Minori, preferibili misure non detentive di Marz1a Paolucci Italia Oggi, 29 aprile 2019 Parla Fiammetta Trisi, dirigente del Centro per la giustizia minorile di Lazio, Abruzzo e Molise. Il recupero dei minori inizia dalle misure non detentive di Marzia Paolucci Un minore arrestato finisce in carcere solo in via residuale. Ne prendono il posto misure non detentive, circa 3mila per il 2018 nella sola circoscrizione di Lazio, Abruzzo e Molise contro una presenza media giornaliera nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo a Roma di 55 ragazzi e un transito annuale di 276. Dal centro di prima accoglienza, l’anno scorso, sono passati 294 ragazzi dai 14 ai 18 anni, 2906 sono stati i ragazzi in carico all’Ussm - Ufficio servizio sociale per minorenni - di cui la maggior parte, 254, nelle comunità socio educative. Altri i numeri a livello nazionale: nel 2018 ci sono stati 1771 ingressi negli istituti penali, 1090 nei centri di prima accoglienza, 22.783 in carico agli Ussm e soggetti alle misure non detentive di cui 2266 nelle comunità socio-educative. Meno carcere, quindi e più misure alternative alla detenzione: è il grande gol del processo penale minorile pur alle prese con la carenza di personale e la necessità di ristrutturazioni che arrivano dopo quasi 60 anni, raccontato a Italia Oggi Sette da Fiammetta Trisi, dirigente del Centro per la giustizia minorile di Lazio, Abruzzo e Molise, articolazione interregionale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Una dettagliata analisi che arriva a breve distanza dal convegno di studi organizzato dal Centro per la giustizia minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise e dalla Regione Lazio “Giustizia Minorile e comunità - trent’anni di esperienza: modelli operativi integrati nella regione Lazio” tenutosi lo scorso 11 aprile presso la sede del Consiglio regionale del Lazio. Misure non detentive: il modello vincente. Con trent’anni di esperienza sulle spalle dal dpr 448 del 1988 che l’ha istituito e il decreto legislativo 121/2018 che gli ha finalmente regalato un ordinamento penitenziario tutto suo perché tagliato sul minore, il processo minorile non conosce il dramma del sovraffollamento carcerario semplicemente perché prima di arrivarci, si tenta ogni altra strada. Per la dirigente “si tratta di un modello particolarmente efficace perché privilegiando la finalità educativa, non interrompe lo sviluppo del minore e non lo stigmatizza. Rispetto a un adulto arrestato e tradotto in carcere - distingue - il minore arrestato o fermato, è invece portato in un centro di prima accoglienza dove non resta oltre le 96 ore in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto da parte del giudice per le indagini preliminari. In quel lasso di tempo converge su di lui l’attenzione dell’Ussm-Ufficio servizio sociale per minorenni - che dà informazioni al magistrato sulla personalità del ragazzo e sulla base di queste informazioni, il magistrato decide quale misura non detentiva adottare, dalla più lieve alla più importante. Può trattarsi di semplici prescrizioni inerenti le attività di studio e di lavoro, dell’obbligo della permanenza in casa o del collocamento in comunità socio-educativa, la misura generalmente più applicata. A processo in corso, invece e per pene non superiori ai tre anni, il magistrato può sospenderlo e applicare la messa alla prova del ragazzo che si impegna così a riparare le conseguenze del reato. Se invece le misure non detentive dovessero fallire, a quel punto il magistrato decide per la custodia cautelare in carcere o per l’esecuzione della pena”. Ma si tratta di una minoranza perché il modello così concepito funziona assicurando nella maggior parte dei casi un recupero della devianza. Un sistema considerato valido da chi vi opera per via della collaborazione immediata tra l’Ufficio di Servizio sociale per minorenni - Ussm - e i Servizi sociali municipali, le Asl e tutto l’associazionismo, una rete consolidata che si attiva entro quelle prime 96 ore decisive per tracciare il destino del ragazzo che entra nel circuito penale. Un ordinamento penitenziario minorile. Per quarant’anni i minori hanno avuto lo stesso ordinamento penitenziario degli adulti ma dall’anno scorso, hanno finalmente il loro. Cosa cambia: oggi possono contare su otto colloqui al mese con i familiari, due telefonate a casa a settimana, non meno di quattro ore al giorno all’aria aperta e poi la novità a cui gli istituti di pena devono ancora adeguarsi in termini di spazio e tempi di accoglienza: momenti di condivisione con la propria famiglia in unità abitative appositamente attrezzate. “Vanno trovati gli spazi”, ammette Trisi. I Testimoni di Geova nelle carceri italiane per parlare di lotta al suicidio Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2019 Nei mesi di maggio e giugno 2019 i ministri di culto per le carceri della nota confessione cristiana distribuiranno negli istituti penitenziari di tutto il paese l’edizione n. 2 del 2019 della Torre di Guardia dal tema “Che senso ha vivere?”. Secondo le statistiche, nel 2018 sono stati 67 i suicidi nelle carceri italiane. Si tratta di un numero allarmante, perché costantemente in crescita. Il drammatico fenomeno dei suicidi all’interno delle carceri ha destato la preoccupazione degli educatori e delle autorità che, in alcune regioni italiane, hanno istituito un piano per la prevenzione delle “condotte suicidarie”. Nei mesi di maggio e giugno 2019 i Testimoni di Geova daranno il loro contributo alla prevenzione dei suicidi nelle carceri distribuendo in tutti gli istituti penitenziari d’Italia un’edizione speciale della Torre di Guardia dal tema “Che senso ha vivere?”. Oltre alla distribuzione della rivista, in molte carceri verranno organizzate conferenze e sessioni individuali di approfondimento che illustreranno quali princìpi morali indicati nelle Sacre Scritture possono dare uno scopo alla vita e promuovere il recupero emotivo e sociale dei detenuti. È dal 1976 che ministri di culto Testimoni di Geova riconosciuti dallo Stato operano gratuitamente nelle carceri italiane per prestare assistenza spirituale ai detenuti. E i risultati in termini di recupero sociale sono stati finora straordinari. Il dottor Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa del carcere di Milano Bollate, commentando il lavoro svolto negli anni dai ministri di culto dei Testimoni di Geova, ha affermato: “Noi educatori non possiamo che dire grazie ai Testimoni per tutto quello che hanno fatto, per quello che fanno e, speriamo, faranno ancora con noi. Ma il grazie che noi rivolgiamo loro rappresenta soprattutto la voce dei detenuti che sono stati aiutati”. La Torre di Guardia n. 2 del 2019 dal tema “Che senso ha vivere?” è già disponibile in oltre 340 lingue sul sito ufficiale dei Testimoni di Geova, jw.org. Ufficio Stampa Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova La sfida antimafia dei 5Stelle: corsi obbligatori nelle scuole di Emilio Pucci Il Mattino, 29 aprile 2019 Il disegno di legge depositato alla Camera: basta esaltare i boss nelle fiction tv. La lotta alla mafia diventa terreno di scontro della campagna elettorale. M5S ne farà un tema centrale in vista delle Europee con la Commissione antimafia, presieduta dal pentastellato Morra, che ha intenzione di cavalcare l’inchiesta che vede coinvolto il leghista Siri. E con il gruppo M5S che ha presentato un ddl alla Camera per chiedere che l’insegnamento della storia del contrasto del fenomeno mafioso sia materia nelle scuole primarie e secondarie. Proprio alla vigilia della discussione nell’Aula di Montecitorio - si parte oggi - del ddl voluto soprattutto dal Carroccio sulla reintroduzione dell’educazione civica nei programmi scolastici. La proposta M5S è stato depositata dalla deputata Nesci e sottoscritta da circa 30 suoi colleghi. Prevede che l’insegnamento della storia della lotta alla mafia sia inserito nel monte ore complessivo previsto per le competenze relative all’area storico-sociale di “Cittadinanza e Costituzione”, “perché spesso le mafie riescono a sostituirsi allo Stato nel soddisfacimento dei bisogni delle fasce più giovani e svantaggiate d’Italia”. M5S punta su un “lavoro di prevenzione” per estirpare “alla radice la cultura della violenza intimidatoria, estinguendone il fenomeno”. Offrendo agli studenti “l’esempio di modelli positivi” ed impedendo l’emulazione di comportamenti mafiosi. Nella premessa della proposta di legge infatti si osserva che “gli studenti nati negli anni 1990-2000 non conoscono, se non in maniera superficiale, lo sviluppo del fenomeno criminale mafioso negli anni e, dunque, faticano a delinearne l’evoluzione in un quadro oggettivo e informato”. Lo sguardo è rivolta alle stragi di mafia. “Gli studenti della scuola primaria e secondaria non hanno ancora conosciuto in profondità l’opera, la testimonianza e la lezione morale di figure come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per esempio. Al contrario, anche per l’affermarsi di una generale tendenza involontariamente celebrativa della potenza mafiosa, talvolta modelli come “il capo dei capi” si sono radicati a livello culturale; in taluni casi, purtroppo, perfino sotto una luce mitica”. Modelli - E dunque basta con una certa interpretazione del fenomeno mafioso. “Soprattutto nelle regioni meridionali, come dimostrano alcune inchieste della magistratura - per esempio, Six Town, della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro - il fascino del boss - questo l’allarme lanciato da M5S - ha determinato atteggiamenti emulativi e apologie dei reggitori di ‘ndrine e dell’esperienza, dell’antropologia mafiosa”. Per i promotori della proposta di legge “un punto di osservazione specifico sugli ambienti giovanili risulta imprescindibilmente necessario”. Insegnare la storia della lotta alle mafie vuol dire rafforzare “il ruolo del sistema educativo” attraverso “una strategia che miri anche a ridurre progressivamente il fenomeno della dispersione scolastica” visto che “l’Italia si posiziona al quarto posto tra i Paesi dell’Unione europea in cui si rilevano i maggiori livelli di abbandono scolastico, dopo Spagna, Malta e Romania”. La proposta di legge prevede, inoltre, l’istituzione del “Premio per il coraggio della verità” consegnato direttamente dal presidente della Repubblica, per quegli studenti che si distinguono “per la realizzazione di un’opera artistico-letteraria che testimoni l’impegno civile nella lotta alla mafia”. “Mio marito ha cercato di uccidermi. Ai miei figli dico: imparate l’amore” di Iris, una madre Corriere della Sera, 29 aprile 2019 Sono la madre di tre figli maschi adolescenti e qui, adesso, vorrei chiamarmi Iris anche se non è il mio vero nome. Ho 46 anni, vivo in Sardegna, in un paesino in provincia di Cagliari e sono appena tornata a casa dopo 13 giorni di ospedale. Gomiti, mano e polso fratturati, lividi ovunque, soprattutto alle braccia e alle spalle, per non contare quelli nella mente, nei sentimenti. Del resto