La politica pistolera degli strateghi della paura di Luca Di Bartolomei L’Espresso, 28 aprile 2019 Matteo Salvini appare come il campione di un interesse abbastanza trasversale della nostra politica a soffiare sulla paura, amplificando l’emotività. Ma chiusi in casa con le dita sul grilletto, rischiamo che le vittime siano i nostri figli. La scorsa settimana, quando in centro a Milano è avvenuto un agguato di stampo mafioso a pochi giorni da un altro omicidio di camorra davanti a un asilo nel napoletano, il vicepremier e ministro dell’Interno ha sentito il dovere di rassicurare l’opinione pubblica dichiarando che i reati sono in calo da anni. Ammettere quello che numeri e forze dell’ordine certificano da tempo, e cioè che l’Italia non vive alcuna emergenza sicurezza, con tassi di omicidi, rapine e furti in costante calo, deve esser stato un piatto amaro da mandar giù per Salvini. Uno che ha sempre brandito l’arma della paura ai fini del consenso e continua a rilanciare ogni episodio criminale che possa risultare favorevole alla sua strategia. Eppure la paura che tanti nostri concittadini sentono avviluppata attorno alle loro vite non accenna a diminuire. Perché la percezione è come una slavina: quando parte è difficilissimo fermarla. Salvini infatti, coglie e alimenta uno stato di perenne angoscia che appare spiegabile solo alla luce di un senso profondo di precarietà che tramortisce le nostre vite (soprattutto sul piano economico-sociale) e dalla frustrazione delle legittime aspettative personali. E il ministro appare come il campione di un interesse abbastanza trasversale della nostra politica a soffiare sulla paura, amplificando l’emotività. Molto più di quanto sia interessata a rassicurare spiegando coi numeri e l’oggettività. In questi mesi di governo il piano per “sicurizzare e impaurire” (uno di quegli ossimori alla “chiagn’e fotti” italiani fino al midollo) ha costruito provvedimenti e leggi di cui pagheremo presto il pegno. La nuova legge sulla legittima difesa non va infatti valutata singolarmente ma pesata come parte di un processo di modificazione cultural-legislativo più ampio. Di questo percorso il primo passo è di agosto, con il recepimento malevolo della cosiddetta “direttiva armi”. Atto che ha prodotto un effetto opposto alle intenzioni del legislatore europeo allargando la possibilità di acquisto di armi (anche fucili da guerra) e cancellando l’obbligo di comunicazione al convivente. Segue la legittima difesa appunto, propagandata come una esigenza improrogabile per consentire al cittadino che si è difeso di non finire sotto al giudizio di un pm (cosa falsa in ogni caso) ma che lascia sgomenti quando si scopre che negli ultimi 5 anni i processi per eccesso di legittima sono stati solo 4 e la condanna una soltanto. Gli altri tasselli cui manca l’approvazione parlamentare, ma che già adesso giacciono come proposte nelle commissioni delle due camere, riguardano il raddoppio della potenza delle armi acquistabili senza bisogno del rilascio di alcuna autorizzazione per il cittadino (e vedrete che finirà come con lo spray al peperoncino) e l’ancora più grave proposta di legge per le modifiche al testo unico in materia di porto d’armi, dove si prevede la possibilità di ottenere questa concessione anche da parte di chi ha precedenti con la giustizia, come ad esempio in caso di furto o di resistenza all’autorità. Il perenne innalzamento dello scontro, a partire da quello verbale, la ricerca e la costruzione del diverso come nemico (migrante, rom, barbone) serve a distrarre l’opinione pubblica da quanto contribuisce a peggiorare la nostra quotidianità fatta di lavori difficili da trovare e da mantenere, di servizi di assistenza di cui si vorrebbe usufruire e che invece sono ridotti o cancellati. E tutto questo a fronte di un debito pubblico che galoppa ad un ritmo doppio rispetto al recente passato e un praticamente certo aumento della tassazione. E allora in mancanza d’altro val bene gridare contro l’arrivo di “migliaia di terroristi provenienti dalla Libia”, pronti per un nuovo nemico. Ma armati e chiusi in casa rischiamo - come dicono le statistiche - che le vittime più numerose finiscano per essere i nostri figli e le nostre compagne. Legittima difesa, il primo ferito è un ragazzino di sedici anni di Edoardo Izzo La Stampa, 28 aprile 2019 Roma, il minorenne di origini albanesi lasciato davanti all’ospedale dopo il tentato furto. In