, tuttavia, non impedisce di far emergere dai singoli potenzialità sconosciute o, comunque, mai sufficientemente espresse. Con dosi massicce di buona volontà e di geniale inventiva si riesce perfino a realizzare dei mosaici. Seguendo, certo, lo schema base che prevede la partenza da un disegno ben preciso, sostituendo però la tradizionale materia prima. Niente tasselli di pietra, vetro colorato o altro, ma frammenti di francobollo. Un mosaico, di conseguenza, fatto di carta. Meglio, ottenuto con più o meno minuscoli frammenti di francobolli. Un manufatto che del tradizionale mosaico conserva la procedura e il risultato visivo, ma pur avendo per base una tavolozza non è neppure pittura. Niente pennelli, anche se l’armonia dei colori è assicurata, ma colla dopo aver ritagliato frammenti di francobolli che “assumono valori particolari nella ricerca e in fantasiose composizioni”. Ottenute, va detto, usando in maniera non proprio ortodossa, almeno dal punto di vista dei collezionisti tradizionali per i quali il francobollo va conservato nella sua interezza come fosse appena uscito dalle rotative di stampa. L’iniziativa fa parte delle molteplici attività del Laboratorio filatelica da alcuni anni attivo nella Casa di reclusione di Milano Opera, nell’ambio del Progetto filatelia nelle carceri sottoscritto dal ministero della Giustizia, dello Sviluppo economico, da Poste Italiane, Federazione fra le società filateliche italiane e Unione stampa filatelica italiana. Scopo dell’iniziativa, come si legge nel documento, “trarre origine dalle peculiarità del francobollo, espressione dell’arte, della storia, dell’attività economica, dello sport, della religiosità, della sensibilità ai problemi sociali e, in sostanza, della cultura di un paese” cogliendo così dalla filatelia “le giuste motivazioni per approfondire argomenti e tematiche di forte impatto culturale”. L’idea di creare composizioni mediante frammenti di francobolli non è per niente recente, e men che meno solitaria e isolata. Una citazione, per dire, è addirittura presente in un fascicolo d’inizio del secolo scorso della storia testata specializzata francese “L’Echo de la timbrologie”, che viene tuttora pubblicata. Sotto la testatina “Qua e là” lo storico periodico informa della curiosa iniziativa di tale F. Deiedalle, che nel frattempo, a scanso di equivoci, si era premurato di depositare il marchio, illustrando in bianco e nero e non a colori, come avrebbe desiderato (ma a quei tempi una riproduzione era già un qualcosa che sfiorava l’eccezionalità) una delle cartoline realizzate per l’appunto con frammenti di francobollo. Non è da escludere che già prima dell’intraprendente francese altri, senza il pallino degli affari (veri o presunti), ma per puro diletto personale avulso quindi dal deposito del marchio, abbia dato vita a propri mosaici filatelici. Che anche da noi ha avuto un discreto numero di seguaci. Tutti di buon livello, alcuni addirittura eccellenti. Del 1954, per dire, un frate passionista, padre Hermann G. Tatangelo, con due suoi lavori realizzati durante la lunga permanenza in India, impressionò favorevolmente i visitatori della Mostra filatelica ed erinnofila mariana allestita nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli nell’ambito dell’Anno Mariano indetto da Pio XII. I due mosaici filatelici opera del “geniale autore” raffiguravano “L’Adorazione dei Magi” e il “Buon pastore”. Dodici anni dopo, la Galleria d’arte “La Cornice” di Cremona ospitò addirittura una personale di Giorgio Testi, che, attratto dalla “policromia filatelica al servizio della pittura”, aveva saputo realizzare “mirabili composizioni, intessute di infinita pazienza, con effetti singolari di indubbia efficacia e di aderenza sorprendete all’originale”. “Il suo - si può leggere nel testo inserito nell’invito per l’inaugurazione della mostra dell’1/11 novembre 1966 - è l’hobby della pazienza cromatica: una festa di colori e di convincente virtuosismo compositivo”. Comprovato da “ L’Ultima cena” di Leonardo da Vinci, nella quale Giorgio Testi dimostrava di “saper cogliere in ogni soggetto le caratteristiche d’arte, i tocchi più efficaci, le linee e le sfumature più viranti”. Chiusa la mostra “l’Ultima cena”, assieme ad un ritratto di Paolo VI furono mandati in omaggio al Santo Padre, che in segno di concreto ringraziamento fece avere al suo autore una medaglia d’argento del Concilio Vaticano II. Altri artisti, di cui si ha notizia e che con successo si sono cimentati con i mosaici filatelici rispondono ai nomi di Nicola Biondi, nelle cui “opere il francobollo è diventato materia d’arte e mezzo cromatico” col quale trasmettere “i messaggi dei colori e delle emozioni, che tutti possono intendere e capire”; Giuseppe Albergamo, per il quale i suoi colori erano i francobolli, il suo pennello erano le sue mani, il risultato straordinariamente unico”; Renato Lupi, abile paesaggista, frutto di una “combinazione magica di ritagli da francobolli, uniti da una perizia calda e gene e tenuti avvinti dalla sua magistrale esperienza” e Umberto Primo, le cui opere sono “pregnanti di concentrazione, di introspezione, di amore per un’arte decisamente rara”. In Francia si è fatto notare Emile Tramoni, mentre in Islanda con mosaici filatelici, usando la tecnica mista del francobollo intero e di quello frazionato, si è perfino cimentato un vescovo ortodosso: Nicholas Michael Micari. Per la sua gigantesca installazione nello spazio espositivo veneziano del Fondaco dei Tedeschi, Elisabetta di Maggio ha invece utilizzato francobolli integri o pressoché tali. Ispirati alla tradizione si presentano invece gli elaborati realizzati da Sigismondo Strisciuglio nella Casa di reclusione di Milano Opera, come la dolce “Madonna col Bambino”, tempo fa donata all’arcivescovo di Milano, Mario Delpini che non solo l’ha apprezzata ma, dopo essersi soffermato dinanzi ad altre opere analoghe, ha avuto parole di elogio e di compiacimento per l’attività nel suo complesso. Non meno pregevoli le versioni mosaico di due emissioni natalizie del Vaticano, quella del 1988 e quella, davvero superba, del 2015 presa, questa ultima, da una preziosa miniatura di autore ignoto ma di grande levatura, ripresa dal Codice Urbinate latino 239 (1477-1478), conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Le più recenti realizzazioni, create in previsione dell’evento del 21 marzo, per ricordare e onorare nella Casa di reclusione di Milano Opera la memoria di don Giuseppe Diana e che prevede la presentazione del francobollo del Vaticano e di quello d’Italia celebrativi del giovane sacerdote assassinato dalla camorra, hanno per protagonisti due martiri della mafia: don Pino Puglisi e, appunto, don Giuseppe Diana. Ispirato, il primo mosaico filatelico, al francobollo emesso lo scorso anno dall’Italia per don Puglisi e a quello vaticano in distribuzione dal 19 marzo su immagine firmata da Marco Ventura. Del quale è pure il francobollo vaticano che lo scorso anno ricordò il martirio di don Puglisi. Abolito il rito abbreviato per i reati da ergastolo di Errico Novi Il Dubbio, 3 aprile 2019 La legge che abolisce il rito abbreviato per i reati da ergastolo ottiene il via libera definitivo al Senato a soli quattro giorni dal sì alla legittima difesa: un “uno-due” sulla giustizia da albo d’oro delle vittorie. Ma il voto di ieri a Palazzo Madama diventa anche una pesante incognita per la riforma complessiva del processo penale. Viene meno infatti la possibilità di ricorrere a un importante strumento deflattivo, qual è appunto l’abbreviato, in quei processi che richiedono i maggiori sforzi alla macchina della giustizia. I reati per i quali non sarà più possibile il rito alternativo, vengono assegnati alle Corti d’assise, che rischiano di trovarsi sovraccariche. Dal punto di vista della Lega è un gran successo. La legge che abolisce il rito abbreviato per i reati da ergastolo ottiene il via libera definitivo al Senato a soli quattro giorni dal sì alla legittima difesa: un “uno-due” sulla giustizia da albo d’oro delle vittorie. Ma il voto di ieri a Palazzo Madama (168 sì, 48 no e 43 astenuti) crea anche una pesante incognita per la riforma complessiva del processo penale. Sparisce infatti la possibilità di ricorrere a un cruciale strumento deflattivo qual è appunto l’abbreviato, in quei processi che richiedono i maggiori sforzi alla macchina della giustizia. I reati per i quali non sarà più possibile il rito alternativo, compresi molti casi di omicidio, vengono assegnati alle Corti d’assise, che in futuro rischiano di trovarsi letteralmente sovraccariche. E da questo punto di vista la nuova legge va in una direzione diametralmente opposta a quella indicata da avvocatura e Anm al “tavolo” sul penale aperto a via Arenula. Istituzioni e associazioni forensi, in primis l’Unione Camere penali, avevano trovato un’intesa col “sindacato” dei giudici per convincere il guardasigilli Bonafede a ridurre i tempi dei processi con una precisa strategia: rendere più appetibili i riti alternativi, rafforzare i poteri del gup e depenalizzare. Il primo dei tre punti è decisivo: ma è clamorosamente sconfessato proprio dal voto di ieri, che spazza via l’abbreviato per i reati gravi. Sul provvedimento d’altra parte non s’è mai intravista alcuna esitazione della maggioranza. Né sul fronte Lega, da cui è partita la proposta già nella scorsa legislatura, a prima firma Nicola Molteni, né su quello dei Cinque Stelle. E anzi, con la “riforma” dell’abbreviato si realizza un ulteriore asimmetria in Parlamento: tra i voti favorevoli incassati ieri in aula, infatti, ci sono anche quelli di Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia si schiera contro. Uno schema ancora nuovo rispetto a quello della legittima difesa, che ha visto il “vecchio” centrodestra compatto e l’M5s adeguarsi per coerenza al “contratto” più che per convinzione. La distanza tra gli uomini di Salvini e quelli del Cavaliere si intreccia con la nuova, netta divaricazione della Lega dalle indicazioni dell’avvocatura. Eppure il relatore della legge approvata ieri, il leghista Andrea Ostellari, si era trovato di recente a condividere quanto meno il “principio” della separazione delle carriere, col suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi. “Ma noi non possiamo pensare di subordinare al consenso degli avvocati le nostre scelte in campo penale”, dice, interpellato dal Dubbio, Ostellari, che a Palazzo Madama presiede la commissione Giustizia. “L’avvocatura ragiona secondo il proprio rispettabile punto di vista e con la capacità di ben argomentare le posizioni, noi dobbiamo dar conto a tanti comuni cittadini che non vogliono veder tornare liberi gli autori di reati gravissimi”. E in effetti le conseguenze pratiche del provvedimento sono tutte annunciate all’articolo 1 (il testo è in soli 5 articoli) che introduce un comma 1- bis all’articolo 438 del codice di procedura penale, in base al quale “non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”. Il resto sono adattamenti ai vari casi in cui il giudice dà una definizione giuridica del fatto tale da ammettere, anche a fine dibattimento, lo sconto di pena. La ricaduta concreta della nuova legge riguarda proprio le riduzioni delle condanne: chi è accusato di reati che prevedono anche il carcere a vita non potranno ottenere lo sconto di un terzo della pena o, come prevedeva l’ormai menomato secondo comma dell’articolo 442, la riduzione dall’ergastolo a trent’anni (o da ergastolo con 6 mesi di isolamento a ergastolo senza isolamento). “Vorrà dire che si avrà il collasso nelle Corti d’assise”, fa notare Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. “Nei procedimenti per quel tipo di reati, con la ormai vecchia disciplina, gli imputati optavano per l’abbreviato in quasi l’ 80 per cento dei casi. A valutare il fatto era dunque un singolo giudice dell’udienza preliminare, che riusciva a chiudere la pratica nel giro da 3 o 4 mesi. Solo una quota marginale di fascicoli finiva a dibattimento, fase in cui la competenza per simili processi è delle Corti d’assise: si riunisce cioè una giuria popolare che completa il collegio col presidente e l’altro togato. Ci si mette almeno un paio d’anni. E assisteremo così alla paralisi delle Corti d’assise”. Si parla di un migliaio di processi ogni due anni, oggi risolti in modo rapido e d’ora in poi destinati ai tempi del rito ordinario. Lo aveva segnalato anche il Csm con un parere piuttosto critico approvato a inizio febbraio, a larga maggioranza del plenum. Vi si faceva notare che, visti i tempi dei processi in Corte d’assise, si rischia di arrivare alla scadenza dei termini di custodia cautelare prima della sentenza, con l’effetto paradossale di un minor “rigore” provocato proprio da una riforma ispirata alla massima severità. “Di certo si può dire che la macchina del andrà molto più lenta proprio nel definire i processi dal cosiddetto maggiore allarme sociale”, osserva Caiazza. Lo aveva detto anche il Csm. Ma non è servito a far cambiare idea alla maggioranza. Violenza domestica, fino a sei anni per il revenge porn di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2019 Alla fine una sintesi è stata trovata. E la Camera ha votato all’unanimità (461 voti favorevoli, nessuno contrario) l’emendamento al disegno di legge sulla violenza domestica che introduce il reato di revenge porn, per sanzionare chi diffonde immagini o video a esplicito contenuto sessuale senza consenso. Per il capo del Governo, Giuseppe Conte si tratta di una “bella testimonianza da parte di una nostra fondamentale Istituzione!”