Salute mentale in carcere. Quale ruolo per i Dsm? di Massimo Cozza* quotidianosanita.it, 2 aprile 2019 I Dipartimenti di salute mentale delle Asl dovrebbero diventare titolari della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica in carcere non solo nei percorsi di cura alternativi territoriali ma in primo luogo in campo preventivo, diagnostico e progettuale, in modo condiviso con la Magistratura. Questo significa potenziare nell’ambito dei Dsm sia la tutela della salute mentale che l’assistenza psichiatrica in carcere e soprattutto sul territorio. Il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” è un importante documento che affronta alcune tematiche ancora oggi irrisolte, nonostante la legge 81/2014 che ha determinato il successo della chiusura degli OPG e la presa in carico degli “ex internati” da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale, anche con l’attivazione delle REMS (Residenze per le Misure di Sicurezza). In primo luogo è ora di superare il concetto di non imputabilità per infermità di mente previsto dal codice penale Rocco del 1930, cioè il doppio binario per le persone con disturbo mentale che commettono un reato, i cosiddetti “folli rei”. Si tratta di una normativa ancorata ad una vecchia concezione della malattia mentale associata a inguaribilità, imprevedibilità, organicità e pericolosità. Oggi possiamo affermare che chi soffre di disturbi psichiatrici è una persona con la sua dignità che si può curare in un percorso di recovery, con determinanti multifattoriali (biologici, psicologi e sociali), senza evidenze scientifiche circa la sua presunta maggiore pericolosità se non associata ad altri fattori come le dipendenze. Ancora oggi, invece, il riconoscimento da parte della Magistratura dell’incapacità di intendere e volere al momento del fatto per “infermità mentale “determina il proscioglimento con l’esenzione della pena carceraria e, di prassi, l’applicazione delle misure di sicurezza sulla base della pericolosità sociale, concetto privo di fondamento scientifico. Peraltro è ormai prassi l’inserimento nelle REMS anche delle persone con misure di sicurezza provvisorie, in attesa che venga accertata la non imputabilità con la conseguenza della trasformazione delle misure di sicurezza in definitive, mentre la legge 81/2014 e le risoluzioni del CSM assegnerebbero alle REMS una funzione residuale. Su un altro binario con destinazione incerta viaggiano, invece, i detenuti con sopravvenuta patologia psichiatrica, i cosiddetti “rei folli”, per i quali afferma il CNB “manca una normativa chiara per stabilire la loro incompatibilità col carcere e indirizzarle a misure alternative a fine terapeutico. La cura psichiatrica dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico”. Vi è anche da segnalare, così come fatto dal CNB, la risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) del settembre 2018 nella quale si afferma che va evitato un eccessivo ricorso all’applicazione del codice penale sul vizio di mente ai c.d. “cripto-imputabili”, ovvero quelle persone che, pur in grado di intendere e volere al momento della consumazione del reato, accedono al sistema psichiatrico giudiziario. Il CSM afferma inoltre “che gli accertamenti relativi all’eventuale disturbo o disagio psichico correlati al reato siano affidati al servizio psichiatrico territoriale di riferimento” sviluppando un rapporto costante tra magistrati assegnatari del procedimento e servizio sanitario pubblico, attraverso lo strumento operativo di Protocolli Operativi sottoscritti dalla Magistratura con le Direzioni dei DSM. A questo fine sarebbe utile la definizione di un modello di protocollo da adottare da parte della Conferenza Stato - Regioni, con la condivisione dello stesso CSM. Avendo la consapevolezza della centralità dei rapporti tra Magistratura e Dipartimenti di Salute Mentale per arrivare ad un sistema che consenta di prendere in carico nel modo più appropriato possibile, sia i “rei folli” che i “folli rei”. A fronte di questa situazione va comunque perseguito sia il principio di pari responsabilità anche in ambito penale per i “folli rei”, così come per i “rei folli” e per tutti i cittadini, con l’abolizione dell’articolo 88 del codice penale relativo al vizio totale di mente, sia il principio della pari tutela della salute, anche in salute mentale, di chi è libero e di chi è stato condannato al carcere. Infatti l’abolizione della logica manicomiale passa anche attraverso il riconoscimento dell’infermità psichica (e non solo fisica) come determinante di una possibile misura non detentiva nell’esecuzione della pena. Superare il concetto di non imputabilità del soggetto affetto da disturbo psichiatrico, come affermato dal CNB, “non significa negare la sua malattia, bensì rifiutare il presunto automatismo naturalistico e deterministico fra malattia e reato, restituendo al malato la sua individualità e responsabilità, e dunque la possibilità di rielaborare una parte importante del proprio vissuto legata al reato”. In carcere dovrebbe essere tutelata la salute mentale promuovendo “modalità umane di detenzione, rispettose della dignità delle persone” e dovrebbero essere aperte le articolazioni per la salute mentale, con requisiti, modalità operative e risorse aggiuntive da definire nella Conferenza Stato Regioni. Mentre chi soffre di gravi disturbi psichiatrici, di norma, dovrebbe essere preso in carico sul territorio. Fondamentale, stante le risorse limitate, è anche la certezza che le cure territoriali nei DSM siano destinate a detenuti con problematiche realmente psichiatriche, determinando una diretta condivisione delle decisioni della Magistratura con il Servizio Sanitario Pubblico. In questo quadro i DSM devono diventare titolari della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica in carcere non solo nei percorsi di cura alternativi territoriali ma in primo luogo in campo preventivo, diagnostico e progettuale, in modo condiviso con la Magistratura. Questo significa potenziare nell’ambito dei DSM sia la tutela della salute mentale che l’assistenza psichiatrica in carcere e soprattutto sul territorio. Su questi temi appare ineludibile aprire il confronto a tutti i livelli, coinvolgendo tutti gli attori, ed anche nell’ambito della prossima Conferenza nazionale per la salute mentale sulla Salute Mentale convocata da un vasto cartello di associazioni a Roma il 14 e 15 giugno 2019 con l’appello “Libertà, Diritti, Servizi: per la salute mentale “. * Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2 Il computo NASpI per detenuti dipendenti del carcere di Aldo Forte ratio.it, 2 aprile 2019 I detenuti in istituti penitenziari, che svolgono attività lavorativa retribuita all’interno e alle dipendenze della struttura, non hanno diritto alla disoccupazione in occasione dei periodi di inattività in cui vengano a trovarsi; lo ha precisato l’INPS, con messaggio 909/2019. Tenendo conto anche della normativa di riferimento e della giurisprudenza di legittimità, nonché dei pareri forniti dal Ministero del Lavoro e da quello della Giustizia, l’Istituto interviene per fornire chiarimenti sulla prestazione di disoccupazione nei confronti del detenuto impegnato in attività di lavoro nell’istituto penitenziario dove si trova ristretto. In merito, viene richiamato l’art. 20 L. 354/1975, come sostituito dall’art. 2 D.Lgs. 124/2018, dove viene stabilito ai commi 1 e 2, rispettivamente, che negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. È da sottolineare anche che il successivo comma 13 dispone che la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. Viene richiamata anche la decisione 18505/2006, con la quale la Corte di Cassazione, I sezione penale, è intervenuta sui diritti dei detenuti che svolgono attività lavorativa alle dipendenze dell’istituto penitenziario, affermando che “l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’istituto penitenziario ed al medesimo assegnata dalla Direzione del carcere non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria. Detta attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione”. Ne deriva, precisa l’INPS, che ai detenuti in istituti penitenziari, che svolgano attività lavorativa retribuita all’interno della struttura e alle dipendenze della struttura stessa, non si può riconoscere la prestazione di disoccupazione durante i periodi di inattività in cui si vengano a trovare. Invece, deve essere fatto salvo il diritto all’indennità di disoccupazione da licenziamento nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia stato svolto con datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria. In ogni caso, gli istituti penitenziari sono obbligati al versamento della contribuzione per la disoccupazione per i detenuti che svolgono attività alle loro dipendenze; dal punto di vista assicurativo, tale contribuzione, se rientrante nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, sarà utile per la disoccupazione NASpI, nel caso di cessazione involontaria di un rapporto di lavoro con datori di lavoro diversi dall’istituto penitenziario. Rimpatriati 13 detenuti romeni. Salvini: “Questo è solo l’inizio” di Angelo Scarano Il Giornale, 2 aprile 2019 13 detenuti romeni rientreranno in Romania con un volo diretto Roma-Bucarest per scontare la loro pena nel Paese di origine. Ad annunciarlo è stato il ministro degli Interni, Matteo Salvini che ha spiegato il piano di rientro di questi detenuti in Romania. Si tratta di romeni che sono stati condannati per diversi reati come ad esempio stupro, omicidio, rapina o ricettazione. Il rimpatrio di questi detenuti è solo un primo passo di un piano varato dal Viminale in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia per riconsegnare alcuni detenuti presenti nelle carceri italiani ai rispettivi Paesi d’origine. Il ministro degli Interni sta lavorando insieme al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per mettere a punto una strategia per accelerare i rimpatri di questi detenuti. “Un volo Roma-Bucarest sta per riportare in Romania 13 detenuti che sconteranno la pena nel Paese d’origine. Sono stati condannati per violenza sessuale, omicidio, riduzione in schiavitù, rapina, ricettazione, sequestro di persona, induzione alla prostituzione. Felice che, con buonsenso, anche su questo fronte si stia realizzando quanto avevamo promesso. I criminali stranieri ospitati nelle nostre galere possono e devono scontare la pena nel Paese d’origine. Il viaggio di questi 13 è solo un anticipo di quello a cui sta lavorando il collega Bonafede con tutto il mio sostegno. Dalle parole ai fatti”, ha affermato il titolare degli Interni. Lo stesso volo tornerà dalla Romania con a bordo quattro cittadini romeni che erano ricercati dall´autorità giudiziaria italiana con mandati d´arresto europei e che sconteranno la pena in Italia. Contestualmente al rimpatrio dei delinquenti stranieri presenti nelle case circondariali italiane, il Viminale sta lavorando ad un piano per far tornare nelle patrie galere tutti quei latitanti che si trovano all’estero e che invece dovrebbero scontare le condanne nel nostro Paese. Su questo fronte è già stato avviato ad esempio un confronto con la Francia per il rientro dei terroristi italiani che hanno trovato riparo a Parigi grazie alla dottrina Mitterand. La Corte costituzionale va oltre se stessa pur di sottrarre il diritto penale al caos di Francesco Palazzo* Il Dubbio, 2 aprile 2019 Chi ha avuto modo di leggere la densa relazione del Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi sulla giurisprudenza del 2018, non avrà potuto sottrarsi all’impressione, se non di una svolta, certo di una profonda trasformazione del ruolo esercitato dalla Corte nel presente momento storico. Ed invero, spesso è lo stesso Presidente Lattanzi ad utilizzare espressioni che marcano non tanto discontinuità quanto evoluzioni innovative nel lavoro svolto dalla Corte in una direzione che non è più solo di custodia passiva della Costituzione ma anche di sua divulgazione, diffusione e vivificazione nella coscienza profonda della collettività. Da questo punto di vista non è casuale il collegamento, tutt’altro che solamente cronologico od estrinseco, tra i “viaggi” recentemente intrapresi dalla Corte (nelle scuole, nelle carceri) e il nuovo corso della sua giurisprudenza. La Corte ha assunto saldamente il timone di una rotta costituzionale più marcata e coraggiosa nei confronti di entrambi i suoi interlocutori naturali: giudici e, soprattutto, legislatore. Il rapporto coi giudici - Non c’è dubbio che, nei confronti dei giudici comuni, la Corte abbia un po’ tirato i freni, contenendo gli spazi della circolazione dei valori costituzionali per opera diretta e diffusa della giurisdizione ordinaria. E in questo senso si va infatti consolidando un orientamento meno preclusivo nel dichiarare l’inammissibilità della questione incidentale per mancato esperimento di ogni possibile sforzo, da parte del giudice a quo, di interpretazione conforme a Costituzione: giurisprudenza, questa, che verosimilmente ha contribuito a una riduzione del numero degli atti di promovimento dei giudizi incidentali. E nella stessa direzione di fondo va anche quella giurisprudenza secondo la quale il primato del diritto europeo, con il conseguente potere del giudice di disapplicare la norma interna incompatibile, deve conciliarsi con “l’attitudine del sindacato accentrato di legittimità costituzionale a garantire la più efficace delle tutele, con pronunce valevoli erga omnes”. E così sono pure espressione di una sempre più viva esigenza di prevenire rischi di insopportabili incertezze giudiziarie sia la rinuncia, specie in materia penale, delle cosiddette sentenze “additive di principio”, sia la richiesta che la giurisprudenza della Cedu raggiunga un grado di sufficiente “consolidazione” prima di poter “fare testo” (come parametro interposto) nel diritto interno. E con il legislatore - Ma è certamente sul versante dei suoi rapporti col legislatore che il nuovo corso della Corte appare particolarmente significativo e, per taluno, forse anche problematico. I “moniti” della Corte, che pur si accompagnano a decisioni non dichiarative di illegittimità, si fanno più pregnanti e più persuasivi. Più pregnanti quando si spingono a segnalare pericoli di future derive legislative in senso anticostituzionale qualora certe tendenze legislative dovessero svilupparsi in direzioni che già manifestano segni di criticità costituzionale. Più persuasivi quando prendono la forma inedita (come nell’ordinanza Cappato) della “incostituzionalità prospettata”, prospettata per l’appunto per l’ipotesi in cui il