perfetto stile gangster, Enrico P., 16 anni, di nazionalità albanese, ieri è stato scaricato da un’auto davanti al policlinico Gemelli. Ai carabinieri sono bastate poche ore, tuttavia, per risalire all’identità del ragazzo e alla dinamica del ferimento. A sparare cinque colpi sarebbe stato Andrea Pulone, 29 anni, figlio del noto astrofisico Luigi. Proprio quest’ultimo risulta essere il proprietario della pistola utilizzata dal figlio, che in quel momento era nella casa di famiglia, a Monterotondo, con la fidanzata. Accortosi della presenza nella villetta di tre sconosciuti, Andrea si è spaventato moltissimo per il rischio che si accorgessero che anche lui era lì, e con la sua ragazza. Così, secondo quanto ha raccontato ai carabinieri, avrebbe preso l’arma e fatto fuoco. “Ho sparato a dei ladri che sono entrati nella mia abitazione”, ha detto il giovane al 112 pochi minuti dopo il tentato furto. Secondo questa ricostruzione, quello del 16enne sarebbe quindi il primo caso di ferimento per legittima difesa dopo la promulgazione due giorni fa di un provvedimento specifico. Legge che però non è ancora in vigore e dunque, probabilmente, non potrà essere applicata. Dinamica al vaglio - Sono le 19 di venerdì quando tre persone, dopo aver forzato una porta finestra, si introducono all’interno dell’appartamento per rubare. Sentendo dei rumori sospetti, il 29enne prende la pistola e la punta contro gli intrusi. A questo punto, secondo quanto accertato fino a ora, Pulone avrebbe ordinato ai ladri di fermarsi e, subito dopo, avrebbe fatto fuoco contro di loro ferendo il 16enne nella zona inguinale. Lesioni gravi che avrebbero fatto perdere al giovane molto sangue. Dopo la sparatoria i tre sarebbero fuggiti su un’auto in direzione di Roma per poi abbandonare Enrico in ospedale alle 20 circa. Al momento l’inchiesta dei militari dell’Arma, coordinata dal procuratore di Tivoli Francesco Menditto, è senza indagati. “Vogliamo completare gli accertamenti prima di iscrivere qualcuno sul registro degli indagati”, spiegano gli inquirenti che aggiungono: “Sono passate poco più di 24 ore e la dinamica è ancora al vaglio”. Certo è che - secondo quanto trapela - il 29enne che ha sparato sarà indagato nelle prossime ore con l’accusa di eccesso di legittima difesa o addirittura di tentato omicidio. Così come la sua vittima che sarà invece iscritta sul registro degli indagati con l’accusa di tentato furto aggravato. Intanto il ragazzo si trova ora al reparto di terapia intensiva, ma sembra essere fuori pericolo. E ora al vaglio degli inquirenti ci sono i filmati della videosorveglianza esterna del policlinico Gemelli. Proprio quelle immagini potrebbero essere fondamentali per trovare i complici del 16enne determinanti per ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. Il 29enne avrebbe riferito di non essersi reso conto di aver colpito qualcuno, ma il fatto che poco dopo Enrico P. fosse stato portato al Gemelli ha fatto ritenere quasi subito l’esistenza di un collegamento fra i due fatti. Candiani (Lega): “Pene più severe anche per i minori, lasciapassare delle bande criminali” di Claudia Guasco Il Messaggero, 28 aprile 2019 Il Sottosegretario agli Interni: bene che ad avere la peggio sia un criminale. speriamo si rimetta presto per pagare il conto. La nuova legge sulla legittima difesa è appena stata firmata dal presidente Sergio Mattarella e una rapina in villa finisce male. Con un albanese di sedici anni ferito a colpi di pistola dal proprietario, che se l’è trovato di fronte nella sua casa di Monterotondo. Caso esemplare per la prima applicazione della riforma, nota il senatore leghista, e sottosegretario agli Interni, Stefano Candiani. “C’eravamo abituati a leggere la cronaca dell’aggredito che ha la peggio sull’aggressore, questo è il primo caso in cui non possiamo che rallegrarci perché ad avere la peggio è il criminale. Speriamo si rimetta in buona salute presto per scontare la pena, se confermato il tentato furto”, afferma Candiani. Il presunto rapinatore è molto giovane. Voi sostenete la necessità di condanne severe anche per chi non è maggiorenne. “Periodicamente il dibattito politico si arricchisce con le proposte di chi vuole abbassare l’età minima per la patente e quella per votare. Non mi pare una brutta cosa che si ragioni anche sulla responsabilità penale. Non parliamo di furto di caramelle, naturalmente, ma di reati gravi e di condanne severe