. E il presidente della Camera Roberto Fisco sottolinea di essere “sempre particolarmente soddisfatto quando dal confronto fra posizioni diverse viene fuori una convergenza che poi si riflette in atti votati all’unanimità. Ed è quanto accaduto in Aula con il voto unanime dell’assemblea sull’emendamento della commissione Giustizia sul revenge porn”. Nel dettaglio, si prevede che è punito con la detenzione a 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro chi, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate. Ma a essere colpita è anche la condotta “ulteriore” di chi i video e le immagini le fa circolare: la stessa sanzione deve essere infatti essere applicata a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o il video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate per provocare loro un danno. Se poi la cronaca troppo spesso testimonia che a commettere il reato sono persone che sono state sentimentalmente vicine alla vittima, il testo introduce delle aggravanti se il delitto è compiuto dal partner o da un ex con diffusione via social. La pena è così aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. Un ulteriore incremento, da un terzo alla metà, scatta se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa, con termine di 6 mesi per la proposizione della querela. La remissione può essere soltanto processuale. Nei casi più gravi si procede tuttavia d’ufficio. Approvato poi un altro emendamento (presentato da Alessia Morani, Pd) che stabilisce il divieto di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti nel caso di reati a matrice sessuali particolarmente grave. Sulla sanzione estrema della castrazione chimica per i colpevoli di violenza sessuale, la Lega ha ritirato l’emendamento presentato, ma il ministro della Funzione pubblica Giulia Bongiorno ha dichiarato di ritenere che si tratti di una misura comunque “utile”, e che per questo “farà parte di un nuovo disegno di legge che presenteremo”. Si tratterà di un “trattamento farmacologico, volontario, reversibile, come già previsto in altri Paesi”, ha spiegato. Castrazione chimica. Salvini ordina il dietrofront garantista di Emilio Pucci Il Messaggero, 3 aprile 2019 Il ritiro della norma sulla coercizione medica: “Non si può strappare su questi temi. Se rompiamo deve essere su economia o autonomia”. Dopo un tira e molla durato tutta la mattina con i 5Stelle Salvini chiama i suoi. E decide di far ritirare l’emendamento sulla castrazione chimica. Una mano tesa nei confronti del Movimento, un atto di responsabilità, “perché - ha spiegato ai parlamentari - già li vedo i giornali che parlano di crisi”. Ma dietro la mossa del partito di via Bellerio c’è anche un ragionamento politico. “Perché - sottolinea un big del Carroccio - noi siamo garantisti, con quella norma avremmo messo in difficoltà magistrati e avvocati e non avremo portato dalla nostra parte un solo voto in più”. Meglio evitare lo scontro con il ministro della Giustizia Bonafede su questo provvedimento e portare a casa il codice rosso e il revenge porn: con il dicastero di via Arenula il braccio di ferro ci sarà eventualmente dopo le Europee e riguarderà la riforma dell’ordinamento giudiziario. Per il vicepremier leghista anche sul tema delle politiche familiari occorre che “tutti si diano una calmata”. Pure dentro la Lega. “Non è possibile strappare con il Movimento su questi argomenti. Non lo abbiamo fatto neanche sulla Tav. La battaglia dobbiamo farla sull’economia, sull’autonomia, su cose concrete”, l’invito del ministro dell’Interno ai fedelissimi. Da qui l’appello a tutti, da ministri a sottosegretari e parlamentari, a “parlare di meno”. Nel mirino del Capitano soprattutto la querelle continua che stanno portando avanti i cattolici del partito. E certe esternazioni, come quelle del sindaco di Verona nei confronti di Di Maio (“ci ha definito fanatici e sfigati, può fare a meno di venire a fare passerella al Vinitaly”), che a suo dire non fanno altro che creare nuove fibrillazioni. La Lega non arretrerà in materia di diritti e infatti i gruppi hanno chiesto a deputati e senatori di firmare la richiesta di istituire una commissione d’inchiesta sul business delle case famiglia. E verrà presentato anche un ddl sulla castrazione chimica. Ma si tratta di due desiderata, non è in programma alcuna guerra con Di Maio né sui temi etici né su altro. Salvini vuole una navigazione tranquilla. Almeno fino alle Europee. Pure nella Lega, visto che il congresso di Verona ha creato divisioni tra l’ala cattolica e chi ha una posizione più laica e che sulla castrazione chimica c’era chi avrebbe voluto mantenere il punto e far emergere la spaccatura nella maggioranza. “I 5Stelle - questa la convinzione dei vertici - si stanno logorando da soli. Non c’è bisogno di una frattura in questo momento”. Anche perché non si intravvede - ecco il ragionamento - una valida alternativa per ora, fino a quando Forza Italia sarà berlusconiana la prospettiva di un ritorno in pianta stabile nel centrodestra non è attrattiva, “e comunque non dobbiamo essere noi a rompere”. “Vinciamo già sui territori, pensiamo a vincere le Europee e a conquistare il Piemonte, magari le regioni rosse e poi ne parliamo”, il refrain. Questo non vuol dire che dopo l’appuntamento del 26 maggio non ci sarà bisogno di una verifica di governo. Nella Lega non si nasconde che “la pazienza di Matteo è al limite”, magari a giugno ci sarà anche un confronto con il Quirinale per capire come andare avanti qualora M5S dovesse frantumarsi o mettere ancora i bastoni tra le ruote. “Ma per ora si tira dritto a lavorare”, l’imperativo del responsabile del Viminale che per questo motivo ha silenziato i mal di pancia dentro al partito e soprattutto il conflitto con l’alleato di governo. Si punta alle prossime competizioni elettorali. Salvini sta preparando un evento con Afd e Rassemblement National ma l’obiettivo è quello di arrivare ad un unico fronte che comprenda anche i conservatori, in cui figurano Giorgia Meloni e i polacchi di Pis. Al momento il partito di Kaczynski non è disponibile a stringere intese con Le Pen e con Afd, ma si sta comunque studiando la possibilità di arrivare ad un unico gruppo che possa portare 150 europarlamentari a Strasburgo. I verdetti dubbi sulle violenze contro le donne di Mario Chiavario* Avvenire, 3 aprile 2019 Due dei tre indagati per uno stupro che sarebbe avvenuto in un ascensore della Circumvesuviana sono stati scarcerati, e ciò ha riattizzato il fuoco di polemiche già esplose in seguito ad altre decisioni giudiziarie recenti: l’assoluzione pronunciata dalla Corte di appello di Ancona nei confronti di un altro accusato di violenza sessuale; la condanna inflitta, rispettivamente a Genova e a Bologna, a due imputati di femminicidio, in entrambi i casi con una pena da molti ritenuta troppo lieve (16 anni di reclusione); la revoca, da parte della Corte d’appello di Messina, del risarcimento accordato in primo grado a dei bambini resi orfani da un uxoricidio, i cui legali contestavano ad altri magistrati una responsabilità civile da inerzia per aver trascurato le ripetute denunce presentate contro il marito dalla donna che poi quest’ultimo finì per uccidere. Ad accomunare tutti questi eventi, i sintomi, che vi sono stati letti, della reviviscenza di una “cultura” tesa a minimizzare o addirittura a giustificare fatti gravissimi se compiuti su donne, non importa se mogli, compagne o partner occasionali. Critiche e preoccupazioni sono più che comprensibili e in larga misura condivisibili. Forse, però, non è inopportuno uno sforzo di discernimento ulteriore, che cerchi di superare la scorza delle generalizzazioni, le quali possono nascondere, sotto slogan di facile presa, il rischio di approssimazioni o di fraintendimenti. Nel gruppo delle sentenze che direttamente o indirettamente hanno avuto a che fare con eventi mortali, a lasciarmi più sconcertato è quella della Corte di Messina. Più che la conclusione cui essa è pervenuta - certo, amaramente tangibile anche materialmente, per chi l’ha subita- ad inquietarmi sono però alcuni passaggi della motivazione che dovrebbe sorreggerla. Desolante, il messaggio che ne traspare: l’esito letale della vicenda sarebbe stato inevitabile, se pur gli apparati istituzionali si fossero attivati per rispondere concretamente alla dozzina di denunce per maltrattamenti e minacce presentate invece invano dalla donna poi uccisa dal marito. Bella iniezione di fiducia! E non solo per i ragazzi che hanno perso tragicamente, e a un tempo, madre e padre, e che si sentono invitati, come si suole dire, a farsene una ragione alla svelta. Più complessa la questione del cosiddetto “dimezzamento” delle pene inflitte agli altri due colpevoli di femminicidio. In realtà, di dimezzamento (o quasi) si dovrebbe parlare solo per il caso di Bologna, dove in effetti la Corte di assise di appello ha parzialmente riformato una condanna a trent’anni inflitta in primo grado da un giudice del Tribunale di Rimini; nel caso di Genova, invece, la condanna a una pena più elevata non si leggeva in alcuna sentenza anteriore; risultava soltanto oggetto di una richiesta dell’accusa, che non è la stessa cosa. Sia come sia, ciò che più rileva è che la grande maggioranza dei media, ma anche di coloro che si esprimono sulla rete nonché dei politici dell’intero arco parlamentare, avrebbe preteso sanzioni ben più pesanti (si è spinto più in là, ma non da solo, il Ministro dell’interno, perentorio nell’affermare che i colpevoli di crimini siffatti devono “marcire in carcere”: ancora una volta sottintesa, una sua personale interpretazione dell’articolo 27 della Costituzione, nel quale sta scritto che le pene - senza eccezioni e, dunque, anche quando si applicano ai peggiori delinquenti - “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità...”). Sarà legittimo, comunque, aspettarsi, per fatti del genere, una risposta sanzionatoria che non si prestasse ad equivoci quanto a severità, in linea con gli intendimenti delle norme repressive delle estreme violenze sulle donne. E neppure io sono sicuro che quelle inflitte nei casi in questione siano pene davvero adeguate. Né mi convince appieno l’impiego, a sostegno di un’indulgenza elargita in modo assai consistente, di qualche categoria concettuale, pur non ignota alla psichiatria forense; e in particolare mi riferisco alla sottolineatura della “tempesta emotiva” cagionata dal sospetto (peraltro, a quanto pare, infondato) di un tradimento amoroso, che ha contribuito a far concedere all’imputato del processo d’appello