lui, mio marito, picchiava fortissimo con quel pezzo di tronco trasformato in arma. I nodi dei rami tagliati sono diventati il suo marchio sulla mia pelle e io con le braccia ho cercato di tenere al riparo la testa, sennò sarei stata spacciata. Lui, l’uomo che ho sposato una ventina di anni fa, adesso è in carcere per tentato omicidio, ma quel “ti ammazzo” ripetuto mille volte la mattina dell’aggressione è qui, nella mia testa. E anche se in questo momento è una minaccia vana io vedo il pericolo futuro, quando uscirà. So che lui non la finirà, e le sue minacce a me e alla mia famiglia varranno anche fra anni, e spero tanto che come me lo sappia la Giustizia. Ho pensato e ripensato al mio tempo con lui, in questi giorni di ospedale. Ho passato in rassegna episodi, istanti, situazioni, ho cercato di risalire al momento esatto in cui tutto è precipitato fra noi. E ho capito, finalmente, che non c’è nessun momento esatto da cercare: lui è sempre stato così. Sempre. Io non me ne sono accorta o forse è meglio dire che ho chiuso gli occhi anche quando c’erano i segnali per capire, presa com’ero dal crescere i nostri figli, fare la moglie, la mamma, la casalinga. I nostri figli: è per loro ed è a loro che sto scrivendo questa lettera. Cari figli miei, anzitutto vorrei dirvi grazie per non avermi mai lasciato sola nemmeno un minuto. Fra pochi giorni è la festa della mamma e so dal profondo del cuore che voi mi avete sempre amata e onorata, come donna e come mamma. Siete il mio orgoglio e la speranza del mio futuro, e i ragazzi come voi sono la speranza del mondo. Siete grandi abbastanza per capire e sapere. E quindi saprete che io ce l’ho messa tutta, ho provato a proteggere e a salvare vostro padre, non l’ho denunciato, non l’ho lasciato; per me era un modo di proteggere e salvare anche voi, farvi crescere in una famiglia intera. Ma mi sbagliavo. C’è un limite a tutto e quando ti manca il respiro o riemergi dall’acqua o muori. Io sono riemersa assieme a voi. Questi due anni lontano da lui che rendeva a tutti quanti la vita impossibile sono stati i migliori di sempre. Mi dispiace solo avervi fatto respirare, prima, l’aria avvelenata dei suoi soprusi, mi dispiace che abbiate visto e sentito cose che non avreste dovuto vedere né sentire. Ma adesso, nonostante tutto, confido più che mai in voi. Siate uomini amorevoli, figli miei. Abbiate rispetto per tutti, a cominciare dalle donne che saranno accanto a voi nella vita. Promettetemi di non scegliere mai la violenza con nessuno, compresi gli animali. Ho cercato di rintracciare i momenti belli che ho vissuto con lui, in questi giorni, ma non me ne viene in mente nemmeno uno. Eppure devono esserci stati. A me vengono in mente soltanto quelle volte che andavate a casa dei compagni di scuola e tornavate con la meraviglia negli occhi: vedere i padri degli altri coccolare figli e mogli, sentirli dolci e gentili per voi era straordinario. E invece no: quella è la normalità, quella è la vita vera delle famiglie che condividono il bene, non la sopraffazione. Non so dirvi perché vostro padre è cresciuto e diventato così. So che da me voleva solo ubbidienza. Era giusto soltanto quello che diceva e voleva lui. Lo infastidiva tutto, si arrabbiava per tutto: se mi guardavo allo specchio per un tempo che gli sembrava troppo, se vi accompagnavo agli allenamenti o a una festa di compleanno, se parlavo troppo al telefono con le amiche, se indossavo un paio di occhiali nuovi, perfino cosa preparare per cena o pranzo era diventato un problema. “Se ci tieni ai tuoi figli...” mi urlava dandomi ordini. Quella frase mi ha sempre fatto paura. Non so nemmeno se c’era gelosia alla base del suo comportamento o semplicemente il desiderio di sovrastarmi. Gli ho chiesto la separazione tante volte, soprattutto in questi due anni in cui non vivevamo più insieme. Prendeva tempo, diceva che non aveva i soldi per permettersela. Eppure sono io che sono andata via di casa, gli ho lasciato tutto, non ho preteso né mi ha mai dato un soldo per mantenervi. Ma io non volevo niente da lui, mi bastava stargli lontana. Mi sono reinventata la vita, per tornare a vivere. Ho trovato casa, mi arrangio con il lavoro dopo decenni a sentire lui che non voleva un lavoro e un’autonomia economica per me. Mi sono stancata di aspettare e gli ho fatto mandare dalla mia avvocatessa la citazione per la separazione. Per quello mi ha aggredita: perché ho osato fare una cosa senza avere prima il suo consenso. Mi ha inseguita in auto, mi ha tamponato e mi ha fatto finire in un fosso, sono scappata, ma mi ha raggiunta in un supermercato impugnando quel pezzo di legno... c’erano le mamme con i loro bambini nella scuola materna lì davanti, non si è fermato nemmeno davanti a loro. Le commesse del supermercato gli hanno chiuso la porta in faccia ma lui l’ha sfondata, ho sentito il suo odore alle spalle... colpiva per uccidermi. Le commesse si sono messe di mezzo e sono riuscita di nuovo a scappare verso una macelleria, mi sono rinchiusa nella stanzetta sul retro e mi sono salvata perché in quel momento sono arrivati i carabinieri. Ora farò fisioterapia, mi riprenderò. Resteranno ferite che le lastre non possono vedere. Ma so che ci sarete voi a curarle, figli miei adorati. L’amore è una medicina miracolosa. La mia festa della mamma è ogni giorno, accanto a voi. “Ora ho paura delle vendette”. Parla il 29enne che ha sparato ferendo un ladro 16enne di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 29 aprile 2019 È sotto tutela dei carabinieri. Presto sarà indagato. “Eravamo da poco tornati da una giornata passata al mare. Stavamo facendo la doccia, quando abbiamo sentito dei rumori provenire dal soggiorno. Un bello spavento per me e la mia fidanzata: mi sono preoccupato soprattutto per lei che stava al piano di sopra. Adesso ho paura di vendette da parte dei ladri”. Andrea Pulone, 29 anni, già immagina che oggi il suo nome sarà iscritto nel registro degli indagati. Il procuratore di Tivoli Francesco Menditto sta ultimando gli accertamenti - sulla base delle relazioni dei carabinieri - per decidere quale reato contestare al giovane che venerdì scorso ha sparato contro tre persone che si erano introdotte nell’abitazione dei genitori in via San Matteo, nel quartiere Belvedere della cittadina a nord di Roma. Uno dei proiettili ha colpito Enrico P., sedicenne albanese residente a San Basilio, con precedenti per furto, ora ricoverato in prognosi riservata al Policlinico Gemelli: è fuori pericolo, ed è indagato per concorso in furto aggravato. Tuttora è caccia ai due complici. “Se ha fatto qualcosa è giusto che paghi, ma con la giustizia”, ha spiegato il padre del minorenne che ieri è andato a trovarlo nel reparto di terapia intensiva pediatrica. Pulone è molto spaventato. Il procuratore ha deciso di trasformare la vigilanza davanti alla sua abitazione da saltuaria a fissa per evitare il rischio di ritorsioni: una pattuglia dei carabinieri staziona di fronte al cancello della villetta, dove forse oggi torneranno i genitori, in vacanza in Portogallo. “Siamo affranti - rivela il padre di Andrea, l’astrofisico Luigi Pulone - nostro figlio sta subendo il contraccolpo emotivo di quello che è successo”. “Indagare il giovane è un atto dovuto, non certo una conferma di colpevolezza”, assicura ancora Menditto, che al riguardo precisa che in questo caso la nuova legge sulla legittima difesa non è applicabile e vale quella precedente, visto che non è ancora entrata in vigore perché deve essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. “E comunque - aggiunge il procuratore - l’eccesso di legittima difesa rimane contestabile, anche se adesso la nuova legge prende in considerazione lo stato d’animo di chi si difende”. “Qual è il mio stato d’animo se mi indagheranno? - replica Pulone -. Ancora non lo so. Probabilmente saprò dare una risposta nel momento in cui accadrà”. La pistola, una calibro 45 usata per il tiro sportivo, è stata sequestrata dai carabinieri del Gruppo di Frascati e della compagnia di Monterotondo che hanno concluso gli accertamenti. “Il quadro di ciò che è accaduto - aggiunge il procuratore - è già abbastanza chiaro”. Al Belvedere di Monterotondo ci sono stati numerosi furti in passato e gli abitanti hanno paura. “Da noi non era ancora mai successo - riprende Pulone -, qui intorno sì. Ricordo che una volta i ladri in fuga sono passati per il nostro giardino”. Ieri il giovane è rimasto fuori casa per molte ore. “Mi preoccupa soprattutto il fatto che sarebbe potuto accadere a chiunque altro, anche a mia madre quando è da sola - riflette -. Abbiamo sentito dei rumori e sono corso a prendere la pistola in cassaforte. Ho cercato di aprire la porta del soggiorno, ma c’era qualcuno che faceva resistenza e la teneva chiusa. Poi quando sono riuscito ad aprirla, mi sono trovato davanti tre uomini, uno armato di spranga: pensavano di poter rubare perché i miei genitori non c’erano. Ho sparato per farli scappare, per dissuaderli, non mi sono accorto di averne colpito uno”, racconta Andrea. E parlando ancora del sedicenne aggiunge: “Se decidi di fare il criminale, sei tu che metti in pericolo la tua vita. Se non fosse entrato in casa nostra, tutto questo non sarebbe successo” Più o meno quello che dice il vice premier Salvini: “Se non avesse fatto il rapinatore, ora starebbe bene, a guardare “Ballando sotto le stelle”. Fico: “Non dividiamoci su Regeni”. Spuntano altri ufficiali coinvolti di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 29 aprile 2019 Il presidente della Camera e la commissione d’inchiesta: “Oggi via ai lavori, serve un sì unanime”. “Nessuna divisione”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, chiede al Parlamento di non dividersi davanti alla ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. Dopo la lettera dei genitori di Giulio, Paola e Claudio, al premier Giuseppe Conte alla vigilia del suo incontro in Cina con il primo ministro egiziano Al Sisi, incontro che non ha però portato alcun risultato, il presidente Fico chiede alla politica di rilanciare. E compattarsi. “Come c’è stata - dice a Repubblica la terza carica dello Stato - unanimità fra gruppi parlamentari per la sospensione dei rapporti fra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano, allo stesso modo mi auguro ci sia sul via libera alla commissione di inchiesta”. Oggi infatti dovrebbe essere discussa in aula l’istituzione della “Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni” con lo scopo, si legge negli atti parlamentari, “di accertare le responsabilità relative alla morte del ricercatore nonché i moventi e le circostanze del suo assassinio”. La discussione comincerà nel pomeriggio, il voto dovrebbe esserci giovedì. In commissione Esteri e Giustizia hanno votato a favore tutti i membri tranne Forza Italia che si è astenuta, sostenendo che il lavoro parlamentare potrebbe sovrapporsi a quello della magistratura. Così come prevede la legge, la commissione avrà gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria e sarà composta da 20 deputati. “La verità sulla morte di Giulio - dice Fico - la vogliamo tutti, la pretendiamo tutti con forza, a prescindere dalle forze politiche di appartenenza. È importante che ci sia unità su questo tema”. Il lavoro della commissione affiancherà, quindi, quello della magistratura. Ormai in stand by da mesi vista la scarsissima collaborazione delle autorità giudiziarie egiziane. Fino a questo momento è stata un’indagine per sottrazione: tutto quello che si sa arriva dal lavoro della procura di Roma, dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco che hanno smontato le bugie e i depistaggi egiziani (la polizia di Sisi ha persino inscenato un conflitto a fuoco, ammazzando cinque innocenti). Nuova linfa per l’inchiesta sta arrivando, però, nelle ultime settimane dalle indagini difensive condotte dall’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, e dai suoi consulenti al Cairo. Sono state ascoltate nuove persone e depositate tre memorie sulla scrivania del sostituto procuratore Sergio Colaiocco che sta conducendo l’indagine. All’interno nuovi spunti investigativi e soprattutto nuovi nomi di uomini degli apparati che potrebbero aver avuto un ruolo nel sequestro e nella morte di Giulio. A oggi sono indagate cinque ufficiali della National Security, il servizio segreto civile egiziano: sono il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem. Tutti hanno avuto un ruolo nelle indagini condotte su Regeni prima del suo sequestro. Indagine che aveva stabilito una cosa sola: Giulio era un ricercatore italiano, in Egitto per motivi di studio. E che “non rappresentava alcun pericolo per l’Egitto”, avevano scritto al Cairo, prima di sequestrarlo. Torturarlo. E ucciderlo. Caso Regeni, ora serve una svolta: l’Italia protegga chi parlerà ai pm di Carlo Bonini La Repubblica, 29 aprile 2019 Gentile Signor Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il turbamento che ha espresso per la lettera con cui sabato, su questo giornale, Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, sono tornati a chiederle, nella sua veste di Primo Ministro, un atto concreto nella ricerca della verità sui responsabili dell’omicidio di Stato del proprio figlio, è il turbamento del Paese intero. Perché - come non smettiamo di ricordare da tre anni a questa parte - “Giulio siamo noi”. Giulio è un’idea dei nostri figli, del nostro futuro possibile e necessario. Aperto al mondo, tollerante, colto, libero. E dunque, quando lei dice che “non avrà pace finché non si arriverà a una verità”, interpreta un sentimento comune e condiviso. È proprio così. Nessuno avrà pace. Né si sentirà sicuro, aggiungiamo. E tuttavia, proprio per questo, non le sfuggirà che una cinica rassegnazione a una cinica interpretazione della “ragione di Stato” nei nostri rapporti con il Regime egiziano non solo svuota di ogni forza e significato quel turbamento, quella richiesta non negoziabile di verità, ma, quel che è peggio, li fa apparire, insieme, velleitari e ipocriti. Sia inteso, Presidente, nessuno vive su Marte. E a nessuno sfugge l’estrema complessità delle questioni, degli interessi economici e geo-politici, che ruotano intorno ai rapporti del nostro Paese con il regime di Al Sisi. Ma la “moral suasion” e l’evocazione di una generica “pressione del Governo” per venire a capo delle responsabilità dell’omicidio di Giulio somigliano molto a un ululato alla luna. Non fosse altro perché quello stesso strumento, per due anni, è stato utilizzato dai Presidenti che l’hanno preceduta - Matteo Renzi e Paolo Gentiloni - purtroppo senza risultati apprezzabili. Insomma, il tempo delle parole è davvero finito. Le suggeriamo dunque un atto politico concreto, trasparente, da Primo Ministro di un Paese sovrano, come tale nella sua piena disponibilità. Che segnali non solo un cambio di passo, ma liberi un Paese turbato quanto lei dalla sgradevole sensazione che - per dirla con le parole di Luigi Manconi - nell’interlocuzione con Al Sisi si sia passati da una condizione di inerzia a una di promiscuità. E dunque, gentile Presidente, comunichi pubblicamente e ufficialmente, in lingua italiana, inglese, araba, sul sito istituzionale del Governo, su quello della nostra ambasciata in Egitto e in ogni altro Paese, che qualunque cittadino o cittadina egiziana, al corrente di circostanze riscontrabili e decisive nell’individuazione degli assassini di Giulio, che si presenterà spontaneamente ai magistrati della Procura di Roma per riferirne, avrà la protezione giuridica, il sostegno economico, le garanzie di sicurezza che la nostra legge riconosce ai collaboratori di giustizia. Un programma di protezione e la possibilità di fare ingresso e di soggiornare legalmente in Italia con regolare “visto per motivi di giustizia”. E, nel farlo, ricordi al nostro ambasciatore al Cairo, se non vuole richiamarlo, come pure sarebbe naturale a questo punto, che il mandato con cui il precedente Governo lo inviò dopo la sospensione delle relazioni diplomatiche era quello di rendere quel fazzoletto di nostro territorio nazionale oltremare non solo uno sportello di facilitazione per investimenti, ma anche un porto sicuro per chi avesse a cuore la ricerca della verità su Giulio. Vede, signor Presidente, ormai un anno fa, la famiglia di Giulio e il suo coraggioso legale, Alessandra Ballerini, fecero un appello pubblico al “chi sa parli”. Ma, naturalmente, una famiglia che combatte da tre anni a mani nude contro l’omertà di uno dei più potenti regimi del nord Africa, non ha strumenti per garantire che un atto di coraggio - come è oggi in Egitto denunciare le responsabilità di un funzionario degli apparati di sicurezza - non costerà la vita a chi dovesse scegliere di farlo. Tanto è vero che, come lei ben sa, per molto meno, per aver semplicemente assolto con lealtà al loro mandato, i consulenti legali egiziani della famiglia Regeni hanno pagato con il carcere e accuse strumentali di terrorismo (il legale della famiglia Regeni in gennaio ha presentato su questo un esposto). Lei, Presidente, è un avvocato. E più di chiunque altro dovrebbe sentire l’oltraggio di un Capo di Stato estero che in privato le promette impegno per la verità sull’omicidio di un italiano e contestualmente lascia che i propri apparati di sicurezza inquinino le prove e intimidiscano i testimoni. È vero, non è in suo potere disporre della magistratura o delle strutture investigative di un altro Paese. Ma è in suo esclusivo potere mettere in condizioni la magistratura e gli inquirenti del nostro Paese di poter autonomamente - autonomamente - proseguire nell’accertamento della verità utilizzando ogni strumento legittimo consentito dalle nostre leggi, dalla nostra Costituzione. Lo faccia. Sarebbe un atto sovrano. E onorerebbe, insieme al Paese, una certa idea di “ragione di Stato”. Riparazione per l’ingiusta detenzione: la colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2019 Misure cautelari - Personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Colpevole condotta dell’imputato - Rilevanza ai fini del diniego del beneficio. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, deve essere escluso dal beneficio colui che abbia contribuito con la sua condotta a causare la restrizione personale. Le condotte sinergicamente rilevanti rispetto alla cautela sofferta possono essere di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da aver determinato l’adozione del provvedimento restrittivo) o di tipo processuale (auto-incolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione. Nel caso in esame, sono risultati determinanti, nella valutazione dei giudici, sia la frequentazione intercorsa con pregiudicati ricoprenti cariche di vertice in un’organizzazione mafiosa sia alcuni comportamenti che hanno realizzato quella falsa apparenza della responsabilità penale dell’imputato, idonea a trarre in inganno con un giudizio ex ante l’Autorità giudiziaria in ordine alla sussistenza di elementi di grave reità. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 9 aprile 2019 n. 15359. Misure cautelari - Personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Presupposti - Colpa grave ostativa - Valutazione - Comportamenti deontologicamente scorretti - Rilevanza - Fattispecie. La colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione può essere integrata anche da comportamenti deontologicamente scorretti, quando questi, uniti ad altri elementi, configurino una situazione obiettiva idonea a evocare, secondo un canone di normalità, una fattispecie di reato. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto integrativa della colpa grave la condotta dell’imputato, Ispettore della Polizia di Stato, in servizio presso un Centro di Identificazione ed Espulsione, il quale - violando le disposizioni regolatrici dell’attività della Polizia di Stato - aveva intrattenuto rapporti sessuali con persone che, essendo trattenute nella predetta struttura, si trovavano in una posizione di soggezione nei suoi confronti). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 14 dicembre 2016 n. 52871. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Dolo o colpa grave dell’interessato - Elementi di valutazione - Elementi probatori non oggetto del vaglio dibattimentale - Utilizzabilità - Condizioni. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice della riparazione, per decidere se l’imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione. Nella specie, la Corte ha applicato il principio in un’ipotesi di non coincidenza tra quadro indiziario esaminato nella fase cautelare e quadro probatorio alla base del giudizio assolutorio, ritenendo legittima la valutazione del verbale di arresto e di alcune dichiarazioni fisiologicamente inutilizzabili in dibattimento. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 3 ottobre 2016 n. 41396. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Presupposti - Parametri di valutazione - Autonomia rispetto a quello del giudice penale - Configurabilità - Fattispecie. Il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti ma sottoposto a un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la rivalutazione, effettuata dal giudice della riparazione, dei fatti non nella loro valenza indiziaria o probante, ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una macroscopica negligenza o imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 24 settembre 2013 n. 39500. Misure cautelari - Personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - In genere. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. (Nell’occasione, la Corte ha affermato che il giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 15 ottobre 2002 n. 34559. Reati abituali: possibile arresto in flagranza con precedenti denunce della vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2019 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 febbraio 2019 n. 7915. Nei reati abituali è possibile procedere all’arresto in flagranza anche quando il bagaglio conoscitivo del soggetto che procede all’arresto derivi da pregresse denunce della vittima, relative a fatti a cui egli non abbia assistito personalmente, purché tale soggetto assista a una frazione dell’attività delittuosa che, sommata a quella oggetto di denuncia, integri l’abitualità richiesta dalla norma; ovvero purché - già forte del suo bagaglio conoscitivo - l’operante sorprenda il reo con cose o tracce dalle quali appaia che questi ha commesso il reato immediatamente prima. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza n. 7915 del 21 febbraio 2019. Del resto, ove ci non fosse consentito, sarebbe impossibile procedere all’arresto di chi si rende responsabile di reati abituali (possibilità invece espressamente contemplata dall’articolo 380 del codice di procedura penale, dove è prevista l’obbligatorietà dell’arresto per i maltrattamenti e gli atti persecutori), giacché ben raramente il soggetto (pubblico o privato) abilitato a effettuare l’arresto assiste direttamente a tutta la sequenza criminosa che integra l’abitualità. Da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministro, ha riconosciuto come legittimo l’arresto per il reato di atti persecutori - non convalidato erroneamente dal giudice sul presupposto che mancasse la flagranza - eseguito dalla polizia giudiziaria nei confronti di un soggetto sorpreso nei pressi dell’abitazione della vittima, con la disponibilità di “biglietti” - con su scritto il proprio numero telefonico - del tipo di quelli rinvenuti proprio nelle pertinenze dell’abitazione, in un contesto in cui la vittima già in precedenza aveva presentato denunce lamentando il comportamento persecutorio subito. L’esatta individuazione del concetto di flagranza - L’affermazione è condivisibile e, per coglierne il concreto significato operativo, assume rilievo l’esatta individuazione del concetto di “flagranza” (rectius, di “quasi flagranza”) allorquando questa si sia sostanziata nel rinvenimento di cose o tracce del reato commesso immediatamente prima. La giurisprudenza, in proposito, è assolutamente consolidata, nel senso che, anche alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite (sentenza 24 novembre 2015, Ventrice), la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che consenta di ricondurre al primo la commissione dell’illecito, anche allorquando questi non sia colto nell’atto di commetterlo. Tale condizione si può configurare - alla luce dell’indicazione normativa dell’articolo 382 del Cpp, secondo cui “è in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima” - nel caso in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, ovvero nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (cfr. sezione V, 3 dicembre 2018, Proc. Rep. Trib. Savona in proc. Rouchdi; sezione IV, 26 ottobre 2017, PM in proc. Kukiqi e altro; cfr. anche sezione IV, 14 dicembre 2018, Proc. Rep. Trib. Bologna in proc. Capitale, laddove, in particolare, la Cassazione ha ritenuto che fosse stato eseguito correttamente l’arresto, nella quasi flagranza, in quanto le forze dell’ordine, intervenute tempestivamente una volta allertate, avevano rinvenuto il soggetto autore del reato ancora sul luogo, rappresentando questa stessa presenza una “traccia” del reato, rimasto peraltro nell’ipotesi di un tentativo, commesso immediatamente prima). Messina: inagibile un padiglione del carcere, trasferiti 84 detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 29 aprile 2019 Trasferiti alle prime luci dell’alba per essere dislocati in altri istituti siciliani: sono gli 84 detenuti, tutti appartenenti al circuito di alta sicurezza per reati associativi (AS3), che nelle prime ore di domenica sono stati sfollati dalla casa circondariale di Messina per motivi legati alla stabilità del reparto “Camerotti” che li ospitava. L’eccezionale operazione, preparata in poche ore e realizzata in coordinamento fra Direzione dell’istituto penitenziario, Provveditorato regionale siciliano e Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, ha visto il coinvolgimento di decine e decine di agenti di Polizia Penitenziaria mobilitati da altri istituti dell’isola che hanno affiancato gli uomini dell’intero reparto di stanza nel carcere messinese, fra quelli presenti e quelli appositamente richiamati in servizio. Tutto si è svolto in assoluta tranquillità. I detenuti erano informati da tempo della possibilità di dover essere spostati altrove a causa delle condizioni delle mura del reparto e sono stati aggiornati sul fatto che l’Amministrazione si stava mobilitando per fronteggiare tale ipotesi. La situazione era infatti sotto osservazione già dal marzo scorso, quando hanno iniziato a verificarsi i primi episodi di distacco dell’intonaco in diverse zone del reparto “Camerotti”. È stata subito convocata un’impresa specializzata che, a seguito di sopralluoghi e riscontri tecnici, ha confermato nella sua perizia conclusiva il rischio di crolli ben più gravi e, quindi, la necessità di evacuare la cinquantina di camere che ospitano i circa novanta detenuti in regime di alta sicurezza. 84 di questi sono stati sfollati nella mattinata di ieri: i rimanenti, una decina, sono stati provvisoriamente sistemati in altre zone del carcere messinese, in attesa di essere a loro volta trasferiti in altri istituti. “Si è trattata di un’operazione davvero eccezionale - ha sottolineato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini - messa in piedi rapidamente grazie allo straordinario impegno di tutte le parti coinvolte in Sicilia e a Roma. Con pochissime ore a disposizione, a partire dal via libera che ho dato sabato a pomeriggio inoltrato, lo sfollamento è stato portato a termine senza alcun problema e in totale sicurezza. E di questo voglio dare atto e merito pubblicamente a tutto il personale coinvolto: quello di Polizia Penitenziaria, sia presente nell’istituto messinese sia mobilitato di sabato sera da altri istituti siciliani, e quello civile, tanto del Provveditorato di Palermo che del Dipartimento”. Nei prossimi giorni saranno gli uffici tecnici del Prap, d’intesa con il Dipartimento, a pianificare gli interventi necessari a ripristinare la piena operatività del reparto in questione. Olbia (Ss): “La reclusione e le misure alternative”, corso formazione Ordine Giornalisti La Nuova Sardegna, 29 aprile 2019 Il Magistrato di sorveglianza De Vito relatore. Si parlerà del mondo carcerario e delle misure alternative alla detenzione nell’evento formativo dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna in programma il 3 maggio. L’incontro dal titolo “Carcerazione e misure alternative: cronaca e deontologia”, si terrà dalle 14.30 alle 17.30, nella sala della biblioteca simpliciana. L’articolo 27 della Costituzione afferma che la responsabilità penale è personale; l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva; le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Su questi principi si fondano le norme che regolano l’esecuzione della pena detentiva, il mondo carcerario e le misure alternative alla detenzione. L’evento formativo approfondirà questi temi. Dopo l’introduzione del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna, Francesco Biracchi, interverrà l’avvocato Edvige Baldino, garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale nel comune di Tempio, che parlerà della realtà carceraria nella casa di reclusione di Nuchis. Seguirà la relazione dell’avvocato Domenico Putzolu del Foro di Tempio e componente della giunta nazionale dell’Unione delle camere penali d’Italia, che interverrà sul tema “Le misure alternative alla detenzione e il ritorno a propulsioni meramente punitive e retributive della pena”. Infine, Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza del tribunale di Sassari e presidente nazionale di Magistratura democratica si occuperà di “Differenti modelli penitenziari e discrezionalità della magistratura di sorveglianza”. S.M.C. Vetere (Ce): “Oltre la paura”, convegno sul tema della violenza contro le donne di Nunzio De Pinto belvederenews.net, 29 aprile 2019 Il convegno, organizzato nell’ambito dello Stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza, si terrà nell’Aulario della Facoltà di Giurisprudenza di S.M.C. Vetere. Giovedì 2 maggio 2019, con inizio alle ore 14.30, il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, nell’Aulario della Facoltà di Giurisprudenza, ospita un convegno organizzato nell’ ambito dello Stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza, dal prof. Mariano Menna, titolare dello Stage, dalla dott. Mena Minafra, Responsabile del progetto “Guardami oltre”, dal prof. Samuele Ciambriello, Garante regionale dei diritti e dei doveri dei detenuti e dalla dott. Paola Mattucci, Presidente dell’ass. Mitreo Film Festival. Parteciperà all’evento Filomena Lamberti. Ne discutono: Oriana Iuliano, Magistrato di sorveglianza, Tribunale di S.Maria C.V.; Rosaria Bruno, Pres. dell’Osservatorio Regione Campania; Tiziana Barrella, Esperta e Responsabile scient. O.G.I. e Adele de Notaris, Spaziodonna - Linea rosa, SA. Modera: Salvatore Minieri, giornalista - scrittore. La storia di Filomena Lamberti è terribile ed è emblematica di cosa patiscono le donne che subiscono la violenza di uomini violenti. Ha 58 anni ed è originaria di Salerno. È sposata con V.G. e con lui gestisce una pescheria a Eboli. Ha tre figli e la sua vita, complice l’eccessiva gelosia del marito, si snoda tra le faccende domestiche e il lavoro. Il clima in casa non è affatto sereno. Filomena ha solo sedici anni quando conosce V.G. Lo incontra in una balera a Salerno e si innamora di lui. Presto i due decidono di sposarsi e così ha inizio un lungo e infelice matrimonio che durerà per ben 35 anni. L’uomo si dimostra ossessivo e geloso. La controlla morbosamente nel timore costante che Filomena possa avere degli amanti. Non mancano sopraffazioni e violenze fisiche a cui assistono anche i tre figli. Per anni, la Lamberti si sottomette alla volontà di V.G. e accetta quella prigione fatta solo di lavoro, vita domestica e violenze, ma un giorno le cose cambiano. Un giorno Filomena viene a sapere che il figlio maggiore ha dato uno schiaffo alla fidanzata. È la goccia che fa traboccare il vaso. Comprende che accettando di lasciarsi sopraffare dal marito, sta dando ai suoi figli un messaggio sbagliato. Così, decide finalmente di reagire. Filomena comunica a Vittorio di voler mettere fine al loro matrimonio e chiede la separazione. L’uomo le lascia credere di accettare la sua decisione. La notte del 28 aprile 2012, mentre la Lamberti è a letto, V.G. le versa una bottiglia di acido sul viso. I figli sentono le urla della madre e la portano subito in ospedale. Vittorio viene arrestato, mentre la donna lotta a lungo per sopravvivere e riesce a fatica a superare le gravi lesioni riportate. Processato per direttissima, Vittorio patteggia una pena a 18 mesi per maltrattamenti in famiglia, ma in carcere resta solo per un anno e tre mesi, tornando quindi in libertà. Bologna: la religione dietro le