per chi è vicino ai diciotto anni. Molto spesso le bande organizzate, nelle rapine e in operazioni predatorie, usano i minorenni come lasciapassare per il delitto confidando in pene tenui. Nelle prossime ore vedremo chi si iscrive nell’elenco dei benpensanti che scusano povero, giovane aggressore ferito dal cattivo derubato”. La vostra riforma ha suscitato più di una perplessità: il grave turbamento, spiegano i magistrati, non può essere presunto ma deve essere accertato. “Intanto abbiamo dato agli italiani una legittima difesa, che piaccia o no. E con essa il chiaro messaggio che nel nostro Paese c’è un sistema di regole, chi commette furti e rapine finisce in galera. Non entriamo nel bizantinismo e nel cavillo. semmai chiediamoci perché questa riforma era necessaria. Negli anni abbiamo assistito a sentenze in cui la malcapitata vittima di una rapina si è ritrovata in tribunale e spolpata dai risarcimenti. Non sarebbe una brutta cosa se in questo dibattito chi indossa la toga o fa parte di qualche sindacato si mettesse nei panni di chi vede entrare in casa propria un malvivente armato”. Però non è così semplice: è legittima difesa sparare al ladro che sta scappando? “Vale il discorso di prima. Vogliamo garantire al ladro il diritto a una rapina senza rischi e con bottino assicurato? Dobbiamo dare al cittadino la possibilità di difendersi e salvarlo dal calvario del processo. Purtroppo abbiamo visto troppi casi di persone trascinate in tribunale da un sistema giudiziario che ha lasciato perplessa l’opinione pubblica. Mi dà fastidio che di questo si dibatta nei salotti, lontano dalla quotidianità di chi lavora come tabaccaio, orefice o benzinaio. Ciò crea frustrazione. Noi vogliamo che i giudici siano impegnati a processare i ladri, non le vittime”. Per il segretario del Pd Nicola Zingaretti è una legge da Ponzio Pilato: lo Stato scarica il problema della sicurezza sui cittadini. “Ricordo a Zingaretti che il loro approccio alla legittima difesa prevedeva orari in cui predatori e aggrediti potevano sparare e reagire. E adesso vengono a dare lezioni a noi. Consiglio al segretario di ispirarsi un po’ di più al commissario Montalbano”. La preoccupano i rilievi del presidente Mattarella? “Per nulla. Ha firmato la legge e ora è in vigore. Il Parlamento fa le leggi, Mattarella fa i rilievi. È il suo ruolo”. Tuttavia, senza un’interpretazione costituzionalmente corretta, le legge finisce alla Consulta. “Non ho dubbi che ci saranno tentativi di ogni tipo per smontare una riforma di buonsenso da parte della politica di sinistra, che per ideologia si oppone a ciò che chiedono i cittadini. Di fronte alla Corte costituzionale legifereremo ancora, per avere a processo i ladri e non le vittime”. “La generazione antimafia l’abbiamo creata sui banchi di scuola” di Francesca Sironi L’Espresso, 28 aprile 2019 L’Osservatorio di Milano sulla criminalità organizzata diretto da Nando dalla Chiesa ricostruisce in una ricerca il “fiume pedagogico” che dai primi anni Ottanta ha visto protagonisti centinaia di insegnanti. Sull’esempio di Pippo Fava. “Ecco l’operazione che la scuola dovrebbe condurre, al di là di quelle che sono le idee dei partiti - perché sono teoricamente tutte buone le idee dei partiti, sono gli uomini che sono corruttibili o corrotti, che sono deboli, che sono ignoranti - eccola: stare dentro la politica facendo politica nel senso antico del termine. Nel senso di una cosa che interessa il bene comune. La Repubblica ci appartiene: siamo noi. E allora lottate perché dentro questa Repubblica ci sia giustizia. Perché se noi riusciremo veramente a fare giustizia, e non dentro le aule di tribunale ma prima, giustizia dentro la società, giustizia per i poveri, per gli emarginati, per noi stessi, allora potremo essere sicuri di poter cominciare a sconfiggere la mafia. Soprattutto potremo essere sicuri di essere veramente persone che abbiano la loro dignità e intatta la loro libertà”. Era il 20 dicembre del 1983. Pochi giorni dopo Giuseppe “Pippo” Fava sarebbe stato ucciso da Cosa nostra. Quel 20 dicembre, in piedi, parlava agli studenti di Palazzolo Acreide, la sua città, in provincia di Siracusa. Da giornalista, da amico, parlava loro con l’urgenza ch’era la sua di portare un cambiamento, di smuovere la colla del potere mafioso e di quanti vi stanno attaccati. Centinaia di maestri e maestre, in Sicilia e nelle altre regioni d’Italia, ascoltarono quella