legislatore non raccolga il monito a legiferare. Al fondo di questo potenziamento dei moniti v’è la convinzione - chiaramente espressa nella relazione - che la discrezionalità del legislatore sul se e quando legiferare arretra tutte le volte in cui la mancanza di una disciplina legislativa si configuri già di per sé come un vulnus costituzionale alle esigenze di tutela di certi beni. Frontiere del penale - Oltre i moniti la Corte è sempre meno propensa ad arrestarsi sulla soglia dell’inammissibilità in tutti i casi in cui la dichiarazione d’incostituzionalità non può essere secca e comporti necessariamente l’adozione di una nuova disciplina o, comunque, il rimaneggiamento di quella contestata. Particolarmente delicate sono queste ipotesi quando si verte in materia penale e segnatamente in tema di determinazione delle pene edittali. Infatti: l’una, la materia penale, è soggetta alla stringente riserva di legge di cui all’art. 25.2 Cost.; l’altra, la determinazione delle pene, è di stretto appannaggio della più gelosa discrezionalità legislativa. Il nuovo corso dalla giurisprudenza costituzionale, che sembra ormai avviata a dichiarare l’incostituzionalità anche a costo di superare il limite delle cosiddette “rime obbligate” (cioè dell’unica soluzione di disciplina costituzionalmente imposta), si fonda su una convinzione serissima. L’incostituzionalità accertata ma non dichiarata è un vero e proprio paradosso che, in nome della sacrosanta discrezionalità legislativa, lascia fiorire e diffondersi sacche dell’ordinamento palesemente incostituzionali e pertanto lesive degli ancor più sacrosanti principi e valori costituzionali: alla lunga, il rischio è quello di una deriva strutturale del nostro ordinamento e della perdita dei suoi connotati fondamentali. Se è vero che questo nuovo corso modifica gli equilibri complessivi del sistema e in qualche modo è del tutto consentaneo a quell’evoluzione epocale del diritto in senso sempre meno legislativo, è anche vero che esistono cause più prossime del fenomeno sulle quali proprio il legislatore dovrebbe essere il primo a riflettere (se la politica tornasse ad avere lo sguardo lungo e ad alimentarsi un poco di più di cultura e di cultura giuridica in particolare). Soprattutto in materia penale, il nostro sistema ha raggiunto un grado intollerabile di caoticità ed ingovernabilità: già da tempo terreno di scorrerie per campagne schizofreniche di repressivismo elettoralistico oppure di ammorbidimenti efficientistici, il sistema sembra ora inclinare verso involuzioni consumate alla duplice insegna di un accanito moralismo punitivo o di obiettivi falsamente securitari. Il risultato è che sono lacerati non solo i valori contenutistici di riferimento di un diritto penale costituzionalmente orientato, ma diventa impossibile anche solo mantenere una trama di razionalità e calcolabilità delle soluzioni. Si direbbe che in queste condizioni la medicina migliore sia la quiete del legislatore, ma è anche vero che i mali funzionali del sistema, specie processuale e sanzionatorio, imporrebbero riforme di grande e lungo respiro. Riforme, però, impossibili perché rese ormai talmente impegnative e complesse che nessuna forza politica è disposta a scommettere e investire capitale elettorale su così lunghi periodi quali quelli che sarebbero ineluttabilmente necessari - al di là dei contenuti di merito - per realizzare riforme davvero di sistema. Forse solo il ritorno al bipolarismo politico e dunque alla stabilità, insieme ad un recupero di saggezza e ragionevolezza, potrebbero autorizzare un programma di riforme non sollecitate e non sfigurate dai sempre incombenti e susseguentisi appuntamenti elettorali. La conseguenza di tutto ciò è che il sistema, sotto le continue e spesso dissennate stratificazioni legislative, ha perso terreno sotto due profili. Da un lato, si è allontanato dallo spirito costituzionale: soprattutto con gli ultimi provvedimenti, non sono più i singoli e puntuali contrasti di questa o quella disposizione con questo o quel parametro costituzionale che vengono in gioco, quanto la complessiva ispirazione delle nuove norme che si allontanano sempre più dai valori di fondo di riferimento ed identità costituzionale. Dall’altro, il parossismo legislativo corrode quotidianamente qualunque razionalità sistematica dell’intero edificio, scosso dunque non tanto da astratti inestetismi ma da vere e proprie ferite alla ragionevolezza che rischiano di degenerare in ingiustizie. Corte e nuovi compiti - Dinanzi a una situazione siffatta non solo è naturale che la Corte costituzionale si faccia più avvertita, più incline ad assumere un controllo più diretto ed accentrato dell’involuzione che corrode il sistema. Ma è anche del tutto consequenziale che i suoi strumenti si facciano più penetranti. I problemi istituzionali e anche i dubbi tecnici di sicuro non mancano. E altrettanto sicuramente non sono elusi a cuor leggero dalla Corte sotto la spinta di inesistenti pulsioni di esorbitanza o prevaricazione. Al contrario, nell’aprirsi verso l’esterno con i suoi “viaggi”, e non solo con quelli, la Corte lancia un messaggio della perdurante e irrinunciabile vitalità della Costituzione da alimentare anche mediante la prudente forgiatura di strumenti relativamente nuovi di cui finora non s’era avvertita la necessità. *Professore emerito di Diritto penale università di Firenze L’indipendenza del giudice ha per condizione la sua soggezione alla legge di Adriano Sofri Il Foglio, 2 aprile 2019 Un mese fa avevo riferito qui come sapevo di un dibattito ascoltato sulla delenda Radio Radicale, a proposito della raccolta di scritti di Paolo Grossi intitolata “L’invenzione del diritto”. Vi si trattava fra l’altro dei giudici investiti di un’applicazione della legge che prende sempre più la veste dell’interpretazione, al punto di farne dei coautori della legge stessa. Ripetendo l’avvertenza di allora sulla mia categoria di orecchiante, riferisco oggi un intervento ascoltato domenica sulla decapitanda Radio Radicale, in cui il professor Paolo Ferrua, illustre studioso di diritto processuale penale, sollevava risolutamente il problema di un giudice, qui il giudice penale, reso tendenzialmente indipendente dalla legge stessa. Mi scuso dunque dei fraintendimenti possibili e anzi probabili del mio sunto: mi premunirò con qualche citazione (la relazione si può ascoltare sul sito). L’indipendenza del giudice ha per condizione la sua soggezione alla legge. Il giudice “creativo” nell’interpretazione della legge e dunque attore o partecipe della legislazione contraddice la propria condizione non rappresentativa: priva cioè dell’investitura democratica propria del legislatore. (Qui, come in altri punti, ho una istintiva tentazione ad allarmarmi, sentendo un’assonanza con l’argomento principe dei demagoghi oggi in auge, sui giudici e in generale su chiunque in qualsiasi campo, scienziati dei vaccini e ragazzini che telefonano dal bus compresi, non sia stato “eletto”: ma mi controllo e distinguo). L’invadenza della magistratura, fenomeno noto e annoso, trova nella progressiva prevalenza del “diritto vivente” rispetto al “diritto vigente”, cioè della giurisprudenza, delle sentenze, rispetto alla legge, un nuovo e ingente svolgimento. (Poiché ogni esorbitanza trova le sue spiegazioni, se non le sue giustificazioni, è chiaro che l’insipienza progressiva del legislatore gioca una sua parte rilevante: le leggi assurde nella sostanza o nella confezione eccitano la correzione “interpretativa”). Ferrua esemplifica rispetto alla stessa Corte costituzionale, criticando in particolare il suo riconoscimento di una prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello nazionale. Finché, dice, non ci sarà uno stato federale europeo con una sua Costituzione, nessuna giurisprudenza potrà avere ragione sulla nostra Costituzione. (Secondo istintivo allarme mio: sento arrivare la difesa della sovranità, che i tempi hanno reso quasi infrequentabile. Ma distinguo anche qui). Dice: la Corte è arrivata inoltre a dichiarare vincolante la motivazione delle sentenze della Corte europea, la Cedu (che non c’entra con la Ue). Ma vincolante nella sentenza è il dispositivo, al cui ordine bisogna ottemperare, non la motivazione, che è affatto discutibile. Ciò che vale anche per la Cassazione, le cui sentenze a Sezioni unite sono a loro volta vincolanti nel dispositivo e non nella motivazione (terzo allarme, e comunque dispiacere da parte mia: una sentenza delle Sezioni Unite diede torto ai giudici che mi avevano condannato e i giudici successivi trovarono i modi di aggirarla, compresa la sentenza suicida: ma ormai rinuncio ai miei allarmi per seguire l’argomentazione del professor Ferrua). Il quale si chiede “provocatoriamente”: “L’art. 111 della Costituzione parla del giusto processo regolato dalla legge. Ma esiste ancora la legalità nei termini così posti? Possiamo dire che il processo penale sia veramente regolato dalla legge?” Ferrua si dice incerto sull’eventualità che sia nato prima l’uovo dell’invadenza della magistratura o la gallina dei guazzabugli del legislatore (queste sono parole mie). Non che manchino le leggi, anzi: ce ne sono fin troppe. Ferrua parla di “decadenza del linguaggio legislativo, giunto a un punto folle di indecifrabilità”, e di autonomizzazione crescente del diritto vivente, la giurisprudenza creativa. La quale induce il legislatore stesso a dirsi: “se la vedranno i giudici”. Lo stesso presidente del Consiglio di stato, Patroni Griffi, è arrivato a ratificare lo svolgimento mostruoso per cui “la giurisprudenza ha fatto ingresso nella fabbrica delle leggi”. Ma il giudice che diventa legislatore perde la sua legittimazione. C’è un’arrendevolezza della dottrina “postmoderna” che mette in discussione la distinzione centrale fra creazione e interpretazione. “Ogni successione di parole può essere interpretata, ma esiste pur sempre il limite, quella che Kelsen chiamava la cornice dei significati: oltre quel limite il giudice sta creando la disposizione”. (La Consulta, aggiunge Ferrua, ha cercato di rimediare a quel paio di sentenze esagerate attenuandone successivamente la portata, ma così rischia di relativizzare la cosa. Come tutte le grandi istituzioni, la Corte teme di perdere legittimità riconoscendo i propri errori: invece dovrebbe farlo francamente). Ecco, penso che anche noi illetterati abbiamo interesse a seguire queste lezioni. Finché dura Radio Radicale, almeno. Sulla castrazione chimica nuovo scontro. Il Carroccio oggi vota sì, i grillini contrari di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 2 aprile 2019 Castrazione chimica: la Lega vota sì, il M5s no. La spaccatura della maggioranza sul tema dei diritti, che ha tenuto banco nel weekend del congresso della Famiglia, si prepara ad emergere plasticamente in Aula alla Camera. I partiti di maggioranza e di opposizione voteranno insieme le nuove norme sul revenge porn, al centro di uno scontro la scorsa settimana. Ma il vero nodo emergerà quando si arriverà all’emendamento leghista al “codice rosso” sulla violenza sulle donne, lanciato da Giulia Bongiorno con un’intervista al Messaggero, per introdurre nel nostro ordinamento la castrazione farmacologica, sia pure facoltativa e temporanea, per gli stupratori. Questa volta non sembra esserci mediazione possibile. E si annuncia la prima plateale spaccatura gialloverde, nell’ambito di una “convivenza” al governo che si fa sempre più difficile. Non è soltanto un problema di contratto di governo. E, infatti, non basta guardare cosa c’è o non c’è dentro l’accordo siglato quasi un anno fa tra Matteo Salvini e Luígi Dí Maio, per trovare il bandolo della matassa della lite continua che ormai caratterizza i rapporti tra gli alleati gialloverdi. Come ha dimostrato la distanza sul Congresso di Verona, la famiglia e i temi etici più in generale sono argomento su cui Carroccio e M5 s partono da posizioni opposte. E altrettanto dicasi per le unioni civili. Per un ministro, come il leghista Lorenzo Fontana, che sostiene che “le famiglie arcobaleno non esistono”, c’è uno Spadafora che partecipa al Gay pride e assicura che su quei diritti acquisiti non si torna indietro. Ma la distanza è testimoniata anche nero su bianco da numerosi disegni di legge. Nessun cenno nel contratto di governo al tema del fine vita su cui i gialloverdi sono assolutamente distanti. In Senato lo stellato Matteo Mantero ha presentato un testo che introduce la possibilità di ricorrere al trattamento eutanasico, definito come “la somministrazione di farmaci, compiuta da personale medico, che mette fine, in modo immediato e indolore, alla vita di una persona”. Si precisa che ne ha diritto “il paziente maggiore di età, capace di intendere e di volere e le cui sofferenze fisiche o psichiche siano insostenibili e irreversibili, o che sia affetto da una patologia caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. Lo stesso esponente grillino ha anche presentato un ddl per la liberalizzazione della cannabis. Al contrario, la Lega - in una conferenza stampa alla quale era presente anche Salvini - ha illustrato una proposta che prevede il raddoppio delle pene per chi spaccia e la cancellazione della clausola di salvezza per le “fattispecie di lieve entità”. Visioni diametralmente opposte anche sull’aborto. Tutti d’accordo che la legge 194 non si tocca, e tuttavia l’esponente del Carroccio Stefani ha presentato una proposta di legge che prevede l’adottabilità del bambino già durante la gestazione. Una filosofia assolutamente ribaltata è invece presente nella proposta del 5 stelle Gallinella che rende possibile l’interruzione volontaria di gravidanza anche dopo i novanta giorni quando il feto presenti malformazioni “incompatibili con la vita”. Altro terreno di scontro degli ultimi giorni è l’emendamento presentato dalla Lega al disegno di legge sul Codice rosso che prevede la possibilità di usufruire della sospensione condizionale della pena se il condannato per reati di violenza sessuale accetta di sottoporsi alla castrazione chimica. Il M5S è contrario, così come ha alzato le barricate contro una proposta della leghista Cattoi - da cui per la verità ha preso le distanze anche Salvini - che rende più facile l’acquisto di armi per la difesa personale aumentando da 7,5 a 15 joule il discrimine tra quelle comuni da sparo e quelle per le quali non è necessario il porto d’armi. Via dal Codice rosso i reati criticati dall’avvocatura, ma le pene sono iperboliche di Errico Novi Il Dubbio, 2 aprile 2019 Oggi la legge sulle violenze di genere torna in aula: i giudizi di Cnf, Ocf e Camere penali. Eliminata l’ipotesi di “molestie