sbarre di Ignazio De Francesco settimananews.it, 29 aprile 2019 “Religioni per la cittadinanza” (RPC) nasce come naturale continuazione e sviluppo di “Diritti, doveri, solidarietà” (DDS), un progetto di dialogo tra culture e Costituzioni realizzato nel biennio 2014-2016 presso la Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, promosso dal Centro per l’Istruzione degli Adulti (CPIA Metropolitano di Bologna), in collaborazione con l’ufficio del Garante regionale dei detenuti e la Direzione del carcere. Grazie alla pubblicazione di due report (editi dalla Regione Emilia-Romagna) e del docufilm Dustur di Marco Santarelli, DDS ha fatto conoscere in Italia e all’estero un efficace modello d’intervento educativo, fondato sull’approccio interculturale. DDS è così entrato nei programmi di Erasmus Plus ed è attualmente sperimentato in quattro Paesi (Italia, Germania, Spagna, Romania) sotto il titolo Duties, Rights, Solidariety: European Constitutions and Muslim Immigration. Perché il tema religione - DDS si muoveva ad ampio raggio sui temi fondamentali della cittadinanza, mettendo in dialogo la Costituzione italiana con alcune Costituzioni arabe del Nord Africa. Era rivolto quindi principalmente a detenuti di fede musulmana. RPC, invece, si concentra sull’ambito religioso ed è rivolto senza distinzione a detenuti italiani e stranieri appartenenti a diverse confessioni. Scopo del nuovo progetto è far riflettere i partecipanti (studenti del CPIA Metropolitano di Bologna) sulle rispettive appartenenze religiose, per mettere in luce ciò che di esse può contribuire al successo del percorso rieducativo e, allo stesso tempo, ciò che invece può costituire una criticità o addirittura un rischio. L’importanza di intervenire in questo campo è segnalata dalle cifre fornite nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione curato dall’Associazione Antigone, che dedica al tema religioso uno spazio significativo: al 31 dicembre 2017, il 55,75% dei detenuti era composto da cattolici (32.119), una maggioranza diminuita rispetto a qualche decennio fa, quando in carcere c’erano pochi immigrati. A ottobre 2017, il 34,4% della popolazione detenuta era straniera (19.859, su un totale di 57.737). Il più consistente gruppo di questa è registrato come musulmano: il 36,1% degli stranieri e il 12,4% del totale (7.194). Nel 2016 erano 7.646, circa 500 in più del 2017. Religioni per la cittadinanza - Dalla lettura dei dati si scopre però che molti preferiscono non dichiarare la propria fede. A inizio 2016 erano addirittura il 26,3% del totale (14.235). In realtà, i musulmani sono molti di più, se si tiene conto dei paesi di provenienza dei detenuti a maggioranza musulmana: 12.567 nel 2017 (erano 11.029 nel 2016). I dati e una certa pratica delle carceri - nota il Rapporto di Antigone - mostrano una tendenza a non dichiarare la religione di appartenenza, presumibilmente per paura di essere discriminati. In terza posizione, dopo cattolici e musulmani, ci sono i cristiani ortodossi: nel 2017 erano 2.481, il 4,3% del totale. Gli altri si situano al di sotto dell’1%: evangelisti, avventisti del settimo giorno, testimoni di Geova, hindu e via dicendo. La cura dell’esperienza religiosa in carcere - Connessi con l’esperienza religiosa in carcere ci sono i due nodi dei luoghi di culto e degli assistenti spirituali. Sul primo punto il Rapporto di Antigone rileva una disparità evidente: “Tutti gli istituti di pena hanno almeno una cappella; molti più d’una. Le altre confessioni ne escono meno bene: su 86 istituti da noi visitati, solo in 20 erano presenti spazi per culti i non cattolici: il 23%. Ciò vuol dire che nel 77% degli istituti non c’era altro che la propria cella, per pregare”. Considerazioni analoghe valgono per il secondo punto: si calcola la presenza di 314 ministri di culto cattolici su 189 carceri. Nel caso dell’islam, gli imam autorizzati sono 25, ai quali si aggiungono 41 assistenti volontari. Il rapporto di Antigone riferisce che il DAP recensisce poi anche i detenuti che fanno da imam, che in tutto sono 97. È vero che l’imam non equivale alla figura del prete, tuttavia la sua posizione gli conferisce un certo carisma religioso sugli altri detenuti, fatto che deve porre serie domande sull’opportunità di affidare questo incarico a persone detenute, che si trovano, esse stesse, in un cammino di rieducazione. Normalmente si pone l’accento sul diritto di esercizio della libertà religiosa in carcere. Soltanto in tempi recenti, e per impulso dal problema del radicalismo islamico, si è iniziato a riflettere sull’impatto che il “recupero del religioso” può avere nella vita dei detenuti. Il ritorno o la scoperta di una fede religiosa può svolgere un ruolo importante nella tenuta psicologica/spirituale di chi subisce il carcere, lo può stimolare positivamente anche ad un recupero di importanti valori morali, che lo aiutano a rompere con il crimine e a ritornare ad una vita onesta. Il recupero del religioso può però evolvere negativamente, alzando i muri di separazione dal resto del corpo sociale, spingendo a posizioni di contrasto e persino di ostilità. Il radicalismo islamico è un esempio chiaro. Vi si può aggiungere anche l’uso della religione (cattolica e altre) nell’affiliazione a organizzazioni criminali di stampo mafioso. La scuola del carcere è quindi chiamata ad agire su questi fronti. Come si articola il percorso - Il percorso proposto da RPC si articola in dieci incontri per i detenuti comuni e quattro per quelli di Alta Sicurezza. Complessivamente sono coinvolte una quarantina di persone, invitate a riflettere sui seguenti temi: Fonti del religioso (dove imparo, da chi, religione e tradizione); Contenuti del religioso (che cosa ho capito quanto a dogma ed etica); Religione e libertà di coscienza (libertà di scegliere, libertà di cambiare); Il culto e la ritualità religiosa (incluse superstizioni e magia); Religione e rapporti di genere; Religioni e rapporti intergenerazionali; Legge di Dio e/o Legge degli uomini (graduatoria delle norme, principi di obbedienza); Religione e città (religione e politica, integrazione e/o disintegrazione sociale); Religione e violenza; Interazioni con l’Altro (che non crede, crede diversamente, incontro-confronto-scontro). Gli incontri sono condotti dallo scrivente¹ e dalla giornalista Caterina Bombarda, ma si avvalgono della presenza, volta per volta, di un esperto, scelto tra teologi, sociologi, giuristi, antropologi, psicologi e psichiatri, nell’ordine: Brunetto Salvarani, Pier Francesco Bresciani, Fabrizio Mandreoli, Franco Pilati, Piero Stefani, Barbara Ghiringhelli, Elsa Antonazzi, Marco Bontempi, Maria Inglese, Pino Lucà Trombetta, Maurizio Millo. La trattazione dei temi prevede in modo sistematico tre passaggi: il momento dell’auto-narrazione; il conferimento di alcune informazioni, al fine di completare ma soprattutto problematizzare il quadro emerso dai racconti personali; la proiezione sul livello delle norme della cittadinanza, al fine di mostrare la necessità di collocare la propria fede religiosa su un orizzonte più ampio, perché condiviso con appartenenti ad altre fedi e convinzioni. Il tema della “cittadinanza responsabile” viene inteso quindi come quadro del vissuto religioso e non come alterità ad esso estranea. Come per DDS così anche per RPC si prevedono due forme di comunicazione dell’esperienza svolta, affinché questo progetto risulti di valido stimolo alla nascita di altre iniziative, a livello locale, nazionale ed europeo: la pubblicazione di un report illustrato; un docufilm del regista Lorenzo Stanzani, noto documentarista italiano, che sta riprendendo con la sua troupe tutti gli incontri e altre interviste condotte con operatori carcerari. *Membro della Piccola Famiglia dell’Annunziata e volontario AVoC (Associazione Volontari del Carcere, Bologna) Salerno: “Nell’inferno di Fuorni lottiamo insieme per ritrovare la fede” di Carmen Autuori La Città di Salerno, 29 aprile 2019 Giornata della Misericordia, don Rosario a Pompei coi carcerati: “A una persona puoi togliere la libertà, ma non la speranza”. Il carcere non è solo il luogo dove si espia la pena. Ma anche dove si ritrova la fede. Ne è convinto don Rosario Petrone, cappellano della Casa Circondariale di Fuorni, da sempre a fianco degli ultimi, detenuti e migranti. È presidente dell’associazione “Migranti senza frontiere. Volontari carcerari” e da qualche anno gestisce, a Brignano, la Domus Misericordiae, struttura a sostegno di detenuti soggetti a misure alternative alla pena detentiva, con particolare attenzione ai migranti al fine di favorirne il reinserimento sociale. Don Rosario, anche quest’anno, è il promotore, assieme all’Amministrazione Penitenziaria ed al Tribunale di Vigilanza, della Giornata Regionale della Misericordia che si terrà oggi presso il Pontificio Santuario di Pompei. Per i detenuti del carcere di Salerno sarà un momento di riflessione, di preghiera ed anche d’incontro con i propri familiari. Negli ultimi decenni è molto cambiata la composizione della popolazione carceraria anche dal punto di vista religioso. Come si relaziona il detenuto cristiano con l’altro di diverso credo? Con il Concordato è stata rimodulata la figura del cappellano che deve essere anche mediatore religioso tra i vari gruppi appartenenti a fedi diverse all’interno della struttura penitenziaria. Nel carcere di Salerno, così come nel resto d’Italia, l’appartenenza alla religione islamica risulta, in percentuale, dominante rispetto alle altre religioni. Percepisco una grande voglia d’integrazione, anche religiosa, da parte dello straniero che però non sempre, anzi purtroppo molto raramente, è accolta dai nostri detenuti. Questo atteggiamento di chiusura non mi meraviglia. Il carcere è la realtà speculare della società civile. Il “fuori” ha smarrito il senso profondo dell’umanità. La diffidenza imperante fa sì che non si cerchi nell’altro l’”Uomo” al di là del colore della pelle o del diverso credo religioso ed, ovviamente, tale atteggiamento lo troviamo anche “dentro”. Quali sono gli strumenti per intervenire? È importante, anzi fondamentale, il recupero della fede, la propria fede, sia essa islamica, ortodossa, induista o altra. Soprattutto gli islamici privati della libertà sono individui che, prima di delinquere, si sono allontanati dalla loro religione. Allontanarsi dalla fede vuol dire perdere la speranza. E questo non possiamo permetterlo, soprattutto qui. La pena oltre che alla riabilitazione deve tendere a restituire la speranza: si può essere privati della libertà ma non della speranza. Ecco perché spesso noi cristiani, ed in particolare i miei volontari, siamo tenuti ad accompagnare coloro che sono stati privati della libertà nel cammino di fede e, dunque, di speranza. Un esempio concreto? Le dico solo che sono tanti i detenuti islamici che partecipano alle funzioni religiose. Con grande trasporto, pregano Dio, quel Dio che, seppur con nomi diversi, è unico per tutti. E poi c’è il grande supporto del