voce. Lo fecero molto prima di tanti funzionari pubblici rimasti a nicchiare, a non voler compromettere scacchiere, equilibri, modi di fare, perché occuparsi seriamente di mafia porta guai. È a questo “fiume pedagogico, a questa vera antimafia, a quest’affresco dell’Italia civile” che l’Osservatorio sulla criminalità organizzata di Milano, diretto da Nando dalla Chiesa, ha appena dedicato una amplissima ricerca. Quasi mille pagine di testimonianze di insegnanti, di esempi di laboratori, viaggi, assemblee, conferenze, di una “grande storia di bene che viene normalmente ignorata e che va invece raccolta prima che venga persa”, racconta ora il professore dalla Chiesa, ripercorrendo “l’adrenalina e l’entusiasmo con cui gruppi di docenti a partire dai primi anni Ottanta si sono inventati progetti e strumenti per aggredire il cuore della mafia”, ovvero la sua tradizione silenziosa, quella melma che si appiccica da generazioni vestendosi da compromesso, denaro facile, elezione sicura, indiscussa potestà, favore da restituire. Queste insegnanti di frontiera, a Siracusa come a Cuneo o Scandicci, hanno cercato di intaccare il sistema mafioso provando a far comprendere ai ragazzi l’insita ingiustizia della promessa mafiosa. Partendo dagli studi. “Perché com’è possibile contrastare un nemico che non si conosce o non si sa vedere?”, riflette dalla Chiesa, che a questo scopo ha fondato nel 2008 il primo corso universitario specifico sul tema: Sociologia della criminalità organizzata (l’unico in Italia). È pure titolare dei corsi di Sociologia e metodi dell’educazione alla legalità, Organizzazioni criminali globali, Gestione e comunicazione di impresa. Nonostante ciò registra “come l’Università si sia mossa con trent’anni di ritardo rispetto alle scuole dell’obbligo”. Se li ricorda, Dalla Chiesa, “i prof che ci facevano dormire a casa con loro perché non avevano soldi per ospitare i relatori in albergo, le docenti che passavano le notti a organizzare iniziative che venivano considerate “una perdita di tempo” dai colleghi e che raramente erano registrate all’esterno, dalla stampa, dalle istituzioni”. Certo, “alcuni dirigenti puntavano e tutt’ora puntano sui grandi eventi, molto remunerativi in termini d’immagine ma poveri di continuità”, e quindi incapaci di attecchire a fondo nelle coscienze. “Ma altrettanti hanno avviato percorsi profondi. Riconoscendo che la criminalità organizzata e i suoi codici sono un fenomeno profondo che non si può combattere stando in superficie”, conclude il sociologo. Sono loro i maestri e le maestre a cui è dedicata la ricerca, “pionieri che non hanno mai chiesto niente, che pochi conoscono, che sono rimasti lontani dai palcoscenici”, anche quando l’antimafia diventava una bandiera strattonata da tutti. Pionieri di “una storia civile fondamentale, che non va perduta”. Sono esempi di un’Italia che di fronte alla violenza mafiosa si è mossa presto. Nella Milano dove ancora nel 2010 il prefetto Gian Valerio Lombardi dichiarava che le cosche “non esistono” in città, già nel 1986 Nando Benigno fondava il Coordinamento insegnanti e presidi in lotta contro la mafia, attraverso il quale organizzava maxi-assemblee di studenti e professori per analizzare e affrontare insieme le sfide della criminalità alla democrazia. Benigno, cresciuto in Puglia, “è portatore di una sensibilità “originaria” spesso superiore rispetto ai propri colleghi nati o cresciuti in contesti differenti: sia per quanto riguarda i temi della legalità sia, in particolare, per la necessità di contrastare il prepotere mafioso”, osservano gli autori dello studio sulla Lombardia (Mattia Maestri, Sarah Mazzenzana, Samuele Motta). Si creano così dei ponti imprevisti, e necessari, fra Sud e Nord. Non avviene solo a Milano. Ci sono persone come Gaspare D’Angelo, originario di Cianciana, in provincia di Agrigento che per più di vent’anni ha insegnato all’Itis “Pietro Paleocapa”, nella bergamasca, diventando colonna delle attività per la legalità. Nuclei di maestri di frontiera che si passano il testimone, diventando il filo rosso di una nuova resistenza tutta umana. Il riferimento non è casuale: il parallelo con la Resistenza è costante nei laboratori con cui le prime scuole del Piemonte affrontano la necessità di contrastare le cosche. Sulle colline di Bra, Fossano, e Alba, tre istituti tecnici iniziano nel 1984 un percorso di approfondimento che parte dalla memoria partigiana e