sessuali” (troppo generica) e quella di “violenza con contatto degli organi”. Rischi dal bilanciamento, reso meno discrezionale, delle attenuanti. Una buona legge. Nata con una manciata di articoli. E una norma chiave: il pm ha l’obbligo di ascoltare nel giro di 72 ore chi denuncia reati tipici della violenza di genere, a cominciare dai maltrattamenti in famiglia. Poi tra Lega e Cinque Stelle c’è stata una certa corsa a chi “caratterizzava” di più il ddl sul “Codice rosso”. E così il testo che oggi torna all’esame di Montecitorio, per ottenere il sì entro questa settimana, è diventato un calderone complicato e con troppe iperboli. Soprattutto sull’innalzamento delle pene per i reati di violenza sessuale. La legge voluta dai ministri Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede rischia così anche di far declinare in senso negativo il giudizio degli avvocati. Eppure Cnf, Ocf e Unione Camere penali avevano messo in guardia già a fine febbraio i deputati della commissione Giustizia dal rischio di sovrapporre inutili ridondanze agli aspetti positivi. Va detto che alcune delle ipotesi discusse in sede referente sono state accantonate, anche in linea con i risultati delle audizioni. Soprattutto riguardo ad alcune ulteriori fattispecie che il Movimento cinque stelle avrebbe voluto introdurre. Tra queste, un reato che escludeva dai casi di violenza sessuale di “minore gravità” - in modo da punirli più severamente - quelli in cui “l’atto importi il contatto con l’organo sessuale senza l’interposizione degli indumenti”. Una norma che avrebbe evidentemente tradito il principio di genericità, e che non a caso era stata contestata dai penalisti, rappresentati in audizione dalla componente della giunta Ucpi Paolo Savio. Dal testo che oggi torna in aula è scomparsa anche la troppo generica formulazione del reato di “molestie sessuali”, pure criticato dagli avvocati. Resta però all’articolo 7 del provvedimento il reato di “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso”. Un modo per punire con particolare severità orrori come lo sfiguramento con l’acido subìto da Lucia Annibali, ora deputata Pd e componente proprio della Commissione Giustizia. Le condanne arriveranno fino a 14 anni: “Ma c’è il reato di lesioni aggravate che già può determinare pene molto alte”, aveva fatto notare Savio. I rappresentanti di istituzioni e associazioni forensi non hanno ancora avuto modo di esprimersi su alcuni interventi presentati in conferenza stampa dallo stesso guardasigilli Alfonso Bonafede, come quello che eviterebbe “la discrezionalità nel bilanciamento delle attenuanti e delle aggravanti”. Ipotesi dalle conseguenze pesanti per l’equilibrio del sistema. Rischio che vale in modo esponenziale per l’ipotesi di concedere gli sconti di pena ai condannati per violenza sessuale solo se accettano di sottoporsi alla castrazione chimica (a cui si fa cenno in altro servizio della pagina, ndr). In generale non sembra ispirata ai principi cardine dell’ordinamento una dichiarazione come quella di Stefania Ascari, la deputata M5S che per prima aveva proposto le norme inserite nel ddl governativo in corso d’opera: “Il messaggio dev’essere chiaro: nessuna pietà e nessuna giustificazione”. Ma è anche vero che altre parti della legge sono in chiaro scuro non tanto per le intenzioni, condivisibili, quanto per l’incertezza sulle risorse. È il caso dell’articolo 4 sulla “formazione degli operatori di polizia”: “Giustissimo”, dice Savio, “ma con l’invarianza finanziaria rischia di essere un’idea inapplicata”. Ci sono ancora altri aspetti, più vicini alla struttura originaria del disegno di legge, sui quali c’è stata una sollecitazione positiva del Cf, rappresentato in audizione dall’attuale vicepresidente Maria Masi. Innanzitutto la “tempestività” delle indagini, salutata come un necessario adeguamento alla direttiva europea chiave in materia, la 29 del 2012. Il documento del Cnf aveva anche visto “con favore” gli obblighi introdotti “per il giudice penale”, quando sono in corso procedimenti civili di separazione dei coniugi, cause relative all’affidamento di minori o alla responsabilità genitoriale, di “trasmettere senza ritardo al giudice civile i provvedimenti adottati nei confronti di una delle parti, relativi ai delitti di violenza domestica o di genere”. Così come Masi aveva ricordato la necessità di tutelare il “diritto della vittima a ricevere una serie di informazioni”, soprattutto in materia di misure cautelari adottate o revocate nei confronti del coniuge o convivente violento. Meccanismi effettivamente affinati grazie al testo. Che avrebbe potuto essere più efficace ed equilibrato con qualche eccesso sanzionatorio in meno. I segreti dei pm in vendita sul web, indagati quattro periti a Napoli di Valentina Errante Il Messaggero, 2 aprile 2019 Intercettazioni ambientali e telematiche delle indagini coordinate dalle procure di mezza Italia disponibili a chiunque avesse le password di accesso del sistema Exodus, software spia disponibile almeno ad una ventina di società e acquistabile anche on line. Non c’è soltanto il mistero dei cellulari di ignari utenti infettati da Exodus, il malware diffuso attraverso la app di servizi telefonici ordinari, nell’inchiesta del Nucleo speciale Tutela Privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, del Ros dei carabinieri e della polizia Postale, coordinati dalla procura di Napoli, c’è il dato allarmante della completa disponibilità degli atti di indagine riservati che, anziché essere custoditi in server dedicati nella disponibilità dei soli uffici giudiziari competenti, venivano salvati in un server Amazon in Oregon, ed erano consultabili dai titolari della società eSurv di Catanzaro e da tutti i clienti che disponevano di credenziali. Come la Stm, azienda che, per conto delle procure, aveva ottenuto l’appalto delle intercettazioni. Al momento sono quattro i nomi finiti sul registro degli indagati: Maria Aquino, rappresentante legale della Stm, e Vito Tignanelli amministratore di fatto della società che si era appaltata le intercettazioni per le procure, quindi Giuseppe Fasano, amministratore legale della eSurv e Salvatore Ansani, direttore delle infrastrutture It della società calabrese che ha creato il software. A tutti vengono contestati, tra l’altro, la violazione delle norme sul trattamento dei dati personali e la frode in pubblica attività. Le perquisizioni e le acquisizioni hanno portato al sequestro di entrambe le società. Dopo un problema sorto con le intercettazioni in corso, la procura di Benevento, lo scorso ottobre, ha avviato le prime verifiche: “È stato dimostrato che i verbalizzanti - si legge nel decreto di sequestro delle società - mediante l’utilizzo di notebook in uso ai medesimi e privo di particolari meccanismi di mascheramento del proprio indirizzo Ip o collegamenti diretti verso i sistemi della Stm o della eSurv, hanno avuto accesso alla piattaforma fornita da eSurv, con possibilità di potere visionare non solo i propri dati relativi alle attività espletate nell’abito di intercettazioni telematiche a loro delegate, ma anche di altre polizie delegate da altre autorità giudiziarie nell’ambito di diversi procedimenti penali”. Un’operazione ripetuta più volte che ha permesso di mostrare la piena accessibilità, fruibilità di tutti i dati giudiziari a soggetti non autorizzati all’accesso. C’è poi l’aspetto dei cellulari infettati. La eSurv, società della quale la procura ignorava l’esistenza, per collaudare il software spia ha diffuso il virus che captava tutte le informazioni dai cellulari, diventando una vera e propria cimice, sulla rete. Sono quelli che Ansani, in un interrogatorio dello scorso gennaio, ha definito “Demo”, un lungo elenco di cellulari intercettati, attraverso una app mascherata, che garantiva servizi telefonici sullo Store di Google. Anche i dati relativi a quei cellulari sono stati trasferiti sul server in Oregon. Si legge ancora nel decreto: “La presenza contemporanea di Imei di diverse origini, tutti presenti nella stessa area cloud e tutti funzionali tramite le prerogative di Exodus, prescinde totalmente dalla corretta o meno configurazione del server”. I dati sono “disponibili a chiunque ne conosca le coordinate senza controlli o limiti”. Adesso le indagini puntano a stabilire in quanti e con quali fini abbiano avuto accesso alla piattaforma Exodus. Di certo sulla piattaforma, come precisano gli inquirenti sono disponibili “Imei riconducibili a procedimenti penali, Imei in uso ad altri organi di polizia giudiziaria ed Imei in uso a persone da identificare”. Ad avere accesso erano le società che avevano stipulato accordi di commercializzazione e impiego del software Exodus, da Caltanissetta a Frosinone, sono circa una ventina. Ma non si sa quanti altri avessero i codici. Reati ed esimenti: la convivenza di fatto è equiparata alla famiglia e all’unione civile di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2019 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 14 marzo 2019 n. 11476. Agli effetti della legge penale s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile, i fratelli, le sorelle, gli affini, gli zii e i nipoti. Ebbene ai sensi dell’articolo 384 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un danno grave. Operando una interpretazione di diritto vivente della norma, la Corte di Cassazione, sentenza n°11476/2019, in tema di favoreggiamento personale ha affermato che la suddetta causa di non punibilità opera anche in relazione ai rapporti convivenza di fatto. In altre parole, una interpretazione valoriale, non in contrasto con la Costituzione e conforme alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consente di ritenere applicabile l’istituto in esame anche ai rapporti di convivenza more uxorio. Le coordinate della vicenda - La circostanza affrontata dalla Corte di Cassazione prende avvio dalla conferma da parte della Corte di appello della sentenza con cui il Tribunale di prime cure aveva condannato un imputato per reato di favoreggiamento. All’imputato era stato contestato di aver aiutato un evaso a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri ospitandolo nella propria abitazione. Orbene tra l’imputato e la sorella del ricercato sussisteva un rapporto di stabile e consolidata convivenza, dal quale erano nati ben cinque figli. Secondo il ricorrente la Corte di merito non avrebbe tenuto conto della esimente di cui all’articolo 384 comma 1 del codice penale, non riflettendo dell’evoluzione giurisprudenziale prima e legislativa poi che ha valorizzato una nozione onnicomprensiva di rapporto coniugale, la quale secondo le coordinate Cedu e la bussola costituzionale ha sdoganato i legami coniugali di fatto nella nozione giuridica, attuale, di famiglia. La ricostruzione della Cassazione - Per vero con riguardo ai rapporti coniugali di fatto, la Corte Costituzionale ha reiteratamente asserito che l’articolo 29 della Costituzione riconosce al rapporto coniugale matrimoniale una dignità di tutela prevalente in ragione dei caratteri di certezza, stabilità, reciprocità di diritti e doveri; mentre la famiglia di fatto è fondata sull’affectio delle parti liberamente revocabile. Si pone tuttavia un problema di diritto vivente: la legislazione è ancora efficiente alla luce del mutamento della società? Quanto alle unioni civili già dal 2016 con la legge Cirinnà sono stati riconosciuti effetti giuridici a relazioni affettive tra persone dello stesso sesso: le unioni civili sono oggi equiparate al coniugio matrimoniale. A ben guardare la suddetta legge qualifica invece conviventi di fatto persone unite stabilmente da un legame affettivo e di reciproca assistenza. Ben vero coniugi dunque, ancorché non vincolati da rapporto di matrimonio o di unione civile. Legame nondimeno diverso dalla convivenza di mero fatto per via della formale dichiarazione anagrafica. Il tema in analisi attiene ai riflessi penalistici. A ben guardare l’effetto delle progressive riforme ha attratto le unioni civili nella regolamentazione della famiglia eterosessuale, tuttavia sul piano penale non è intervenuta sulle coppie di fatto. Si rileva quindi una incrinatura: l’assimilazione al coniuge matrimoniale della sola parte dell’unione civile può condurre a decidere in modo diverso forme di convivenza per certo distinte sul piano formale, ma nella sostanza, nella società agente, analoghe. La questione come nella vicenda in analisi è di rilievo soprattutto con riguardo alle disposizioni penali che producono effetti in bonam partem: attenuanti, scusanti, cause di non punibilità. Una impostazione fredda, formale, comporta il rischio di incompatibilità costituzionale della diversità di tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto. Sul piano penalistico se quindi si insegue coerenza complessiva di sistema, il binomio famiglia giuridica - famiglia di fatto, va quindi ricondotto ad unità. Siffatta interpretazione è nondimeno conforme alla Cedu che sposa una nozione concreta di rapporto coniugale. Alle norme Cedu è riconosciuto rango di fonti interposte, volte a integrare il paradigma costituzionale. Dacché il contrasto tra la rilevanza agli effetti penali della famiglia di fatto nell’ordinamento interno e le disposizioni Cedu, seppur evidente, va superato in via interpretativa poiché il necessario adeguamento della normativa interna a quella sovranazionale rispetta lo statuto del diritto che vive nella collettività, ed ai sensi del quale sussiste ineludibile equiparazione ad effetti penali in bonam partem della famiglia matrimoniale e dell’unione civile a quella (stabile) di fatto. Secondo la Cassazione nel caso di specie il precipitato giuridico è la completa applicabilità dell’esimente in questione. Dal che la fattispecie non costituisce reato. Alcol, per il lavoro di pubblica utilità valore diverso dalla pena pecuniaria di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2019 Corte costituzionale - Ordinanza 59. Nel caso di guida in stato di ebbrezza, lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità è inconciliabile con la conversione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. È il monito che viene dalla Corte costituzionale. Con l’ordinanza 59 del 20 marzo, infatti, la Consulta ha stabilito che l’articolo 186, comma 9 del Codice della Strada - che contiene la disciplina della sostituzione in lavoro di pubblica utilità della sanzione penale (arresto congiunto ad ammenda) inflitta per la guida in stato di ebbrezza - non è incostituzionale anche se, nei casi di decreto penale di condanna, prevede un valore giornaliero economico di conversione della porzione economica della