di Bologna le cosiddette “ attenuanti generiche”. Tuttavia, non ritengo di possedere, dall’esterno del processo, piena cognizione di causa circa le modalità e i contesti dei fatti per inoltrarmi nei meandri di un bilanciamento tra quelle che sono tecnicamente definite “circostanze del reato”, quale non poteva non imporsi in ambedue i casi, pur assai diversificati tra loro se si mettono a confronto le descrizioni che se ne leggono nelle rispettive sentenze. Semmai, è giocoforza constatare che ormai quel bilanciamento finisce spesso per essere notevolmente alterato, in definitiva, dal consistente “premio” che per legge viene dato automaticamente per i reati di qualunque tipo - e questo, sì, è davvero discutibile - a chiunque chieda di essere giudicato con il rito “abbreviato”. D’altro canto, non mi sembra accettabile il presunto dogma secondo cui il femminicidio - a differenza degli altri reati, compreso il comune omicidio - non potrebbe mai ammettere attenuanti. E comunque, andiamoci piano prima di dire che a Genova come a Bologna i giudici hanno “giustificato” quegli assassini. Non sono uno scherzo sedici anni di reclusione, sia pure ad ammettere che nel corso dell’esecuzione possano aversi, dopo un tempo non piccolissimo e a certe condizioni, mitigazioni e sconti. Insomma, non sono una pena talmente irrisoria e vicina all’impunità da far rivivere davvero il famigerato “delitto d’onore” che rimase nella nostra legislazione fino al 1981 - insieme a quell’altra ignominia che era costituita dal “matrimonio riparatore” offerto alle donne violentate - facendo sì che una fucilata o delle coltellate assassine venissero trattate come bagatelle e contemporaneamente costituissero vanto per il maschio padrone e vindice, ammirato per aver messo a tacere una femmina alla quale “ben le stava”. Ancora diverse le considerazioni che si..possono fare circa i casi di stupro portati o riportati in queste settimane sotto i riflettori della cronaca giudiziaria. Sulle scarcerazioni dei giovani denunciati a Napoli è d’obbligo una sospensione del giudizio, almeno fino a quando non si conosceranno le motivazioni delle rispettive ordinanze. Certamente, però, i componenti del tribunale partenopeo, chiamato in causa dalle istanze difensive di “riesame” delle misure adottate dal g.i.p., non possono non sapere che anche per la Corte costituzionale, quando una persona sia gravemente indiziata di violenza sessuale, è normale che essa rimanga in carcere in attesa del processo, salvo che i pericoli di inquinamento delle prove, di fuga o di reiterazione del reato risultino o totalmente inconsistenti o così tenui da rendere sufficiente una misura cautelare meno invasiva (eventualità che, se quegli indizi fossero confermati, si stenta a ritenere immaginabili). Dunque, le motivazione faranno leva su una carenza (non necessariamente dell’inesistenza) di gravi indizi a carico degli indagati? Vale pure qui la premessa circa la difficoltà di soppesare dall’esterno i pro e i contro. Una speranza - che fino a prova contraria si deve dare per certezza - si può però esprimere: che la valutazione si fondi su solide basi oggettive, e non su mere illazioni desunte da ipotetiche défaillances della personalità della denunciante, sulle quali sono sorprendentemente circolate voci maliziose, quasi a voler dare per scontata una sua attitudine a fantasticare o a far passare per frutto di violenza un rapporto sessuale che sarebbe invece stato consensuale. purtroppo qualcosa del genere sembra essersi verificato a suo tempo nell’altro caso, quello dei fatti giudicati ad Ancona, anche se la Corte di cassazione ha già riportato le cose a posto annullando la sentenza d’appello con rinvio ad altro giudice per un nuovo giudizio. Ma lì non si era trattato soltanto di una utilizzazione più che discutibile dei comuni strumenti probatori e logici posti a servizio del giudice in vista del formarsi di un corretto convincimento. La nonchalance dell’attribuzione della qualifica di “brutta” a una persona, che non deve suscitare scandalo quando si parla tra amici e amiche o si commentano le fattezze di una star del cinema, andrebbe assolutamente evitata quando, in un atto importante e solenne come una decisione giudiziale, si discetta della credibilità di una persona già sottoposta all’angoscia del processo e di ciò che l’ha preceduto. *Professore emerito all’Università di Torino Caso Mered, una petizione per l’uomo in carcere. “Lui è una vittima dell’ingiustizia” di Silvia Buffa meridionews.it, 3 aprile 2019 L’iniziativa si deve all’eritreo Elias Arefaine, che non conosce personalmente il connazionale detenuto da tre anni al Pagliarelli, ma che sembra sicuro non si tratti del trafficante di uomini, che avrebbe visto una volta nel 2012. “Lui è innocente”. È questa la frase che si rincorre senza sosta da venerdì scorso sulla piattaforma Change.org, attraverso cui è stata lanciata una petizione indirizzata al governo italiano per chiedere la scarcerazione dell’uomo detenuto da giugno 2016 al Pagliarelli con l’accusa di essere Il Generale, uno dei peggiori trafficanti di uomini degli ultimi anni. Venticinquemila firme per restituire la libertà a un uomo che da tre anni, ormai, grida non solo la sua innocenza, ma anche il fatto di essere rimasto vittima di un terribile scambio di persona. Il detenuto, attualmente sotto processo davanti alla seconda corte d’assise di Palermo, ha sempre dichiarato di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre e di essere un falegname eritreo in procinto di iniziare, come molti altri connazionali, il lungo viaggio prima per il deserto e poi per il Mediterraneo, passando per le prigioni libiche. Circostanza confermata a più riprese, in questi anni, dai famigliari dell’uomo in carcere e dai suoi amici. Ma anche da chi non conosce direttamente lui, ma il trafficante Medhanie Yehdego Mered, dalla moglie al fratello, che non hanno riconosciuto l’uomo sotto processo. “Conosco molto bene questo ragazzo - commenta un utente che ha firmato la petizione. Quando ero a Khartoum gli ho tagliato i capelli tre volte, è un bravo ragazzo e lui è innocente, non è un trafficante di esseri umani. Hanno lo stesso nome, ma non il cognome”. Medhanie, insomma, sarebbe stato uno dei tanti fattori che avrebbe contribuito a creare il cortocircuito fatale. “Si trova in carcere per motivi ingiustificati - scrive il promotore della petizione, Elias Arefaine -, un’azione totalmente inaccettabile e brutale contro i diritti umani fondamentali”. Lui è uno strenuo sostenitore dell’innocenza dell’uomo rinchiuso al Pagliarelli, malgrado non lo abbia mai conosciuto personalmente. Ma tanto gli basta per spendersi in favore della sua storia e sostenere che “non ha mai partecipato al traffico di esseri umani”, ribadendo che le accuse a suo carico sono infondate. “Ho visto Medhanie Yehdego Mered una volta in Sudan, e non aveva la faccia dell’uomo che è in carcere al posto suo - racconta a MeridioNews. È uno dei motivi per cui ho deciso di aiutare Behre”. L’incontro con quello che sarebbe, a suo dire, il vero trafficante, risalirebbe al 2012, ma non sarebbe stato un incontro faccia a faccia tra loro. Non ci sarebbe stata alcuna presentazione ufficiale, nessuno scambio di battute. “Non l’ho incontrato personalmente, ma me lo ha indicato un mio amico, che ha aggiunto che lui si occupava di queste cose”, vale a dire di traffico di uomini. Anche se, a sentire Elias, quello di Mered all’epoca “non era un nome in realtà molto conosciuto ancora, lui era più che altro un collaboratore, un assistente”. Come se stesse facendo una sorta di tirocinio o apprendistato con chi già era un trafficante a tutti gli effetti e poteva quindi insegnarli il mestiere. “Ho davvero molte conoscenze eritree che conoscono il vero trafficante Medhanie Yehdego Mered, loro sanno bene che quello in carcere è l’uomo sbagliato”. Chi sono? Dove si trovano? E perché nessuno, tra le tante forze speciali e autorità scese in campo per dare la caccia al Generale, ha mai pensato di cercarli, di stare a sentire la loro versione anziché lasciare che il dubbio viziasse l’intero processo? A rilanciare in questi giorni la vicenda che ha per protagonista l’uomo al Pagliarelli sono anche i suoi famigliari e i suo amici. “Lui è arrivato in Sudan ad aprile 2015, dove è rimasto fino al 24 maggio 2016”, ricorda sui social proprio in questi giorni un ex coinquilino dell’uomo in carcere, Habtu Jerry. “Improvvisamente è stato arrestato per errori commessi dall’autorità sudanese, solo perché il suo nome era lo stesso di un trafficante, che la polizia ha cercato per tanto tempo. È stato preso da una zona che si chiama Diem, a Khartum. Non sapeva perché l’avevano preso, non parlava la lingua araba, quindi non era in grado di dire che non era la persona che la polizia doveva arrestare così lo hanno consegnato all’Italia”, prosegue l’amico, che chiede ai connazionali di firmare la petizione. “Possiamo aiutarlo a essere libero, perché è in prigione da tre anni. Siete tutti invitati a condividere e a salvare la vita di questo nostro fratello”. Mentre la petizione, intanto, ha già raccolto in pochi giorni poco meno di ventimila adesioni. La Cassazione sul sindaco di Riace: “Per Lucano non risultano frodi” Corriere della Sera, 3 aprile 2019 Le motivazioni della Corte: “Non favorì matrimoni di comodo, cercò solo di aiutare Lemlem. Gli appalti assegnati con collegialità e con pareri di regolarità tecnica”. Mancano indizi di “comportamenti” fraudolenti che Domenico Lucano, il sindaco sospeso di Riace, avrebbe “materialmente posto in essere” per assegnare alcuni servizi, come quello della raccolta di rifiuti, a due cooperative dato che le delibere e gli atti di affidamento sono stati adottati con “collegialità” e con i “prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato”. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate ieri e relative all’udienza che lo scorso 26 febbraio si è conclusa con l’annullamento con rinvio del divieto di dimora a Riace, la cittadina calabrese diventata un simbolo per l’accoglienza dei migranti. La misura cautelare era stata disposta dal Tribunale della libertà di Reggio Calabria lo scorso 16 ottobre nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Locri che ha rinviato a giudizio Lucano. L’udienza è aggiornata al 4 aprile. Rileva inoltre la Cassazione che non solo non sono provate le “opacità” che avrebbero caratterizzato l’azione di Lucano per l’affidamento di questi servizi alle cooperative L’Aquilone ed Ecoriace. Per questo il riesame deve rivalutare il quadro per sostenere l’illiceità degli affidi. Invece, per gli “ermellini”, ci sono gli elementi di “gravità indiziaria” del fatto che Lucano si sia dato da fare per favorire la permanenza in Italia della sua compagna Lemlem. Ma a questo riguardo, bisogna considerare “la relazione affettiva”. Giulia Ligresti e la giustizia schizofrenica di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 aprile 2019 Innocente, dopo il calvario mediatico-carcerario. Le colpe del giustizialismo. È finito il calvario mediatico-giudiziario di Giulia Ligresti, figlia secondogenita di Salvatore, l’ex re del mattone e della finanza scomparso lo scorso maggio. Lunedì la Corte d’appello di Milano l’ha assolta definitivamente dalle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai, revocando la pena di 2 anni e 8 mesi che lei stessa aveva patteggiato nel 2013 dopo un duro periodo di custodia cautelare in carcere, in cui perse sei chili. Venne scarcerata dopo un mese e mezzo solo in seguito a una perizia medica sui danni alla salute provocati dalla detenzione. Poi, stremata, patteggiò la pena. Il caso finì sulle prime pagine dei giornali con la pubblicazione di alcune intercettazioni telefoniche in cui l’allora ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, amica di lunga data della famiglia Ligresti, prometteva che avrebbe sensibilizzato il Dap per verificare le condizioni di salute di Giulia. Un atto umanitario su cui però si scatenarono le richieste di dimissioni del M5S e persino della