porta i ragazzi, ricorda Irene Ciravegna, la docente di lettere che aveva avviato la strada, “ad avere l’opportunità ad esempio di incontrare il giudice Laudi, rimanendo colpiti dal fatto che il magistrato fosse costretto a viaggiare con la scorta, sacrificando la sua libertà personale”. La memoria diventa materia viva. Porta all’esigenza di innovare forme e modi dello scambio. Dai viaggi scolastici alla tecnologia. Mariano Turigliatto è un volto storico di Grugliasco, grosso comune alle porte di Torino. Nel 1993 funzionari e politici del Comune vennero arrestati per tangenti. Lui diventerà sindaco, per poi tornare al suo vero mestiere: insegnare all’Itis Majorana della città. Dove, nel 1998, organizza una delle prime chat con Rita Borsellino e una video-intervista realizzata dagli studenti. “Nell’arco dello stesso anno l’intervento venne proiettato in almeno dieci scuole”, racconta la ricercatrice Eleonora Cusin. Una sua alunna, intervistata al Tg, spiegava: “Attraverso la nostra presenza vogliamo dare una chiara testimonianza ai nostri coetanei siciliani che non sono soli in questa lotta di civiltà contro la mafia e che possono contare su di noi per combatterla”. La Sicilia aveva iniziato a gettare le fondamenta per una nuova sensibilità comune attraverso una legge del 1980. Nata dalla voragine dell’omicidio del presidente regionale Piersanti Mattarella, il 6 gennaio di quell’anno, per la prima volta in Italia finanzia una volontà di rinascita a lungo periodo, attraverso corsi antimafia nelle scuole. Se questa è una storia che cresce dal basso, infatti, dalle singole aule, gli esempi raccolti nella ricerca mostrano il peso che hanno e possono avere politica, stampa e istituzioni quando non si limitano a fare da soprammobili. Uno dei molti casi raccolti al Sud da Martina Mazzeo è quello di un duraturo e costante progetto voluto dall’allora assessora all’Istruzione di Palermo Alessandra Siragusa. Si intitolava “adotta un monumento” e puntava a promuovere la partecipazione delle comunità alla vita della città, riappropriandosene, non lasciandola al consumo e al degrado. Dal 1992, per dieci anni, il percorso istituzionale ha permesso a adolescenti e bambini di studiare il territorio con esperti d’arte e di mafia. E alla città di riaprire molti monumenti prima chiusi al pubblico. Per riconoscere e portare un tributo forse piccolo, ma significativo, alla lotta alla criminalità organizzata, in Campania ci sono i 30 complessi scolastici intitolati a don Peppe Diana, Rosario Livatino, Ilaria Alpi, Giancarlo Siani, o Annalisa Durante, uccisa a 14 anni nel rione di Forcella. Per far germogliare idee diverse è fondamentale però che i ragazzi siano protagonisti. Che non stiano solo seduti a ascoltare un relatore per un giorno. Come piuttosto? Un liceo scientifico di Siderno lo ha fatto avviando un laboratorio in cui gli studenti erano invitati a seguire il modello di Fava, e diventare giornalisti, fare domande, scrivendo poi articoli che confluivano in una rivista della cooperativa di Libera Macramè. Un’idea simile si ritrova in Emilia Romagna, dove Daniele Paci propose già all’inizio del 1980 ai suoi coetanei, studenti, di realizzare inchieste sul traffico di eroina nel riminese. Gli alunni di medie e superiori si fecero carico di estendere quelle indagini nei loro quartieri. Insieme diedero vita ai primi comitati antimafia di Rimini, nel 1984. Era il momento degli inizi. Dopo, con i primi anni Duemila, le istituzioni, anche quelle scolastiche, hanno iniziato a normalizzare. Ad acquietare questo fiume smorzandone i toni, rinominando i corsi, diventati spesso obbligatori, sotto diciture più blande, oppure inserendo i progetti all’interno dell’ombrello dell’educazione “alla cittadinanza”. Come se l’energia e l’esigenza di mantenere viva una storia civile dell’antimafia non fosse già sufficientemente importante in un paese come l’Italia. Negli ultimi anni però sono rifiorite nuove esperienze. Che hanno fatto tesoro delle migliori lezioni del fiume pedagogico raccontato nella ricerca, portando partecipazione, continuità e protagonismo per i ragazzi. Attraverso il teatro, ad esempio, come nel caso di “Dieci storie proprio così”, uno spettacolo itinerante che coinvolge associazioni, testimoni di giustizia, storici, e soprattutto studenti, portando sul palco e nelle aule testimonianze dirette contro la mafia e laboratori educativi. Oppure attraverso i