pena (250 euro per giorno di lavoro di pubblica utilità) più alto di quello previsto per la sostituzione della pena detentiva in pecuniaria (da 75 a 225 euro). Ciò in quanto si tratta di due forme sanzionatorie non equiparabili, che rispondono a finalità rieducative tra loro diverse. La questione di costituzionalità era stata sollevata dal Tribunale di Torino e muoveva dalla lettura del comma 1-bis dell’articolo 459 del Codice di procedura penale, introdotto dalla legge 103/2017: la norma prevede che il giudice, quando emette un decreto penale di condanna, possa sostituire la pena detentiva in pecuniaria, attribuendo un valore giornaliero di conversione oscillante tra 75 e 225 euro, alla luce “della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare”. Prima della legge 103, il criterio di conversione era 250 euro per giorno di pena sostituita. L’articolo 186, comma 9, non modificato dalla legge 103, prevede che il giudice, anche con il decreto penale di condanna, possa sostituire la pena irrogata con il lavoro di pubblica utilità, ovvero attività non retribuita in favore della collettività, da svolgersi prioritariamente nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale. Poiché il reato di guida in stato di ebbrezza prevede la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda, l’articolo 186 stabilisce che il lavoro di pubblica utilità abbia una durata corrispondente a quella della pena detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro a un giorno di lavoro. Secondo il giudice di Torino, la modifica che ha riguardato l’articolo 459, in assenza di un corrispondente intervento sull’articolo 186 comma 9, avrebbe comportato “notevole incertezza” sul regime sanzionatorio applicabile, e “disparità di trattamento ingiustificata tra situazione analoghe”, dato che il calcolo per stabilire la durata del lavoro di pubblica utilità avverrebbe con parametri disomogenei rispetto a quelli fissati per la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria. La Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione. Il cuore della motivazione ruota intorno alla diversità che esiste tra la conversione della pena detentiva in pecuniaria e la sostituzione della pena nel suo complesso con il lavoro di pubblica utilità, che “costituiscono strumenti distinti di adeguamento della sanzione al caso concreto e alle caratteristiche personali dell’imputato, corrispondenti a diversificate e non sovrapponibili esigenze afferenti alla funzione rieducativa della pena”. Dunque, conclude la Consulta richiamando anche la giurisprudenza della Cassazione, i due regimi sanzionatori sostitutivi non possono essere applicati cumulativamente. Si tratta di una decisione condivisibile, che mira alla responsabilizzazione dell’imputato. In caso di trasgressione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, infatti, egli può subire il ripristino della pena sostituita: se questa è anche di natura detentiva, e non solo pecuniaria, starà ben attento a svolgere scrupolosamente il lavoro di pubblica utilità. Stupefacenti: riconducibilità fatto illecito nell’ipotesi di lieve entità. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2019 Stupefacenti - Fatto di lieve entità - Qualificazione - Elementi - Motivazione. Ai fini della riconducibilità del fatto alla fattispecie della spaccio di lieve entità, di cui al comma 5 dell’art. 73 T.U. stupefacenti, il giudice effettua una valutazione complessiva della condotta secondo i parametri contenuti nella stessa norma e dunque valutando i mezzi, le circostanze e le modalità dell’azione nonché, con riguardo all’oggetto materiale, entità e qualità delle sostanze stupefacenti. Salva l’ipotesi in cui il quantitativo assume valore dirimente essendo la quantità tale da ricondurre immediatamente il fatto nell’ipotesi di cui al primo e al secondo comma dell’art. 73, sì da risultare superflua una motivazione ad hoc, di norma il giudice deve specificare quali altri elementi, a fronte del mero dato della detenzione di stupefacente in una quantità che sia in compatibile con le due diverse ipotesi di reato, consentano di qualificare correttamente il fatto. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 22 marzo 2019 n. 12736. Stupefacenti - Detenzione - Uso personale ovvero spaccio - Connotazione di lieve entità. La caratteristica di “lieve entità”, quale requisito oggettivo del fatto e non della condotta, deve ritenersi esclusa in costanza di produzione ovvero detenzione o traffico di sostanze stupefacenti allorquando, previa valutazione complessiva delle circostanze di fatto di cui alla normativa di riferimento (D.P.R. 309/90), si connoti una condotta illecita, laddove il grado di purezza della merce, la quantità, il denaro rinvenuto presso l’abitazione dell’interessato facciano dedurre un più ampio quadro criminale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 19 ottobre 2018 n. 47721. Stupefacenti - Fatto di lieve entità - Valutazione complessiva degli elementi dell’azione. Ai fini del riconoscimento o meno dell’ipotesi del fatto di lieve entità, il giudice è comunque tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati ovvero sia quelli concernenti l’azione che quelli attinenti all’oggetto materiale del reato. In tema di stupefacenti, solo attraverso tale valutazione complessiva della condotta tenuta dall’imputato, il giudice è in grado di valutare in concreto il “piccolo spaccio”, caratterizzato da una minore portata dell’attività dello spacciatore, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 25 novembre 2016 n. 50069. Stupefacenti - Detenzione illecita - Qualificazione del fatto nel reato di lieve entità - Motivazione - Contenuto - Dato ponderale - Rilevanza - Limiti - Fattispecie. In tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti, qualora il dato ponderale sia, in sé, compatibile tanto con le previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990 quanto con quella autonoma, “lieve”, di cui al comma quinto del medesimo articolo, il giudice deve in motivazione specificare quali altri elementi consentano di qualificare il fatto nell’una o nell’altra ipotesi di reato. (In applicazione del principio la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame, che aveva escluso la fattispecie della lieve entità, sulla base soltanto del quantitativo di hashish detenuto dall’imputato, pari a 45 grammi lordi). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 28 ottobre 2016 n. 45694. Stupefacenti - Attività illecite - Fatto di lieve entità - Abitualità della condotta - Ostatività - Esclusione - Ragione. La differenza fra le due ipotesi di reato dell’art. 73, D.P.R. n. 309/1990, previste rispettivamente nei commi 1 e 5) non attengono al carattere occasionale o abituale dello spaccio, in particolare l’ipotesi minore di cui al comma 5 non è affatto condizionata dalla episodicità dell’attività criminale, come dimostra il fatto che è prevista, nell’articolo 74 dello stesso D.P.R., la figura della associazione finalizzata alla commissione di reati di cui all’articolo 73, comma 5. Piuttosto, la fattispecie autonoma di cui al comma 5 dell’articolo 73 è configurabile nelle ipotesi di cosiddetto “piccolo spaccio”, che si caratterizza per una complessiva minore portata dell’attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a decine. Del resto, se si ritenesse che un reato autonomo, quale è l’articolo 73, comma 5, sussista non per le sue caratteristiche in sé, ma per essere la data condotta singola senza collocarsi in un contesto di condotta “abituale”, dovrebbe ritenersi che il comma 1 dell’articolo 73 sia un reato abituale, ricorrendo, invece, il reato di cui al comma 5 a fronte di qualsiasi entità del singolo traffico che non abbia caratteri di abitualità; o, comunque, dovrebbe ritenersi l’ipotesi di cui al comma 1 quale reato eventualmente abituale con il conseguente assorbimento delle ulteriori (pur se numerose e protratte nel tempo) condotte (da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna che aveva escluso il “fatto lieve” valorizzando solo la circostanza che le condotte di spaccio fossero “abituali”). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 9 febbraio 2016 n. 5257. Stupefacenti - Detenzione e spaccio - Fatto di lieve entità - Parametri di riferimento - Valutazione - Fattispecie. La fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990, si caratterizza per una complessiva minore portata delle attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro, nonché guadagni limitati. Tale condotta può anche ricomprendere la detenzione di una provvista per la vendita, che, comunque, non deve essere superiore a dosi conteggiate a decine. Si deve valorizzare, inoltre, anche il dato economico della sostanza, in quanto parametro di individuazione del piccolo spaccio è anche la sua redditività, essendo evidente che, per ottenere il medesimo risultato economico, si dovrà commerciare un maggior numero di dosi di derivati della cannabis rispetto al numero di dosi di eroina (o di altra droga pesante) equivalente. Ciò con l’ulteriore precisazione che, rispetto ai parametri di riferimento indicati dalla norma (quantità e qualità dello stupefacente, mezzi adoperati, modalità e circostanze della condotta), anche lo scostamento da uno solo di questi comporta l’esclusione dell’ipotesi lieve (fattispecie in cui la Corte ha condiviso il diniego dell’ipotesi lieve operato dal giudice di merito valorizzando negativamente la circostanza del collegamento non occasionale degli imputati con trafficanti di rilevante spessore criminale dai quali si procuravano la droga e dalle modalità articolate della successiva attività di spaccio, non limitando l’apprezzamento al dato ponderale della sostanza sequestrata). • Corte cassazione, sezione feriale penale, sentenza 26 agosto 2015 n. 35666. Viterbo: la storia di Giovanni Delfino, ucciso nel carcere di Mammagialla di Raffaele Strocchia tusciaweb.eu, 2 aprile 2019 “Aveva scelto lui di andare in carcere, per levarsi dalla strada e avere un tetto sulla testa”. Nel racconto di Elena Andreoli, volontaria della Croce Rossa, la vita di Giovanni Delfino: “Poteva scontare la pena ai domiciliari, ma non aveva una casa. In prigione per riavere dignità, era una persona fragile”. “Aveva scelto lui di andare in carcere. Avrebbe potuto non entrarci, ma non aveva una casa. Voleva levarsi dalla strada, avere del cibo caldo e un tetto sulla testa. Aveva scelto di andare in prigione per riacquistare un minimo di dignità, ma che destino che si è segnato”. Elena Andreoli, volontaria della Croce Rossa di Viterbo, è stata l’angelo custode di Giovanni Delfino, il detenuto di 61 anni ucciso a colpi di sgabello dal compagno di cella. Per la Cri, Andreoli si occupa dei senzatetto. Come Giovanni che, interrotti i rapporti con la famiglia, non aveva più una casa. Dormiva per strada e, quando gli andava bene, da dei conoscenti. Senza un lavoro, chiedeva l’elemosina, andava a mangiare alla Caritas e frequentava il Sert. Giovanni era un povero, un emarginato, uno degli ultimi. “L’ho conosciuto nell’inverno del 2016, quando già viveva per strada - racconta Andreoli. Tra le gradinate davanti ai resti della chiesa delle Fortezze, accanto al parcheggio di porta Romana, e porta San Leonardo, vicino alla Caritas. Era una persona fragile, tranquilla e rispettosa. Non creava problemi né dava fastidio. Anzi, era spesso vittima di aggressioni. Più di una volta l’ho dovuto accompagnare al pronto soccorso perché era stato picchiato. A porta Romana lo andavo a trovare tutti i pomeriggi. Gli portavo coperte, scarpe e vestiti. Parlavamo molto. Ogni giorno, finché non è entrato in carcere”. Giovanni era a Mammagialla da fine agosto. Doveva scontare circa un anno e mezzo per tre vecchi reati. “Poteva espiare la pena ai domiciliari, ma non aveva una casa, o con i lavori socialmente utili - sottolinea Andreoli. Ma ha scelto di andare in prigione per stare al caldo. Dormiva nell’ex pub di valle Faul o in un sottoscala al Carmine. Al freddo, in un angolino. È stato in tuguri peggiori della strada, e così ha scelto di entrare in carcere per riprendersi un po’”. Questa vita lo ha provato psicologicamente e fisicamente. Giovanni soffriva di diabete ed era claudicante. “Era invalido al 100% - continua Andreoli. Zoppicava ed era malato. Non aveva forza fisica. Le notti d’inverno le trascorreva nella stazione di porta Romana e spesso capitava che tra gli altri senzatetto si scaldassero gli animi, ma lui si alzava e se ne andava. Sempre, non ne voleva proprio sapere. A 60 anni voleva solo fare una vita il più normale possibile, per potersi riavvicinare almeno al figlio. Giovanni beveva, ma al Sert era riuscito a disintossicarsi”. Andreoli ripercorre tutta la vita di Giovanni. “Si era sposato giovane e dal matrimonio è nato un figlio. Vivevano al Carmine. Poi la separazione con la moglie e la relazione con un altra donna. Si arrangiavano, lui faceva qualche lavoretto ed erano riusciti a prendere una casa in affitto. Dopo la morte della compagna, è caduto in depressione e in miseria. Da solo non ce l’ha più fatta e ha iniziato a vivere per strada. Prendeva 300 euro di pensione di invalidità, e non riusciva a pagare l’affitto. Beveva, e la sua famiglia era disperata. La madre, il fratello e la sorella ne soffrivano. Avrebbero voluto accoglierlo, ma non si fidavano più di lui. Del fratello e della sorella aveva grande stima, e sapeva che la colpa dell’allontanamento era soltanto la sua perché beveva. Per anni non ha visto neppure il figlio, che è una bella persona. Fa il militare a Roma. Si sono rincontrati un anno fa, quando Giovanni ha divorziato dalla moglie. Si è sempre vergognato di andare a trovare il figlio in quelle condizioni, eppure il ragazzo è stato molto contento di rivederlo. Si era offerto di ospitarlo a Roma e di prendergli una stanza, ma poi Giovanni è andato in carcere”. Mentre racconta, Andreoli si commuove. “La notizia della sua morte - conclude - mi ha addolorata. Sto male, ma sono anche molto arrabbiata. Per la fine che ha fatto a Mammagialla e perché non sono riuscita a dargli una casa. Ho fatto di tutto, ma le istituzioni non mi hanno aiutata. Per Giovanni non c’è mai stata una casa popolare, né una piccola camera”. Viterbo: ispezioni della Commissione europea e ministero al carcere di Maria Letizia Riganelli Il Messaggero, 2 aprile 2019 “Mammagialla non può continuare a essere la terra di nessuno. Anche la città deve prendere atto che c’è un problema, non possiamo far finta che non esista”. L’opposizione in Consiglio comunale, dopo l’omicidio avvenuto in carcere due giorni fa, chiede compatta la