parte renziana del Pd. Due anni dopo, l’indagine nei confronti del ministro venne archiviata. Non basta: lo scorso ottobre, Giulia Ligresti ha dovuto trascorrere altre tre settimane in carcere, vedendosi negato un percorso di messa alla prova alternativo alla detenzione. In mezzo, le contraddizioni di una giustizia schizofrenica: il fratello Paolo assolto in primo e secondo grado per gli stessi fatti per i quali Giulia aveva patteggiato; il padre Salvatore e la sorella Jonella condannati in primo grado, prima che le sentenze fossero annullate per incompetenza territoriale, con il processo trasferito a Milano e azzerato. Lunedì scorso la parola fine, almeno per Giulia, con l’assoluzione definitiva. “Finalmente dopo più di sei anni si è arrivati alla verità”, ha detto. “È stata durissima ma non ho mai smesso di lottare e di avere fiducia nella giustizia, nonostante la violenza di essere stata messa in carcere, con tutto ciò che ne consegue, da innocente. Troppo spesso, in nome della giustizia, si commette la più grande delle ingiustizie: togliere la libertà a un innocente e abbandonarlo alla gogna mediatica”. Di certo, nonostante l’assoluzione, si fa fatica a parlare di “giustizia”. Dibattimento da rinnovare se la relazione del perito è decisiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2019 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 2 aprile 2019 n. 14426. Nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di una diversa valutazione della dichiarazione, considerata decisiva, resa dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, il giudice d’appello deve risentirli. Le Sezioni unite, con la sentenza 14426, dirimono il contrasto che ha diviso la giurisprudenza sull’obbligo o meno di rinnovare il dibattimento, e lo fanno valorizzando il nuovo codice di procedura penale, introdotto dalla legge 103/2017 Una norma con la quale il legislatore ha recepito un orientamento consolidato della Cedu (sentenza Dan contro Moldavia) seguito dalle Sezioni unite (Dasgupta e Patalano), che impone una tutela del contraddittorio implementandolo con il principio dell’oralità. La norma ha introdotto una nuova ipotesi di ammissione d’ufficio delle prove limitando però l’obbligo di rinnovare l’istruttoria e subordinandolo a precise condizioni: che ad impugnare sia il Pm (e non la parte civile); che oggetto di impugnazione sia una sentenza di condanna che il giudice ha riformato “in pejus” (e non viceversa); che i motivi di appello siano attinenti alla valutazione della prova dichiarativa che abbia carattere di decisività. Il contrasto, risolto dalle Sezioni unite, derivava da orientamenti contrapposti rispetto all’applicabilità anche al perito e al consulente tecnico della regola codificata dal nuovo codice di procedura (comma 3-bis dell’articolo 603). La tesi favorevole alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, presuppone che le dichiarazioni in questione - assimilabili a quelle testimoniali abbiano natura dichiarativa e dunque come siano tali soggette al nuovo dibattimento. La tesi opposta, pur non negando al perito e al consulente la qualità di teste, considera la perizia una sorta di prova “neutra” essendo il giudice chiamato a valutare non la credibilità o l’attendibilità, come per i testimoni “puri”, “assistiti” o “connessi”, ma l’affidabilità scientifica. Per le Sezioni unite si tratta invece di prova dichiarativa. Una conclusione raggiunta dopo un’attenta analisi del nuovo codice di rito e delle modalità con le quali si forma una perizia o una consulenza. Per i giudici il perito, riveste, in ambito processuale, più ruoli (indagini; acquisizione dei dati probatori, valutazioni). Proprio in virtù di questi molteplici compiti la perizia diventa centrale ai fini della decisione ed è quindi soggetta alla garanzia del contraddittorio, tanto più nei casi in cui un perito sia fautore di una tesi scientifica piuttosto che di un’altra. Anche per la Cedu, ricordano i giudici, il perito è equiparato al testimone. Per le Sezioni unite quindi la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento è una prova dichiarativa con il conseguente obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso il suo nuovo esame. Non c’è invece quest’obbligo se nel giudizio di primo grado, la relazione sia stata solo letta senza sentire il perito. Ordine d’indagine europeo con più spazio alla difesa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 14413. Senza decreto di riconoscimento e senza la sua comunicazione al difensore, l’ordine d’indagine europeo non deve essere eseguito. Lettura garantista della Cassazione su uno dei nuovi strumenti chiave della cooperazione penale europea. In una vicenda di evasione fiscale internazionale, la sentenza n. 14413 della Sesta sezione ha annullato l’ordinanza del Gip di Torino con la quale era stata invece avallata la condotta del Pm che aveva dato corso all’atto richiesto dall’autorità giudiziaria tedesca nei confronti di un cittadino italiano (perquisizione, ricerca di oggetti, sequestro) senza notificare né prima né dopo il decreto di riconoscimento alla difesa. La Corte mette in evidenza come i compiti affidati alla magistratura, che agisce in esecuzione di un ordine d’indagine, si riassumono nell’attività di “ricevere”, “riconoscere” e “dare esecuzione”. Le fasi della ricezione, del riconoscimento e dell’esecuzione sono certo collegate sul piano temporale e logico, ma sono invece distinte su quello funzionale e mai sovrapponibili. In questo senso si misura la distanza, ricorda la sentenza, rispetto all’antecedente storico, il mandato d’arresto europeo, dove non esiste distinzione tra riconoscimento ed esecuzione. Va poi tenuto presente il quadro complessivo delle garanzie che pure la disciplina dell’ordine d’indagine ha ribadito. Il nuovo articolo 696 ter del Codice di procedura penale, infatti, prevede di dare corso alla misura di cooperazione, a patto che non esistano “fondate ragioni” per ritenere che la persona interessata possa subire una grave violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. Nel caso approdato in Cassazione, peraltro, non esiste proprio traccia, ricostruisce la Cassazione, di un decreto motivato di riconoscimento emesso dal Pm secondo le forme previste dal decreto legislativo 108 del 2017. Esiste solo la conferma del ricevimento dell’ordine d’indagine emesso dalla magistratura tedesca. Si tratta di un adempimento materiale che si concretizza nella redazione di un atto dal contenuto predeterminato, con una finalità unicamente informativa e del tutto autonomo rispetto al decreto motivato di riconoscimento che il Pm avrebbe dovuto adottare entro 30 giorni dal ricevimento dell’ordine d’indagine. Il decreto di perquisizione e sequestro riporta nella motivazione la contestazione dei reati di evasione fiscale e il fatto che l’adozione è dovuta a una domanda della magistratura straniera. Non si trova invece e neanche si può ricavare una qualche forma di argomentazione che supporti il riconoscimento che si dà invece per acquisito. In questo modo, però, non si è permesso alla difesa di intervenire eccependo in maniera tempestiva l’esistenza di eventuali motivi di rifiuto del riconoscimento o dell’esecuzione, oppure l’assenza di proporzionalità dell’attività richiesta, ottenendo di conseguenza lo stop di perquisizione e sequestro. Concorsi truccati, no ai domiciliari per i raccomandati senza prova dell’istigazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 2 aprile 2019 n. 14380. Non basta essere beneficiario di una raccomandazione a un concorso o destinatario in anticipo della rivelazione delle prove perché scatti il concorso nei reati commessi dai pubblici ufficiali. Così nell’ambito dell’inchiesta sui concorsi pilotati nella sanità lucana la Corte di cassazione annulla - con la sentenza n. 14380 depositata ieri - la convalida di misura cautelare contro una candidata favorita per ottenere l’indebito vantaggio dell’assunzione a dirigente sanitario. Si tratta degli arresti domiciliari disposti dal Gip a luglio 2018 per l’imputata “raccomandata” e a cui erano state rivelate in anticipo le tracce della prova scritta del concorso. Il motivo dell’annullamento dell’ordinanza del tribunale di Potenza sta nell’aver piattamente confermato il provvedimento del Gip che ha applicato la misura a titolo di concorso nei reati commessi da pubblici ufficiali. Reati che, appunto, il privato può commettere soltanto in maniera concorrente, ma va dimostrato che questi abbia istigato e rafforzato il convincimento - di chi riveste cariche pubbliche - a commettere tanto l’abuso d’ufficio quanto la rivelazione di segreto d’ufficio per aver fornito le tracce delle prove di esame a chi ha poi ottenuto l’illegittimo risultato dell’assunzione a spese della pubblica amministrazione. Il rinvio della Cassazione - I giudici di legittimità, nell’annullare l’ordinanza del tribunale, rinviano il giudizio sul merito della misura cautelare degli arresti domiciliari del soggetto privato, accusato di concorso nei reati previsti dagli articoli 323 e 326 de Codice penale, dettando quali verifiche vadano fatte per colmare le lacune del ragionamento del Gip, che era stato adottato de plano dal giudice del riesame. In particolare, la sentenza della Cassazione sottolinea l’assenza del raggiungimento della prova dell’istigazione o induzione dei pubblici ufficiali a commettere i reati. E lo fa sottolineando che non poteva semplicemente essere affermato il concorso per essere stato il privato favorito dalle condotte, sub iudice, dei vertici della sanità di Matera e Potenza e del Governatore dell Basilicata, bensì andava valorizzata e approfondita la circostanza - che emerge dall’ordinanza genetica - della partecipazione dell’imputata insieme ad altro concorrente anch’egli “favorito” a un accordo preliminare per la gestione illecita del concorso. Quindi gli elementi dei gravi indizi sembrano ben sussistere solo che il tribunale avrebbe dovuto confutare la difesa della persona ai domiciliari non semplicemente ribadendo quanto affermato dal Gip con una modalità di copia-incolla. Inoltre, fa notare sempre la Cassazione si tratta di materia che registra due differenti orientamenti sulla configurabilità del concorso in quelli che sono reati “propri”, cioè imputabili a specifiche figure (in questo caso pubblici ufficiali): uno propende per la prova di un’attività propulsiva del privato mentre l’altro ritiene sufficiente il coinvolgimento di chi non ha sollecitato la rivelazione di un segreto d’ufficio, che ha a sua volta rivelato a terzi la notizia, che sia rimasta comunque segreta. Non emerge che il tribunale del riesame abbia voluto aderire a tale indirizzo e spetta ora al giudice del rinvio il compito di colmare le lacune motivazionali dell’ordinanza annullata. Viterbo: uccide il compagno di cella, a Civitavecchia ci aveva già provato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2019 Lo ha aggredito con uno sgabello, la vittima era un uomo senza fissa dimora. Per il garante del Lazio, Anastasìa, bisognerà valutare “per quale ragione un recluso, con un precedente del genere, sia stato valutato idoneo per coabitare, soprattutto di notte”. Il detenuto al carcere di Viterbo di origini indiane che con uno sgabello ha ucciso il suo compagno di cella per futili motivi è lo stesso che, a febbraio, nel carcere di Civitavecchia, aveva massacrato di botte - sempre con uno sgabello - un altro detenuto in attesa di giudizio. Parliamo, quindi, di una tragedia annunciata. Il caso di Civitavecchia è stato sollevato a febbraio da Il Dubbio e il garante regionale dei diritti dei detenuti Stefano Anastasìa ha confermato che si tratta dello stesso aggressore. La vittima dell’aggressione a Civitavecchia è un detenuto in custodia cautelare. A febbraio uno dei collaboratori dello studio dell’avvocato Roberto Vigna è andato a fare un colloquio con l’assistito, ma la scena che si è ritrovato davanti agli occhi è stata scioccante: l’uomo si presentava con indosso un collare ortopedico, plurime ecchimosi di colore viola intenso e