Quegli uomini che odiano le donne forse si possono recuperare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2019 Recuperare gli uomini che maltrattano le donne si può. Dopo essere stato avviato in via sperimentale, il progetto della Regione Piemonte per cercare di riabilitare gli autori di violenza contro le donne diventa strutturale: entro il 31 maggio gli enti locali, le organizzazioni titolari dei Centri antiviolenza iscritti all’apposito albo regionale, tutti coloro che sono impegnati nella promozione e realizzazione di interventi e attività a favore degli autori della violenza potranno presentare domanda per accedere a finanziamenti che ammontano complessivamente a 100.000 euro. L’assessora regionale ai Diritti sostiene che si intende rendere questi uomini non più un pericolo per le donne che hanno maltrattato, dato che quando escono dal carcere vanno spesso a cercare di nuovo le proprie vittime, diventano stalker, minacciano o si accaniscono verso di loro nei modi più violenti. Fino ad oggi le associazioni specializzate in questo tipo di interventi hanno preso in carico 280 uomini con l’obiettivo di restituire alla società persone non più pericolose ma in grado di gestire la loro aggressività. Alcuni esempi: 60 detenuti nel carcere di Torino, 45 in quello di Vercelli e 15 in quello di Biella con condanna definitiva a sfondo sessuale beneficiano di un programma specifico; le otto associazioni che si sono occupate di portare avanti questo lavoro fuori dal penitenziario (Cerchio degli uomini, Consorzio socio-assistenziale cuneese, Spam-Paviol, Consorzio socio- assistenziale Ossola, Medea, Gruppo Abele, Elios Coop e Punto a capo) hanno in carico 162 persone. Di queste, sette su dieci sono italiane e in sette casi su dieci si tratta di mariti o conviventi delle vittime. I numeri - Secondo gli ultimi dati Istat Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner. La maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%). In particolare, per il 41,7% è stata la causa principale per interrompere la relazione, per il 26,8% è stato un elemento importante della decisione. Il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini non partner: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. In particolare, il 6,3% da conoscenti, il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro. Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%). Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti). Sempre secondo l’Istat le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%) e ucraine (33,2%) subiscono più violenze. Le donne straniere, contrariamente alle italiane, subiscono soprattutto violenze (fisiche o sessuali) da partner o ex partner (20,4% contro 12,9%) e meno da altri uomini (18,2% contro 25,3%). Le donne straniere che hanno subìto violenze da un ex partner sono il 27,9%, ma per il 46,6% di queste, la relazione è finita prima dell’arrivo in Italia. Non solo prigione, ma recupero. Gli uomini che odiano le donne, però, si possono e si devono recuperare, per questo in Italia sono nati dei centri di ascolto che tentano di contrastare il fenomeno della violenza sulle donne partendo dalla riabilitazione dei colpevoli, offrendo loro una serie di colloqui individuali e, in seguito, la partecipazione a gruppi di confronto, condotti da operatori sanitari. Il primo centro di ascolto degli uomini matrattanti (Cam) nasce a Firenze nel 2009 ed è appunto il primo centro italiano ad occuparsi della presa in carico di uomini autori di violenza nelle relazioni affettive attraverso percorsi volti all’assunzione di responsabilità del comportamento agito al fine di garantire maggiore sicurezza a donne e bambini. Lavora in stretta collaborazione con Servizi/ Enti/ Istituzioni territoriali. Fa parte della rete nazionale Relive (Relazioni Libere dalle violenze) e della rete europea Wwp En (Work With Perpetrators) dei programmi per autori. La tipologia di uomini che arrivano nei contesti Cam volontariamente hanno un livello culturale e sociale molto vario. Nel contesto carcerario, invece, sono molti di più gli uomini che hanno un livello sociale e culturale basso e che hanno scarsa dimestichezza con il loro mondo emotivo. La rabbia, ad esempio, è presente nelle interazioni non sempre in modo sentito e gestibile, più spesso in modo esplosivo o, al contrario, represso, non sempre gli uomini sono in grado di riconoscerla o di vedere oltre quell’emozione. Quasi tutti i detenuti contestano, se non in toto almeno in buona parte, la condanna ricevuta negando, minimizzando, non riconoscendo il reato. Anche quando ammettono di aver fatto qualcosa, la condanna è vissuta come sproporzionata, esagerata e si sentono delle vittime. Il senso di ingiustizia legato a quanto stanno scontando è difficile da abbassare. La vittima del loro comportamento, ai loro occhi, è rimasta impunita, c’è la convinzione che abbia contribuito attivamente a che si creasse la situazione in cui si è consumato il reato. Questo senso di ingiustizia viene rinforzato dalla condizione carceraria. Dentro il carcere, uomini e donne vivono delle situazioni di privazione e limiti che li vittimizza con il risultato che l’essere realmente vittima ostacola il considerarsi autore. Un carcere impone, per sua natura, dei limiti e delle privazioni, rispetto alla libertà personale, ma spesso si verificano livelli di coercizione, di violenza, di burocrazia che niente hanno a che fare con il mantenere comunque sempre prioritario un assetto istituzionale umano e rieducativo. Per questo motivo alcuni Cam sono entrati in carcere, soprattutto quello fiorentino, creando nel limite del possibile delle sezioni di studio e di ascolto. Ma non tutte le carceri sono aperte a questo tipo di recupero, per questo la strada è ancora in salita. Difesa e turbamento di Guido Salvini Il Foglio, 30 aprile 2019 Ora la legge sulla legittima difesa impone al giudice la comprensione della psiche. Una novità complessa. Non voglio esprimermi né a favore né contro la legge sulla legittima difesa, non è compito dei magistrati, ma certo la riforma, esaltata dal governo come un successo politico atteso da anni, pone problemi che probabilmente non sono stati nemmeno presi in considerazione da chi l’ha scritta. Sinora, piacesse o no, l’interpretazione degli artt. 52 e 55 del Codice penale era abbastanza semplice, nei limiti in cui è semplice decidere su avvenimenti comunque tragici. La possibilità di riconoscere la non punibilità si basava su dati oggettivi, verificabili abbastanza facilmente. La chiave di interpretazione era la proporzione tra la potenziale offesa e la difesa. Quest’ultima era legittima se in quel preciso momento era necessario difendere l’incolumità propria o altrui e anche i propri beni qualora l’aggressore non desistesse. Anche nei confronti non solo del violentatore, quindi, ma anche del ladro che, scoperto in casa, non scappa. Invece non era legittima se il danno temuto era modesto e inadeguato al danno che si poteva recare all’aggressore. Tutto qui. Era una norma imperfetta? Probabilmente sì, come quasi tutte, ma applicabile in modo accettabile con un po’ di buon senso. Con la riforma che il presidente della Repubblica ha firmato con qualche perplessità e accompagnandola da un messaggio che ricorda come non debba comunque indebolire la prevalente responsabilità dello stato nel tutelare la sicurezza dei cittadini, decidere se la difesa sia stata legittima o no è un giudizio che non discenderà più solo dalla dinamica oggettiva di quanto è successo ma riguarderà soprattutto la soggettività, in sostanza la psiche di chi si è difeso e ha ritenuto di poterlo fare. Ora il confine diventa psichico. Non è punibile chi ha reagito comunque in uno stato di “grave turbamento”. Ma questa è una condizione che non è uguale per tutti e sulla quale, almeno per un giudice, non è facile indagare. Quella parte del nostro cervello, l’amigdala come ha ricordato un neurologo dalle pagine del Corriere, che si attiva nelle improvvise situazioni di paura produce comportamenti diversi e imprevedibili. La reazioni che in una situazione di paura si realizzano in una manciata di secondi possono essere la fuga, l’attacco, addirittura fingersi morti come fanno alcuni animali per sfuggire ai predatori. Vi sono persone in grado di “processare”, come si dice in termini scientifici, anche in pochi attimi i propri comportamenti e organizzare la reazione più adeguata, i militari ad esempio. Mentre altri soggetti no e reagiscono al primo segnale che il cervello invia. Intervengono in queste scelte anche gli schemi culturali di cui la persona è portatrice. Sostenere, come si è cercato di dire, che comunque il concetto di “grave turbamento” non possa essere invocato soggettivamente ma debba essere riconosciuto oggettivamente è un semplice gioco di parole. In realtà quello che si chiederà d’ora in poi è la comprensione della psiche di chi agisce. Un’indagine che il giudice da solo non è in grado di fare. Sarà necessario quasi in ogni processo rivolgersi alle neuroscienze per capire con perizie e test, oggi ce ne sono di molto avanzati, se vi sia stato il turbamento, se sia stato “grave” e in caso positivo, tenuto conto della struttura psichica e della cultura del soggetto, quali spazi di scelta abbia lasciato in quei momenti. Non è detto che la novità sia un male, forse può essere anche uno stimolo. Le neuroscienze stanno entrando sempre di più nel processo penale, ad esempio anche quando si tratta di giudicare la capacità di intendere e di volere. Basta saperlo. Ma non credo che chi ha scritto la legge, contando su una vittoria politica da esibire, avesse la minima idea dei problemi che andava ponendo e delle conseguenze che, al di fuori della propaganda, vi saranno nelle aule. *Magistrato Stato-Mafia. “Non siamo qui per scrivere la storia ma per fare un processo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2019 Il presidente della Corte d’Assise d’Appello Angelo