mondo del volontariato. I miei parrocchiani, e non solo loro, sono sempre pronti a far sentire ai detenuti che non sono dimenticati dal mondo esterno anche nel cammino di riavvicinamento alla fede e, di conseguenza, alla speranza. Nella rappresentazione della Passione di Cristo, nella mia parrocchia, quella di Sant’Eustachio, accanto Gesù che muore sulla croce c’era un detenuto. Cosa si aspetta dalla Giornata Regionale della Misericordia? Innanzitutto ringrazio l’Amministrazione Penitenziaria, nella persona della dottoressa Rita Romano, il Tribunale di Vigilanza ed il presidente, la dottoressa Monica Amirante, che hanno reso possibile, anche quest’anno, questa iniziativa. Sotto gli occhi materni della Vergine di Pompei spero che i partecipanti possano avere contezza del sentimento di fraternità che sicuramente sarà il leit motiv della giornata, all’ interno della quale è previsto anche l’incontro con le famiglie dei detenuti. Sarà l’occasione riconoscere tra i volti dei carcerati quello di Cristo. È questo il vero senso della Pasqua. Padova: il calcio dietro le sbarre che vince il campionato di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 29 aprile 2019 Successo in Terza Categoria per la formazione dei detenuti del Due Palazzi. I colori sono il bianco e il rosso, come quelli del Calcio Padova. Nello scudetto ci sono due calciatori che colpiscono una palla facendola arrivare alle stelle del firmamento. E chissà quante volte l’hanno guardato quel firmamento dalle finestre della loro cella i ragazzi della Polisportiva Pallalpiede, la squadra di calcio del carcere Due Palazzi. Per la prima volta dopo cinque anni sono riusciti a essere i più forti. Hanno vinto il campionato di terza categoria (girone C) ed è una gioia grande per loro, 31 detenuti di dieci diverse etnie, tutti reclusi nel penitenziario. “Li ho scelti io quei colori, proprio perché sono quelli del Padova. Non è stato facile all’inizio ma ora raccogliamo questo risultato straordinario” esulta Lara Mottarlini, la presidente della polisportiva, colei che ha reso possibile tutto cinque anni fa, quando ha messo anima e corpo in questo progetto di rivalsa sociale. Il progetto - È una squadra speciale perché tutte le partite si giocano tutte in casa, cioè in carcere, nel campo un po’ a chiazze che si trova all’interno del penitenziario. La Figc li ha iscritti al campionato ma formalmente risultano fuori classifica. “Poco importa, i più forti siamo noi” dicono Lara e il direttore sportivo Andrea Zangirolami, snocciolando i numeri del trionfo: 17 vittorie, tre pareggi, quattro sconfitte, 68 gol fatti e 40 subiti. Erenato Elezaj, albanese che sarà scarcerato dopo l’estate, è l’autore di una tripletta nel sabato che vale una stagione. Non è stato facile all’inizio farlo giocare in tandem con l’altro bomber, tale Rhimi Elezin, tunisino. Gli inizi - “Quando abbiamo iniziato, cinque anni fa, le difficoltà erano tante” ammette Lara Mottarlini. “Ricordo che il primo anno gli albanesi stavano in una panchina e i nordafricani in un’altra, si guardavano in cagnesco e non ne volevano sapere di giocare insieme. Ora si abbracciano, esultano, si muovono come una persona sola, perché loro sono la Polisportiva Pallalpiede”. Come mister hanno scelto uno che di pallone ne capisce. Si chiama Fernando Badon, ex calciatore professionista di Padova, Venezia e Cittadella. È stato lui a modellare la squadra, a darle una forma valorizzando le individualità. La rosa - Il portierone è Simone Rampin, uno che faceva rapine ai portavalori a colpi di kalashnikov. In questa stagione è stato superlativo, dicono tutti quelli dello staff. I quattro in difesa si chiamano Cristian, Xhemal, Azem e Armend, ognuno con le sue cicatrici, ognuno con la sua storia di sofferenza interiore. A centrocampo ci sono Bilel, Hamza, Mohamed, Farid. Il capitano, Giovanni Ascia, sta in carcere da quando aveva 19 anni. Oggi ne ha 41. La partita - Sabato pomeriggio il primo tempo contro il Redentore si era chiuso con un gol di svantaggio. Ma la forza del gruppo è emersa ancora una volta: tre gol in rapida sequenza e campionato vinto con 54 punti. E poi c’è lui, il cannoniere della squadra, Natale Costanzo, origini siciliane, un passato nelle giovanili della Lazio, poi due o tre campionati in Eccellenza e poi s’è perso nella sua terra difficile. Ci sono quattro ergastolani, anche. “Mi piace vedere i giocatori delle altre squadre abbracciare i miei, felici di rivederli da un anno all’altro” dice ancora Lara. “Mi piace anche ricordare che per quattro anni di fila abbiamo vinto la Coppa Disciplina, che va a chi totalizza meno ammonizioni ed espulsioni. Qui le regole ci sono, per fare parte della squadra bisogna firmare un codice etico”. I momenti più difficili sono quelli delle selezioni. “Tutti vorrebbero essere titolari ma non è possibile”. L’amministrazione comunale di Padova sostiene questa iniziativa anche a livello economico ed è il motivo per cui la vittoria in campionato è stata dedicata all’assessore allo Sport Diego Bonavina, che di calcio se ne intende. L’allenatore: “Vicenda umana speciale” “È una gioia immensa proprio per le dinamiche della vita carceraria. Dal punto di vista umano è un’esperienza incredibile”. Mister Fernando Badon, per quale motivo? “Il carcere è un luogo di sofferenza ma poi le persone sono meno peggio di tante altre. Anzi, a volte forse sono quelli peggiori li trovi proprio fuori”. Quali difficoltà ha trovato? “Ognuno ha la sua storia dura alle spalle e poi non è stato facile farli andare d’accordo tra loro, considerando le differenze e le diffidenze tra le varie etnie”. E come ha fatto a risolvere questi problemi? “Molto semplice. Mi sono comportato come se fosse una squadra normale. Sono stato duro e inflessibile quando ce n’era bisogno ma ora mi godo questo risultato stupendo”. Padova: “Palla al piede”, la squadra dei detenuti che vince ma gioca solo a porte chiuse di Enrico Ferro La Repubblica, 29 aprile 2019 C’è una squadra di calcio che gioca sempre a porte chiuse. Non ci sono spalti intorno al campo e quindi nemmeno i tifosi con cori e striscioni. Svettano invece muri alti oltre dieci metri e gli unici spettatori a ogni lato del perimetro sono gli agenti della Polizia penitenziaria. Ma anche senza il dodicesimo uomo i ragazzi della Polisportiva Pallalpiede sono riusciti a essere i più forti. Hanno vinto il campionato di terza categoria (girone C) ed è una gioia grande per loro, 31 detenuti di dieci diverse etnie, tutti reclusi nel carcere Due Palazzi di Padova. Erenato Elezaj, albanese che sarà scarcerato dopo l’estate, autore di una tripletta nel sabato che vale una stagione, stringe al petto il pallone firmato dai compagni e, abbracciandoli uno a uno, giura: “Non vi dimenticherò mai”. Non è stato facile all’inizio farlo giocare in tandem con l’altro bomber, tale Rhimi Elezin, tunisino. Tra albanesi e tunisini non corre buon sangue, specie sulle strade della droga. “Ma qui siamo tutti uguali, almeno nei 90 minuti della partita del sabato e nelle quattro ore di allenamento settimanale”, dice quasi commosso l’allenatore Fernando Badon, ex calciatore professionista di Padova, Venezia, Cittadella e Bassano e ora coach di questa squadra speciale. Speciale perché le partite si giocano tutte in casa, cioè in carcere, nel campo un po’ spelacchiato che si trova all’interno del penitenziario. La Figc li ha iscritti al campionato ma formalmente risultano fuori classifica. “Poco importa, i più forti siamo noi”, esulta ancora il mister snocciolando i numeri del trionfo: 17 vittorie, tre pareggi, quattro sconfitte, 68 gol fatti e 40 subiti. Un po’ tantini i gol subiti, a dire il vero. Il portierone Simone Rampin, uno che faceva rapine ai portavalori a colpi di kalashnikov, è stato superlativo. Dicono che siano stati i quattro in difesa a farsi prendere ogni tanto in contropiede. Si chiamano Cristian, Xhemal, Azem e Armend, ognuno con le sue cicatrici, ognuno con la sua storia di sofferenza. “L’età media è alta, ma anche se abbiamo preso qualche gol l’importante è segnarne sempre uno più degli altri”, chiarisce sicuro Badon. Il cannoniere della squadra è Natale Costanzo, origini siciliane, un passato nelle giovanili della Lazio, due o tre campionati in Eccellenza e poi s’è perso nella sua terra difficile. Ci sono quattro ergastolani, anche. Il capitano, Giovanni Ascia, sta in carcere da quando aveva 19 anni. Oggi ne ha 41. Ma è un faro per i suoi, li tiene uniti anche nelle situazioni più difficili. Sabato pomeriggio, per esempio, il primo tempo contro il Redentore si era chiuso con un gol di svantaggio. Ma la forza del gruppo è emersa ancora una volta: tre reti in rapida sequenza e campionato vinto con 54 punti. Nota a margine: nelle quattro stagioni precedenti i ragazzi del Due Palazzi avevano sempre vinto la Coppa Disciplina, che va a chi totalizza meno ammonizioni ed espulsioni. “Quando abbiamo iniziato, cinque anni fa, le difficoltà erano tante”, ammette Lara Mottarlini, presidente della Polisportiva, la persona che ha reso possibile questa storia di rivalsa sociale. “Ricordo che il primo anno gli albanesi stavano in una panchina e i nordafricani in un’altra, si guardavano in cagnesco e non ne volevano sapere di giocare insieme. Ora si abbracciano, esultano, si muovono come una persona sola, perché loro sono la Polisportiva Pallalpiede”. I colori sono il bianco e il rosso, come quelli del Calcio Padova, la squadra della città. Il simbolo è uno scudetto in cui due calciatori colpiscono il pallone, fino a colpire una stella nel firmamento. Anche al carcere di Bollate a Milano c’era un progetto simile, ma ormai da qualche anno è naufragato per mancanza di fondi. Loro erano riusciti a ottenere l’autorizzazione per le trasferte, ovviamente con la regia della polizia penitenziaria che li doveva trasportare a bordo dei blindati. “Questo è anche il nostro obiettivo”, ammette l’allenatore. “Certo non è semplice far fronte ai costi. Al momento ci sostiene l’amministrazione comunale di Padova, ma le spese sono tante”. Lara la presidente ama la sua creatura e non smette di stupirsi: “Mi piace vedere i giocatori delle altre squadre abbracciare i miei. Tutti uguali, ancora una volta, per quei 90 minuti”. Cagliari: in scena “Beatitudo” con gli attori-detenuti della “Compagnia della Fortezza” unicaradio.it, 29 aprile 2019 Ha debuttato mercoledì 24 aprile alle h. 20:30, al Teatro Massimo di Cagliari, la “Compagnia della Fortezza” diretta da Armando Punzo nello spettacolo “Beatitudo” in cartellone fino a domenica 28. Per la prima volta sull’isola - sotto le insegne del Cedac, per l’ultimo appuntamento della stagione 2018/2019 con La Grande Prosa & Teatro Circo organizzata nell’ambito del Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna - Armando Punzo, che ne firma la drammaturgia e anche la regia, ha raccontato ai microfoni di Unica Radio come è nato il suo ambizioso progetto che ha recentemente festeggiato i trent’anni di attività. La “Compagnia della Fortezza” ha infatti visto