convocazione di una seduta aperta sulla situazione del penitenziario viterbese. “Vogliamo parlare spiega il consigliere Giacomo Barelli - di una situazione che è emergenziale, ma non da ora. E lo dicono soprattutto i numeri impressionanti di aggressioni, suicidi. Per questo dobbiamo approfondire. La città e la politica hanno dimostrato una disattenzione totale, ma è un mondo che non può essere dimenticato. Il problema non può essere relegato solo alla polizia penitenziaria, al garante dei detenuti e alle associazioni che collaborano con l’istituto. Non si possono ignorare l’esistenza del carcere nel territorio, i problemi che ne derivano, da quelli del sovraffollamento (ci sono 181 detenuti in più) a quelli della carenza di personale sorvegliante (40 agenti in meno). Mi auguro conclude Barelli - che il Consiglio porti consapevolezza ai cittadini su un problema che non possiamo più eludere”. Gli allarmi sul carcere viterbese erano scattati da tempo. Non solo quelli gridati dalla polizia penitenziaria sulla cronica carenza di personale. Ma anche quelli portati alla luce dagli stessi detenuti che in più occasioni hanno denunciato, tramite lettere, aggressioni, botte e insulti. Tanto da ribattezzare Mammagialla il carcere dei suicidi. La morte di Giovanni Delfino, detenuto nel reparto comune e definito dalla stessa polizia penitenziaria come persona mite, è il primo omicidio in carcere ma anche l’ultima di una serie di tragedie. Dieci giorni fa il Consiglio d’Europa ha inviato una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, con l’obiettivo di esaminare la condizione dei detenuti sottoposti al regime 41bis e all’isolamento. Una visita straordinaria che è durata dieci giorni e ha prodotto un documento che nei prossimi giorni sarà illustrato al Consiglio. Questa però non è l’unica ispezione registrata nell’ultimo periodo a Mammagialla. Dopo la puntata della trasmissione di Rai 2 Popolo sovrano, incentrata proprio sull’istituto viterbese, il ministero della Giustizia ha inviato gli ispettori nel carcere di Viterbo. Hanno lavorato per due giorni a inizio marzo. Sul caso si è mosso anche il Dipartimento con la richiesta di una relazione. Eventi straordinari che hanno gettato il penitenziario sotto i riflettori. Che qualcosa nel funzionamento non torna sembra, a questo punto, essere consolidato. “Non dobbiamo dare la colpa a nessuno afferma ancora Barelli né alla penitenziaria che fa il proprio lavoro, né alla situazione psichiatrica. È chiaro però che il problema va affrontato dalla radice. Per questo al Consiglio comunale aperto abbiamo inviato sia la penitenziaria, il procuratore capo, il direttore del carcere e il garante per i detenuti. Non serve puntare il dito contro nessuno”. E i primi che vogliono allontanare ogni sospetto sul proprio operato sono proprio gli agenti che nel carcere lavorano quotidianamente: “Che non si tenti afferma l’Usspp - ancora una volta di far ricadere sugli agenti in servizio a Viterbo colpe che sono da ricercare altrove”. Salerno: in carcere uno Sportello per i detenuti e la tutela dei loro diritti di Pina Ferro ottopagine.it, 2 aprile 2019 Ciambriello: “Il detenuto, in carcere, deve ricercare le ragioni dei propri errori”. Favorire l’orientamento dei detenuti versoi servizi socio - assistenziali e al mondo del volontariato. Questo lo scopo dello sportello socio-legale - assistenziale promosso dall’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale, e gestito dall’associazione “Il Faro”. L’iniziativa presentata questa mattina presso la Casa circondariale di Salerno coinvolge i penitenziari di Fuorni e di Eboli. “Il servizio, è teso ad aiutare i detenuti ad avere informazioni ed orientamenti legali per la tutela dei loro diritti. Il detenuto, in carcere, deve ricercare le ragioni dei propri errori, nonché riflettere su come risarcire la società e la sua famiglia. - ha precisato il Garante Samuele Ciambriello - Purtroppo, gli operatori sociali presenti in carcere sono ancora pochissimi. Su 7442 detenuti su 15 istituti regionali, vi sono appena 95 educatori, 15 psicologi delle Asl e 32 psicologi dell’amministrazione penitenziaria. L’80% delle persone che finiscono in carcere, poi ci ritornano. Chi non ci ritorna è perché ha avuto la fortuna di incontrare operatori sociali e volontari che rappresentano una vera e propria zattera di salvataggio”. Integrazione dei detenuti. Questo il fulcro dell’intervento della direttrice della casa circondariale di Salerno, Rita Romano. “I detenuti devono perdere la libertà, ma non gli si può togliere la dignità e, di conseguenza, la speranza. Bisogna dare loro un’opportunità di inserimento nel mondo del lavoro, senza il quale, qualsiasi progetto, seppur all’avanguardia, rischia di fallire miseramente”. “In questa esperienza di 4 mesi, abbiamo seguito circa 60 detenuti che, come tutti, hanno diverse esigenze. - ha spiegato Anna Ansalone, presidente dell’associazione “il Faro”- I problemi riscontrati all’interno delle carceri sono innumerevoli. Ad esempio, molti detenuti versano in gravi condizioni di indigenza, e siamo dovuti intervenire sia con piccole elargizioni di denaro, sia facendo “da ponte” con le famiglie. È necessario sensibilizzare il mondo del volontariato. Abbiamo bisogno che anche la società civile inizi a farsi carico dei problemi dei detenuti. C’è bisogno soprattutto di umanità, e spero che a noi si uniscano altri volontari pronti a dare il loro sostegno ai detenuti, e che soprattutto li aiutino a riacquisire la dignità perduta”. Concetta Felaco, direttrice del carcere Icatt di Eboli, ha sottolineato i miglioramenti raggiunti nell’ambito del reinserimento dopo la pena: “Troppo spesso si dimentica che la persona che varca la soglia del carcere non smette di essere un cittadino, anche se non libero. Se all’esterno non è presente una funzione di supporto e di intervento, gli operatori possono fare ben poco. Ciò che è importante per il detenuto è l’ascolto, il contatto e la comunicazione, che servono per la risoluzione di problemi interiori, nonché pratici. Il nostro sportello socio-legale crea un punto di contatto fra il detenuto e l’esterno, ma anche una vera e propria sinergia fra il carcere e le istituzioni. Mi auguro che queste iniziative, finalizzate al percorso di reinserimento di ogni detenuto, si ripetano in modo continuativo”. Infine, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, Monica Amirante, ha ribadito l’importanza dell’ascolto per la risoluzione dei problemi dei detenuti. Foggia: dubbi sulla morte in carcere di Gimino Chirichella infocilento.it, 2 aprile 2019 Secondo gli avvocati l’uomo di Sala Consilina potrebbe essere morto a causa di una assistenza sanitaria inadeguata. Gimino Chirichella potrebbe essere deceduto nel carcere di Foggia lo scorso 15 febbraio a causa di una assistenza sanitaria inadeguata prestata da parte dei sanitari in servizio nella casa circondariale dove era detenuto in attesa della conclusione delle indagini a suo carico per la morte della sua compagna Violeta Senchiu, la giovane madre 32enne di nazionalità rumena, rimasta gravemente ustionata nella sua abitazione dopo che il compagno, stando a quanto sostenuto dall’accusa avrebbe cosparso il suo corpo con della benzina per poi darle fuoco, ipotesi questa respinta dai familiari di Chirichiella. Gimino Chirichella aveva 48 anni, era già affetto da alcune patologie. Stando alle indiscrezioni trapelate sembrerebbe che la denuncia per accertare se vi siano delle responsabilità di terzi per la sua morte sia stata fatta perché i familiari hanno il dubbio che non sia stato adeguatamente assistito dai medici che lo hanno avuto in cura nel carcere pugliese dove era arrivato dopo un ricovero in ospedale resosi necessario subito dopo la tragedia. Il 48enne infatti aveva riportato delle ustioni in diverse parti del corpo. La denuncia è stata presentata dagli avvocati Domenico Amodeo e Franco Di Paola del Foro di Lagonegro. Violeta Senchiu era deceduta a Novembre dello scorso anno nel reparto grandi ustionati dell’ospedale Cardarelli di Napoli dove era arrivata, dopo un primo ricovero, con ustioni sul novanta per cento del corpo. Chirichella era stato arrestato a distanza di poche ore dalla tragedia con le accuse di omicidio pluriaggravato, per futili motivi, crudeltà e premeditazione e per incendio doloso. Grosseto: carcere a rischio chiusura. I sindacati: “Si trovi alternativa” La Repubblica, 2 aprile 2019 La denuncia di Francesco Sansone della Uil: “Manca solo la firma del ministro”. “La Casa circondariale di Grosseto in via Aurelio Saffi chiude, e forse molto presto, visto che manca solo la firma del ministro della giustizia”. A lanciare l’allarme sulla chiusura del carcere di Grosseto è Francesco Sansone, coordinatore provinciale di Uil Polizia penitenziaria: il sindacato, afferma Sansone, ha chiesto un incontro con il Comune “visto e considerato che vi sono soluzioni alternative alla chiusura, ma non sono state prese in considerazione”. La decisione sarebbe ormai definitiva: “L’informativa indirizzata al Capo del Dipartimento Francesco Basentini del 7 marzo 2019, firmata dal Provveditore Toscana-Umbria dell’Amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, non lascia spazio a diverse interpretazioni”, osserva Sansone. Una scelta inspiegabile per il sindacalista, visto che nel carcere di via Saffi poco tempo fa “sono stati ultimati i lavori dell’impianto di videosorveglianza, armeria, portineria, cosa questa che ancora di più ci lascia esterrefatti rispetto a spese che potevano a questo punto essere evitate”. Se comunque si decidesse di chiudere la vecchia struttura, per i sindacati bisognerebbe prima aprirne una nuova. “Da contatti avuti con il sindaco dopo aver appreso la notizia - dice il rappresentante Uil - ci risulta la piena disponibilità del comune alla cessione di una ex struttura militare, affinché si possa pensare di realizzare lì il nuovo carcere”. Una possibilità che però non sarebbe stata per il momento vagliata dall’amministrazione penitenziaria. La decisione di chiudere il vecchio carcere sarebbe dettata da alcune criticità: prima fra tutte la carenza di personale, “previsto in organico di 37 unità ma con in forza al momento solo 26 persone - denuncia Sansone - di cui 5 assegnate al nucleo traduzioni interprovinciale. Inoltre gli li spazi sarebbero “augusti ed inadeguati rispetto alle esigenze penitenziarie - continua il sindacalista - con la mensa del personale ricavata in una stanza angusta”. Empoli (Fi): il Centrodestra dice no alla Rems: “Non c’è sicurezza per Pozzale” gonews.it, 2 aprile 2019 L’ormai ex carcere femminile di Pozzale (Empoli) diventerà una Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma c’è chi dice no. In questo caso a opporsi è Andrea Poggianti, candidato sindaco alle prossime amministrative con il centrodestra, che oggi - lunedì 1 aprile - ha incontrato i residenti della frazione e ha parlato con loro di varie problematiche, su tutte lo stabile di via Valdorme Nuova. “Non si possono tenere dei criminali qui, non c’è sicurezza per i residenti anche perché le Rems non hanno un presidio di polizia penitenziaria all’interno” è stato il coro che si è alzato da Pozzale. Assieme al capogruppo e consigliere comunale de Il Centrodestra per Empoli alcune figure di spicco del centrodestra toscano, come il consigliere regionale di Forza Italia Maurizio Marchetti, il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli e il segretario Lega Empolese Valdelsa-Salvini Premier Marco Cordone. Il carcere, uno degli otto in Italia con custodia attenuata, è stato riconvertito a Rems da una decisione datata 2017. I lavori allo stabile, costati circa 800mila euro, sono partiti tempo fa e avrebbero dovuto concludersi entro dicembre 2018, ma sono ancora in corso. La residenza ospiterà 26 persone, 9 in un primo momento e altre 17 in seguito. Nel mirino di Poggianti e del centrodestra, come detto, il tema della sicurezza: “Non è possibile mettere una Rems in una zona abitata, ne va dell’incolumità dei cittadini”. Questo tipo di residenza, infatti, non prevede all’interno la presenza di polizia, la gestione è di esclusiva competenza sanitaria. Donzelli ha aggiunto: “Sono solidale con i cittadini di Pozzale che si troveranno costretti a convivere con questa preoccupazione”. Secondo Poggianti, così come secondo Donzelli, Cordone e Marchetti, la struttura dovrebbe ospitare altro: “L’idea è quella di portare qui gli uffici Asl, ma c’è pure l’ipotesi di spostare la succursale empolese dell’Università di Firenze, attualmente nel vecchio ospedale”. Marchetti ha proseguito: “La giunta Barnini ha digerito la decisione della Regione, c’è stato un tacito consenso. Nessuno ha chiesto agli abitanti cosa ne pensassero, nessuno ne ha discusso col territorio. Questa sinistra dimostra uno strapotere strafottente, non c’è voglia di condividere le decisioni”. Ha sentito parecchio il tema Marco Cordone. Suo padre venne ucciso nel 1989 da Sergio Cosimini, che non finì in carcere, bensì in una Rems. “Non dobbiamo chiamarli pazienti, ma criminali. Non è possibile che vengano messi in strutture con solo personale sanitario e infermieristico, bisogna garantire sicurezza a Pozzale e rispetto alle vittime della criminalità” ha dichiarato, emozionato, il segretario leghista. La soluzione? Sia Cordone sia gli altri convergono sulla risposta: “Chiudere l’Opg di Montelupo Fiorentino è stato un errore, dettato dall’assurdo buonismo che va di moda in questo periodo. Gli assassini devono stare in carcere, semmai con strutture psichiatriche adeguate”. Gianmarco Lotti Vibo Valentia: false malattie per aiutare detenuti della ‘ndrangheta di Rocco Valenti Quotidiano del Sud, 2 aprile 2019 Falsi certificati medici, false perizie psichiatriche, depistaggi, con l’unico obiettivo di far uscire di galera Andrea Mantella, considerato uno dei capi emergenti dell’articolazione di ‘ndrangheta “Pardea-Ranisi”, oggi divenuto collaboratore di giustizia. Grazie a questa fitta rete di medici, psichiatri, avvocati e consulenti tecnici, la ‘ndrangheta era riuscita a far diventare una clinica sanitaria convenzionata, dove venivano ricoverati i capi “malati”, una sorta di quartier generale della ‘ndrangheta dove venivano fatte riunioni tra gli appartenenti alle varie articolazioni. Il Nucleo investigativo del Comando provinciale di Vibo Valentia, coadiuvato in fase esecutiva dai Nuclei Investigativi di Cosenza, Catanzaro e Lamezia Terme più le Compagnie Carabinieri di Bari San Paolo e Locri, ha proceduto alla notifica di una serie di avvisi di conclusione indagini preliminari nei confronti di 16 persone, tra avvocati, medici e