escoriazioni in tutto il corpo, una ferita in testa nella quale pare siano stati applicati 5 punti di sutura, oltreché visibilmente stravolto. Cosa gli era accaduto? La settimana precedente era stato picchiato dal compagno di cella appena era rientrato dal passeggio. Gli ha scaraventato contro lo sgabello di legno posto all’interno della cella, per poi saltargli addosso mentre era caduto a terra per il colpo subito e ha continuato a riempirlo di calci, pugni e graffi sino all’intervento dell’agente di polizia penitenziaria che a sua volta è stato aggredito del detenuto. Eppure l’aggressore - un indiano accusato di tentato omicidio - già era stato segnalato dall’uomo, in quanto mostrava fin da subito segnali di squilibrio. Appena l’hanno messo in cella, dava testate al muro, lo fissava e urlava. Quando è accaduto il pestaggio non si è avuta alcuna comunicazione ufficiale da parte delle autorità alle quali lo stesso è affidato in custodia. Grazie ad una chiamata anonima effettuata dal carcere, l’avvocato si è allarmato ed è andato a trovare il suo assistito. Senza quella chiamata, nessuno se ne sarebbe accorto visto che non era in programma alcuna visita. L’indiano, con evidenti problemi psichiatrici, è stato quindi trasferito al carcere di Viterbo e messo in cella con un altro detenuto, un 61 enne che tra l’altro era un senza fissa dimora, arrestato per non aver voluto mostrare i documenti ad un carabiniere e rinchiuso con l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale. Da qui la tragedia. Venerdì sera, per un accendino, l’indiano ha colpito il suo compagno di cella con lo sgabello. La morte è stato dichiarata alle 3 della scorsa notte all’ospedale Belcolle di Viterbo. Il garante regionale Stefano Anastasìa, spiega a Il Dubbio che il detenuto, appena è arrivato al carcere di Viterbo, è stato per un piccolo periodo in isolamento perché era noto l’episodio dell’aggressione avvenuta a Civitavecchia. “Il problema da valutare - spiega Anastasìa - è il perché e il quando è stato messo in cella con quell’altro detenuto”. Nel frattempo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha fatto sapere che ci saranno degli accertamenti. “Ovviamente - sottolinea il garante Anastasìa - occorrerà valutare per quale ragione un detenuto con un precedente del genere sia stato valutato idoneo per coabitare, soprattutto di notte, nel blindo con un’altra persona, tra l’altro il più mite di tutti i detenuti”. Si trattava infatti, come detto, di un barbone di Viterbo, arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Il Garante osserva che la storia fa emergere due problematiche. “Una - spiega Anastasìa, riguarda la persona morta, per cui il carcere continua ad essere la destinazione di quelli che sono privi di sistemazione sociale, infatti ho compreso che il grado di offensività della vittima era pari a zero e che stava in carcere più per una condizione di irregolarità sociale che non per pericolosità”. Il secondo problema è quello che attiene alla persona che ha realizzato l’omicidio “la quale aveva quasi certamente un problema di natura psichiatrica - osserva il garante Anastasìa - tant’è che era anche seguito dai servizi del carcere, ma la cui aggressività, manifestatasi già a Civitavecchia, poneva il problema della qualificazione dell’offerta sanitaria per la salute mentale in carcere”. Del resto, fa notare sempre il Garante del Lazio, “non possiamo dimenticarci che la riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato a ottobre, cancella ogni alternativa in materia e con sé tutte le misure possibili per i malati di mente, che si sono resi autori di reato”. Alla domanda de Il Dubbio, se una persona con questi precedenti di aggressività poteva essere messa in carcere in cella con gli altri detenuti, il garante Stefano Anastasìa risponde: “Non era necessario l’isolamento, quello che si conosce di tipo disciplinare, ma probabilmente sarebbe stato sufficiente evitare che il detenuto in questione pernottasse con gli altri, perché poi nelle situazioni comuni di socialità è tutto più gestibile”. Per il Garante il problema è stato “costringerlo dietro il blindo chiuso con un’altra persona”. Biella: detenuto 33enne muore in carcere per cause naturali di Vincenzo Lerro bitquotidiano.it, 3 aprile 2019 Appello del Garante, Sonia Caronni, al Ministero della Giustizia. Nella mattinata di ieri, martedì 2 aprile, all’interno della casa circondariale di Biella è mancato, per cause naturali, un detenuto di appena 33 anni. Abbiamo appreso la notizia direttamente dal comunicato inoltrato in tarda serata agli organi di stampa da Sonia Caronni, Garante dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale per il Comune di Biella. Ne riportiamo di seguito il testo integrale. “La Casa Circondariale di Biella versa da troppo tempo in uno stato di disattenzione da parte del Ministero della Giustizia. Le richieste che sono state di volta in volta portate avanti, da me come Garante dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale del Comune di Biella, sono state ascoltate ma all’ascolto non sono seguite risposte concrete. Da due anni a questa parte nel carcere di Biella è stata istituita una Casa Lavoro destinata ad ospitare persone internate. La casa lavoro è tracciata risulta esistente agli atti ma concretamente, per la struttura stessa dell’istituto non è possibile realizzarla. Il personale, educativo è stato messo sotto forte pressione per la gestione di situazioni e di persone che richiedevano progetti individuali ad hoc e finanziamenti altrettanto ad hoc che sono previsti a livello legislativo. La non risposta ha generato una violazione di diritti basilari nei confronti delle persone internate. Oggi 2 aprile 2019 l’istituto registra un decesso di un ragazzo di 33 anni. Poteva succedere benissimo in qualunque roseo periodo, però è successo oggi. Oggi che l’istituto ospita, pur non avendo una struttura idonea una casa lavoro, oggi che l’istituto non ha a tutti gli effetti una Direzione. Oggi che l’istituto si sta per distinguere per un grosso progetto sperimentale di imprenditoria penitenziaria. Per il benessere della popolazione ristretta nel carcere di Biella ma anche per il benessere di tutto il personale, interno ed esterno, che ultimamente è costantemente messo sotto pressione, e fatica sempre più a svolgere i compiti a cui è deputato. Chiedo come Garante delle persone ristrette nella libertà per il Comune di Biella che l’Amministrazione dei Penitenziari e il Provveditore Regionale: definiscano in modo chiaro tempi e modalità di spostamento della Casa Lavoro; definiscano, nel breve periodo, risorse di personale adeguate; definiscano una dirigenza definita e stabili in grado di progettare nel lungo periodo”. Varese: “si autorizzi l’incontro dei detenuti coi propri cani, sono come famigliari” di Andrea Camurani varesenews.it, 3 aprile 2019 La proposta di due avvocati varesini che scrivono al Ministro: “Basterebbe una circolare”. Evitare all’animale inutili sofferenze. Ma soprattutto ricostruire i rapporti sociali messi in crisi da un luogo a cui chi sta in libertà non pensa ma che affligge quanti vi sono rinchiusi: il carcere. La proposta di consentire agli animali d’affezione di poter incontrare i propri padroni detenuti arriva da Varese ed è contenuta in una lettera che gli avvocati Furio Artoni e Alessandra Sisti hanno di recente inviato al Guardasigilli Alfonso Bonafede. La missiva propone l’interpretazione di una norma già esistente del regolamento carcerario e propone al Ministero di “estendere” il contenuto dell’articolo 28 dove l’ordinamento penitenziario raccomanda attenzione a ristabilire i legami fra familiari e detenuti. Perché dunque non sottintendere familiare anche l’animale d’affezione di proprietà del detenuto?, si chiedono i due legali. L’idea è venuta dopo aver affrontato un caso “sul campo” proprio a Varese in merito all’esigenza sentita da un cliente nel voler vedere il proprio cane durante la detenzione: una storia a lieto fine, con la scarcerazione dell’uomo e l’incontro col piccolo grande amore della sua vita. Ma per tutti gli altri detenuti? “Sarebbe sufficiente - scrivono gli avvocati Artoni e Sisti - più che un intervento legislativo, una circolare ministeriale dal valore interpretativo per raggiungere questo scopo e migliorare la vita a tanti detenuti”. Si attende ora la risposta da Roma. Avellino: “No Prison”, luci e ombre sul sistema carcerario irpinianews.it, 3 aprile 2019 “No Prison”. È questo il tema dell’incontro che si terrà venerdì 5 aprile ore 17, presso il Circolo della Stampa di Avellino. L’iniziativa è stata organizzata dal dott. Carlo Mele, Garante Provinciale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, con la collaborazione dell’avv. Giovanna Perna, avvocato penalista del Foro di Avellino e componente esperto del Tavolo del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. L’incontro si pone quale occasione di discussione e approfondimento sulla funzione rieducativa della pena, tra coloro che a vario titolo frequentano il mondo penitenziario. L’evento, infatti, con la moderazione di Gianni Colucci, direttore de “Il Mattino”, prevede gli interventi del dott. Carlo Mele, Garante Provinciale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, dell’avvocato penalista Quirino Iorio, tesoriere della Camera Penale Irpina e di un ex detenuto che racconterà la sua esperienza diretta della realtà carceraria. Concluderà, l’autore del libro “Basta dolore e odio No Prison”, Livio Ferrari. Un testo interessante che argomenta a più voci un’idea di abolizione del sistema carcerario, inteso quale luogo di vendetta e odio. Il volume presenta, oltre al manifesto “No Prison” scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, una serie di capitoli scritti da illustri sociologi, professori universitari di rilievo internazionale, che affrontano l’eterna dialettica tra gli abolizionisti e le ideologie segregazioniste. Il convegno si pone, dunque, quale momento di profonda riflessione sulle luci ed ombre del mondo carcerario, tenuto conto anche della recente modifica legislativa dell’ordinamento penitenziario. L’invito è, pertanto, rivolto alle autorità istituzionali, agli ordini professionali, ai Direttori degli istituti penitenziari, nonché alla collettività tutta, chiamata a confrontarsi su di un tema di grande attualità. L’evento è accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Avellino con 4 crediti formativi. Milano: Dante e Shakespeare nelle carceri e tra i ragazzi di Kibera di Paolo Cascavilla statoquotidiano.it, 3 aprile 2019 Avrei voluto vedere qualche anno fa a Milano “Le troiane” di Euripide, il dramma di donne che in una sola notte hanno perso tutto, con protagoniste 15 donne siriane che anch’esse nel loro paese hanno perso tutto. Diversi anni fa, all’Auditorium di Manfredonia, ci fu uno spettacolo interpretato da ragazzi usciti dal coma. Era presentato da una comunità terapeutica di Roma. I ragazzi recitavano con forti limitazioni nei movimenti e nel linguaggio. I gesti irregolari, il senso diverso della velocità e della lentezza, la voce stentorea, creavano uno spettacolo di grande originalità e di straordinaria ironia. I film tratti da storie vere piacciono. Tutti guardano con interesse film e spettacoli teatrali con “attori di strada”. Qualche giorno fa ho incontrato a Mattinata una cara amica, Fidelia, che mi voleva mostrare i suoi quadri e album di foto, raccolte con grande originalità. Orgogliosa per come superava le sue difficoltà attraverso una serie di supporti tecnologici. Le ho chiesto se frequentava il Luc o il teatro Dalla. Non mi sembrava interessata. “Voglio fare delle cose e non solo assistere…”. Le dico dello spettacolo di giovedì prossimo, 4 aprile, “E sarà domani”, e che a recitare sono operatori volontari e ospiti della comunità di Emmaus… E tutto cambia. La curiosità è molto forte. Fidelia ha visto con grande interesse il film documentario dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”. Shakespeare entrato nel carcere di Rebibbia e Cesare tornato