fumetti, come fa “daSud” nelle classi del Lazio, insieme al Miur e Repubblica, che partendo dalle storie disegnate di “McMafia” ha portato gli alunni del quartiere Cinecittà a fondare una web radio, oltre al giornale scolastico. “I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi”, scriveva Danilo Dolci in “Inventare il futuro”: “È evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettivamente ciascuno, mirare a costruire e ad interrelare nuovi gruppi democratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclerotici: ad ogni livello”. Quell’esigenza non si è spenta. Può, e deve, restare viva soprattutto fra i ragazzi, che una volta insieme “ad uno ad uno / sgrumandosi comunicano: / ogni voce è uno stimolo e un invito / ogni prova di scavo tende a unirli / osservo gli occhi disintorbidarsi”, vedeva sempre Dolci, in “Poema Umano”, nel 1974. Disintorbidarsi. Passandosi di banco in banco l’invito di Pippo Fava. Giustizia civile, Bonafede annuncia la riforma Avvenire, 28 aprile 2019 Per il ministro “non più rimandabile” intervento che dimezza i tempi dei processi. Italia fanalino Ue per arrivare a sentenza. In tempi brevi, al primo Consiglio dei ministri “utile”, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede assicura che sarà approvata la riforma del processo civile. L’impegno stringente del Guardasigilli - messo nero su bianco sul “Blog delle Stelle” - fa seguito alla diffusione dei dati della Commissione Europea sui tempi di smaltimento dei processi civili che venerdì hanno assegnato la maglia nera al nostro Paese, in posizione di fanalino di coda. “Anche in assenza di ulteriori incontri, al prossimo Consiglio dei ministri utile, potremo approvare la riforma per dimezzare i tempi del processo”, provvedimento che, dice Bonafede, “non è più rimandabile”. Poi il ministro definisce le problematiche emerse dai dati Ue “mali endemici della nostra giustizia, per troppo tempo rimasta impantanata nella polemica politica. Noi, quei problemi - sostiene Bonafede - li stiamo risolvendo e ora dobbiamo procedere con la riforma del processo”. I testi sono pronti da tempo, continua il Guardasigilli, ed è una riforma che, nel settore civile, proprio quello preso in considerazione dal rapporto della Commissione Europea, punta a dimezzare i tempi dei processi introducendo importanti novità nello snellimento delle procedure”. Per Bonafede, “i cittadini e le imprese non possono più attendere. Non c’è più tempo da perdere”. Secondo i dati Ue, infatti, l’Italia tra i Paesi Ue continua ad avere i tempi più lunghi per risolvere i casi di contenzioso civile, amministrativo e commerciale: in primo grado servono circa 399 giorni a fronte dei 22 necessari in Danimarca, 83 in Olanda, 258 in Spagna e 300 in Francia. Peggio di noi, c’è solo Cipro con 1.118 giorni, in base ai punteggi del pallottoliere Ue. Caso Regeni. “Signor presidente pretenda da Al Sisi tutta la verità sul nostro Giulio” di Paola e Claudio Regeni La Repubblica, 28 aprile 2019 I genitori del giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo scrivono al premier Conte che incontrerà il leader egiziano nei prossimi giorni. Buongiorno Signor Presidente Conte, siamo Paola e Claudio i genitori di Giulio Regeni e Le scriviamo perché leggendo un’Ansa abbiamo saputo che incontrerà il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, al margine dei lavori del GT7 Forum, in Cina. Siamo certi che si farà ulteriormente portavoce della richiesta di Verità e Giustizia sul rapimento, tortura e morte di nostro figlio, avvenute al Cairo tra il gennaio e febbraio 2016. Una tragedia inimmaginabile. Per tutti noi. Sono trascorsi ormai più di tre anni e assieme a tantissimi cittadini di tutto il mondo attendiamo di sapere i nomi di tutti i soggetti coinvolti e di vederli assicurati alla giustizia italiana. Le chiediamo di essere determinato ed incisivo con il Presidente egiziano, di andare oltre ai consueti proclami e promesse, di ricordargli che la procura romana ha già inserito cinque persone nel registro degli indagati, in base alle indagini effettuate superando gli enormi ostacoli posti da parte degli stessi egiziani; è giunto il momento di ricevere una risposta concreta, vera e definitiva. Senza questa risposta la dignità del nostro paese e delle istituzioni che Lei rappresenta risulterebbe irrimediabilmente mortificata. Giulio, che ricordiamo era un ricercatore, ha subito su di sé la violazione