professionisti nominati consulenti tecnici, ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di corruzione in atti giudiziari, falsa perizia, false comunicazione all’Autorità Giudiziaria e altro. Reati aggravati dal metodo mafioso. Le indagini hanno accertato un vero e proprio meccanismo con un ampio sistema illecito che vede coinvolti medici e avvocati, i quali, attraverso le proprie condotte, si sono adoperati - in molti casi riuscendoci - a far ottenere benefici carcerari ai propri assistiti, esponenti di spicco della ‘ndrangheta, trasgredendo le leggi dello Stato e venendo meno alle regole deontologiche che contraddistinguono le professioni mediche e legali. Ed è proprio grazie alla collaborazione dell’elemento di vertice dell’articolazione di ‘ndrangheta che i Carabinieri sono riusciti a ricostruire la rete di professionisti che si faceva beffa della giustizia. Nei guai è finita anche la clinica sanitaria convenzionata per ospitare detenuti gravemente malati “in realtà sanissimi”, che invece - contrariamente ai doveri d’ufficio imposti dal ruolo pubblico - ospitava veri e propri summit degli ‘ndranghetisti, diventando praticamente una base operativa dove veniva deciso lo sviluppo della Locale di ‘ndrangheta. Livorno: i detenuti delle Sughere al servizio della città livornotoday.it, 2 aprile 2019 “Mi riscatto per Livorno” è il nome del progetto ideato dal garante comunale per i detenuti, Giovanni De Peppo, in collaborazione con il sindaco Filippo Nogarin che punta al reinserimento sociale per i carcerati. La firma sul protocollo è avvenuta nella mattina del 1 aprile alle Sughere alla presenza di Francesco Basentini, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della coordinatrice dell’ufficio di sorveglianza di Livorno, Paola Boni, dalla responsabile per le Sughere, Valeria Marino, e dal direttore del sistema penitenziario livornese, Carlo Mazzerbo. L’obiettivo del progetto è quello di coinvolgere i detenuti del carcere in lavori socialmente utili come ripulire le spiagge, i parchi, le strade, ma anche fare da guida a turisti e cittadini alla scoperta di alcune realtà poco valorizzate di Livorno. Sarà un’equipe dell’area trattamentale a selezionare i detenuti idonei a svolgere questo tipo di attività tra chi già beneficia della disciplina dell’art.21, che prevede la possibilità di lavorare all’esterno, e quelli meritevoli per buona condotta o altri riconoscimenti particolari. L’elenco delle persone idonee verrà poi segnalato al direttore del carcere che provvederà a condividerlo con l’ufficio di sorveglianza che opera sul territorio livornese e che è preposto a dare il via libera a questo tipo di attività. A questo punto scatterà una fase di formazione che verrà coordinata dalle tre realtà che hanno già dato disponibilità a usufruire di questo servizio: Aamps, l’associazione Reset e l’associazione del Palio marinaro. “L’idea che la popolazione reclusa diventi una risorsa - spiega il responsabile del Dap Basentini - è un’idea che senza la collaborazione di tutti i soggetti interessati, l’amministrazione comunale e la magistratura di sorveglianza in primis, sarebbe impossibile realizzare. In questo caso la collaborazione tra le diverse istituzioni è stata invece esemplare e il risultato è assolutamente innovativo. È necessario accorciare la distanza sociale tra chi si trova dentro il carcere e il resto della società. I detenuti che si impegnano nei lavori di pubblica utilità avranno come beneficio immediato quello di un alleggerimento del loro debito di giustizia. E verranno formati, imparando così un mestiere”. “Questo è un progetto assolutamente innovativo che mette al centro il lavoro come forma di riscatto sociale e come strumento di reinserimento all’interno della società - aggiunge il sindaco Nogarin. Nel nord Europa esperimenti come questo sono all’ordine del giorno, mentre in Italia ancora si fatica a decollare. Livorno ancora una volta si propone come modello a livello nazionale. Qui infatti i detenuti non saranno scortati all’esterno dalla polizia penitenziaria e non saranno sotto sorveglianza armata. Verranno, al contrario, selezionate le persone più adatte, che negli anni si sono dimostrate meritevoli e cui è indispensabile dare una seconda possibilità”. “Abbiamo già ricevuto l’adesione al progetto di alcune realtà importanti come Aamps, l’associazione del Palio marinaro e l’associazione Reset - spiega De Peppo. Il nostro obiettivo finale è quello di prevedere l’istituzione di vere e proprie borse lavoro da dare ai più meritevoli, sfruttando le risorse del Fondo sociale europeo”. Carinola (Ce): lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2019 I Comuni di Francolise e di Sparanise rinnovano la convenzione con la Casa Reclusione di Carinola per il lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti. La Direzione dell’istituto penitenziario “G. B. Novelli” di Carinola è da sempre attenta a sollecitare: e promuovere la piena adesione dei detenuti al percorso trattamentale. Tra gli strumenti a disposizione, una menzione particolare spetta al lavoro di pubblica utilità che rappresenta una modalità di riparazione, risarcimento del danno causato alla società attraverso la commissione del reato, attraverso lavori con finalità sociali. I detenuti, durante lo scorso arino, hanno potuto così, a titolo gratuito e volontario, adoperarsi, ad esempio, presso vari siti del Comune di Cellole, o presso il parco della Quarantena a Bacoli, nella manutenzione del verde, restituendo alla collettività beni sottratti all’incuria. In data 03.04.2019 le convenzioni di lavoro di pubblica utilità tra carcere e il Comune di Francolise, nella persona del sindaco Gaetano Tessitore, e tra il carcere ed il Comune di Sparanise, nella persona del sindaco facente funzioni Gaetano di Maio, verranno rinnovate, alla luce della positiva esperienza sinora realizzata. Le convenzioni prevedono che i detenuti del carcere di Carinola prestino opera di lavoro di pubblica utilità presso i cimiteri dei rispettivi comuni, favorendo una migliore erogazione del servizio ai cittadini. I Funzionari Giuridici Pedagogici Firenze: il Consigliere Milani (Pd) in visita a Sollicciano con i Radicali comune.fi.it, 2 aprile 2019 “Rimane ancora molto da fare, prima di tutto occorre che il Ministro Bonafede proceda a garantire i finanziamenti previsti”. Questo l’intervento in Consiglio comunale del consigliere PD Luca Milani. “Lo scorso sabato mattina insieme alla delegazione dell’associazione Firenze Radicale per gli Stati Uniti d’Europa (Radicali Italiani) mi sono recato in visita al carcere di Sollicciano e, ad integrazione delle relazione del Garante dei Detenuti, avvenuta qualche settimana fa in Consiglio Comunale, vorrei esporre alcuni dati raccolti durante la visita. Attualmente i detenuti totali sono 779. A custodia aperta c’è il 14% mentre 85% è ha custodia chiusa; in regime di alta sicurezza si trova solo 1 detenuto. Le donne sono 104 gli uomini 675 di cui 9 transessuali, detenuti finalmente, in una area della sezione femminile. Lo stato dell’immobile versa ancora in condizioni precarie. È necessario rilevare che la struttura penitenziaria fiorentina è priva del servizio di vigilanza armata sui camminamenti, a causa dell’interdizione, decretata dall’autorità competente, che ha portato alla chiusura totale del muro di cinta e che però la sorveglianza perimetrale è garantita dalla tecnologia, con sistemi digitali di telecontrollo. La nuova cucina, aspettata da diverso tempo sarà pronta auspicabilmente tra qualche mese; tutte le attrezzature sono piazzate e stanno proseguendo i lavori per la loro installazione e poi una volta superato il collaudo potrà essere utilizzata. Non sarà tuttavia sufficiente per preparare tutti i pasti, necessariamente dovrà rimanere in funzione anche la vecchia. La delegazione ha fatto visita anche al nuovo reparto per la salute mentale maschile finalmente istituito, dopo la legge che ha previsto la chiusura degli Opg e attualmente costituito da 2 psichiatri 1 psicologo e 3 operatori, i detenuti già presi in carico sono 9 di cui 2 in osservazione continua. Grazie anche ad associazioni di volontariato, che operano con i responsabili, vengono fatti dei percorsi personalizzati per ciascun paziente. Non è disponibile, ad oggi un servizio analogo per il reparto femminile. Dobbiamo registrare che i finanziamenti dedicati a Sollicciano dal Ministero, 10 milioni di euro, non sono ancora arrivati, il personale di custodia continua ad essere sottostimato e non esiste un sistema strutturato di supporto psicologico per il personale in servizio Anche gli educatori sono sottostimati attualmente sono solo 5 di cui 1 persona in procinto di pensionamento ed uno in malattia e che per nessuno dei due è attualmente prevista la sostituzione. All’interno del carcere nonostante tutte le difficoltà sono comunque garantiti tutti i percorsi di formazione scolastica e di prima alfabetizzazione. È da registrare un miglioramento importante per il sistema delle visite, fino a 6 ore al mese, anche cumulabili e per le telefonate che vengono passate dall’amministrazione fino ad un massimo di due. A mio avviso rimane ancora molto da fare, prima di tutto occorre che il Ministro Bonafede proceda a garantire i finanziamenti previsti. Anche nella sua visita del dicembre scorso, il Ministro ha ricordato che sono dedicati al mondo penitenziario 196 milioni di euro per i prossimi anni; in più il Ministro ha dichiarato che è prevista l’assunzione di circa 1300 agenti di polizia penitenziaria nel 2019. Allora per risolvere la maggior parte dei problemi di Sollicciano è necessario che il Ministero Bonafede rispetti gli impegni e sblocchi i finanziamenti previsti e sopra tutto destini più personale di polizia penitenziaria alla nostra struttura”. Palermo: “Pane spezzato”, le detenute producono ostie per le celebrazioni eucaristiche Redattore Sociale, 2 aprile 2019 Il progetto, nato da una proposta del cappellano del carcere Pagliarelli di Palermo fra Loris D’Alessandro, è sostenuto dall’Azione Cattolica diocesana, che ha contribuito all’acquisto delle attrezzature idonee e delle materie prime per la loro realizzazione. “Pane spezzato” per rinascere e ricominciare una vita diversa. È il nome del progetto con cui dallo scorso febbraio all’interno della casa circondariale Pagliarelli, sei detenute producono e confezionano le ostie da utilizzare nelle celebrazioni eucaristiche. L’iniziativa è portata avanti dai volontari dell’Azione Cattolica che sono presenti dentro il carcere ormai da tre anni. Il progetto, nato da una proposta del cappellano del carcere fra Loris D’Alessandro, è sostenuto dall’Azione Cattolica diocesana che ha contribuito economicamente all’acquisto delle attrezzature idonee e delle materie prime per la loro realizzazione. Le detenute coinvolte per il momento sono sei, di età compresa da 37 ai 50 anni, ma presto saliranno a 8. Le ostie, oltre ad essere utilizzate nelle celebrazioni religiose interne al carcere, verranno distribuite fuori dai volontari dell’Azione Cattolica diocesana che le offriranno alle parrocchie della diocesi che vorranno sostenere il progetto con le loro offerte. Il laboratorio è nato all’interno di due stanze della vecchia cucina della casa di reclusione che sono state opportunamente adattate con i macchinari idonei per il tipo di attività da svolgere. Dopo una prima produzione di 370 ostie che ha superato l’esame di idoneità, adesso l’intenzione è quella di produrre ogni due giorni 500 ostie piccole e 50 grandi. Il servizio impegna le detenute ogni giorno dalle ore 13 alle ore 15,45. “Dopo che la direttrice del carcere ha accettato con entusiasmo la proposta ci siamo messi subito al lavoro con i volontari dell’Azione Cattolica diocesana. La scelta del nome del laboratorio “pane spezzato” non è un caso - afferma fra Loris D’Alessandro - perché così come sono state spezzate per vari motivi le vite di queste sorelle, anche le ostie verranno spezzate dalle mani dei presbiteri. Dalle ostie spezzate e mangiate inizia il progetto di redenzione che si fonda su quell’amore infinito di chi ha donato la vita per tutti. In particolare le donne che partecipano al progetto sono persone che hanno accettato subito commosse l’idea di fare questo servizio perché in questo modo cercano di dare un significato profondo a quest’attività a coronamento di un cammino di fede personale che stanno facendo”. “Inoltre per l’ampliamento del progetto proprio oggi ho ritirato altre due macchinette per le ostie e un’altra taglia ostie - aggiunge soddisfatto fra Loris D’Alessandro - che sono state donate dalle suore clarisse del convento di Santa Chiara di Alcamo (Pa)”. “Lo scorso 8 febbraio dopo la benedizione dell’arcivescovo - dice Stefania Sposito dell’Azione Cattolica, pioniera del progetto insieme al marito - il progetto è diventato concretamente operativo. Siamo dieci volontari che a turno per alcune ore al giorno coordiniamo le sei detenute in tutte le fasi della produzione delle ostie. Essendo il carcere una realtà dinamica di entrata e di fuoriuscita non si esclude che si aggiungeranno altre donne su segnalazione del cappellano che viene poi valutata dagli educatori”. “Ci teniamo a dire che questo per noi e per le detenute naturalmente non è un semplice lavoro ma un servizio che ci piace inquadrare in chiave redentiva. Pertanto a metafora delle loro vite spezzate prima della lavorazione si fa un momento di catechesi e si prega. Le donne con passione e dedizione finora si stanno impegnando in maniera serena aiutandosi a vicenda - aggiunge ancora Stefania Sposito. Prossimamente le detenute realizzeranno 1.500 ostie piccole e 250 grandi che verranno consacrate dall’arcivescovo Corrado Lorefice nella messa crismale del giovedì santo. A partire da quel momento il progetto si aprirà a tutte le chiese della città che volessero aderire. I parroci che le commissioneranno potranno scegliere liberamente di contribuire all’iniziativa con un’offerta che permetterà al progetto di auto-finanziarsi”. “Le ostie vengono fatte con acqua e farina. Un giorno viene dedicato all’impasto e alla lavorazione della cialda in una macchina specifica (crepiera) - spiega ancora Stefania Sposito. Successivamente le cialde vengono messe in delle presse che sono state fatte dai detenuti-falegnami del carcere. Il giorno successivo avviene il processo di umidificazione. Per evitare che venissero delle ostie troppo biscottate, non avendo un macchinario adatto all’umidificazione, ci siamo rivolte alle suore di clausura del convento di Castelbuono (Pa) che ci hanno spiegato come fare in maniera artigianale. Le cialde per essere