a vivere con attori detenuti, che, dopo aver fatto questa esperienza scoprono che la cella è diventata davvero una prigione. A Nairobi 140 bambini sbucano alle spalle degli spettatori e si dividono in branchi. C’è il lupo, la iena, il leone, il serpente… Sono questi animali a incarnare paure e angosce. Un ragazzo con la divisa da college si rivolge al pubblico e dice: “Mi chiamo Dante Alighieri, sono un poeta e sono nato a Firenze”. Dov’è Firenze? A Kibera (Slum di Nairobi). “Mi sono sentito male e mi sono ritrovato in una selva, in una notte senza stelle, senza luna”. Arriva un altro ragazzo: “Il mio nome è Virgilio e la mia pelle è bianca…”. E Dante lo riconosce come maestro. Inizia il viaggio nell’Inferno e nei gironi infernali di Kibera si incontrano politici e poliziotti corrotti, spacciatori, genitori che abbandonano i figli… Qual è il male più terribile a Kibera? Bambini che vengono violentati, abbandonati e vivono in strada. Alcuni di essi urlano: “Voglio una mamma, un padre, una famiglia…” Dante protesta e dice che i bambini non devono stare lì, Virgilio gli dà ragione e i piccoli sono portati fuori. Questa è la coraggiosa sperimentazione di Marco Martinelli nell’ottobre dello scorso anno: Leggere e recitare Dante nella baraccopoli di Nairobi (Kibera). Nessun testo parla ai giovani come Romeo e Giulietta di Shakespeare. Lo spettacolo al Beccaria di Milano con ragazzi inquieti e sbandati, e i commenti debordano: il dramma di una passione assoluta, le scelte estreme dettate da odi, rivalità, vendette si intrecciano con i racconti delle risse all’uscita dalla discoteca, gli sguardi indiscreti, apprezzamenti fuori posto, accoltellamenti facili… E per Romeo (uccisore di Tebaldo) i ragazzi chiedono la sospensione della pena. Avrei voluto vedere qualche anno fa a Milano “Le troiane” di Euripide, il dramma di donne che in una sola notte hanno perso tutto, con protagoniste 15 donne siriane che anch’esse nel loro paese hanno perso tutto: casa, patria, figli, beni, mariti… Chissà se qualcuno se la sente di mettere in scena, il dramma delle bambine prigioniere ad Aleppo. Bambine, portate via dalla famiglia, vengono liberate quando i padri si consegnano. Come Nora 11 anni, rilasciata dopo 45 giorni, quando il padre si costituisce per poi scomparire nel nulla, Nel frattempo iniezioni di ormoni e poi stuprata. Quando è arrivata a casa, dice la madre, sembrava una donna di 25 anni. Aveva subito un Crimine Radioattivo, perché molto dopo che è stato compiuto continua ad agire. La vittima stuprata perde i legami con la sua comunità, i figli sono bastardi, nei villaggi dove sono avvenuti stupri di massa nessuno vuole contrarre matrimoni. Busto Arsizio: una “evasione teatrale” per i detenuti del carcere di Riccardo Canetta informazioneonline.it, 3 aprile 2019 “Ginestre”, la nuova messinscena della compagnia “L’Oblò”, è in programma mercoledì 10 aprile al teatro Sociale. Si intitola Ginestre, come il fiore del deserto scelto da Leopardi come simbolo di resilienza; è il nuovo spettacolo allestito dalla compagnia di attori detenuti del carcere di Busto Arsizio “L’Oblò”, in programma mercoledì 10 aprile al teatro Sociale “Delia Cajelli”. “È uno spettacolo che amiamo molto - spiega la regista Elisa Carnelli - a cui abbiamo lavorato per quasi un anno e che, per la prima volta, coinvolge anche persone ‘esternè. Ed è questa la grande novità”. A Busto, infatti, non era mai successo che attori detenuti e non detenuti lavorassero insieme. Grazie all’esperimento dei laboratori intitolati “Contaminazioni” promossi dalla Onlus “L’Oblò”, tutti i sabati mattina, per un anno, una decina di appassionati di teatro è entrata nel carcere di via per Cassano e, fianco a fianco con altrettanti attori detenuti, ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo. La messinscena si ispira al libro “Essere Esseri Umani” della psicoterapeuta Marta Zighetti: “Nella prima parte proviamo a rispondere a una serie di domande importanti, ad esempio “Chi è l’essere umano?” - rivela la regista. Dalle improvvisazioni e dai laboratori sono uscite tante storie personali, molto intime e molto forti. Non si tratta di autobiografie o della ricerca di commiserazione, tutto è raccontato con la giusta distanza artistica. Sono emersi però ricordi e riflessioni. Ad esempio, un gesto semplice come farsi la barba è stato interpretato come un rito di passaggio emblematico e, per un ragazzo immigrato lontano dalla famiglia da tanti anni, il ricordo del padre che si radeva è stato molto intenso. I detenuti si sono messi in gioco, recitando come attori veri e nella prova aperta tenutasi qualche giorno fa davanti agli studenti dell’Ipc Verri, alcuni giovani spettatori avevano gli occhi lucidi”. Ora, dopo il “tutto esaurito” del 2016, la compagnia è pronta ad emozionare il pubblico del teatro Sociale. “È la nostra seconda ‘evasione teatralè - osserva Carnelli. Saliranno sul palco circa cinquanta persone, tra attori e componenti del coro Macramè diretto dal maestro Marco Belcastro”. Nell’iniziativa sono stati coinvolti anche alcuni studenti dell’Istituto cinematografico Michelangelo Antonioni: “Dei nostri progetti, come le cene con delitto all’interno del carcere, solitamente non ci possono essere immagini. Questa volta, invece, avevamo il desiderio che restasse traccia di questo spettacolo. Le riprese testimonieranno anche come sia cambiata l’amministrazione penitenziaria in Italia. Iniziative che affiancano persone esterne ai detenuti dieci anni fa erano estremamente più rare”. Lo spettacolo è in programma mercoledì 10 aprile, con ingresso alle ore 20.30 e inizio alle 21. I biglietti si possono acquistare all’ingresso con una donazione minima suggerita di 12 euro (il ricavato verrà utilizzato a sostegno delle attività artistiche e di risocializzazione dell’associazione L’Oblò) Il ringraziamento di Elisa Carnelli va all’assessore all’Inclusione sociale Miriam Arabini, che “ci ha sostenuto molto, sebbene questo evento riguardi una marginalità. Essere nel teatro della città è importante. È come dire che non ci si può dimenticare di chi ha commesso un reato ma prima o poi ritornerà. È un modo per reintegrare queste persone, simbolico e concreto”. Volterra (Pi): Cene Galeotte, parte la stagione 2019 gonews.it, 3 aprile 2019 Si rinnova l’appuntamento che dal 2006 fa della Casa di Reclusione di Volterra un luogo unico di integrazione e solidarietà. Oltre 16.000 i partecipanti dall’esordio dell’iniziativa, sostenuta da Unicoop Firenze e Fondazione Il Cuore si scioglie Onlus. Tutto pronto per la nuova attesissima edizione delle Cene Galeotte, progetto ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra (PI) e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus, che dal 2006 fa della struttura toscana non solo un luogo unico di integrazione e solidarietà, ma anche un punto di riferimento per tanti altri istituti italiani che propongono oggi analoghi percorsi rieducativi. Ad inaugurare il ciclo di serate venerdì 5 aprile sarà Fabio Bargaglini, talentuoso chef piemontese che guiderà la brigata galeotta di cucina: protagonista da oltre un ventennio della ristorazione italiana, dopo numerose esperienze vissute anche all’estero è dal 2018 Executive Chef presso La Ménagère e Fooo - Florence Out of Ordinary di Firenze, locali nei quali va sviluppando due concetti differenti di cucina contemporanea, volta a valorizzare la naturalità dei prodotti e, in particolare presso il secondo, le filiere certificate per una rappresentazione delle materie prime nella loro forma più pura. Nel 2018, scelto proprio con “Fooo” fra i mille migliori ristoranti al mondo, è stato insignito a Parigi del premio “Nature”, che ben esprime la sua filosofia in cucina. Ad accompagnare il menu ralizzato per la serata saranno le etichette offerte dalla Tenuta di Valgiano (www.valgiano.it) di Lucca, rinomata esponente del panorama vinicolo toscano che prosegue la tradizione che fin dagli esordi dell’iniziativa vede protagoniste delle serate galeotte anche grandi cantine. Le Cene Galeotte confermano inoltre la loro natura solidale: il ricavato di ogni serata - circa 120 i posti disponibili (45 euro il costo a persona, 35 euro per Soci Unicoop Firenze) - è interamente devoluto dalla Fondazione Il cuore si scioglie onlus (www.ilcuoresiscioglie.it) a progetti di beneficenza realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico, che per questa edizione riguarderanno il mondo dell’infanzia. Destinatario della serata del 5 aprile il Dynamo Camp (www.dynamocamp.org) di Limestre (PT), nato nel 2007 e unica struttura italiana di Terapia Ricreativa pensata per ospitare minori le cui vite sono compromesse dalla malattia: un camp concepito per bambini affetti da patologie gravi e croniche principalmente oncoematologiche, neurologiche e diabete. La mission è di offrire gratuitamente a questi bambini un periodo di svago e divertimento e di contribuire a sviluppare in loro la fiducia nelle proprie capacità e nel proprio potenziale. Dynamo Camp offre anche programmi studiati ad hoc per l’intero nucleo familiare e, dal 2012, sessioni interamente dedicate a fratelli e sorelle sani (Sibling camp) nella consapevolezza che la malattia non colpisce solo il bambino malato, ma tutta la sua famiglia. La partecipazione al Camp offre loro un’occasione di confronto con altri vissuti analoghi e di vivere momenti spensierati lontani dalle incombenze della quotidianità. Le Cene Galeotte sono possibili grazie al sostegno economico di Unicoop Firenze, al fianco della struttura carceraria di Volterra fin dalla nascita del progetto, che oltre a fornire gratuitamente le materie prime necessarie alla preparazione dei menu assume regolarmente i detenuti per le giornate in cui sono impegnati nella realizzazione dell’evento. Un successo crescente raccontato dai numeri, con oltre 1.000 partecipanti la scorsa edizione e più di 16.000 visitatori dall’esordio di un’iniziativa che propone ai detenuti un percorso formativo di sala e cucina utile ad acquisire un importante bagaglio professionale: in oltre trenta casi questa esperienza si è infatti tradotta in impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. L’iniziativa è realizzata dalla Casa di Reclusione di Volterra con la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. Ogni serata vede la partecipazione di importanti cantine, i cui vini - offerti gratuitamente - sono abbinati e serviti ai tavoli con il supporto dei sommelier della Fisar- Delegazione Storica di Volterra, dal 2007 partner storico del progetto impegnato anche nella realizzazione di corsi di avvicinamento al vino tesi a favorire il reinserimento dei carcerati. Per info e prenotazioni: Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (Gruppo Robintur), Tel. 055.2345040 Costo: 35 euro Soci Unicoop Firenze, 45 euro per i non soci Web: www.cenegaleotte.it. “Zingari, dovete morire di fame!”. Grida e proteste contro i nomadi a Roma di Edoardo Izzo La Stampa, 3 aprile 2019 C’è chi urla: “Gli zingari non li vogliamo”. Chi si domanda: “Ma i posti letto non sarebbe meglio darli ai terremotati invece che ai rom?”