la luce per caso, nel 1988, a seguito della volontà e della necessità di Punzo di distaccarsi dalle esperienze teatrali fino ad allora conosciute. Il desiderio di allontanarsi dagli attori professionisti e dalle produzioni teatrali tradizionali e/o ufficiali o da quelle che all’epoca erano considerate “sperimentali” lo porta ad avvicinarsi, trovandosi in quel periodo in Toscana, alla Casa di Reclusione di Volterra. Qui, si era appena conclusa un’esperienza importante, quella del “Gruppo Internazionale Avventura” con focus sul lavoro di Grotowsky, che lo convince a voler entrare nel carcere. Dall’incontro con il regista e drammaturgo partenopeo nascerà dapprima un percorso laboratoriale che si trasformerà ben presto in un progetto di ricerca teatrale con una forte connotazione etica ed estetica. Punzo svilupperà quindi un disegno artistico che non vuole inserire entro i cardini del teatro-sociale, definizione che pare non amare, poiché preferisce pensare che si tratti unicamente e semplicemente di teatro, in grado di raccontare l’attualità e le contraddizioni tipicamente umane attraverso la rilettura di grandi classici: da Shakespeare, passando per Genet e arrivando fino a Borges. “Beatitudo” è infatti il secondo capitolo del viaggio intrapreso nell’universo di Jorge Luis Borges, all’interno del “Progetto Hybris”, dove ci si interroga sulle alternative possibili e sulle vite ipotetiche che fluiscono tra le crepe di quella che comunemente definiamo “realtà” o più erroneamente “normalità”. La pièce che fedelmente riproduce il “realismo magico” di Borges, rompe gli schemi e ci trascina nella disperata e visionaria ricerca della felicità a partire da un luogo simbolo di costrizione e infelicità, il carcere, per un’evasione molto meno scontata di quella attesa. Il silenzio sui diritti negati oltre confine di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 aprile 2019 Però siamo davvero un po’ ipocriti noi italiani che ogni anno ricordiamo solennemente i valori di libertà vittoriosi il 25 aprile del 1945. La difesa instancabile dell’universalità dei diritti, il rifiuto dell’oppressione e della dittatura, il poderoso “mai più” che non ci costa nulla pronunciare in coro. Ma solo dentro i confini nazionali, beninteso, come in una forma parodistica di sovranismo autoriferito: ci interessa solo quello che ci passa sotto il naso, i diritti sono diritti imprescindibili solo se tricolori, la lotta politica riguarda solo la nostra parrocchietta. Perché se altrove quei diritti vengono calpestati senza pietà, se l’oppressione si esercita su persone che non hanno il nostro passaporto, tutta la solennità delle dichiarazioni epocali, tutto il rito del “mai più”, tutta la retorica della memoria da tenere desta, tutto questo si affloscia, si zittisce, sparisce, si ripiega nella paura e nell’indifferenza. Se ci sono di mezzo i cristiani perseguitati nel mondo, poi, l’indifferenza diventa quasi oltraggiosa. Nell’Arabia Saudita, Paese in cui l’oppressione raggiunge vette di sadismo inaudito ma senza che questo impedisca alle nostre squadre di calcio di disputare partite in stadi che non permettono alle donne di entrare liberamente (non potrebbero organizzare lì un bel torneo da intitolare “25 aprile”?), hanno appena giustiziato 37 poveracci messi a morte con l’accusa grottesca di “terrorismo”. Non gli è bastato: hanno pure crocefisso un cadavere, tanto per sottolineare la simbologia macabra. E da noi, finite le celebrazioni del “mai più”? Da noi niente, il silenzio più assoluto. Il silenzio totale come quello che accompagna la sorte della povera cristiana Asia Bibi in Pakistan, liberata dopo anni di prigione dall’accusa assurda di blasfemia, ma costretta alla clandestinità per non urtare la suscettibilità dei fanatici islamisti. Silenzio anche sulla sorte di Nasrin Sotoudeh. Chissà se questo silenzio permetterà di sentire il rumore orribile delle 148 frustate che gli aguzzini di Teheran hanno inflitto a chi in Iran è colpevole solo di aver difeso i diritti umani fondamentali. Ma lei non è italiana, non serve alle polemicucce di rione, e quindi i diritti, la libertà conculcata, la tortura, lo scempio dei cadaveri, cessano di riguardarci, non sono più materia di comizi insinceri. Silenzio. Sri Lanka. Quei reduci criminali di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 29 aprile 2019 Le stragi dello Sri Lanka della settimana scorsa hanno chiarito che la sconfitta dello Stato islamico non significa sconfitta dei jihadisti, fine della minaccia terrorista. Le stragi dello Sri Lanka della settimana scorsa hanno mandato a tutto il mondo, e quindi anche a noi europei, un segnale inequivocabile: la sconfitta dello Stato islamico non significa affatto la sconfitta dei jihadisti, la fine della minaccia terrorista. Ciò rende necessario ricordare alcune verità scomode. La più pressante di tutte è che, qui in Europa, rischiamo di affrontare in ordine sparso (e in alcuni casi, di non affrontare proprio) quella forma di reducismo sui generis che è data dal ritorno “a casa” dei combattenti islamici, di coloro che hanno militato nelle fila dello Stato islamico in Medio Oriente. Le stime variano ma si tratta di diverse centinaia di persone, una parte delle quali, a quanto risulta, già rientrate. Molti di costoro sono di nazionalità francese, italiana, britannica, belga, tedesca, eccetera. Certamente, non rappresentano per noi l’unica fonte di pericolo. Ci sono anche - come sappiamo dalla precedente ondata di attentati in Europa - persone che si radicalizzano in carcere , in certe moschee, su Internet, eccetera , diventando pronte ad entrare in azione e ad uccidere. Ma gli ex combattenti dello Stato islamico hanno, per così dire, “una marcia in più”: sono addestrati all’uso delle armi e hanno esperienza di scontri a fuoco. Sono, potenzialmente, molto più letali degli altri. Il reducismo è sempre un grave problema alla fine di qualunque guerra. Un’elevata percentuale di coloro che hanno combattuto per alcuni anni si porta dietro ferite psicologiche profonde e fa fatica a ritornare alla vita civile. Ma se questo è vero per il reducismo in generale, che dire di quella sua forma specialissima che è data dal rientro, nei Paesi d’origine (o nei Paesi di cui hanno comunque la nazionalità) dei combattenti islamici? Al “normale” disagio psichico dei reduci questi hanno aggiunto un carico da novanta: sono gli adepti di un’ideologia religiosa che ne alimenta l’odio per la società occidentale e i suoi costumi, che li rende alieni e alienati nei Paesi in cui, teoricamente, dovrebbero reinserirsi. Sono persone che in nome del loro fanatismo religioso sono andate a combattere al servizio di un’organizzazione totalitaria e criminale. Costoro sono stati opportunamente definiti, in sede di Nazioni Unite, terrorist foreign fighters, combattenti stranieri terroristi, per distinguerli sia dai mercenari che da altri tipi di combattenti esteri. Come mai l’Europa non è riuscita a trovare una linea di condotta comune per affrontare il problema? Si trattava di indicare le linee guida di una legislazione di emergenza (recepibile dai Paesi membri dell’Unione). È singolare che, ancora decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale venissero perseguiti come criminali di guerra ex nazisti che erano ormai soltanto innocui vecchi, non più in grado di nuocere ad alcuno, mentre non si riesce a trovare una formula che consenta di assicurare alla giustizia criminali (lo sono per il solo fatto di avere combattuto con lo Stato islamico) che sono tuttora in grado di provocare dolore e lutti. Se solo un pugno di questi reduci entrasse in azione in Europa, i morti si conterebbero a centinaia. Non si dica che non è stato possibile trovare una soluzione a causa di insormontabili ostacoli di natura giuridica. L’esperienza insegna che quando c’è la volontà politica di fare qualcosa gli ostacoli giuridici vengono superati. Nessuna Corte costituzionale si sarebbe arrischiata a contrastare una legislazione di emergenza volta a proteggere la vita delle persone. Tanto più se tale legislazione avesse avuto l’imprimatur dell’Unione europea. Diciamo che, rimanendo inerte di fronte a una questione così vitale, l’Europa ha perso un’occasione d’oro per chiarire agli europei quanto essa sia indispensabile e quanto sbaglino i cosiddetti sovranisti quando pensano di poterne fare a meno. Sarebbe interessante capire se e quanto, nell’incapacità degli europei di fronteggiare unitariamente e efficacemente il problema, abbia pesato e pesi l’ottusa ideologia del politicamente corretto. Non è “corretto”, è forse nient’altro che “islamofobia”, bollare come criminali di guerra gli ex combattenti dello Stato islamico e perseguirli di conseguenza? Ma, si dice, c’è il problema del che fare con i bambini nati in Medio Oriente sotto lo Stato islamico nonché con le donne. I bambini, ovviamente, non hanno colpe. Si tratta di sottrarli all’influsso dei loro disgraziati genitori e sperare che non crescano col desiderio di emularne le gesta. Per quanto riguarda le donne la questione è sicuramente delicata. Alcune erano schiave e quindi vittime, altre invece erano complici. Se si riesce a individuare le complici esse vanno trattate come gli uomini. Poiché una donna è capace di farsi esplodere o di imbracciare un mitra in una piazza, un ristorante o un cinema, esattamente come un uomo. C’è solo da sperare che provvedimenti adeguati vengano presi prima che costoro (alcuni di costoro) entrino in azione nei nostri Paesi. Mentre si rischia che una massa di persone pericolose sia lasciata libera di fare quel che vuole in Europa (magari dopo avere ricevuto una ramanzina e un buffetto sulla guancia), sono stati sottoposti a regime di sorveglianza speciale da parte della Procura di Torino alcuni giovani, appartenenti all’area dell’antagonismo sociale, che hanno combattuto in Siria, insieme ai curdi, contro lo Stato islamico. Le motivazioni della Procura sono comprensibili. Si tratta di giovani che, per l’esperienza maturata in Siria, dispongono di una preparazione che potrebbe essere messa a frutto negli scontri con la polizia intorno alla vicenda Tav. Però resta lo sconcerto. Quei giovani, in Siria, non sono stati né terroristi né mercenari. Non c’è molta differenza fra loro e quegli europei che andarono a combattere per la causa repubblicana contro i franchisti durante la guerra civile spagnola. Meriterebbero medaglie. È vero, sono antagonisti sociali e militanti No Tav. Dispiace un po’. Ma per concludere con una nota leggera un articolo che leggero non è, di loro possiamo solo dire, citando “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder: nessuno è perfetto. Libia. Papa Francesco alza la voce per difendere i profughi detenuti (con l’aiuto dell’Italia) farodiroma.it, 29 aprile 2019 Il Papa invoca i “corridoi umanitari” e spiega: “dobbiamo toccare le piaghe di Gesù, da lì scaturiscono la giustizia e la gioia”. “Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per i profughi che si trovano