Pellino ha aperto le udienze sulla famigerata “trattativa”. “Non si può riscrivere la storia di un Paese guardando dal buco della serratura di un processo. Se questo dovesse capitare non è cercato né dovuto”. È iniziato così, con una premessa irrituale, la relazione introduttiva del presidente della corte d’assise d’appello Angelo Pellino. Una premessa che ha chiarito come sarà l’evoluzione del processo: il giudice non avrà la pretesa di riscrivere la Storia, ma solo accertare o meno i fatti per i quali sono stati condanni gli imputati. Però se ciò dovesse accadere, non sarà un fatto voluto. Quindi, non lo esclude. Parliamo del processo d’appello sulla presunta trattativa Stato-Mafia iniziato ieri con la presenza in aula dei sostituti pg Giuseppe Fici e Sergio Barbieri. Presenti in aula gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, accompagnati dai legali Basilio Milio e Francesco Romito. Non è presente il generale Antonio Subranni, ma è rappresentato dal legale Cesare Placanica. In aula anche i legali di Massimo Ciancimino, Roberto D’Agostino e Claudia D’Agostino. Presente il collegio difensivo di Marcello Dell’Utri rappresentato da Francesco Centonze. La Corte ha programmato fino al 22 luglio le udienze, per arrivare a svolgere i primi adempimenti, tra cui la decisione sull’eventuale riapertura del dibattimento. In apertura dell’udienza, il legale di Massimo Ciancimino ha annunciato la rinuncia del suo assistito a presenziare in aula: è stato colpito da un ictus mentre era detenuto. “Nei giorni scorsi è caduto, ha perduto più volte l’orientamento ed ha avuto problemi gravi all’eloquio e ha una paresi parziale al lato sinistro”, ha fatto sapere D’Agostino. Il Dap, al contrario, però aveva fatto sapere che Ciancimino è vigile. L’avvocato ha comunque presentato la cartella clinica in tribunale e anche “l’istanza affinché la Corte disponga una perizia per accertare se Massimo Ciancimino possa partecipare, coscientemente, alle udienze”. Dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal legale di Totò Riina, morto nel novembre 2017 e quindi prima della sentenza di primo grado. L’avvocato intendeva chiedere un’assoluzione nel merito, invece dell’estinzione del reato per la morte del reo. Le condanne di primo grado - Esattamente un anno fa il presidente della Corte di assise Alfredo Montalto leggeva il verdetto nell’aula bunker del carcere Pagliarelli: dodici anni di carcere per gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina; otto gli anni all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno; ventotto anni al boss Leoluca Bagarella; prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. L’unico politico condannato è Dell’Utri, mentre l’ex ministro Nicola Mancino è stato assolto per l’accusa di falsa testimonianza. Calogero Mannino, invece, aveva scelto il rito abbreviato e al primo grado è stato assolto, mentre attende a breve anche il verdetto dell’appello. Da ricordare che, secondo la tesi giudiziaria, sarebbe stato proprio Mannino a dare il via alla presunta trattativa. In che cosa consiste la tesi sulla presunta Trattativa, accolta sostanzialmente dal giudice di primo grado? La presunta trattativa sarebbe nata in un contesto ben preciso. Dopo la conferma in Cassazione del gennaio 1992 delle pesanti condanne inflitte dai giudici del maxiprocesso, Cosa nostra avrebbe reagito realizzando un programma stragista avente come fine ultimo la ricostruzione di un rapporto di pacifica convivenza tra il mondo mafioso e quello politico: le stragi costituivano uno strumento necessario per piegare psicologicamente il ceto politico di governo e ottenere dei favori. Il piano stragista sarebbe iniziato con l’omicidio del parlamentare Salvo Lima nel marzo del 1992 e prevedeva anche l’uccisione di Giulio Andreotti, Claudio Martelli, Calogero Mannino e altri. Così sarebbe nata l’iniziativa dei Ros - sollecitata, secondo i pm, da Calogero Mannino - di contattare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino come possibile tramite di comunicazione con il vertice mafioso corleonese. Questa presa di contatto, rivelata fin dal 1993 dagli stessi ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno (ma per altri motivi, ovvero per arrivare all’arresto dei latitanti), avrebbe avuto la finalità di tentare qualche strada per far desistere la mafia dal portare a termine le azioni criminali programmate: è in questo momento che Ciancimino avrebbe consegnato il famoso papello contenente richieste specifiche per trattare con lo Stato. È l’unica prova scritta, però la stessa sentenza prende atto che è un falso, una vera e propria patacca, ma aggiungendo che non si può escludere che il vero papello esista. Quindi per la corte di primo grado il papello, anche se non se ne trova traccia, esiste ed è la prova incontrovertibile della trattativa visto che l’allora Ministro Conso avrebbe agito in conformità delle direttive. Quali? Il mancato rinnovo del 41 bis ai 334 detenuti. Ma egli, come ha anche ricordato Luciano Violante - all’epoca dei fatti presidente della commissione antimafia - ha sempre detto che la sua scelta era basata su una sentenza della Consulta, la numero 1349 del 28 Luglio del 1993. Ritornando alla tesi principale della trattativa, il test chiave era rappresentato da Massimo Ciancimino, il figlio di “Don Vito”, ed è colui che non solo ha prodotto il papello - poi considerato un falso - ma è colui che ha raccontato, da testimone, i colloqui dei contatti tra gli ex Ros e il padre. Eppure era stato definito dai giudici che assolsero Mori nel precedente processo “clone” sulla trattativa, una persona inattendibile. Nel processo sulla trattativa è stato, infatti, condannato per calunnia. Caso Regeni, l’Aula è vuota nel giorno della Commissione d’inchiesta di Dino Martirano Corriere della Sera, 30 aprile 2019 Lunedì a Montecitorio erano presenti solamente 19 deputati che, alla fine, hanno dato tutti parere positivo. Governo indeciso su autonomia regionale differenziata e sui nuovi membri del direttorio della Banca d’Italia. Si discuteva sulla Commissione d’inchiesta per il caso Regeni. Ma in Aula c’erano solo una manciata di deputati: erano in 19. “Colpa” del maxi ponte, che tra Pasqua e Primo maggio ha regalato ai deputati una vacanza ancora più lunga del previsto. Anche la Lega ha dato il via libera alla Commissione d’inchiesta. Che avrà 12 mesi di tempo per “chiarire le responsabilità che hanno portato alla morte di Giulio Regeni” e dovrà “verificare fatti, atti e condotte commissive e omissive che abbiano costituito o costituiscano ostacolo, ritardo, o difficoltà”. Interruzione ancora più lunga al Senato, dove, grazie all’intreccio tra le due festività e all’accordo tra tutti i capigruppo, la prossima seduta è fissata per il 13 maggio, mentre tra il 6 e il 10 maggio gli spazi saranno riservati alle commissioni. Governo indeciso, per non dire in confusione, su autonomia regionale differenziata e sui nuovi membri del direttorio della Banca d’Italia. Alle 21, al termine della trasferta a Tunisi del premier Giuseppe Conte e dei suoi due vice, si riunisce il Consiglio dei ministri: saltato per ora il varo della legge delega sulla giustizia penale e civile del Guardasigilli Alfonso Bonafede, stasera l’attenzione si dovrebbe concentrare sui pareri che il governo deve dare entro il 10 maggio per rendere operativo il direttorio di Bankitalia rinnovato, su proposta del governatore Visco, il 28 marzo. M5S e Lega non hanno ancora trovato l’intesa sui nomi (Franco, Signorini, Panetta, Perrazzelli). Luigi Di Maio e Matteo Salvini, la partita grossa se la giocano in queste ore sull’autonomia chiesta da Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e, da ultimo, dal Piemonte. Le prime tre intese, annunciate lo scorso 14 febbraio in consiglio dei ministri, sono impantanate anche perché i grillini remano contro. Non c’è traccia, infatti, del disegno di legge a firma del premier Conte e della ministra Erika Stefani (Affari regionali) in cui si recepiscono le intese governo-regioni e che poi deve essere approvato dalle Camere. Tra l’altro, i presidenti di Camera e Senato, seppure convocati dal capo dello Stato sul tema lo scorso 28 marzo, ancora non hanno sciolto il nodo sull’emendabilità del ddl governativo: per la Lega, “le intese non si modificano”; per il M5S, il Parlamento ha tutto il diritto di dire la sua. Infine, ci si è messo anche il ministro Giovanni Tria (Economia) che in Parlamento ha riscontrato profili di incostituzionalità su alcune richieste delle regioni. Per questo prosegue il match M5S-Lega: “Ben venga l’autonomia ma non facciamo le cose di fretta per scopi elettorali perché si rischia di creare sanità e scuole non solo di serie a e B ma serie C”, ha detto Di Maio. “Siamo in ritardo, se c’è qualcuno del M5S che ha cambiato idea lo dica”, ha replicato Salvini. Oggi alla Camera, dove si vota senza grandi clamori in seconda lettura la riforma costituzionale che riduce i parlamentari da 945 a 600, la Lega potrebbe assecondare l’opposizione del Pd. Per rinviare a dopo le Europee un voto al quale tengono soprattutto i grillini. Regeni, l’ultimo affronto: al dibattito alla Camera presenti solo 19 deputati di Giovanna Casadio La Repubblica, 30 aprile 2019 In discussione la Commissione d’inchiesta. Anche la Lega aderisce. Fico aveva detto: “Condividere una battaglia di verità”. Ma l’aula è vuota. Due minuti è il tempo che il leghista Paolo Formentini impiega, nell’aula deserta della Camera, per dire che anche il partito di Salvini è d’accordo con una commissione parlamentare d’inchiesta per cercare verità e giustizia sulla morte di Giulio Regeni. Un po’ più lunga la dichiarazione del forzista Pierantonio Zanettin, ma con molti distinguo (“No a una cosa velleitaria, no alla propaganda, no allo spreco di risorse e energie”). La grillina Sabrina De Carlo, relatrice in commissione Giustizia, illustra la proposta: la commissione avrà 12 mesi di tempo per “chiarire le responsabilità che hanno portato alla morte di Giulio Regeni” e dovrà “verificare fatti, atti e condotte commissive e omissive che abbiano costituito o costituiscano ostacolo, ritardo, o difficoltà”. L’appello di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, rilanciato da Repubblica, è stato fatto proprio dal presidente della Camera Roberto Fico che ha chiesto ai partiti di non dividersi e per una volta condividere la battaglia di verità. Sono arrivate decine e decine di dichiarazioni di solidarietà. Le parole non costano. Ma al primo, timido passo per Giulio - la commissione parlamentare - in aula erano presenti solo 19 deputati: 8 del Pd, 2 di Leu, 5 del M5Stelle, nessuno di Fratelli d’Italia, 2 della Lega e 2 di Forza Italia. Massimo Ungaro parla a nome dei Dem. Eletto nella circoscrizione estero di Londra, di Giulio conosce la storia anche personale attraverso la testimonianza e i ricordi di un compagno di scuola del giovane ucciso in Egitto. Quando rievoca il “pestaggio pesantissimo: più di due dozzine di fratture ossee, tra cui sette costole, le due braccia, le due gambe...”, la voce si incrina. Conclude: “Diciamolo chiaramente, diciamolo in quest’aula: la Repubblica araba d’Egitto diretta dal generale-faraone al Sisi, ci sta prendendo in giro”. Nell’emiciclo di Montecitorio gli applausi dagli scranni della sinistra rimbombano. E Ungaro ammette che certo “c’è da indignarsi” per quell’aula vuota. Anche se, a giustificazione dei Dem assenti, afferma che l’avviso ad esserci era arrivato solo nella mattinata. Aggiunge: “Su Giulio però, non vorrei fare strumentalizzazioni politiche”. Filippo Sensi twitta una foto dell’emiciclo deserto. Sui social partono proteste: “Siamo un Paese irrecuperabile”; “Che vergogna”; “Che sensibilità hanno i nostri rappresentanti”; “Aula affollata, vergogna”. Non si scompone invece il sottosegretario agli Esteri. Manlio Di Stefano dei 5Stelle: “È normale in discussione generale”. Laura Boldrini fa un intervento appassionato e, da ex presidente della Camera, dice di comprendere le assenze in un momento di impegno per la campagna elettorale: “Ma il voto sia presto e partecipato”. Tutti i partiti dovrebbero votare sì, forse giovedì. Carceri di fronte alla discarica o senz’acqua potabile, la Cassazione: “Non è umano” di Rosaria Capacchione napoli.fanpage.it, 30 aprile 2019 Con due differenti decisioni, depositate l’8 aprile scorso, la Corte di Cassazione ha accolto i ricorsi di due detenuti che avevano chiesto, vedendoselo rigettare, lo sconto di pena previsto dalla legge per i giorni di detenzione trascorsi in condizioni degradanti. Tante le situazioni del genere in Italia: celle con servizi igienici a vista, con mancanza di acqua potabile, penitenziari realizzati a pochi metri da impianti di rifiuti con una puzza insopportabile. La privazione della libertà, è questa la pena. Il rispetto del regolamento, è questo il carcere. Non segrete, non catene, non inutili vessazioni, non comportamenti inumani e degradanti, quelli che trasformano la condanna in umiliazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo lo ha detto più volte, mettendo in mora l’Italia (e non solo l’Italia) per le condizioni dei suoi penitenziari: sovraffollati, angusti, vecchi, umidi, con poca luce. E ha stabilito che ogni detenuto ha diritto almeno a tre metri quadri di spazio vitale (l’ingombro di un letto a una piazza e mezza, tanto per capirci), al di fuori di quello occupato da letti e suppellettili. E a un minimo di privacy, almeno lo stretto indispensabile. Con due differenti decisioni, depositate l’8 aprile scorso, la Corte di Cassazione (prima sezione, presidente Francesco Bonito, estensore Raffaello Magi) ha accolto i ricorsi di due detenuti che avevano chiesto, vedendoselo rigettare, lo sconto di pena previsto dalla legge per i giorni di detenzione trascorsi in condizioni degradanti. Ma questa volta lo spazio libero della cella non c’entra niente. Cioè, i metri quadri liberi sono regolamentari ma tutto il resto è da terzo mondo. Carceri e dignità negata - Per esempio, i servizi igienici a vista, senza la più piccola protezione tra le grate della cella e il water, tra il water e il resto della cella: a Fossombrone e a Volterra. Per esempio, la mancanza di acqua potabile e la vicinanza alla discarica: a Santa Maria Capua Vetere, dove la situazione di gravissimo disagio va avanti da anni, con proteste, visite ispettive, promesse, finora ancora tali, di immediata soluzione e di rimozione dei disagi. L’acqua manca per un problema alle condotte, che il comune deve adeguare. L’impianto di tritovagliatura è proprio di fronte, e più volte (soprattutto d’estate e nei periodi di emergenza) i miasmi raggiungono anche il centro della città, ad alcuni chilometri di distanza. Nell’area del carcere, che ospita anche le aule bunker dove vengono celebrati i processi di criminalità organizzata, l’aria è irrespirabile. La sentenza della Cassazione - Scrivono i giudici della Suprema Corte: “Va ricordato che anche nella ipotesi di spazio vitale ricompreso tra i 3 ed i 4 metri quadrati, l’esistenza di gravi carenze nella offerta di servizi essenziali può determinare un trattamento contrario al senso di umanità”. E aggiungono: “Quando lo spazio individuale in una cella collettiva si attesta tra i 3 e i 4 metri quadrati, sussiste una violazione dell’articolo 3 della Convenzione se tale condizione risulta combinata ad altri aspetti di inadeguatezza della detenzione. Tali aspetti riguardano, in particolare, la possibilità di svolgere attività fisica all’aria aperta, la presenza di luce naturale e aria nella cella, l’adeguatezza della ventilazione e della temperatura, la possibilità di utilizzare la toilette in privato ed il rispetto dei generali requisiti igienico-sanitari”. Quindi, “nel caso dell’attuale ricorrente, in particolare, era stata dedotta la inadeguatezza della offerta trattamentale in virtù della prolungata carenza di acqua potabile nelle celle del reparto ove il soggetto era ristretto, unita a fattori ambientali pregiudizievoli per l’igiene e la salute (vicinanza del reparto ad una discarica di rifiuti). Si tratta di aspetti di indubbia rilevanza”. La conclusione è l’annullamento con rinvio della decisione del giudice di sorveglianza, che dovrà rivalutare le istanze alla luce dei rilievi della Corte. Psicosi cronica per il figlio: niente permesso per il papà detenuto dirittoegiustizia.it, 30 aprile 2019 Respinta la richiesta avanzata dal genitore, sottoposto in carcere anche al regime del 41-bis. Acclarate le precarie condizioni del figlio, viene evidenziato dai giudici che ci si trova di fronte a una situazione cronica e destinata a prolungarsi nel tempo, e non di fronte a un evento familiare grave ed eccezionale. Il caso. Niente “libera uscita” per il papà detenuto - e sottoposto al regime del 41-bis - che vuole trascorrere qualche ora col figlio, affetto da psicosi schizo-affettiva cronica. Legittimo, anche secondo la Cassazione, il “no” alla sua richiesta di vedersi riconosciuto un permesso di necessità ad hoc. Decisiva la constatazione che le precarie condizioni di salute del ragazzo sono frutto di una patologia cronica, e che non vi è pericolo di vita né vi sono stati recenti e significativi aggravamenti (Cassazione, sentenza n. 17593, Sezione Prima Penale, depositata il 24 aprile). Tempo. A essere messa in discussione è la decisione presa dal Tribunale di sorveglianza. Obiettivo del ricorso proposto in Cassazione dal legale del detenuto è vedersi riconosciuta la possibilità di andare a trovare il figlio, affetto da “una psicosi schizo-affettiva cronica grave”. E in questa ottica l’avvocato sottolinea che “tutte le circostanze della vicenda avevano fatto concedere, in passato, il permesso di necessità” al suo cliente, e aggiunge che “la patologia del ragazzo aveva soltanto sviluppi peggiorativi, aggravati dall’assenza paterna e dalla sostanziale impossibilità di effettuare colloqui in carcere”. Queste osservazioni non convincono però i Giudici del ‘Palazzaccio’, i quali ritengono sacrosanto negare al detenuto - sottoposto al regime del 41-bis - la possibilità di andare a fare visita al figlio. I magistrati tengono a ricordare che “il permesso previsto dall’ordinamento penitenziario può essere concesso soltanto eccezionalmente e per eventi familiari di particolare gravità”. E questo principio si rivela fondamentale nella chiusura di questa vicenda, poiché i giudici evidenziano “la connotazione cronica della patologia del figlio del detenuto” che “stava rendendo periodica e puntuale la fruizione del permesso”. Invece, “la normativa prevede un evento, cioè un fatto singolo, non una situazione cronica che si prolunga nel tempo”, poiché “la disciplina del permesso di necessità non può piegarsi ad ogni situazione di tipo familiare”, altrimenti “si finirebbe per connetterlo a situazioni protratte a tempo indefinito” - come la prolungata malattia di un congiunto - con la conseguente concessione di “una serie irragionevole di permessi di necessità”, concludono i Giudici. La difesa non è legittima se la violenza è reciproca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2019 Per potere essere legittima la difesa da un’aggressione non deve essere frutto di un’identica intenzione violenta. Lo puntualizza la Corte di cassazione, in una sentenza depositata a pochi giorni dalla promulgazione della nuova legge fortemente voluta dalla Lega. La pronuncia, la n. 17787 della Quinta sezione penale, ha così negato l’applicazione dell’esimente a un cittadino italiano protagonista di una rissa con un cittadino extracomunitario. Quest’ultimo era stato condannato per percosse, mentre il primo aveva ricevuto una multa per lesioni personali. Contro questa condanna era stato presentato ricorso, sostenendo che, in realtà, la condotta sanzionata andava qualificata come semplice reazione a un’aggressione: una difesa quindi del tutto proporzionata all’offesa. Di