umidificate vengono poggiate nel piano superiore del frigorifero dove invece nella parte bassa vengono messe delle pentole piene di acqua. Una volta umidificate vengono poi rimesse nelle pressa e poi tagliate. Alla fine si procede al loro confezionamento che ne permette la distribuzione”. Belluno: due giornate di formazione su carcere e legalità con l’Associazione Jabar di Sergio Capretta valdotv.com, 2 aprile 2019 A 5 anni dalla sua costituzione, l’Associazione Jabar organizza una serie di incontri pubblici per riflettere sui temi del carcere, della legalità e delle marginalità sociali. Il primo appuntamento è in programma venerdì 12 aprile alle 18.30 nella sala riunioni al secondo piano della Casa del Volontariato di Belluno (via del Piave, 5). Interverranno soci e volontari dell’associazione per illustrare l’impegno dentro e fuori il carcere (casa circondariale) di Belluno, nella convinzione che anche l’apporto del volontariato possa contribuire alla funzione rieducativa - imprescindibile - della pena inflitta. Sabato 13 aprile dalle 9 alle 13 in sala Bianchi a Belluno si terrà un incontro aperto a tutti, con posti riservati alla formazione continua specifica di avvocati, giornalisti e assistenti sociali, dal titolo “Sistema penale e misure alternative”. Dopo una breve introduzione dell’associazione Jabar e il saluto del Garante dei diritti dei detenuti a Belluno Emilio Guerra, spazio alle assistenti sociali Margherita Benazzato (dal 2002 al servizio dell’Uepe, ufficio esecuzione penale esterna di Venezia-Treviso-Belluno), Paola Mastrosimone (ex Uepe), Gino Sperandio (avvocato bellunese) e Chiara Da Ros (cooperativa Società Nuova). La partecipazione è gratuita e libera, fino a esaurimento posti. Assistenti sociali e giornalisti possono registrarsi attraverso le loro piattaforme; gli avvocati interessati a partecipare e a conseguire i 2 crediti formativi messi a disposizione dall’Ordine bellunese potranno prescriversi attraverso questo link: https://forms.gle/TFPmBsfqQJddAPhd7). L’evento è infatti realizzato in convenzione con il Consiglio dell’Ordine degli Assistenti Sociali del Veneto ed è stato richiesto il riconoscimento dei crediti per la Formazione Continua degli Assistenti Sociali; è accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Belluno con 2 crediti ai fini della formazione permanente degli avvocati. Anche il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti lo ha riconosciuto come appuntamento utile alla formazione continua obbligatoria, riconoscendo al corso 4 crediti formativi. Il parcheggio più comodo e gratuito è quello del Palasport. Ecco come arrivare: https://goo.gl/maps/vHpyCxTpHeG2. Il programma formativo è finanziato dal Csv di Belluno attraverso il bando Coprogettazione 2017. Per informazioni: associazione.jabar@gmail.com - 351.8377769. Bari: “Dal dire al fare”, la Giustizia minorile incontra gli enti impegnati nel sociale di Luca Imperatore gnewsonline.it, 2 aprile 2019 Si svolgerà oggi dalle 9.00 alle 17.30 presso il Centro Polifunzionale Studenti, dell’Università degli Studi di Bari, il Convegno “Dal dire al fare - idee e progetti per il 2019”. L’evento è organizzato dal Centro per la Giustizia Minorile e dall’Ufficio Interdistrettuale dell’Esecuzione Penale Esterna della Puglia e della Basilicata, con il Patrocinio della Regione Puglia e del Comune di Bari e il contributo tecnico dell’IFOS (Istituto di Formazione Socio-sanitaria) Puglia. L’intento è quello di promuovere il confronto tra istituzioni, Enti e rappresentanti del territorio specializzati nel settore sociale, che compongono il sistema di servizi che si occupa del disagio e della devianza sul nostro territorio. Il programma della giornata prevede una prima sessione dedicata alla comunicazione pubblica dei programmi operativi della Giustizia Minorile e di Comunità nella quale interverranno il Capo del dipartimento Gemma Tuccillo, il governatore della Puglia Michele Emiliano e il Direttore dell’ufficio interdistrettule esecuzione penale esterna Pietro Guastamacchia. Una seconda sessione di approfondimento tematico che, quest’anno, verterà sul tema del rapporto tra adolescenti, identità virtuale e cyberbullismo vedrà l’intervento del direttore dell’IFOS Puglia Deborah Panettieri, del Direttore osservatorio cybercrime Sardegna Luca Pisano e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Bari Ferruccio De Salvatore. Nell’occasione sarà sottoscritto anche il Protocollo d’Intesa congiunto tra il Ministero della Giustizia e il mondo del volontariato (CSVNet Puglia, Conferenza Regionale Volontariato Giustizia e Forum terzo settore). Palermo: teatro-carcere, “Le bizzarrie del piccolo principe” in scena al Pagliarelli Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2019 Detenuti attori per un giorno si raccontano attraverso un classico letterario. Un recital dedicato e ispirato a uno dei massimi capolavori letterari di tutti i tempi, “Il Piccolo Principe”, il racconto più famoso di Antoine de Saint Exupéry pubblicato nel 1943. L’iniziativa, dal titolo “Le Bizzarrie del Piccolo Principe”, ha visto quali protagonisti i detenuti della Casa Circondariale Pagliarelli Lorusso di Palermo, mercoledì 27 marzo in occasione della VI Edizione della Giornata Mondiale del Teatro in Carcere, in concomitanza con il World Theatre Day 2019, ovvero la Giornata Mondiale del Teatro promossa dall’International Theatre Institute Worldwide Unesco. L’evento si è svolto presso gli spazi del Teatro Pagliarelli, con il patrocinio e il cofinanziamento, tra gli altri, dell’Ufficio del Garante siciliano dei Diritti dei detenuti. Un grande dispiegamento di forze per l’associazione “Un Nuovo Giorno” presieduta da Antonella Macaluso, che annovera quale mission principale il supporto ai soggetti più deboli e in stato di disagio, con particolare attenzione rivolta ai detenuti. Nello specifico, i detenuti dei laboratori impegnati nella messa in scena del classico letterario, diretti dal regista Tony Colapinto, si sono misurati con l’opportunità straordinaria, quella di riflettere, conoscersi, raccontarsi e comprendere il proprio vissuto. Di particolare rilievo, le scenografie e i costumi, realizzati grazie al lavoro del Laboratorio di arte Pagliarelli e della M.O.F. e il coro preparato e seguito dal maestro Salvo Randazzo. La Giornata è stata patrocinata, inoltre, dal Comune di Palermo, dalla Regione Siciliana, dal Ministero della Giustizia e dalle associazioni Un Nuovo Giorno. Pisa: teatro-carcere, la “Tempesta” di Shakespeare messa in scena al Don Bosco di Francesco Morosi* normalenews.sns.it, 2 aprile 2019 Il Gruppo Teatrale della Scuola Normale da mesi è impegnato in un progetto di collaborazione con la casa circondariale Don Bosco di Pisa. L’obiettivo è quello di integrare i normalisti nel laboratorio teatrale che vede da anni impegnati i detenuti del carcere, in un processo di accrescimento reciproco. Il laboratorio, tenuto dai formatori dell’associazione I Sacchi di Sabbia con la supervisione dell’Area educativa del Don Bosco e sotto la direzione di Francesca Censi, ha l’obiettivo di fare incontrare, attraverso il gioco della recitazione, due esperienze di vita diverse, separate da una linea d’ombra apparentemente invalicabile. È possibile che la cultura (in questo caso, nella forma del teatro di Shakespeare) possa essere un punto in comune tra persone con esperienze così diverse da sembrare agli antipodi? Sei normalisti (quattro ragazzi e due ragazze) hanno preso parte, una volta alla settimana, alle prove del laboratorio teatrale del Don Bosco, insieme a una decina di detenuti. Obiettivo del laboratorio era mettere in scena la Tempesta di Shakespeare: una storia di prigionia e di esilio, e una storia sul potere dei libri e della conoscenza. La Tempesta di detenuti e normalisti è andata in scena per la prima volta mercoledì 27 marzo, giornata mondiale del teatro in carcere, nella Sala Polivalente del Don Bosco, davanti a una platea mista di detenuti e docenti, allievi e membri del personale della Scuola Normale. L’esito del laboratorio è stato sorprendente: tra detenuti e normalisti si è instaurato un dialogo che ha superato le barriere esistenziali, e anche Shakespeare. La cultura è diventata, nel senso migliore, una scusa, per parlare di sé e per parlarsi. La linea d’ombra tra gli uni e gli altri si è assottigliata, fino a scomparire in un cono di luce e di amicizia. *Gruppo Teatrale della Scuola Normale L’Ocse mette i cittadini al centro della agenda sulla giustizia di Diana Piana* Il Dubbio, 2 aprile 2019 Che le due colonne innalzate sul bordo del fiume che sfocia nell’oceano alla fine della grande piazza di Lisbona siano metafora di accesso appare naturale e al contempo illuminante. L’Ocse Global Justice Roundtable appena concluso a Lisbona si è dispiegato in due giorni di condivisione di esperienze, punti di vista e, soprattutto, di contributi ad un unico cantiere a cielo aperto: dotare i paesi, nel rispetto delle loro diverse tradizioni giuridiche e giudiziarie, politiche ed istituzionali, di un metodo comune per fare le policies in materia di funzionamento dei sistemi di giustizia. Lisbona è in parte un approdo ed in parte una partenza. L’Ocse dadi - versi anni è impegnata a inquadrare il tema della “giustizia” in termini che comprendano ma vadano al di là delle regolazioni internazionali in materia di indipendenza ed autonomia, efficienza e performance dei sistemi delle corti. Queste dimensioni sono progressivamente divenute i pilastri di una architettura che poggiale sue fondamenta su un principio: il cittadino al centro. Non si tratta di un revival del patto sociale: essere al centro non significa esserci solo all’inizio, in senso fondativo e fondante. Significa essere sempre, essere la stella polare nella progettazione, nella attuazione e nella valutazione di tutte le policies che toccano la giustizia, nelle sue diverse articolazioni. Per questo il documenti adottato l’anno scorso a Riga, che definisce la terminologia della traiettoria seguita da cittadini, gruppi sociali, famiglie, imprese, fasce deboli, bambini verso la giustizia, permette di individuare gli snodi sui quali le “barriere all’accesso” possono configurarsi in molti modi: la “distanza” linguistica dalla comprensione di quanto afferma la norma del diritto, la distanza cognitiva dalla fiducia nella capacità del sistema giustizia di dare una risposta certa e prevedibile nei tempi e nei modi ad una domanda che spesso è un problema di vita (perdita della casa, perdita del lavoro, escalation di povertà che genera contenziosi di ordine civile o penale, magari con profili di tenuità del fatto, accordi divorzili e gestione dei minori, solo per citare alcuni esempi), la distanza economica dalla possibilità di potersi avvalere di strumenti di qualità nella rappresentanza legale, la distanza psicologica nei casi in cui le vittime risultano vittime due volte, prima per i fatti e poi per le attese o le criticità-osticità del sistema. Gli esempi potrebbero continuare. La categoria della barriera che si frappone nella traiettoria percorsa dai cittadini, ciascuno coni’ proprio bisogno di risolvere problemi, verso la giustizia è fondamentale per la progettazione delle politiche. Come si fanno le buone politiche secondo questo metodo? Innanzitutto mappando i bisogni - per gruppi, territori, età, tipologie di situazioni (come ha mostrato il World Justice Project spesso i problemi di giustizia dì uniscono ad altri problemi acutizzando o rendendo sempre più difficili da risolvere situazioni di vita che sono percorsi ad ostacoli verso il benessere) - e facendo di questa mappa l’oggetto dì un regolare aggiornamento; in secondo luogo permettendo alle voci diverse della società, economia, istituzioni, di partecipare a tavoli che traccino i perimetri della agenda di policy; poi avviando un costante, continuo, e oggettivamente misurabile processo di attuazione; assicurando una politica di qualità del dato che sia base solida per tutti per potere ragionare di fatti. Quanto ci interessa come paese questo metodo? Moltissimo. L’Italia non ha mancato in questi anni di fare arrivare ai tavoli Ocse la propria voce per trattare delle riforme e soprattutto del connubio fra innovazione organizzativa e tecnologia, sul quale rappresenta un caso di puntanè panorama comparato. La tecnologia cambia lo scenario della giustizia - e dunque anche le traiettorie seguite dalla domanda di soluzione delle controversie per arrivare a mediazione, giurisdizione nei suoi diversi gradi di giudizio; basti pensare al Pct e all’ufficio per il processo e ai primi elementi del processo penale telematico. Ma la tecnologia, soprattutto quella basata su un utilizzo intenso della computazione e della automazione, cambia il modo di pensare, riportando al centro delle questioni di cui le istituzioni pubbliche si devono occupare il rapporto fra pubblico e privato, il rapporto fra eguaglianza formale e eguaglianza di trattamento, la consapevolezza degli esperti e del largo pubblico, la programmazione e la tenuta della governante. Ne emerge una bussola chiara. Sarà altrettanto chiara ed approfondita la conoscenza che le istituzioni hanno ed avranno dei bis ogni e delle domande di giustizia dei cittadini? Oggi protagonisti di vite mobili, complesse, plurali e incerte, essi nelle regole comprensibili, certe, impersonali e coerenti cercano la risposta ad una sola domanda: da quale porta si entra per chiedere la tutela dei diritti fondamentali? *Comitato consultivo di ricerca sulla giustizia dell’Ocse Migranti. Joshua e gli altri: “in fabbrica a Foggia, dopo il caporalato” di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 2 aprile 2019 Torturati in Africa, non sono sfruttati in Italia come chi raccoglie i pomodori sotto il caporalato. Grazie all’azienda Princes (e alla Caritas) hanno un contratto regolare. Da Lagos, la città più popolosa della nazione più popolosa dell’Africa, Foggia dista circa 6 mila chilometri. Lampedusa, dalla Nigeria, è meno lontana: la Sicilia, rispetto alla Puglia, è un migliaio di chilometri più vicina all’Africa. Ma più che in chilometri, per chi parte dalla Nigeria scappando alla ricerca di un futuro - lasciandosi alle spalle famiglie disagiate o niente e nessuno, perché abbandonati da quelle famiglie - la distanza si misura in tempo. Louis, 32 anni, Shedrack, 22 anni, Frank, 19 anni, e Joshua, 19 anni hanno impiegato un anno e 9 mesi per sbarcare, nell’aprile del 2017, a Lampedusa. Lo hanno fatto con i barconi, quelli nei quali capita di imbarcarsi e di non toccare più terra, perché il Mediterraneo che separa l’Africa dalla Sicilia è spesso più crudele della