nei centri di detenzione in Libia, la cui situazione, già molto grave, è resa ancora più pericolosa dal conflitto in corso. Faccio appello perché specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari”. Queste la parole di Papa Francesco dopo il Regina Caeli, un appello molto coraggioso e controcorrente rispetto alla inaccettabile politica del Governo Italiano che ha finanziato e continua a finanziare quei centri di detenzione. La maggior parte dei migranti e rifugiati detenuti nei centri ufficiali di detenzione libici sono stati intercettati in mare e riportati nel territorio nordafricano dopo aver tentato di raggiungere l’Europa. I centri di detenzioni sono formalmente sotto il controllo del Dipartimento libico per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), appoggiato dalle Nazioni Unite, anche se molti centri sono in realtà gestiti dalle milizie. Secondo le Nazioni Unite al momento ci sono circa 6.000 persone detenute nei centri governativi, inclusi più di 600 minori. Tra di loro ci sono individui che scappano da guerre e persecuzioni, da paesi come Eritrea, Somalia e Sudan. A testimoniarlo nel libro “Non lasciamoli soli”, scritto dai giornalisti di La Repubblica Francesco Viviano e Alessandra Ziniti in collaborazione con Medici senza Frontiere ed edito da Chiarelettere, è stato chi da quei lager è riuscito a fuggire. E ha raccontato di donne e bambine violentate da decine di uomini, costrette a prostituirsi e di ragazzi che, arrivati in Libia per poi cercare di raggiungere l’Europa, hanno scelto di diventare loro stessi torturatori. Tutto questo mentre l’Italia ha deciso di addestrare, finanziare e dotare di motovedette la guardia costiera libica, che non fa altro che riportare quelle persone nei centri di detenzione. Nella breve catechesi che ha preceduto la preghiera mariana che in questo tempo pasquale sostituisce l’Angelus, il Papa ha chiesto - nella stessa direzione - un impegno di solidarietà coerente e sincera a tutti i credenti: “tocchiamo le piaghe di Gesù, sono un tesoro, da lì esce la misericordia. Con le piaghe Gesù intercede davanti al Padre”. Il Papa ha commentato così la pagina odierna del Vangelo che rivelta come i primi seguaci di Gesù hanno reagito alla Risurrezione: “i suoi discepoli - ha raccontato Francesco - per primi avevano bisogno di questa pace, perché, dopo la cattura e la condanna a morte del Maestro, erano piombati nello smarrimento e nella paura. Gesù si presenta vivo in mezzo a loro e, mostrando le sue piaghe nel corpo glorioso, dona la pace come frutto della sua vittoria. Ma quella sera non era presente l’apostolo Tommaso. Informato di questo straordinario avvenimento, egli, incredulo dinanzi alla testimonianza degli altri Apostoli, pretende di verificare di persona la verità di quanto essi affermano. Otto giorni dopo, cioè proprio come oggi, si ripete l’apparizione: Gesù viene incontro all’incredulità di Tommaso, invitandolo a toccare le sue piaghe. Esse costituiscono la fonte della pace, perché sono il segno dell’amore immenso di Gesù che ha sconfitto le forze ostili all’uomo, cioè il peccato, il male e la morte”. Libia. Tripoli accusa Parigi: sostiene Haftar, torni ai valori della democrazia La Stampa, 29 aprile 2019 Il ministro dell’Interno del governo libico di unità nazionale (Gna), Fathi Bachagha, accusa la Francia di sostenere il generale Khalifa Haftar, uomo forte dell’est della Libia che lo scorso 4 aprile ha lanciato un’offensiva per prendere il controllo di Tripoli. “La Francia è un Paese capofila in materia di democrazia. Ha anche giocato un ruolo importante nella caduta del vecchio regime nel 2011”, ha dichiarato Bachagha parlando in conferenza stampa a Tunisi. “Tutto questo - ha proseguito - spiega la nostra sorpresa per il ruolo della Francia nel sostegno a Haftar e ai suoi”. Poi ha concluso: “Chiediamo alla Francia di restare fedele ai valori francesi e al suo passato democratico”. Le truppe di Haftar affrontano le forze pro Gna fedeli al governo di Fayez Al-Sarraj a sud di Tripoli e, secondo l’Onu, dall’inizio dei combattimenti il bilancio è di almeno 278 morti, 1.322 feriti e 38.900 sfollati. Diverse migliaia di libici hanno manifestato negli ultimi giorni a Tripoli contro il governo del presidente francese Emmanuel Macron, per denunciare l’offensiva militare di Haftar, a loro parere tacitamente sostenuta da Parigi. Già a metà aprile Bachagha aveva accusato pubblicamente le autorità francesi di sostenere “il criminale Haftar”. Martedì il premier libico Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, aveva ripreso queste accuse in un’intervista a Liberation, in cui aveva anche definito Haftar un “dittatore”. La Francia, dal canto suo, rifiuta le accuse di Tripoli definendole “completametne infondate” e riafferma il suo sostegno al “governo legittimo del primo ministro Fayez al-Sarraj e alla mediazione dell’Onu per una soluzione politica inclusiva in Libia”. Per i sostenitori del Gna, Haftar - che è apertamente sostenuto dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e dal re Salman dell’Arabia Saudita - intende instaurare una “dittatura militare” in Libia. Continua la guerra in Libia, che ha mietuto sinora 300 vittime facendo strage di donne e bambini: le forze di Khalifa Haftar hanno bombardato dal cielo un sobborgo di Tripoli, a un passo dal cuore della capitale, causando la morte di almeno 11 persone. Tripoli lo ha accusato di aver usato “aerei stranieri”, mentre Fayez al Sarraj ha chiesto alla Procura militare l’arresto del maresciallo e di altre 63 persone coinvolte nell’offensiva contro la capitale e il governo riconosciuto dall’Onu. In questo quadro in cui i combattimenti non accennano a fermarsi, la compagnia petrolifera Noc ha lanciato l’allarme e chiesto “l’immediata cessazione delle ostilità” che “mettono in serio rischio le nostre attività, la produzione e l’economia nazionale”. La Noc, ha affermato il presidente Mustafa Sanalla, “è fortemente preoccupata per la minaccia alle infrastrutture energetiche” e la “militarizzazione” di alcuni impianti e terminal, facendo in particolare riferimento a Es Sider e Ras Lanuf, sotto il controllo delle forze di Haftar. Il bilancio, ancora provvisorio, del bombardamento su Tripoli scattato poco prima della mezzanotte di sabato - riferito da fonti mediche all’Ansa - è di almeno 11 morti e 30 feriti. Ma il conto delle vittime “potrebbe aggravarsi”. Il bombardamento ha centrato un’area circa 9km a sudovest dal cuore della capitale. Haftar “copre le sconfitte militari bombardando con aerei stranieri i civili disarmati a Tripoli”, ha accusato Mohanned Younis, il portavoce di Sarraj. Il governo di unità nazionale ha messo all’indice il “lassismo e il silenzio” della missione Onu e del Consiglio di sicurezza nei confronti del “criminale Haftar”. Il bombardamento su Tripoli “è un crimine di guerra che si aggiunge agli altri perpetrati dall’inizio dell’aggressione”, ha detto. E Sarraj - che ha assunto l’incarico ad interim della Difesa - ha chiesto alla Procura militare di arrestare Haftar e altre 63 persone tra ufficiali, sottoufficiali e sostenitori dei responsabili dell’attacco contro Tripoli. Tra le richieste di arresto anche quelle per i due figli di Haftar, Khaled e Saddam, e del portavoce Ahmed Al Mismari. Il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, incontrando a Tunisi l’omologo Hisham al Furati, ha alzato il tiro: Haftar “tenta di ripetere in miniatura le gesta di Hitler”, è solo l’ultimo esempio di “minaccia alla regione”. “Il Maghreb arabo è in pericolo, a meno che i suoi Paesi non si uniscano contro la dittatura, Tripoli è solo l’inizio”, ha ammonito Bashaga. Intanto, salgono a 300 i morti in Libia a causa degli scontri in atto: tra le vittime si contano 90 bambini e 100 donne. È il bilancio aggiornato ad oggi reso noto dal presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) Foad Aodi, in diretto contatto con i medici libici negli ospedali e nelle zone del conflitto. Oltre 40mila gli sfollati. Siria. La ragazza fuggita in sedia a rotelle commuove l’Onu: “Aiutate i disabili” di Pierluigi Bussi La Stampa, 29 aprile 2019 Mujeen Mustafa, una giovane donna curda che a 16 anni è fuggita in Germania al culmine del conflitto siriano su una sedia a rotelle, ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di prendere in considerazione i diritti dei disabili siriani che lottano per sopravvivere. Nujeen, simbolo di speranza, coraggio e pace, ha commosso i media di tutto il mondo nel 2015, quando fu immortala dalle telecamere sulla rotta dei migranti al confine ungherese. Un viaggio terribile, dalla Siria alla Germania di circa 5600 chilometri. Costretta a lasciare Kobane per curarsi, ha attraversato in gommone il Mediterraneo con la sorella, che ha spinto la sua carrozzella per le strade della Macedonia, Serbia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Austria. Durante il viaggio è stata arrestata e detenuta in Slovenia per poi essere rilasciata dopo pressioni di attivisti per i diritti umani. Sulla sedia a rotelle Nujeen è nata con una grave forma di paralisi cerebrale che l’ha costretta su una sedia a rotelle, questo handicap e i conflitti nel suo paese non le hanno permesso di frequentare la scuola. La sua voglia di combattere però non l’ha fermata, nella sua casa sotto i colpi di mortaio ha imparato l’inglese guardando canali televisivi americani, una dimostrazione di coraggio e carattere. Nujeen Mustafa, ora ventenne, ha voluto sensibilizzare e far conoscere all’opinione pubblica mondiale le difficoltà dei disabili nelle zone colpite dalle ostilità ed ha chiesto aiuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Una cortese e appassionata richiesta della giovane davanti ai membri dell’Onu: “Potete e dovete fare di più, non possono più aspettare”. Incalza la platea con voce tenera ma autorevole. “Nelle zone di guerra persone con disabilità sono spesso escluse e molto vulnerabili, non hanno accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, incontrano difficoltà nel soddisfare i loro bisogni di base, molte donne sono a rischio di violenza e abusi sessuali. Contateci, perché anche noi contiamo”. Implora una maggiore attenzione su un tema spesso dimenticato. “Spero che questo non sia uno dei tanti incontri in cui si fanno grandi dichiarazioni e poi tutto passa. Qualunque persona ma in particolar modo i bambini, compresi i figli di sospetti terroristi, hanno diritto a cure speciali e protezione ai sensi del diritto umanitario internazionale, devono essere trattati come vittime incolpevoli”. Nujeen spera di studiare fisica all’università. “Amo lo spazio, voglio diventare un astronauta, mi piacerebbe cercare gli alieni. È il più grande mistero irrisolto. Dio non mi ha creato per essere infelice. Voglio trovare la felicità nelle piccole cose che ho e fare in modo che gli altri siano felici, non importa quanto sia brutta e oscura la situazione. Niente dura per sempre, nemmeno la guerra. Cercherò di far credere in un domani migliore”.