. E infine chi, senza vergogna, minaccia: “Daremo fuoco a tutto”. È ‘ una protesta rabbiosa quella dei residenti di Torre Maura, periferia est della Capitale, che ieri pomeriggio si sono riversati davanti al centro di accoglienza di via dei Codirossoni, per protestare contro il trasferimento di 70 persone, tra rom e sinti, considerate in stato di “fragilità sociale”. Alla base del dislocamento deciso dal Campidoglio la vittoria, da parte dello stabile di Torre Maura, del bando europeo per l’accoglienza. L’edificio in questione sarebbe infatti risultato più funzionale rispetto a quello di via Toraldo, nella vicina Torre Angela. Una struttura quest’ultima abitata per tre anni dalle famiglie rom: dal gennaio 2014 fino a ieri pomeriggio. Tra i manifestanti, circa 250 persone, anche diversi appartenenti di Casa Pound, i fascisti del terzo millennio. Sul posto è intervenuta la polizia di stato in tenuta antisommossa. “Cori e insulti ce ne sono stati, ma non si è mai andati oltre. Non c’è stato contatto fisico né - con noi né con i rom”, spiegano a La Stampa fonti delle forze dell’ordine. Le proteste però sono state molto accese. Durante la rivolta sono stati, infatti, incendiati tre cassonetti dei rifiuti e bloccata la consegna dei pasti all’interno della struttura. Proteste che sconfinano nella violenza, ma anche “del tutto prive di fondamento, in quanto messe in atto contro famiglie che hanno delle gravi fragilità sociali”. “Sono integrati nel quartiere da anni e l’individuazione di quella struttura è utile garantire la continuità dei cicli scolastici per i più piccoli”, spiega la portavoce del Forum del Terzo settore del Lazio, Francesca Danese che parla di veri e propri “atti di intolleranza figli del clima di odio che certa cattiva politica sta alimentando nel Paese”. Maria Vittoria Molinari, dell’Unione sindacale di base (Asia-Usb) sottolinea le responsabilità del Comune di Roma: “La vicenda è stata gestita male in quanto il municipio non è stato informato in tempo del trasferimento e non ha potuto preparare i cittadini che sono stanchi a questo punto delle decisioni dall’alto”. Ancora più critica Angela Barone, presidente del comitato inquilini Isveur Torre Maura, che afferma: “I residenti non sopportano che la zona venga trattata come la discarica di tutti i problemi dei cittadini romani”. Cittadinanza. I “nuovi italiani” della seconda generazione scendono in piazza di Vladimiro Polchi La Repubblica, 3 aprile 2019 L’obiettivo è rilanciare un movimento sullo Ius soli da parte dei figli e le figlie di immigrati. L’appuntamento per una grande manifestazione a Roma il 9 maggio, giorno della festa dell’Unione Europea. “È il momento di riprendere la lotta e di affrontare il tema della cittadinanza in maniera adulta, senza farci più influenzare dai partiti politici”. Riparte il tam tam tra i “nuovi italiani”: si torna in piazza per lo “Ius culturae, la marcia dei diritti”. Mentre le grandi organizzazioni (tra cui Cgil, Arci, Acli) scaldano i motori per rilanciare un movimento sullo Ius soli, i figli e le figlie di immigrati sono già partiti: dal basso, una serie di associazioni si dà appuntamento per una grande manifestazione a Roma il 9 maggio, giorno della festa dell’Unione europea. Ripartiamo dai bambini. Il caso di Rami e Adam, i giovani eroi del bus di San Donato Milanese, ha riproposto il tema dello ius soli. O meglio di quella forma molto limitata, affossata in Senato nella scorsa legislatura: la possibilità per i nati in Italia da genitori stranieri di richiedere la cittadinanza (a determinate condizioni: frequentare un ciclo scolastico quinquennale o avere un genitore “soggiornante di lungo periodo”) senza dover attendere i 18 anni. A rilanciare il tema sono oggi associazioni (da Cara Italia a Neri Italiani) e tanti figli di immigrati, con un manifesto pubblicato su Facebook (al quale hanno aderito anche Sinistra europea e Rifondazione comunista). “Una grande marcia per i diritti”. “Pensiamo sia giunto il momento di riprendere la lotta e di affrontare il tema della cittadinanza in maniera adulta, senza farci influenzare dai vari partiti politici - scrivono i promotori - pensiamo di organizzare, per il prossimo 9 maggio, una grande marcia per i diritti. Abbiamo scelto di creare un ponte tra due date significative: il 9 maggio è la festa dell’Unione europea. E non solo. Vogliamo lanciare, dal prossimo 9 maggio al 2 giugno 2019, una serie di iniziative che riportino in Parlamento il tema della riforma dello ius culturae. Vogliamo che quella riforma sia approvata, vogliamo che l’iter per la richiesta di cittadinanza, come minimo, sia riportato al limite di due anni. Vogliamo, ancora, che il contributo economico necessario per una richiesta di cittadinanza sia riportato ai livelli standard europei”. Un milione di “invisibili”. “Non riconoscere la cittadinanza a coloro che sono nati o cresciuti nel nostro paese con origine diversa vuol dire negare la realtà: ovvero che l’Italia è da sempre uno stato multiculturale dove la radicata identità nazionale e locale deve dialogare con una molteplicità di culture diverse all’interno di una compagine di valori condivisi. Ancora una volta è come se quel milione di italiani che vede negato un diritto fondamentale, non contasse nulla. La lotta per l’estensione del diritto di cittadinanza è una lotta giusta, che va nella direzione dell’eliminazione delle diseguaglianze sociali e politiche. È una battaglia sacra per il bene di questo nostro Paese”. Migranti. La Libia avverte le ong: “Non entrate nelle nostre acque” La Repubblica, 3 aprile 2019 Avviso della Marina e della Guardia costiera libica alle ong: “Non entrate nelle nostre acque territoriali e non intervenite vicino alle nostre coste”. Lo riporta il sito Libyan Observer. Le autorità libiche citano il dirottamento del mercantile dello scorso 27 marzo, criticando “il silenzio della comunità internazionale e dell’Unione Europea sulla condotta di alcuni migranti”, che potrebbe indurre “gruppi armati in futuro a fingere di essere migranti e fare lo stesso atto di pirateria una volta soccorsi”. “Il ripetuto comportamento criminale di migranti illegali contro l’equipaggio di navi di soccorso - prosegue Libyan Observer riportando le dichiarazioni di Marina e Guardia costiera - è molto preoccupante e dimostra che il sistema di ricerca e soccorso è collassato nel Mediterraneo fornendo alle navi civili il pretesto per rifiutare di portare i migranti in Libia”. “Noi - spiegano le autorità di Tripoli - chiediamo all’Onu e alla Ue di spingere i Paesi confinanti con la Libia a chiudere i propri confini ai migranti illegali e ad aiutare a velocizzare i rimpatri”. La presa di posizione libica avviene mentre si avvicina la “stagione dell’immigrazione illegale verso l’Europa” e le Ong, si legge sul sito, “non dovrebbero intervenire in mare per indurre i migranti, in coordinamento con i trafficanti di uomini, a fare il rischioso viaggio”. Stati Uniti. Giudici spaccati sulle ultime ore dei condannati a morte di Marina Catucci Il Manifesto, 3 aprile 2019 Il caso di un detenuto musulmano in Alabama che denuncia la violazione dei suoi diritti religiosi perché gli è stato negato un imam nella camera dell’esecuzione. La Corte suprema degli Stati Uniti sembra essere nel mezzo di una battaglia pubblica su come debba essere applicata la pena di morte; i giudici si sono divisi riguardo l’esecuzione di un detenuto musulmano condannato in Alabama, Domineque Ray, il quale aveva affermato che i suoi diritti religiosi venivano violati in quanto non aveva potuto avere un imam che stesse con lui nella camera dell’esecuzione. Recentemente ci sono stati altri due casi che hanno sollevato la questione dei diritti dei condannati nelle loro ultime ore: uno riguardava la richiesta di un consulente spirituale buddista nella camera dell’esecuzione, e nell’altro il detenuto sosteneva che un’iniezione letale gli avrebbe causato una “grave sofferenza” in quanto soffriva di una malattia rara. Il dibattito tra i giudici si è esteso e gli esperti temono che l’arrivo del controverso giudice super conservatore Brett Kavanaugh, e la generale nuova tendenza del tribunale, possano accrescere le tensioni intorno ai casi di pena capitale. “Le divisioni in tribunale potrebbero diventare sempre più profonde - ha dichiarato alla Cnn Jessica Levinson, professore alla Law School di Loyola - Nei prossimi anni la Corte rischia di spostarsi molto a destra e questi tre casi di pena di morte possono dimostrare i crescenti dolori di un’istituzione che si allontana dal centro ideologico”. Gli attriti all’interno della Corte hanno spesso riguardato i protocolli di iniezione letale e le richieste dell’ultimo momento, ora però, ha osservato Deborah Denno, professore di diritto della Fordham University, si iniziano “a vedere i conflitti tra i giudici scatenarsi su temi e in modi insoliti”. Nel caso di Ray la maggioranza conservatrice della corte aveva fornito poche motivazioni riguardo la decisione di procedere con l’esecuzione senza un imam visto che il carcere dell’Alabama consente un cappellano cristiano nella stanza, ma i funzionari hanno bloccato l’imam sostenendo che solo i dipendenti della prigione possano essere presenti, per motivi di sicurezza. L’undicesima Corte d’Appello del Circuito degli Stati Uniti aveva concesso una sospensione dell’esecuzione, revocata però dall’Alta Corte che si è giustificata dicendo che il condannato aveva aspettato troppo a lungo prima di richiedere la presenza di un religioso. La decisione è passata con un voto 5 a 4 ma la discussione non è terminata in quanto la minoranza democratica della Corte vede una pericolosa deriva di pressapochismo destrorso in un tema delicato come quello della pena di morte, non più così popolare negli Usa. Secondo il giudice Stephen Breyer nel caso di Ray la maggioranza ha agito con fretta inutile e colpevole: “Credo che non ci sia modo di giustiziare un prigioniero rapidamente se gli si vogliono assicurare le protezioni che la nostra Costituzione garantisce”, ha scritto nella sua dichiarazione finale. Cecenia. Agenti russi (ancora) sotto accusa per torture nelle prigioni di Fabio Polese osservatoriodiritti.it, 3 aprile 2019 Un nuovo report del Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa accusa le forze di sicurezza di Mosca per le torture sistematiche compiute dagli agenti in Cecenia ai danni dei detenuti. Una situazione diffusa anche ad altri Paesi del Caucaso settentrionale. Un recente rapporto redatto dal Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (Cpt) riapre la questione della tortura sistematica nelle prigioni in Cecenia da parte degli agenti delle forze di sicurezza di Mosca. Il Cpt ha esortato le autorità della Federazione russa ad adottare misure incisive per sradicare questo triste fenomeno e a “svolgere indagini efficaci ogni qualvolta emergano informazioni relative a questi episodi”. “Per il Cpt, è motivo di grande preoccupazione il fatto che, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi venti anni, la tortura dei detenuti nella Repubblica cecena continui ad essere un problema profondamente radicato”, ha spiegato Mark Kelly, vicepresidente del Cpt e capo della delegazione dei controlli fatti nel 2017 dall’organizzazione nella Repubblica cecena della Federazione russa. “Non costituisce unicamente un’inadempienza degli obblighi da parte delle autorità della Repubblica cecena, ma ugualmente un’omissione del dovere di sorveglianza e controllo effettivi”, ha aggiunto. Autorità immobili di fronte alle torture in Cecenia - Diverse persone detenute incontrate dalla delegazione hanno sostenuto che quando si sono lamentate per i maltrattamenti ricevuti, le autorità non avrebbero intrapreso nessuna azione, né manifestato alcun interesse. Anche se i segni erano evidenti e c’erano “lesioni visibili su più parti del corpo”. Alcuni detenuti, spiega la relazione, hanno sostenuto che quando hanno informato gli investigatori di essere stati sottoposti a maltrattamenti fisici e costretti dagli agenti a firmare una confessione falsa, sono stati maltrattati di nuovo. Esami medici fatti in ritardo - Spesso gli esami medici di chi denuncia un maltrattamento non sono eseguiti. E anche quando vengono fatte, viene lasciato passare del tempo. Anche perché solo i medici ufficialmente designati dalle autorità possono eseguire questi servizi. Proprio per questo il Cpt ha sottolineato “l’importanza del ruolo che deve essere svolto da medici legali nelle indagini su casi che potrebbero comportare maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine”. Questa situazione ha portato molti detenuti a non voler più denunciare gli abusi. La paura, hanno spiegato al Comitato anti-tortura in molti, sarebbe quella di ricevere ulteriori violenze fisiche. Maltrattamenti e torture non solo in Cecenia - Dalle informazioni raccolte dal comitato nel corso delle varie visite nel Paese, si evince che ricorrere alla tortura e ad altre forme di maltrattamento da parte di membri delle forze dell’ordine