questo avviso non è però stata la Corte di cassazione, che valorizza la ricostruzione dei fatti messa a punto dal giudice di merito. Se infatti è vero che la “prima mossa” era stata del cittadino extracomunitario, tuttavia la reazione era stata tutt’altro che proporzionata, visto che dopo essere caduto in terra l’uomo aveva a sua volta attaccato con grande aggressività, colpendo più volte e provocando lesioni anche serie. E allora “la configurabilità dell’esimente della legittimità difesa deve escludersi nell’ipotesi in cui lo scontro tra due soggetti possa essere inserito in un quadro complessivo di sfida, giacché, in tal caso, ciascuno dei partecipanti risulta animato da volontà aggressiva nei confronti dell’altro”. E le intenzioni non contano, visto che possono essere state rese esplicite oppure tenute nascoste: nessuno dei contendenti potrà invocare la necessità di difesa in una situazione di pericolo. Anzi, della situazione l’uomo è stato corresponsabile, senza che si possa affatto profilare il carattere di inevitabilità. Infatti, alla fine, l’aggressione è stata giudicata reciproca, al di là di chi l’avesse iniziata e la violenza non esclusiva difesa rispetto ai colpi inferti da altri. La conversione dell’impugnazione proposta a giudice incompetente Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2019 Impugnazioni - Mezzi di impugnazione - Proposizione a giudice incompetente mediante l’utilizzazione di mezzo diverso da quello prescritto - Trasmissione atti al giudice competente. In tema di impugnazioni, allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’articolo 568, comma quinto, del codice di procedura penale, a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una “voluntas impugnationis”, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 aprile 2019 n. 16038. Impugnazioni - Mezzi di impugnazione - Conversione della impugnazione proposta - Automatico trasferimento al giudice competente. L’istituto della conversione della impugnazione, previsto dall’articolo 568, comma 5, del codice di procedura penale, ispirato al principio della conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del procedimento davanti al giudice competente e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e di forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 aprile 2019 n. 16038. Impugnazioni - Casi e mezzi (tassatività) - Misure di prevenzione - Impugnazione proposta mediante utilizzazione di un mezzo diverso da quello prescritto - Conversione “ope legis” - Ammissibilità - Ragioni - Fattispecie. Il principio generale posto dall’articolo 568, comma quinto, del codice di procedura penale, che prevede la conversione “ope legis” dell’impugnazione proposta mediante un mezzo diverso da quello prescritto e la trasmissione di ufficio degli atti al giudice competente, si applica anche nel procedimento di prevenzione, per effetto del combinato disposto dell’articolo 4, ultimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, che fa richiamo alla disciplina relativa alle impugnazioni avverso l’applicazione delle misure di sicurezza, e dell’articolo 680, comma terzo, del codice di procedura penale, che, per queste ultime, rimanda alle “disposizioni generali sulle impugnazioni”. (Fattispecie in cui la Corte ha riqualificato come appello il ricorso per cassazione proposto contro un provvedimento del tribunale di rigetto di istanza afferente l’esecuzione di una misura di prevenzione personale). •Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 29 gennaio 2014 n. 4001. Impugnazioni - Casi e mezzi (tassatività) - Impugnazione proposta mediante l’utilizzazione di un mezzo diverso da quello prescritto - Conversione dell’impugnazione - Condizioni. In ipotesi di impugnazione proposta davanti a giudice incompetente, quest’ultimo, verificata l’oggettiva impugnabilità del provvedimento e l’effettiva volontà della parte di impugnare, deve trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente, stante la “ratio” dell’articolo 568, comma quinto, del codice di procedura penale, intesa a valorizzare il “favor impugnationis”. (In applicazione di questo principio la Suprema corte ha qualificato come ricorso per cassazione l’appello proposto dal Pm avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 maggio 2009 n. 21581. Impugnazioni - Casi e mezzi (tassatività) - Impugnazione proposta mediante mezzo diverso da quello prescritto - Giudice “ad quem” - Verifica - Criteri - Fattispecie: gratuito patrocinio. In tema di impugnazioni, il precetto di cui al quinto comma dell’articolo 568 del codice di procedura penale, secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta, deve essere inteso nel senso che l’erronea attribuzione del “nomen iuris” non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, a onta dell’inesatta “etichetta”, abbia effettivamente inteso avvalersi. Ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico ed eventualmente, se si tratta della Corte di cassazione, ritenere il giudizio qualificando l’impugnazione come ricorso, a norma degli articoli 620 lettera i) e 621 codice di procedura penale(In applicazione del principio la Corte ha affermato che il ricorso per cassazione contro l’ordinanza di rigetto del ricorso proposto contro la revoca del beneficio dell’ammissione al gratuito patrocinio - erroneamente emessa dal GIP e non dal Presidente del Tribunale e perciò annullata senza rinvio ai sensi dell’articolo 620 lettera i) del codice di procedura penale - non presentasse soltanto un diverso “nomen iuris”, bensì nella sostanza contenesse soltanto doglianze di merito inammissibili nel giudizio di legittimità). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 10 febbraio 2004 n. 5291. Messina: un reparto del carcere cade a pezzi, trasferiti 84 detenuti La Sicilia, 30 aprile 2019 Rischio crolli nella sezione “Camerotti” in cui erano rinchiusi criminali tutti appartenenti al circuito di alta sicurezza per reati associativi. Ottantaquattro detenuti, tutti appartenenti al circuito di alta sicurezza per reati associativi (AS3), nelle prime ore di domenica sono stati sfollati dalla casa circondariale di Messina per motivi legati alla stabilità del reparto “Camerotti” che li ospitava e trasferiti in altre carceri siciliane. L’operazione - informa un comunicato del ministero della giustizia - è stata preparata in poche ore e realizzata in coordinamento fra Direzione dell’istituto penitenziario, Provveditorato regionale siciliano e Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap. E ha visto il coinvolgimento di diverse decine di agenti di Polizia Penitenziaria mobilitati da altri istituti dell’isola che hanno affiancato gli uomini dell’intero reparto di stanza nel carcere messinese, fra quelli presenti e quelli appositamente richiamati in servizio. Tutto si è svolto “in assoluta tranquillità”. I detenuti erano informati “da tempo” della possibilità di dover essere spostati altrove a causa delle condizioni delle mura del reparto e sono stati aggiornati sul fatto che l’Amministrazione si stava mobilitando per fronteggiare tale ipotesi. La situazione era infatti “sotto osservazione già dal marzo scorso, quando hanno iniziato a verificarsi i primi episodi di distacco dell’intonaco in diverse zone del reparto “Camerotti”. È stata subito convocata un’impresa specializzata che, a seguito di sopralluoghi e riscontri tecnici, ha confermato nella sua perizia conclusiva il rischio di crolli ben più gravi e, quindi, la necessità di evacuare la cinquantina di camere che ospitano i circa novanta detenuti in regime di alta sicurezza”. Oltre agli 84 trasferiti, ne restano una decina che sono stati provvisoriamente sistemati in altre zone del carcere messinese, in attesa di essere a loro volta trasferiti in altri istituti. “Si è trattato di un’operazione davvero eccezionale - ha sottolineato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini - messa in piedi rapidamente grazie allo straordinario impegno di tutte le parti coinvolte in Sicilia e a Roma. Con pochissime ore a disposizione, a partire dal via libera che ho dato sabato a pomeriggio inoltrato, lo sfollamento è stato portato a termine senza alcun problema e in totale sicurezza. E di questo voglio dare atto e merito pubblicamente a tutto il personale coinvolto: quello di Polizia Penitenziaria, sia presente nell’istituto messinese sia mobilitato di sabato sera da altri istituti siciliani, e quello civile, tanto del Provveditorato di Palermo che del Dipartimento”. Napoli: la madre che voleva salvare il figlio di Carolina Frati La Repubblica, 30 aprile 2019 È il 26 marzo 1994, quando nella periferia di Napoli si assiste a due esecuzioni che avvengono quasi contemporaneamente: una a Secondigliano, l’altra a Casavatore. Le vittime dei due agguati sono Anna Dell’Orme e Carmine Amura, madre e figlio. Anna e Carmine sono la madre e il fratello di Domenico Amura, deceduto il 7 settembre 1991 per una sospetta overdose. Sospetta, perché i familiari hanno da subito attribuito la colpa della morte ad alcuni componenti della famiglia Esposito: secondo gli Amura, questi sarebbero stati mandanti ed esecutori dell’omicidio, in particolare Luigi Esposito detto “Nacchella”. Nelle ore successive alla morte del figlio, Anna denuncia alla procura della Repubblica sette persone, tutte appartenenti al clan degli Esposito, noto a Napoli per il traffico di droga. Nei mesi successivi la madre fa in modo che la sua denuncia venga resa pubblica e, ospite in due programmi televisivi di Rai Due, racconta apertamente le sue convinzioni sulla morte del figlio e sui responsabili della stessa. Parlando delle denunce, delle indagini e delle numerose minacce che aveva ricevuto, ricostruisce la storia di Domenico - che è già tossicodipendente da otto anni - quando, nel maggio del 1991, esce dal carcere dopo circa un anno di incarcerazione. Uscito dalla prigione, viene subito cercato dagli spacciatori della zona per vendere eroina. Il ragazzo