di tutti i diritti umani, anche del diritto di difesa. Lei si è proposto come avvocato difensore del popolo italiano, Le chiediamo, quindi, di non dimenticare l’aspetto etico oltre che quello giuridico, sotteso all’intangibilità dei diritti e alla loro difesa. Giulio, come cittadino ha diritto ad essere difeso e a trovare giustizia, come non è stato difeso e non ha avuto giustizia da vivo. Riteniamo necessario che l’inviolabilità dei diritti umani sia un messaggio centrale, fondamentale per la nostra nazione, nel rispetto dei principi democratici, per garantire un futuro migliore e per rispettare e meritare la fiducia dei nostri giovani. Presidente Conte, si ricordi di Giulio mentre stringerà la mano del Generale Al Sisi e pretenda, senza ulteriori dilazioni o distrazioni di sorta, la verità sulla sua uccisione. Sia, come ha promesso, il suo avvocato, lo sia di tutti i cittadini italiani che confidano nel rispetto dei diritti umani e nella loro intangibilità. Caso Regeni. Il premier Conte a mani alzate davanti a Al Sisi: non ho ottenuto niente Il Manifesto, 28 aprile 2019 Caso Regeni. Il dittatore egiziano si dice “turbato” dalle parole della famiglia e fiducioso nella sua magistratura. Il premier Giuseppe Conte da Pechino assicura di essere “insoddisfatto” per come l’Egitto ha trattato il caso Regeni. Ieri dalle colonne di Repubblica la famiglia del ricercatore si rivolgeva direttamente a lui alla vigilia del colloquio con Al Sisi, chiedendo di “andare oltre ai consueti proclami e promesse” e di ottenere “una risposta, concreta, vera e definitiva” sulla fine di Giulio, sequestrato torturato e ucciso più di 3 anni fa dai servizi egiziani perché ritenuto una spia. Il premier, dopo il confronto con il generale, di fronte ai giornalisti ha indossato la faccia di circostanza e ammesso che “non c’è alcun concreto passo avanti”, “non abbiamo strumenti reali per poter intervenire e sostituirci alla magistratura egiziana”. Per l’ennesima volta l’Italia torna a mani vuote da un incontro con Al Sisi, “insoddisfatta” ma per nulla intenzionata di farsi rispettare. Il governo non ha ottenuto niente, quello che si sa di quella vicenda è merito delle indagini del Ros, dello Sco e della procura di Roma, del suo procuratore capo Giuseppe Pignatone che ha iscritto nel registro degli indagati gli ufficiali e militari egiziani presunti responsabili. Da Al Sisi è arrivato l’ennesimo sconcio comunicato ufficiale in cui il dittatore si descrive “molto turbato” della lettera dei Regeni e sottolinea “il totale sostegno alla cooperazione fra le istituzioni competenti egiziane e italiane”. Conte non ha messo sul tavolo alcuna minaccia di azioni forti, come il ritiro dell’ambasciatore o ritorsioni economiche. “Quello che posso fare - ha detto - è mettere in campo le mie iniziative, la mia pressione, l’influenza che il governo può esprimere nel rapporto con il governo egiziano e con Al Sisi. Non posso che continuare su questa strada e non mi fermerò finché non avrò riscontri oggettivi”, cose che fin qui non hanno prodotto nulla, se non parole, come: “L’Italia non può avere pace fino a quando non avrà la verità”. Sicilia: cappellani e detenuti riuniti per la “Giornata regionale della misericordia” ennaora.it, 28 aprile 2019 L’abbraccio delle misericordia per 32 detenuti, rappresentanti della folta popolazione delle carceri isolane. È stata celebrata l’altro ieri, venerdì 26 aprile, a Pergusa la Giornata regionale della Misericordia in Sicilia, organizzata dai sacerdoti che svolgono il servizio di cappellani negli istituti penitenziari di tutta l’Isola. Un momento di accoglienza e fraternità si è svolto dapprima nella chiesa del Santissimo Crocifisso di Pergusa, dove alle 12 è stata celebrata una messa solenne presieduta dall’arcivescovo di Messina Giovanni Accolla e dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana, alla presenza di diversi esponenti del clero locale e, naturalmente, dei 20 cappellani delle carceri arrivati da ogni punta della Sicilia. “Abbiamo voluto con noi una delegazione di detenuti per condividere assieme una giornata di riflessione, preghiera e gioiosa fraternità anche assieme alle loro famiglie”, ha spiegato padre Paolo Giurato, cappellano di Giarre e delegato regionale dei cappellani delle carceri. Con loro a condividere il pranzo organizzato nel refettorio dell’Oasi Madonnina del Lago, anche un gruppo di agenti di polizia penitenziaria, i