nella Repubblica cecena resta una pratica diffusa, così come quella correlata di detenzioni illegali, che inevitabilmente aumenta a sua volta significativamente il rischio di ricorrere a maltrattamenti. Inoltre, si legge nel comunicato diffuso, “rimane profondamente preoccupante che nelle loro risposte ai rapporti di visita del Cpt, le autorità russe non abbiano riconosciuto la gravità della situazione”. La pratica dei maltrattamenti della polizia, inclusa la tortura, sembrerebbe non essere esclusiva di questa repubblica della Federazione Russa. Questo problema, infatti, ha spiegato il Cpt, è stato più volte evidenziato nei confronti di altre repubbliche della regione del Caucaso settentrionale. Amnesty International: denunce di vecchia data - Le violenze della polizia russa e l’impunità di cui gode sono anche il tema di un lungo rapporto di Amnesty International del lontano 2006, Russian Federation: Torture and forced confessions in detention (Federazione Russa: tortura e confessioni forzate in detenzione). Anche in questo studio viene evidenziato che il problema non è limitato solo alla Cecenia. La procura russa, responsabile delle indagini relative a casi di tortura da parte della polizia - ma anche delle stesse indagini in cui la tortura viene usata - è stata criticata dalla Corte europea dei diritti umani per la sua inefficacia più volte. L’invito del Cpt alla “tolleranza zero” - Per l’ennesima volta il Cpt ha invitato le autorità russe a consegnare, ad intervalli regolari, un piano di lavoro completo di “tolleranza zero sulle torture”, anche a livello politico. “Come sottolineato in passato dal Comitato - si legge nel rapporto - la migliore garanzia possibile contro i maltrattamenti è che gli stessi funzionari di polizia respingano inequivocabilmente il ricorso a questi metodi”. Questo implica anche “rigorosi criteri di selezione al momento dell’assunzione, nonché la messa a disposizione di una formazione professionale adeguata che tenga conto dei principi dei diritti dell’uomo”. Eritrea. L’Ue è accusata di finanziare progetti che utilizzano “lavori forzati” di Sara Creta La Repubblica, 3 aprile 2019 La diaspora eritrea chiede trasparenza sui fondi utilizzati nel Paese del Corno d’Africa e si prepara a intraprendere azioni legali contro l’Unione Europea. La Fondazione di difesa dei Diritti Umani per gli eritrei, un’organizzazione con sede in Olanda e composta da Eritrei esiliati, sta intraprendendo azioni legali contro l’Unione Europea. In una lettera inviata oggi alla commissione Europea, si chiede di fermare immediatamente un finanziamento di 20 milioni di euro alle società di proprietà del governo eritreo con l’accusa di contribuire a normalizzare la pratica di “lavoro forzato”, di fatto utilizzando eritrei costretti al servizio militare obbligatorio. Tempo due settimane per una risposta dalla commissione, se l’UE non accetta, la Fondazione intraprenderà misure giuridiche successive. Venti milioni per le infrastrutture. Il Fondo fiduciario europeo di Emergenza per l’Africa In Eritrea, l’UE si sta impegnando a spendere 20 milioni di euro come parte del suo fondo fiduciario di emergenza per l’Africa, anche chiamato “Trust Fund”, per finanziare con rapidità iniziative per “affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari”. Il progetto prevede il miglioramento della rete stradale in Eritrea e in particolare il ripristino della strada principale Nefasit-Dekemhare-Senafe-Zalembessa, per facilitare il trasporto di merci tra Etiopia e i porti eritrei, ma anche il collegamento verso il confine con la città di Kassala in Sudan e l’Etiopia (dal confine di Humera). Quella strada per l’accesso al mare dell’Etiopia. Durante la sua visita dello scorso marzo, il commissario Europeo per la cooperazione internazionale e lo sviluppo Neven Mimica, aveva sottolineato: “Tale progetto servirà a connettere il confine dell’Etiopia con i porti dell’Eritrea, inoltre creerà nuovi posti di lavoro”. La gestione del progetto prevede il coinvolgimento indiretto e la supervisione tecnica dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi ed i progetti (Unops). La manodopera utilizzata dalle imprese di costruzione sarà composto da tre tipologie di personale: professionisti governativi permanenti; chi sta svolgendo il servizio nazionale; e chi verrà mobilitato grazie al coinvolgimento di comunità locali. I coinvolti in attività “illegali” e “grigie”. Makeda Saba, ricercatrice universitaria di origine eritrea, sottolinea che il programma di aiuti dell’UE all’Eritrea non può essere attuato senza il coinvolgimento della leadership del paese: “L’UE afferma che collaborerà con la Red Sea Trading Corporation - che è interamente posseduta e gestita dal partito di governo.” Il gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite su Somalia ed Eritrea ha definito la Red Sea Trading Corporation, una società coinvolta in attività “illegali” e “grigie” nel Corno d’Africa, compreso il commercio illegale di armi: una rete labirintica multinazionale di società, privati e conti bancari. Nel 2017, il gruppo di monitoraggio ha collegato la Corporation alla violazione dell’embargo sulle armi in Eritrea. Servizio Nazionale obbligatorio e crimini contro l’umanità. In Eritrea, in migliaia sono sottoposti al Servizio Nazionale obbligatorio: forzatamente arruolati per periodi indefiniti, una pratica che le Nazioni Unite hanno condannato come “schiavitù” e “crimine contro l’umanità”. Nel maggio 2002 il governo ha legittimato la proroga di durata indeterminata del servizio nazionale con una decisione in virtù della quale ha creato, con la Warsay Yikealo Development Campaign, un programma nazionale (civile) di sviluppo. Nel 2016, la Commissione d’inchiesta dell’ONU sui diritti umani in Eritrea aveva denunciato crimini di schiavitù, prigionia, sparizioni forzate, tortura, persecuzioni, stupri, omicidi e altri atti inumani “in una campagna per provocare paura e scoraggiare l’opposizione”. Inoltre, lo scorso marzo, il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha pubblicato una relazione dettagliata dove chiede al governo Eritreo di indagare sulle accuse di omicidi extragiudiziali da parte delle sue forze di sicurezza e dare spiegazioni sulle decine di detenuti spariti, tra cui un ex ministro delle finanze Berhane Abrehe e sua moglie Almaz Habtemariam. La diaspora eritrea. Mulueberhan Temelso, attivista eritreo per i diritti umani e leader della Fondazione di difesa dei Diritti Umani per gli eritrei vive in Olanda da 2 anni: “Se scappiamo è perché nel nostro paese i nostri diritti non vengono rispettati. Sono stato costretto a lavorare per il governo per 11 anni, lontano dalla mia famiglia, senza poter scegliere o decidere della mia vita e seguire le mie ambizioni.” Scappato prima in Etiopia - dove è rimasto in un campo rifugiati - poi in Sudan ed infine in Libia, dal 2015 è impegnato in quella che lui definisce una lotta per sconfiggere il silenzio: “Ogni persona nel servizio nazionale è intrappolata in condizioni estremamente difficili, incapace di crescere i propri figli ed obbligata ad un salario che non arriva ai 20 euro mensili. Dobbiamo dire basta al servizio nazionale obbligatorio. Basta a queste violazioni!” Scappare da un futuro senza futuro. Miela ha 36 anni, quando ne aveva 17 - senza terminare gli studi - è stato costretto a iniziare il servizio militare. Destinazione Sawa, un durissimo campo di addestramento militare. 13 anni di lavori forzati, e un anno e due mesi in prigione per aver tentato la fuga. Il 23 maggio 2013, mentre i comandanti stanno festeggiando l’indipendenza, viene pianificata la fuga dalla cella sotterranea di Mietir, dove Miela era stato rinchiuso come disertore ad una temperatura che toccava anche i 45 gradi. “Abbiamo corso per 8 ore, siamo arrivati a Gahtielay e abbiamo continuato fino a Asmara in autobus. Il nostro obiettivo era scappare. Siamo arrivati nella notte a Tesseney e abbiamo attraversato il confine. Ci hanno chiesto 1000 dollari fino a Khartoum in Sudan”. L’accordo di pace ha portato ottimismo. Nel luglio dello scorso anno, l’Eritrea e l’Etiopia hanno firmato uno storico accordo di pace che termina 20 anni di conflitto. Definito una grande opportunità per lo sviluppo economico e la stabilità nella regione, l’accordo ha riaperto i confini tra i due paesi. Centinaia di Eritrei continuano a raggiungere l’Etiopia via terra e circa 300 rifugiati eritrei al giorno sono registrati oltre confine. Il servizio nazionale rimane una delle motivazioni che causa l’esodo forzato dall’Eritrea. Con la firma dell’accordo di pace si sperava che il servizio militare sarebbe tornato al suo periodo originale di 18 mesi, ma per il momento nulla è cambiato. Afghanistan. Quelle frustate sul burqa e il nostro silenzio di Marta Serafini Corriere della Sera, 3 aprile 2019 Un filmato diffuso in rete mostra i talebani torturare donne colpevoli di aver ascoltato musica. Nonostante le trattative gli attacchi non cessano ma nessuno sembra preoccuparsi per i diritti femminili, già fragili. Colpite con una cinghia, sul burqa blu. Mentre loro inermi non trovano nemmeno la forza di lamentarsi o ribellarsi. Intorno, un gruppo di uomini assiste allo spettacolo. Loro, le donne, sono “colpevoli” di aver ascoltato musica. Il filmato postato su Facebook proviene dalla provincia settentrionale del Noristan e non rappresenta certo un documento inedito. Nelle zone controllate dai talebani - più del 50 per cento del Paese - le donne sono sottoposte ancora alla sharia, sono obbligate a indossare il burqa, non possono studiare. E non possono ascoltare musica. È così da decenni ed è ancora così nel 2019, dopo decenni di guerra. Quello che lascia attoniti è che, dopo l’annuncio del presidente Trump che ha parlato di ritiro delle truppe, a parte un debole lamento da parte della comunità internazionale sui timori che i già fragili diritti delle donne afghane possano essere messi ulteriormente in pericolo, nulla più è successo. Nel frattempo i talebani si sono seduti al tavolo delle trattative per negoziare. Ma non smettono di attaccare - è notizia di oggi l’uccisione di otto membri delle forze di sicurezza afghane. E tantomeno smettono - e nemmeno danno segni di volerlo fare - di massacrare le donne afghane. Ruolo e diritti delle donne non sono invece nell’elenco dei temi oggetto di negoziato, né lo saranno. Intanto sul piano politico pesa l’ennesimo rinvio delle elezioni presidenziali, previste per il 20 aprile e già rinviate una volta e slittate al 28 settembre. Cina. Nella vita a punti i “poco” virtuosi non possono viaggiare in treno di Simone Pieranni Il Manifesto, 3 aprile 2019 Solo a marzo mille casi di cittadini privati della libertà di movimento per punizione. Una forma di controllo sociale che entrerà a pieno regime nel 2020. Nel mese di marzo mille persone circa si sono viste negare la possibilità di comprare biglietti di treno e aereo, a causa del proprio punteggio sociale. Il controverso sistema dei crediti sociali cinesi miete altre vittime confermando la propria natura sanzionatoria. Si tratta di progetti pilota in diverse zone della Cina a fronte di un sistema di “black list” che sembra ormai attivo su scala nazionale. Pendenze amministrative o penali determinano la diminuzione o meno del proprio “punteggio” iniziale (che varia da regione a regione) finendo per avere ripercussioni che per ora sembrano concentrarsi sulla libertà di movimento. Non è la prima volta che si registra la perdita del diritto ad acquistare biglietti di treni o aerei, mentre i media statali tendono a sottolineare i vantaggi di un comportamento virtuoso (come l’esenzione dai “depositi” in casi di prenotazioni alberghiere). Ancora in fase di sperimentazione il sistema potrebbe entrare a pieno regime nella capitale cinese già dal 2020. Secondo i suoi detrattori si tratterebbe di un’ulteriore forma di controllo da parte dello Stato cinese, architettato con la scusa di richiedere ai propri cittadini comportamenti “virtuosi” in grado di aumentare la fiducia tra cittadini e istituzioni.