inizia a smerciare i primi grammi, ma quando le quantità di droga da vendere iniziano ad aumentare e non riesce più a piazzarla cerca subito di tirarsi indietro restituendo la droga ai fornitori. A capo dello spaccio c’è proprio Luigi Esposito, che Anna affronta di persona nel tentativo di migliorare la posizione del figlio e che, intanto, nelle stesse ore è fuggito a Mantova per nascondersi. È il 7 settembre quando Domenico rientra a Napoli e viene immediatamente intercettato dagli uomini di “Nacchella”. La mattina seguente la madre riceve la notizia della morte del figlio e non appena le viene riferito che la causa della morte è un’overdose data da una siringa infilata nel polso destro, capisce che quella overdose è stata indotta da altri: Anna sapeva che il figlio si iniettava l’eroina solo nel braccio sinistro. Essere madri significa anche conoscere dei segreti del proprio figlio che non si vorrebbe mai scoprire. Anna e Carmine da subito portano avanti la loro battaglia per la verità, sottraendosi a quella logica della vendetta, della legge del taglione, che forse in una faida tra famiglie (gli Amura e gli Esposito) inserita nella guerra di camorra non avrebbe fatto molto scalpore. Anna aveva deciso di spezzare la catena di violenza affidando la sua verità alle autorità consapevole che il prezzo da pagare poteva essere la sua vita. Dopo l’uccisione di madre e figlio furono fermati i camorristi Angelo Liccardo e Luigi Esposito che già all’epoca della morte di Domenico sarebbe dovuto essere agli arresti domiciliari ma che, nella realtà dei fatti, poteva circolare liberamente. Furono rilasciati pochi giorni dopo per mancanza di sufficienti prove a loro carico. Viterbo: condizioni difficili nella casa circondariale Mammagialla agensir.it, 30 aprile 2019 I volontari del Gavac chiedono soluzioni e non abbandonano detenuti e famiglie. Eccesso di detenuti (612 per 432 posti), cronica carenza di agenti ed educatori (solo 4), un padiglione chiuso per lavori, troppi detenuti con patologie psichiatriche che avrebbero bisogno di strutture e assistenza adeguate: sono i problemi più gravi nella casa circondariale Mammagialla di Viterbo secondo la Onlus Gavac (Gruppo assistenti volontari animatori carceri), nata trent’anni fa dall’intuizione dell’allora cappellano don Pietro Frare. “Pur condividendo l’allarme diffuso, lanciato anche dai media, ritengo che oltre che i colpevoli vadano cercate soluzioni - spiega al Sir Claudio Mariani, volontario del Gavac e docente di Criminologia al Centro studi criminologici di Viterbo -. Tre suicidi nel 2018 di Viterbo necessitano una lente di ingrandimento: le responsabilità vanno accertate, ma bisogna partire dal disagio crescente, frutto di un clima poco sereno, che aumenta gli episodi di aggressività. Le mele marce sono ovunque, ma a Viterbo lavorano anche operatori con umanità fuori dal comune”. Il Gavac, grazie a finanziamenti di diocesi, Fondazione L’Arca e alcuni soci, gestisce una casa di accoglienza per detenuti in permesso premio e loro famiglie che vanno a trovarli, distribuisce generi di prima necessità e negli ultimi due anni ha aiutato a laurearsi 8 detenuti. “L’invito del Papa a mettersi a servizio nella fraternità, rivolto Giovedì Santo nel carcere di Velletri, vale anche per Viterbo: spesso le catechesi più importanti arrivano dai detenuti, capaci di ascolto e affetto commoventi. Trasformarli da problema a risorsa è fondamentale”, conclude Mariani. Piacenza: condannato a 10 anni di carcere, servirà alla mensa dei poveri La Repubblica, 30 aprile 2019 La pena alternativa concessa a un rapinatore seriale. Sconterà la sua pena in una parrocchia servendo alla mensa dei poveri. A beneficiare di questa misura alternativa al carcere non sarà un ladruncolo qualunque, ma un principe dei furti che ha seminato terrore in abitazioni e aziende: si tratta di un 29enne albanese, soprannominato Dracula, che era stato arrestato dai carabinieri di Piacenza al termine di una lunga indagine che aveva sgominato la sua banda, accusata di aver messo a segno decine di colpi. Dracula, per quei furti, ha ricevuto due condanne dal tribunale di Piacenza, per un totale di circa 10 anni di reclusione. Ma il suo avvocato - Mauro Pontini, del foro di Piacenza - si è visto accogliere dalla Corte di Appello di Bologna l’istanza per sostituire il carcere con una misura che prevede l’impegno e la residenza in una parrocchia della Romagna. Il sacerdote ha dato la propria disponibilità e così ora Dracula aiuta il prete e serve i pasti in una mensa per indigenti. Radio ciambella di Mattia Feltri La Stampa, 30 aprile 2019 Una democrazia adulta finanzia la stampa, come finanzia l’istruzione e la sanità, perché la ritiene indispensabile a sé stessa. Non significa colmare i disavanzi di qualsiasi testata, soprattutto se non ce lo si può permettere, ma significa contribuire nel limite del possibile e del ragionevole alla sopravvivenza di un’informazione plurale. Poi ci sono momenti in cui questa riflessione, più che altro un’ovvietà, diventa impopolare o addirittura scandalosa, e del resto la nostra democrazia vive tempi di disinteresse fino all’antipatia peri capisaldi dello Stato liberale: il ruolo del potere legislativo, la separazione dei poteri, la presunzione d’innocenza, figuriamoci se ci si strapperà i capelli per l’azzeramento dei fondi all’editoria. Tutti i principali quotidiani non ricevono sovvenzioni da anni e vanno avanti, zoppicando perla crisi economica, come qualsiasi azienda, e per la formidabile concorrenza del nuovo mondo interconnesso, ma vanno avanti. La premessa, un po’ barbosa, è necessaria per parlare dell’eccezionalità di Radio radicale, a cui è stata dimezzata la convenzione (da dieci milioni di euro a cinque) in cambio della messa in onda delle sedute parlamentari, ragione per cui rischia di chiudere fra qualche settimana. E cioè è anche vero, come sostiene il governo, che giornali, radio e tv debbono vedersela col mercato, e del resto se ne fondano oggi confidando nel mercato e ne falliscono oggi per la legge del mercato esattamente quanto prima, quando di denaro ce n’era di più, e non soltanto denaro pubblico. Applicare la regola a Radio radicale non ha però nessun senso. Radio radicale non ha nulla a che vedere col mercato, se ne infischia del mercato, è costituzionalmente estranea all’andamento del mercato ed è preziosa proprio perché è fuori dal mercato. Niente è così invendibile sul mercato quanto l’intero palinsesto di Radio radicale: dibattiti d’aula, voci dal carcere, processi penali, convention di partito, e zero pubblicità. Dipendesse dal mercato non si chiuderebbe solo la radio, si chiuderebbero i partiti, i tribunali, le carceri (con la gente dentro), si chiuderebbe il Parlamento (è già un’ipotesi della democrazia digitale). Se fosse per il mercato, non andrebbe mai in onda il dibattito di due ore e quaranta sulla nuova edizione critica degli scritti di Gaetano Salvemini, ma la hit parade delle canzoni più vendute. Se sentiamo qualcosa in radio su Benedetto Croce o su Nicola Chiaromonte è perché c’è Radio radicale, quanto al mercato li butterebbe in un tombino. Nella logica del mercato, del resto, ci sarebbero soltanto scuole e cliniche private, metà dei musei farebbe bancarotta per assenza di domanda, tre quarti dei teatri dell’opera sarebbero convertiti in discoteche. Nel gusto del mercato potremmo prendere il poderoso archivio di Radio radicale - e sebbene non importi a nessuno, o a pochi, è comunque un patrimonio politico, civile e culturale della nostra Repubblica - e regalarlo al canale tremila della Rai, di modo che ci faccia la polvere; ecco, davvero una bella proposta quella di trasferire le mansioni in convenzione da Radio radicale alla Rai, cioè a un mastodonte succhia-soldi da due miliardi di euro di canone all’anno che le metterà nelle mani dell’ultimo direttore a disposizione dell’ultimo potente. Il mercato è una gran bella cosa: se la mia ciambella è più buona della tua, la mia fabbrica di ciambelle andrà bene e la tua chiuderà. Poi c’è lo Stato, che dovrebbe essere in grado di distinguere una ciambella da una radio concentrata su un servizio unico e inestimabile, puntato dritto al cuore, alla memoria e alle basi delle nostre istituzioni, per lo sperpero di venti centesimi all’anno per ogni italiano. Solitudine e fatica di vivere: la nuova minaccia globale di Mauro Magatti Corriere della Sera, 30 aprile 2019 Il World Economic Forum ha posto la questione della “sostenibilità umana” tra i principali rischi a cui sono esposte le società contemporanee. Se è il World Economic Forum nel suo Global Risk Report 2019 a inserire la questione della “sostenibilità umana” tra i principali rischi a cui sono esposte le società contemporanee c’è davvero da riflettere e preoccuparsi. I sintomi della crescente “fatica di vivere” sono ormai numerosi e provengono da fonti molto diverse. L’indice elaborato dal Pew Research Institute sulla natura positiva o negativa delle esperienze quotidiane segna un peggioramento costante negli ultimi anni. Nel 2017, quattro intervistati su dieci (la ricerca è internazionale) ammettono di vivere con molte preoccupazioni e stress; 3 su 10 di dover fare i conti col dolore fisico associato a malattie di diverso tipo; 2 su 10 di provare rabbia. Una tendenza che trova conferma in un rapporto della World Health Organization secondo il quale la depressione e i disordini dell’ansia sono aumentati rispettivamente del 54% a del 42%, tra il 1990 and 2015. Più in generale, sempre secondo la stessa fonte, le persone che problemi di salute mentale a livello mondiale hanno ormai superato il numero record di 700 milioni. Altre ricerche danno l’idea di quanto diffuso sia il senso di solitudine nei Paesi avanzati. I dati empirici dicono, ad esempio, che nel Regno Unito, il 22% della popolazione dichiara di soffrirne. Un dato che ha fatto così scalpore da spingere il governo di Theresa May a creare un vice ministro