Nigeria che si lascia per disperazione. “Ma avventurarsi nel mare, anche rischiando di morire - spiega Louis, che di cognome fa Eze Amakonze - è sempre meglio dell’inferno”. L’inferno non è solo la povertà della Nigeria da cui sono scappati, non è solo l’attraversamento del deserto, non sono solo la fame e la sete del viaggio o la perdita dei compagni che non ce la fanno. È soprattutto la Libia. “Dove vieni comprato per fare lo schiavo - aggiunge Shedrack, che di cognome fa Ibiezugbe - e se non reggi vieni torturato in campi di prigionia”. Dopo un’avventura del genere si capisce perché lo sbarco a Lampedusa è il paradiso. “Perché appena arrivi ti fanno mangiare”, ricorda Joshua, che di cognome fa Ehi. E anche lo stanzone da 80 persone del Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, dove i 4 ragazzi nigeriani vennero in breve tempo trasferiti, appare comodo dopo i 600 giorni di cammino per 6 mila chilometri di distanza. Figuriamoci una stanza doppia, con bagno in camera, in Corso Vittorio Emanuele, pieno centro di Foggia, in Italia, in Europa. E allora “buonissima Caritas e buonissima Italia che ci hanno salvato” è il minimo che i ragazzi, in coro, continuano a ripetere quando si chiede loro come si sentano adesso che, oltre alla stanza in pieno centro, hanno anche un lavoro. Non la raccolta dei pomodori, con cui spesso i nigeriani sbarcati in Italia tornano a diventare schiavi per colpa del caporalato delle campagne di Puglia. Ma la lavorazione di quei pomodori, nella più grande fabbrica d’Europa che li trasforma, la Princes Industrie Alimentari di Foggia, società controllata dal gruppo Princes di Liverpool, a sua volta partecipata al 100 per cento dai giapponesi della Mitsubishi corporation. Un sogno diventato realtà grazie al progetto “Lavoro senza frontiere” della stessa Princes, in collaborazione con la Caritas. Dalla provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri - dove lo scorso 4 agosto morirono i primi 4 braccianti africani tra le 16 vittime contate in sole 48 ore nel Tavoliere delle Puglie - l’area industriale di Foggia si raggiunge in un quarto d’ora di auto. Ma tra gli schiavi dei campi di pomodoro - che viaggiano, vessati dai caporali, stretti su scomode panche in angusti furgoncini, spesso rubati e senza assicurazione - e lo stabilimento Princes la distanza è molto più ampia delle poche decine di chilometri che separano le campagne dalla fabbrica. Lo sa bene Frank, che di cognome fa Onofelaga e i pomodori li ha raccolti a Zapponeta: “Dodici ore al giorno, sotto il sole, tanta fatica e pochi soldi”. In una parola, sfruttato. Un inferno anche quello. Da cui la Caritas, ogni giorno, prova a liberarli. “Non solo con il tetto - spiega Giusy Di Girolamo, direttrice della Caritas della Diocesi Foggia -Bovino - ma anche cercando di far loro conoscere la nostra lingua e la nostra cultura”. È il pensiero dell’intera diocesi a partire da chi la guida, l’arcivescovo di Foggia Vincenzo Pelvi, che attorno a un tavolo con i 4 ragazzi spiega il perché dell’iniziativa: “Non basta proteggere gli immigrati e i rifugiati. Serve l’integrazione per la formazione di società plurali in cui vengano riconosciuti i diritti e la partecipazione attiva di tutti alla vita produttiva e sociale. Per dare un senso alla vita di persone che arrivano da noi con un pieno di paura”. Che è la stessa paura della società che li accoglie. “Per questo appena si presentano in Caritas - aggiunge monsignor Pelvi - li presento personalmente ai negozianti del Corso. Perché chiudere i cuori ci svuota e ci disumanizza. E per questo, quando ho ricevuto la telefonata dalla Princes, la scorsa estate, ho subito accolto con entusiasmo la proposta di “Lavoro senza frontiere” che nello scorso dicembre ho presentato anche in Confindustria nella speranza che altre aziende ripercorrano la strada di Princes”. Che prima ha formato i 4 ragazzi nigeriani e poi li ha assunti con un contratto a tempo determinato di 6 mesi, appena rinnovato per altri sei. “E l’obiettivo è trasformarli a tempo indeterminato - spiega Gianmarco Laviola, amministratore delegato di Princes in Italia - così come per gli altri due ragazzi che arriveranno in questi giorni, sempre su indicazione della Caritas di Foggia. Il nostro è un gesto simbolico, che ha però un grande obiettivo: fornire una via d’uscita dalla piaga del caporalato e dallo sfruttamento della manodopera da parte di alcuni operatori senza scrupoli. Abbiamo a cuore l’industria del pomodoro e siamo convinti della necessità di una filiera al 100 per cento etica. Trasformiamo 300mila tonnellate di pomodori freschi all’anno - aggiunge Laviola, indicando i barattoli di pelati, polpa, passata, concentrato, pezzettoni e ciliegini in bella vista nel suo ufficio - e dal 2018 i nostri prodotti sono non soltanto al 100 per cento di pomodori pugliesi, ma anche al 100 per cento etici: provengono unicamente da aziende con certificazione etica sul trattamento dei lavoratori”. Perché gli inglesi tengono molto a mantenere lontano dalle aziende britanniche l’illegale fenomeno del caporalato, come ha ricordato lo scorso 26 giugno anche l’ambasciatrice del Regno Unito in Italia, Jill Morris, nella sua visita allo stabilimento foggiano: 500 mila metri quadri in cui lavorano fino a 1.300 dipendenti durante i picchi della trasformazione dei pomodori in barattoli Napolina, marchio molto conosciuto nel Regno Unito. E nello stabilimento guidato da un direttore marocchino, Kamal Dequiuec, adesso Louis lavora al controllo di qualità, Shedrack in mensa, Frank e Joshua all’etichettatura. “Ci hanno accolti tutti bene”, spiegano in coro i quattro giovani nigeriani. Rivelando un aneddoto: hanno ricambiato l’accoglienza ricevuta offrendo una pizza ai colleghi di reparto dopo aver ricevuto il primo stipendio di 1.150 euro netti. “E a Natale - conclude monsignor Pelvi - hanno regalato un cesto ai due italiani che convivono con loro alla Caritas. Anche nelle piccole cose è confermato il mio pensiero: con persone così, più che dare si riceve”. Stati Uniti. Corte Suprema: “la pena di morte non deve essere per forza indolore” di Luigi Salmone Reuters, 2 aprile 2019 La Costituzione degli Stati Uniti non garantisce che un prigioniero condannato alla pena capitale “una morte indolore”, ha detto lunedì una Corte Suprema divisa, aprendo la strada all’esecuzione di un assassino condannato che ha cercato di morire con il gas letale piuttosto che iniezione letale a causa di una rara condizione medica. Russell Bucklew, 50 anni, aveva sostenuto che un’iniezione letale poteva infliggere un’indebita sofferenza causando la rottura di tumori pieni di sangue sul viso, testa, collo e gola causati da una condizione congenita chiamata emangioma cavernoso in violazione dell’VIII Emendamento della Costituzione, che oscura crudele e inusuale punizione. In una decisione che ha messo in luce rigide divisioni tra i giudici sulla pena di morte, il tribunale ha stabilito 5-4 che Bucklew non ha presentato sufficienti prove per perseguire la sua richiesta di essere giustiziato con gas letale. I cinque conservatori della corte erano nella maggioranza e i suoi quattro liberali dissentivano. Riferendosi alla storia della pena capitale, il giudice conservatore Neil Gorsuch ha scritto per la maggioranza della corte che “l’ottavo emendamento non garantisce a un detenuto una morte indolore - cosa che, ovviamente, non è garantita a molte persone, compresa la maggior parte delle vittime del capitale crimini”. “Lo stato del Missouri e le vittime dei crimini di Russell Bucklew hanno atteso 23 lunghi anni per portare a termine questa frase giusta e legale”, ha detto un portavoce del procuratore generale del Missouri, Eric Schmitt, un repubblicano. “Con la sentenza di oggi siamo un passo avanti verso la giustizia”. Gli avvocati di Bucklew non hanno risposto immediatamente a una richiesta di commento. La sentenza di lunedì è stata in linea con una decisione del 2015 in cui la corte ha respinto una sfida al metodo di esecuzione dell’Oklahoma per iniezione letale. In quel caso, la corte ha ritenuto che i detenuti che sfidano un metodo di esecuzione devono presentare un’opzione alternativa meno dolorosa. Bucklew non è riuscito a dimostrare che il gas letale potrebbe essere “prontamente implementato” come richiesto dal precedente della Corte Suprema, ha dichiarato la corte. Inoltre, non vi era alcuna prova che la sua alternativa scelta, il gas letale, sarebbe stata meno dolorosa, ha concluso. Gorsuch, nominato dal presidente Donald Trump nel 2017, ha osservato che Bucklew è in attesa di esecuzione per crimini commessi più di due decenni fa. “Eppure, da allora, è riuscito a ottenere un ritardo attraverso la causa dopo la causa”, ha scritto Gorsuch, riecheggiando un’opinione spesso espressa dai difensori della pena di morte. Il giudice conservatore Samuel Alito ha dichiarato nel 2015 che la sfida legale al caso di esecuzione dell’Oklahoma era parte di una “guerriglia” contro la pena di morte. Bucklew fu condannato per l’omicidio del 1996 nel Missouri del sud-est di Michael Sanders, che all’epoca viveva con l’ex fidanzata di Bucklew, Stephanie Ray. Bucklew ha ucciso fatalmente Sanders nella sua roulotte, rapito e violentato Ray, sparato al figlio di 6 anni di Sanders e ferito un agente di polizia prima di essere arrestato, secondo i documenti del tribunale. L’appello di Bucklew non contestò la sua colpevolezza né cercò di evitare l’esecuzione. Il caso non ha messo in discussione la costituzionalità della stessa pena di morte. La corte ha vietato l’esecuzione di minorenni e disabili mentali, ma non ci sono segni che la sua maggioranza conservatrice sia incline a dichiarare incostituzionale la pena capitale. La giudice Sonia Sotomayor ha contestato Gorsuch, scrivendo in un parere dissenziente che le domande sulle tattiche legali che portano a ritardi sono “del tutto irrilevanti” per il caso davanti al tribunale. “La maggioranza sembra implicare che questo contenzioso non sia stato altro che manipolazione del processo giudiziario allo scopo di ritardare l’esecuzione di Bucklew”, ha scritto Sotomayor. Quando i detenuti nel braccio della morte cercano i ricorsi all’ultimo minuto di esecuzione, i tribunali dovrebbero giudicare i singoli casi secondo i loro meriti, ha detto Sotomayor. “La nostra giurisprudenza deve rimanere di vigilanza e cura, non di sprezzo”, ha aggiunto Sotomayor. Il giudice Stephen Breyer in un’altra opinione dissenziente ha ribadito la sua affermazione, sollevata per la prima volta nel caso del 2015, secondo cui se i prigionieri non possono essere giustiziati rapidamente senza violare i loro diritti “potrebbe essere che… semplicemente non esiste un modo costituzionale per attuare la pena di morte”. Nel Missouri, l’esecuzione è autorizzata mediante iniezione o gas, ma lo stato in pratica utilizza solo l’iniezione letale. L’alta corte l’anno scorso ha bloccato l’esecuzione di Bucklew con un voto di 5-4. La giustizia conservatrice che ha votato con i quattro liberali della corte per concedere il permesso, Anthony Kennedy, è andato in pensione ed è stato sostituito dall’appellente di Trump Brett Kavanaugh, che si è unito alla maggioranza conservatrice nella decisione di lunedì. Altri casi recenti hanno anche illustrato le differenze della corte sulla pena di morte. La corte di febbraio ha votato 5-4 per consentire l’esecuzione di un musulmano condannato dopo che Alabama ha negato la sua richiesta di avere un imam presente, dicendo che ha aspettato troppo a lungo per presentare la sua causa. In una brusca inversione di tendenza, la corte della scorsa settimana ha bloccato l’esecuzione di un assassino condannato, la cui richiesta di avere il suo consigliere spirituale buddista presente all’esecuzione è stata negata dal Texas. Stati Uniti. Carovane migranti, Trump ora minaccia anche i suoi alleati di Marina Catucci Il Manifesto, 2 aprile 2019 Il Dipartimento di Stato ha annunciato che gli Stati uniti vogliono tagliare gli aiuti a El Salvador, Guatemala e Honduras; il capo dello staff della Casa Bianca, Mick Mulvaney, ha dichiarato che questi Paesi “potrebbero fare di più” per mitigare la “crisi umanitaria” al confine Usa meridionale. Il giorno precedente all’annuncio Trump affermava che questi Paesi avrebbero appositamente creato le carovane migratorie per l’ingresso negli Stati uniti: “Stavamo pagando enormi somme di denaro - ha dichiarato - ma non pagheremo più, perché loro non hanno fatto nulla per noi, hanno solo creato queste carovane”. Già da mesi The Donald attribuisce ai paesi centroamericani la responsabilità della crisi dei migranti alla frontiera meridionale statunitense, a ottobre aveva twittato la minaccia di tagliare gli aiuti in quanto queste nazioni “non sono in grado di fare il lavoro necessario per impedire alle persone di lasciare il loro Paese e venire illegalmente negli Stati Uniti”. Non è chiaro quanti fondi verranno tagliati, ma già gli esperti di politiche migratorie sostengono che un’interruzione degli aiuti a paesi i cui abitanti scappano per via della violenza e delle difficoltà economiche, non è efficace nel ridurre il numero di migranti. Secondo la Global Leadership Coalition degli Stati uniti, che comprende diplomatici in pensione, leader militari e membri del Congresso, i programmi di aiuto nei tre paesi in questione vanno sostenuti in quanto sono volti ad affrontare le “cause profonde della violenza” al fine di “promuovere opportunità e sicurezza per i loro cittadini”. Burundi. Media internazionali ridotti al silenzio: divieto per la Bbc di operare nel paese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 aprile 2019 Prosegue inesorabile la stretta delle autorità del Burundi nei confronti dei mezzi d’informazione e delle voci critiche. Iniziato nel maggio 2015 in concomitanza con la crisi politica che ha prodotto fughe di massa e gravissime violazioni dei diritti umani, il giro di vite ha interessato negli ultimi giorni la British Broadcasting Corporation (Bbc) cui è stata ritirata la licenza di operare nel paese. Contemporaneamente è stato prorogato a tempo indeterminato il bando nei confronti di Voice of America. La Bbc era entrata nel mirino del Consiglio nazionale delle comunicazioni per aver realizzato, un anno fa, un documentario “diffamatorio, menzognero e con intenti distruttivi”. Voice of America è invece accusata di aver assunto un giornalista sotto mandato di cattura per avere, secondo le autorità, preso parte al fallito colpo di stato del maggio di quattro anni fa. Infine, il governo ha vietato ai giornalisti locali di condividere ogni genere di notizie con le due emittenti internazionali.