con delega a questo problema. D’altra parte, la solitudine altro non è che il riflesso delle profonde trasformazioni strutturali del nostro modo di vita: nei Paesi europei, la percentuale di famiglie costituite da una sola persona è raddoppiata negli ultimi 50 anni. Con problemi particolarmente acuti nelle grandi città: a Milano siamo al 40% degli abitanti, a Parigi al 50%, a Stoccolma addirittura al 60%. Anche se imbattibile rimane il centro di Manhattan dove il 90% dei nuclei è composto di una sola persona! Più in generale, sappiamo che le reti sociali si vanno indebolendo. Una ricerca americana ha evidenziato che il numero di amici per persona è sceso in media da 2,9 nel 1985 a 2,1 nel 2004, mentre si è triplicata la quota di coloro che dichiarano di non avere nessun amico. E c’è ragione di credere che tali tendenze si siano accentuate in questi ultimi 15 anni, dato che l’accelerazione delle nostre vite rende sempre più difficile riuscire a tutelare amicizie stabili e profonde. Come canta Vasco Rossi, quello che riusciamo a fare è ritrovarci ogni tanto a passare qualche momento insieme “ognuno perso dietro ai fatto suoi”. Tutto ciò converge nel cambiamento di clima sociale delle nostre società. Come mostrano i dati di una ricerca di taglio psicologico, il livello di empatia (cioè la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”) a sceso del 48% tra il 1979 e il 2009. Tema ripreso qualche settimana fa dal Financial Times che ha lanciato l’allarme: va cercata qui la vera radice di quel “cattivismo” che vediamo spuntare da tutte le parti e che minaccia la nostra vita sociale. Nello studio citato, il calo dell’empatia viene attribuito a tre fattori: l’aumento del materialismo e del consumerismo che ci abitua ad avere relazioni strumentali disabituandoci alla ricca e difficile complessità della relazione umana; la fragilizzazione della famiglia che non è più palestra primaria dove si impara (non senza ambiguità e contraddizioni) a stare con gli altri, ma nodo problematico dove si rafforza l’insicurezza esistenziale e dove esplode la violenza; e quella che viene chiamata “eco-camera digitale”, cioè la tendenza dei social network a costruire comunità omogenee e chiuse, con la conseguenza di aumentare l’intolleranza verso chi è o la pensa in modo diverso. La verità è che ci troviamo di fronte a un mutamento di struttura della nostra vita sociale che porta a maturazione processi avviati sin da gli anni 60. L’ipotesi è che tutto ciò produca società molto fragili esposte a rischio di rapide monopolizzazioni del potere da parte di pochi. Come è già accaduto in campo economico e tecnologico e come potrebbe accadere sul piano politico. Inoltre, una società di soli e arrabbiati è un serbatoio di violenza latente che può sempre scaricarsi contro qualcuno. È questo, secondo il World Economic Forum, il rischio da non sottovalutare e che va combattuto mettendo al centro della nostra agenda la ricostituzione delle reti sociali e dei corpi intermedi. In una ricerca di più di cinquant’anni fa il celebre sociologo Paul Felix Lazarsfeld, studiando i processi di costruzione e diffusione delle opinioni, mostrò come le leadership locali e le organizzazioni intermedie costituivano un importante fattore di protezione dalla penetrazione dei messaggi mediatici. Esiste quindi una relazione inversa tra la densità e la vitalità delle reti sociali e la centralizzazione dell’influenza e del potere. È venuto il momento di rendersi conto dell’inadeguatezza dell’idea iperindividualistica di libertà coltivata negli ultimi decenni. Prima che collassi nel suo contrario. Per quanto possa suonare paradossale, la libertà personale è un progetto comune. Per poter prosperare, essa ha bisogno di tanti elementi, tra cui la protezione e ricostituzione delle reti di socialità. Un compito urgente a cui applicarsi. Le contraddizioni dei nostri isolazionisti di Dacia Maraini Corriere della Sera, 30 aprile 2019 L’Italia è un paese che teme e denigra il movimento dei popoli proprio nel momento in cui punta il suo futuro su giovani preparati che si spostano in massa da un paese all’altro. Chi vorrebbe sganciarsi dall’Europa per tornare a una autarchia nuda e cruda, non ricorda, non ha ben calcolato o semplicemente ignora quanto l’Europa sia già unita nel suo scambio di persone, merci e idee. Tanto per fare un esempio, sono stata ad Amsterdam meno di un mese fa e ho incontrato degli insegnanti di italiano preoccupatissimi per questo diffuso sentimento antieuropeo. “Ma lei lo sa che l’Italia è il sesto cliente e il nono fornitore dei Paesi Bassi, lo sa che l’intercambio commerciale fra i due paesi è stato, solo nel 2018 di oltre 31 miliardi di euro?”. Ho incontrato l’ambasciatore Perugini, una persona consapevole e appassionata, che ha insistito sul rapporto intenso che già esiste fra i nostri due paesi, rapporto che verrebbe danneggiato gravemente da un ritorno alle monete nazionali. E mi snocciola delle cifre che effettivamente non conoscevo: “L’Olanda è la quarta economia più competitiva del mondo, il quinto maggiore esportatore mondiale, il secondo maggiore esportatore di prodotti agricoli dopo gli Stati Uniti, la quinta maggiore economia dell’Eurozona” e aggiunge, guardandomi severo, quasi fossi io la colpevole di questa volontà di fuga : “e perfino, lo sa, l’ottavo paese nel mondo per qualità della vita e la quinta come Pil pro capite? Eppure in Italia non se ne parla, i Paesi Bassi vengono generalmente considerati dalla nostra opinione pubblica ma anche dalle Istituzioni, un paese grosso modo “omologo” di paesi come la Polonia o il Portogallo, che si sognano queste cifre”. Incontro un ingegnere che lavora ad Amsterdam da anni e anche lui mi fa notare che la quantità di italiani che operano in Olanda è grandissima: “1600 professionisti nei diversi settori della finanza, dell’ingegneria elettronica, dell’aeronautica navale, civile, architettura, design, telecomunicazioni sparsi in diverse università olandesi”. L’ambasciatore aggiunge: “L’elenco di questi nostri concittadini, bravissimi tecnici, scienziati, studiosi, è lunghissimo. Dovremmo ringraziarli perché fanno onore al nostro paese. Dovremmo essere orgogliosi di loro”. Insomma dobbiamo concludere che il nostro è un paese di emigranti che teme e denigra il movimento dei popoli proprio nel momento in cui punta il suo futuro su giovani preparati che si spostano in massa da un paese all’altro. Non c’è un poco di schizofrenia in questo atteggiamento isolazionista? “Ma la solidarietà non accetta ricatti”. La società civile sfida il governo di Paolo Lambruschi Avvenire, 30 aprile 2019 Acli e Caritas: un gravissimo attacco alla sussidiarietà, che pure sta scritta nella Costituzione. Non solo Terzo settore ed economia civile. Sotto attacco da tempo da parte della maggioranza di governo ci sono i valori della solidarietà e sussidiarietà. Non solo un’offensiva culturale, ma politica, come rilevato dal professor Zamagni nell’intervista di domenica scorsa a Diego Motta. Perché i due principi sono cardini della Costituzione e capisaldi delle società occidentali mature, che hanno da tempo eliminato la diarchia Stato-mercato valorizzando i corpi intermedi, le reti della società civile che arrivano prima della politica e in genere lavorano bene. E che reagiscono. “Partiamo dal “buonismo” - sbotta Roberto Rossini, presidente delle Acli, un milione di iscritti. È un termine coniato e usato in senso spregiativo, che insinua nell’opinione pubblica il sospetto che chi fa del bene lo faccia solo per interesse personale. Concordo con Zamagni, è in atto una precisa strategia per svalutare il terzo settore e l’economia civile. Mai visto un attacco simile. Predomina in questa maggioranza un’idea statalista. Ignorano che ci sono soggetti che da decenni lavorano per la solidarietà attraverso la sussidiarietà, che viaggiano insieme”. Quanto alla “mangiatoia”, Rossini è netto. “È l’ultimo attacco ai soggetti dell’economia civile. Mettiamo in fila i fatti. Oltre alle accuse gravissime alle Ong e alle ricadute del decreto sicurezza in termini occupazionali, segnalo il provvedimento sui consigli di amministrazione degli enti di volontariato e Terzo settore nel decreto crescita, poi ritirato. Era ridicolo, li equiparava ai partiti. Forse qualcuno li equipara all’opposizione, ma non si può leggere tutto con logica partitica. Poi a inizio anno c’è stata la vicenda dell’Ires e stiamo ancora aspettando i decreti sul terzo settore. Domani è il Primo maggio, ricordo i milioni di lavoratori del terzo settore, tutti in regola. Basta una scorsa ai bilanci per vedere con quanta fatica portiamo avanti patronati e cooperative, altro che business della solidarietà”. Senza contare che quando è stato elaborato il reddito di cittadinanza, nessuno ha chiamato l’Alleanza per la povertà - di cui il leader aclista è portavoce - che per anni ha chiesto ai governi un reddito di inclusione e che aveva avuto parte decisiva nel Rei del governo Gentiloni. “Volevano eliminare la povertà, ma rischiano di fomentare una guerra tra ultimi e penultimi. Solo il premier Conte ha dimostrato apertura quando ha deciso di istituire una cabina di regia per il Terzo settore”. Rossini raccoglie la proposta del Civil Compact di Zamagni. “Per raccontare quel che l’economia civile ha fatto e fa per questo Paese, si organizzi un festival in ogni città”. Francesco Marsico, responsabile dell’area nazionale della Caritas italiana, presente in 218 diocesi, parte dalla questione educativa. “Se questi slogan semplici e violenti fanno breccia e rompono la coesione sociale, vuol dire che c’è un problema nelle periferie dove si saldano disagio sociale, bassi livelli di reddito e senso di abbandono. E quindi rancore e insicurezza. Dobbiamo prepararci ad agire con una strategia di medio e lungo termine sanando le ferite. Sull’immediato vince la semplificazione, sul lungo periodo vincono i progetti. Ora guardiamoci dentro e troviamo i cambiamenti necessari di linguaggi e presenze. Accorciamo le distanze con le persone che hanno questi bisogni”. Marsico non è stupito dall’attacco alla sussidiarietà. “Queste forze politiche al governo sono per storia e cultura estranee alla narrazione costituzionale della sussidiarietà. Sono valori patrimonio del cattolicesimo politico e dei socialdemocratici. Identificano il Terzo settore e i soggetti sociali, per loro un’anomalia, in uno pseudo-soggetto di mercato, la “mangiatoia”, schiacciano tutto sulla dimensione liberista con il metro esclusivo dell’interesse economico o su quella statalista”. La Caritas viene attaccata per l’impiego di operatori professionali accanto ai volontari. “Conseguenza dell’ostilità alla sussidiarietà. Non si riconosce ai soggetti sociali la capacità di arrivare prima e meglio su fenomeni nuovi. Ma la politica non ha i tempi della sofferenza delle persone. Ci sono emergenze cui si può rispondere con il volontariato. Ad esempio distribuire un panino ai senza dimora. Per risposte più strutturate e durature, occorrono le competenze degli operatori. Bisogna leggere la complessità del sociale, altrimenti nascono equivoci. Agli scettici consiglio di venire in parrocchia ad ascoltare e vedere come lavora la Caritas. Ha ragione il papa Francesco, la realtà supera l’idea”. Guerra. Operazione conquista delle menti di Manlio Dinucci Il Manifesto, 30 aprile 2019 Circa 5.000 bambini e ragazzi di 212 classi hanno partecipato, ieri a Pisa, alla “Giornata della Solidarietà” in ricordo del maggiore Nicola Ciardelli della Brigata Folgore, rimasto ucciso il 27 aprile 2006 in un “terribile attentato” a Nassirya, durante la “missione di pace” Antica Babilonia. La Giornata, promossa ogni anno dalla Associazione Nicola Ciardelli Onlus creata dalla famiglia, è divenuta, grazie al determinante sostegno del Comune (prima guidato dal Pd, oggi dalla Lega) il laboratorio di una grande operazione - cui collabora un vasto arco di enti e associazioni - per “sensibilizzare i giovani studenti sull’importanza dell’impegno di ognuno verso la costruzione di un futuro di Pace e Solidarietà”. L’esempio da seguire è “l’impegno profuso da Nicola a favore delle popolazioni dilaniate dai conflitti, incontrate in occasione delle numerose missioni cui aveva partecipato”, durante le quali aveva “toccato con mano la devastazione delle guerre e le sofferenze di coloro che sono costretti a subirle, primi tra tutti i bambini”. Nessuno però ha raccontato ai 5.000 bambini e ragazzi la vera storia della devastante guerra scatenata nel 2003 dagli Stati uniti contro l’Iraq, paese già da anni sottoposto a un embargo che aveva provocato in dieci anni un milione e mezzo di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Nessuno gli ha spiegato che, per giustificare la guerra accusando l’Iraq di possedere armi di distruzione di massa, vennero fabbricate “prove”, risultate poi false. Nessuno gli ha detto che, per stroncare la resistenza, l’Iraq venne messo a ferro e fuoco, usando ogni mezzo: dalle bombe al fosforo contro la popolazione di Falluja alle torture nella prigione di Abu Ghraib. A questa guerra - definita oggi dal ministero italiano della Difesa “Operazione Iraqi Freedom guidata dagli Usa per il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, nel quadro della lotta internazionale al terrorismo” - partecipò il contingente italiano Antica Babilonia. Consigliere politico dei suoi comandanti, tra il 2005 e il 2006, era l’attuale ministra dela Difesa Elisabetta Trenta (Cinque Stelle). Ne faceva parte il 185° Reggimento paracadutisti Folgore ricognizione acquisizione obiettivi, reparto di forze speciali in cui era ufficiale Nicola Ciardelli. Il Reggimento - così documenta il ministero della Difesa - “opera infiltrando distaccamenti operativi oltre le linee nemiche, in azioni dirette che prevedono l’ingaggio di obiettivi a distanza sfruttando l’armamento in dotazione e tutte le piattaforme di fuoco terrestri, aeree e navali”. In altre parole, una volta individuato il “bersaglio” umano, esso viene eliminato direttamente da tiratori scelti o, indirettamente, con un puntatore laser che guida la bomba lanciata da un caccia. Questo non è stato raccontato ai 5.000 bambini e ragazzi che, al culmine della Giornata, hanno applaudito i parà della Folgore che scendevano dal cielo sul Ponte di mezzo, apparendo ai loro occhi come eroi dei fumetti che difendono i buoni dai cattivi. Quello di Pisa non è un caso isolato. I militari statunitensi della base di Sigonella - riporta Antonio Mazzeo - sono sempre più presenti nelle scuole siciliane dove tengono corsi di inglese, di ginnastica e altri. A Sigonella, dove un parroco ha portato i bambini in “visita di istruzione”, e nelle basi in Puglia si svolgono per gli studenti delle superiori stage di “alternanza scuola-lavoro”. Casi analoghi si registrano in altre regioni. È in corso una vera e propria operazione di conquista militare delle menti delle giovani generazioni (e non solo di queste). Ci sono insegnanti, studenti e genitori disponibili a contrastarla, organizzandosi per far avanzare, contro quella della guerra, la cultura della pace? Migranti. Storia di un push back di Lorena Fornasir Il Manifesto, 30 aprile 2019 Bloccato in Italia mentre tenta di raggiungere il nord Europa, Alì si trova da mesi in un campo profughi della Bosnia in condizioni di salute gravissime. I respingimenti illegali ai confini d’Europa e la violazione del principio di non-refoulement sono ormai noti e documentati da fonti autorevoli. L’ultimo rapporto di Amnesty ammette che i governi europei non solo operano sistematiche espulsioni di migliaia di richiedenti asilo ma ignorano i terribili abusi della polizia croata. 5.500 persone, tra cui uomini donne e bambini, sono intrappolate i condizioni disumane nelle due piccole città di Velika Kladusa e di Bihac al confine con la Croazia. La maggior parte tenta di proseguire verso l’Europa attraverso foreste, fiumi in piena, montagne di neve e di gelo e i campi minati. Poco tempo fa, in un bosco, una donna incinta si è trovata davanti ad un orso e a causa dello schock ha partorito il figlioletto morto. Nei primi 10 mesi del 2018, almeno 12 persone, per lo più ragazzi, sono annegate nel tentativo di attraversare il confine tra Croazia e Slovenia. Una delle tecniche di scoraggiamento usata dalla polizia croata, consiste nel respingere i migranti catturati spogliandoli dagli indumenti, gettandoli nelle acque gelate e facendoli camminare a piedi nudi per chilometri, solitamente di notte in aree remote, lontano dai valichi di frontiera ufficiali. Alì è stato catturato nei boschi della Croazia. Era il mese di febbraio 2019. Respinto senza scarpe nella neve e gelo, si perde nella notte e vaga confusamente per molto tempo. Oggi rappresenta l’emblema della disumanità e della violenza dei confini, dei muri, del filo spinato, dei droni, dei cacciatori d’uomini. La sua storia inizia a Trieste dove era riuscito ad arrivare a piedi percorrendo 350 chilometri. Fermato in treno senza biglietto, la polizia italiana lo consegna a quella slovena. La Slovenia lo respinge in Croazia che a sua volta lo rimanda all’inferno. Se non esiste l’inferno, esiste la crudeltà. Gli tolgono le scarpe, i vestiti caldi, gli rompono il cellulare, gli bruciano lo zaino, lo percuotono e lo spingono nella neve di quelle montagne abitate da orsi e lupi. Le sue dita si congelano. Quando arriva al camp Bira di Bihac ormai sono nere. È sabato 9 febbraio. Partito per un viaggio della speranza rifiuta le cure, forse vuole morire. Forse il dolore di non rivedere più il figlio lasciato in Germania dove era stato per sei anni, è intollerabile; forse non vuole davvero morire, ma i suoi piedi devono essere amputati e lui i sente ridotto a un sub uomo. Si aggrappa difensivamente all’unica scelta che lo protegge dalla sofferenza: negare la realtà e consegnarsi alla morte. Ora, per lui parla una coperta della Mezzaluna turca che lo avvolge come in un utero. Ecco cos’è un trauma! È questa coperta rossa che lo succhia dall’interno ma lascia scoperte le dita dei piedi, così nere che sembrano dipinte. Il mondo deve vederle, deve sapere cosa è un respingimento, sembrano dire. Alì ha abitato il mondo con i suoi desideri, ma ora è preda di un ingorgo traumatico che la sua psiche non può sopportare. Alì aveva una vita, una storia, degli affetti ma, se si salverà, non avrà più piedi per andare loro incontro. Per ora si ritrova in un container ad ascoltare i rumori della morte a cui si è consegnato. È l’immagine carnale di un anima dannata che non sa impazzire. La sua vita è sigillata dentro i confini del container A3 del Bira camp. Lo circonda un odore nauseabondo che toglie il respiro. Il suo pensiero gli fa allucinare la Germania, i prati verdi e il cielo azzurro in cui correre con i piedi sani verso il suo sogno. Senza questa allucinazione, gli resta il tunnel della fine. Nel rifiuto delle cure c’è tutto questo: allucinare il desiderio per non morire, lasciarsi morire per evitare la realtà. La burocrazia bosniaca è un’assurda iperbole kafkiana. La pratica per nominare un tutore che decida di curare Alì, è ferma al ministero della salute dove è sufficiente il parere contrario di solo uno dei rappresentanti dei dieci Cantoni, per bloccare l’intera procedura. Per ora, di Alì, resta l’odore della morte in agguato. Questo è il volto del trauma di un ragazzo catturato nei boschi della Croazia ed ora sepolto dentro un container di lamiera dimenticato da ogni dio. “Non voglio lo Stato spacciatore”. Salvini: stop alle feste della canapa di Veronica Passeri Il Giorno, 30 aprile 2019 Un giro di vite e più controlli per i cannabis shop. “Non voglio lo Stato-spacciatore”: così il leader della Lega e ministro dell’Interno Matteo Salvini annuncia un’azione mirata “insieme ad altri corpi dello Stato per andare a verificare la giungla di cannabis e canapa shop”, i rivenditori autorizzati di canapa legale - erba priva o a basso contenuto del principio psicotropo Thc - “che hanno aperto come funghi” in tutte le città italiane. Già qualche mese fa il ministro Lorenzo Fontana, anch’egli leghista, aveva tuonato contro questa realtà perché “la norma nata due anni fa ha finito per legittimare la commercializzazione al dettaglio della cannabis light, usata per altri fini”. Salvini fornisce anche una prima dimensione del problema: “In caso di controlli uno su due si rivela centro di spaccio”. Parole che suscitano diverse reazioni, a cominciare da quella dei Radicali secondo i quali “decenni di proibizionismo” hanno rappresentato “una battaglia fallimentare che, non solo non ha scalfito il mercato delle sostanze ma ha criminalizzato i consumatori e i piccoli spacciatori, lasciando liberi i grandi narcotrafficanti”. “Sono assolutamente contrario come ministro, da italiano e papà, a qualsiasi sottovalutazione del male che fa qualsiasi utilizzo di droga - ribatte Salumi -, quindi mi auguro che nessuno avalli la vendita di questo genere di sostanze”. Presa che si intreccia con un’altra vicenda che ha suscitato polemiche, quella del Cannabis expo previsto a Milano dal 3 al 5 maggio. “Feste di droghe, droghette, drogone, droghine, non dovrebbero essere autorizzate mai. Ritengo sia folle da parte di qualsiasi Amministrazione comunale, provinciale, regionale o statale autorizzare serate in cui ci si droga” dice il vicepremier invocando contro la droga “una battaglia città per città, scuola per scuola, quartiere per quartiere, dal punto di vista culturale, dal punto di vista della prevenzione e della repressione”. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni chiede al Ministro di “bloccare immediatamente” l’evento pubblicizzato “con un messaggio devastante”: “enormi manifesti che riportano la scritta ‘Io non sono una droga’ sotto una grande foglia di cannabis. È una ignobile propaganda della droga libera”. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri si dice pronto ad appoggiare “futuribili misure durissime contro gli spacciatori” ma intanto “l’iniziativa milanese va bloccata. Perché Salvini non accoglie la nostra richiesta e la Lega non vota la mozione Gelmini nel consiglio comunale?”. Spagna. In Catalogna vittoria indipendentista: eletti 5 politici in carcere askanews.it, 30 aprile 2019 È il trionfo degli indipendentisti di Esquerra Republicana in Catalogna. Il partito separatista ha vinto la maggioranza dei seggi in palio nella regione autonoma, risultando primo in tre comuni su quattro e secondo di misura a Barcellona dietro ai socialisti. Non solo, cinque degli eletti sono separatisti catalani in carcere dall’epoca del referendum sull’indipendenza del 2017. Fra loro l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras. Fra gli eletti anche Gabriel Rufìan che parla dell’inizio di un ciclo storico. “Domani ci saranno ancora nove democratici in carcere, nove innocenti, nove sequestrati e i compagni in esilio, e trenta persone prese di mira da uno Stato repressivo e vendicativo contro il volere di due virgola tre milioni di catalani”. In coalizione con il partito di sinistra Podemos, al socialista Sanchez mancherebbero ancora 11 seggi per la maggioranza parlamentare. Potrebbe scendere a patti con gli indipendentisti e i loro 15 seggi. “È una notte storica, dice questa elettrice, Esquerra Republica ha vinto le politiche in Catalogna e siamo molto felici.” E un altro elettore spiega cosa chiedono gli indipendentisti catalani: “Se Sanchez decide di andare in coalizione con Podemos, e vuole il sostegno degli indipendentisti, noi catalani chiederemo la liberazione dei prigionieri politici”. L’appello del Papa: “Anche per la Libia si usino i corridoi umanitari” Avvenire, 30 aprile 2019 “Siano evacuati al più presto donne, bambini e malati”. Il pensiero, l’affetto e la preghiera del Papa sono sempre accanto a chi soffre in Libia. Domenica, al momento di recitare il Regina Coeli (la preghiera mariana che nel periodo di Pasqua prende il posto dell’Angelus) Francesco ha rivolto un nuovo accorato appello per gli uomini, le donne e i bambini che si trovano nei cosiddetti centri di detenzione del Paese nordafricano. “Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per i profughi che si trovano nei centri di detenzione in Libia - ha detto infatti - la cui situazione, già molto grave, è resa ancora più pericolosa dal conflitto in corso. Faccio appello perché specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari”. Sulla questione dei centri di detenzione libici, il Papa si era espresso chiaramente lo scorso 23 settembre. “Sto pensando a un filmato che testimonia la situazione di alcune carceri del nord Africa costruite dai trafficanti di persone - aveva affermato Francesco nel colloquio con i gesuiti a Vilnius - Quando i governi rispediscono indietro chi era riuscito a mettersi in salvo, i trafficanti li mettono in quelle carceri, dove si praticano le torture più orribili”. “Noi oggi ci strappiamo le vesti per quello che hanno fatto i comunisti, i nazisti e i fascisti... ma oggi? Non accade anche oggi? Certo, lo si fa con guanti bianchi e di seta”. Un rapporto Caritas presentato a Milano all’inizio di aprile, segnala che su un totale di oltre 57.000 rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Unhcr in Libia, sono state evacuate dal paese 3.303 persone (inclusi minori non accompagnati), di cui 2.619 in Niger, 415 in Italia e 269 in Romania. Stati Uniti. Denuncia il degrado di Guantánamo. Trump rimuove il capo del carcere di Anna Guaita Il Mattino, 30 aprile 2019 Nei due anni e quattro mesi della presidenza Trump abbiamo visto numerosi licenziamenti improvvisi. Ma nella quasi totalità, i licenziamenti erano previsti. Quello avvenuto ieri a Guantánamo ha colto tutti di sorpresa, e subito si è cominciato a sospettare che dietro ci sia qualche “giallo”. A essere rimosso è stato il contrammiraglio John Ring, che da un anno dirigeva la base e la prigione di Guantánamo, nota come “Gitmo”. Ring doveva lasciare l’incarico 1’11 giugno, invece è stato sollevato dall’incarico improvvisamente, con una giustificazione umiliante, e cioé che il Southern Command “ha perso fiducia nella sua abilità di comandare”. Il South Comm è la branca del Pentagono che si occupa dei Caribi, del sud e centro America. Il contrammiraglio Ring aveva solo pochi giorni fa lamentato con dei giornalisti il fatto che non aveva ricevuto direttive su come gestire il problema dei detenuti che invecchiano e cominciano a manifestare malattie tipiche dell’età. Guantánamo è infatti un carcere militare, in cui sono rinchiusi i cosiddetti “unlawful combatants”, secondo una definizione dei terroristi combattenti coniata dall’Amministrazione Bush nel 2002. Invece che definirli “prigionieri di guerra” e dover obbedire alla Convenzione di Ginevra sul trattamento umano dei prigionieri, l’allora ministro della Difesa Donald Rumsfeld ideò questa definizione, e trasferì i combattenti catturati nella prigione militare nell’isola di Cuba. In un sol colpo, i catturati venivano sottratti non solo alla Convenzione di Ginevra ma anche ai diritti di cui avrebbero goduto se portati su terreno Usa. Nel momento di massima affollamento, la prigione rinchiudeva 740 detenuti. Oggi ne sono rimasti 40, di cui 17 sono ex prigionieri dei cosiddetti “buchi neri” creati dalla Cia in Paesi compiacenti, dove i detenuti potevano essere torturati. Fra questi c’è anche Khalid Sheik Mohammed, ritenuto l’ideatore degli attentati del 9 settembre 2001. La giustizia si muove a velocità infinitamente lenta per questi detenuti, e Ring cominciava a temere che presto il carcere sarebbe diventato “un ospizio per anziani”. Il Pentagono dal canto suo nega che la ragione del suo licenziamento siano state le parole di sfogo con i giornalisti. Contestare la capacità di comando di un contrammiraglio tuttavia è un’accusa grave, soprattutto se si tiene conto della lunga e coraggiosa carriera militare di Ring, un pilota da combattimento che è stato il comandante delle “Black Eagles”, lo squadrone degli aerei da ricognizione durante la guerra contro l’Iraq, poi ha avuto il comando della nave da sbarco Uss Comstock e infine della portaerei Nimitz. Per di più Ring ha avuto una medaglia speciale per la sua “capacità di leadership”. Cina. Videosorveglianza e intelligenza artificiale nelle carceri di alta sicurezza sicurezzamagazine.it, 30 aprile 2019 Il “Telegraph” riferisce dell’installazione presso il carcere di alta sicurezza di Yancheng in Cina, dove sono rinchiusi alcuni dei criminali più pericolosi del Paese, di una rete di intelligenza artificiale capace di monitorare tutti i soggetti presenti nella struttura e avvertire le guardie se succede qualcosa di sospetto. La sua realizzazione è stata affidata a un’azienda specializzata in sorveglianza in collaborazione con la Tianjin University. Questa rete unisce le capacità delle telecamere di videosorveglianza a quelle di una serie di sensori e a una intelligenza artificiale che elabora i dati di riconoscimento facciale e di analisi del movimento. La tecnologia è in grado di controllare fino a 200 volti contemporaneamente, quindi si destreggia anche nelle condizioni di elevato affollamento, per esempio se i detenuti si ammassano in un corridoio, nel self service della prigione o nell’area riservata agli esercizi, oppure se dovesse scoppiare una rissa. L’allerta scatta per esempio se un detenuto si mette a camminare avanti e indietro nella cella ma serve anche a monitorare i secondini disonesti che trattano male i prigionieri, adottano comportamenti discriminatori o aiutano i detenuti a scappare. L’evoluzione di questi sistemi potrebbe essere la tecnologia che riconosce le persone dall’andatura, quindi senza bisogno di immagini ad alta risoluzione del loro volto. Qualcosa di simile sta sviluppando sempre in Cina Watrix, e amplierà molto le possibilità di garantire la sicurezza, sempre nei limiti di legge.