volontari che lavorano nelle carceri, i catechisti delle comunità neocatecumenali che operano tra i detenuti e la troupe di Radio Maria, emittente vicina al mondo dei reclusi. “Per noi è una giornata molto importante - ha commentato don Sebastiano Rossignolo, cappellano della casa circondariale di Enna - dimostriamo concretamente che la misericordia e la vera accoglienza è possibile, anche per chi ha sbagliato, per chi sta finendo di pagare una pena e vogliamo dare loro una nuova speranza di vita, la possibilità di cambiare vita una volta reinseriti in società”. Mattatore del pomeriggio, il comico Massimo Spata, arrivato a Pergusa appositamente (e gratuitamente) da Lampedusa (dove ha deciso di vivere da qualche anno), proprio per stare accanto ai detenuti: “Ho fatto tanti spettacoli dentro le carceri - ha raccontato - conosco bene i volti di chi vive per anni dietro le sbarre, conosco le loro storie, le vicissitudini che li hanno consegnati alla giustizia e non riesco a dire di no quando mi chiamano. La loro vicinanza è un regalo che faccio a me stesso”. Il comico star della tv - e attualmente impegnato sul set delle serie Il commissario Montalbano - alla platea presente ha regalato risate confrontando le peculiarità di catanesi e palermitani, vizi e virtù delle donne siciliane, gli strampalati rapporti uomo-donna, ma ha lanciato anche messaggi sociali: “So che scontate una pena - ha detto - ma nessuno di voi merita di essere mortificato. Mi auguro che lo Stato vi garantisca giuste opportunità di vita che vi permettano di vivere onestamente accanto alle vostre famiglie”. Detenuti, famiglie di questi, cappellani e operatori si sono infine affidati alla Madonna della misericordia, il simulacro pellegrino che Radio Maria fa girare nelle carceri italiane. Catanzaro: poliziotto penitenziario si uccide con l’arma di ordinanza strettoweb.com, 28 aprile 2019 La Federazione Sindacale del Co.S.P. denuncia l’ennesimo suicidio che ha visto come protagonista nelle ore scorse un poliziotto penitenziario in servizio nel Penitenziario Minorile di Catanzaro. L’uomo si è tolto la vita con l’arma di ordinanza presso la propria abitazione a Catanzaro Lido, libero dal servizio,lascia una moglie e una figlia. A darne notizia è il segretario generale nazionale del sindacato Domenico Mastrulli: “Restiamo sbigottiti di fronte a queste notizie che ci lasciano senza parole, possiamo solo ricordare i 50 anni di quest’uomo, al servizio della polizia penitenziaria della giustizia minorile e delle comunità, che lascia la giovane moglie e una figlia”. “La nostra solidarietà oltre che alla famiglia dell’assistente capo va a tutti i colleghi del Minorile di Catanzaro ma a tutti i colleghi dei Minori e degli Adulti le 34.000 unità che quotidianamente vivono sulla propria pelle le stratosferiche criticità del mondo carcerario,del sovraffollamento detentivo, dell’eccessivo carico di lavoro e dei compiti stressogeni, delle condizioni penose dei luoghi di lavoro,delle mense e delle caserme”. “Da tempo - sottolinea Mastrulli - denunciamo la totale assenza delle Istituzioni e le criticità presenti nei penitenziari italiani e nelle prigioni minorili d’italia con i loro 62mila detenuti. Le carenze strutturali, i turni massacranti, il sovraffollamento delle carceri e le oltre 11mila unità di poliziotti mancanti dimostrano come gli ambienti di lavoro incidano pesantemente sulla vita delle persone. Nei penitenziari della Calabria e in particolare in quello di Reggio Calabria, Catanzaro, Palmi, Cosenza, Rossano e Ipm Calabresi - aggiunge il segretario generale del Co.S.P. - da diverso tempo il personale attende il pagamento delle ore di straordinario accumulate e il rinnovo contrattuale la cui vacanza contrattuale proprio questo mese ha portato solo 8 euro di aumento come s ela vita di un Poliziotto valesse così poco”. “Chiediamo al ministro della Giustizia, al capo dipartimento degli Adulti e dei Minori e allo stesso provveditore regionale e centro giustizia minorile della calabria dove sono i centri di ascolto che si sarebbero dovuti attivare per contrastare il fenomeno dei suicidi, oltre un centinaio nell’ultimo ventennio, quasi 20 nel biennio appena trascorso”, conclude. Genova: festeggiò il suicidio di un detenuto, ispettore sospeso di Marco Preve La Repubblica, 28 aprile 2019 I giudici del Tar respingono il ricorso contro i due mesi senza stipendio per un post. Inutile il tentativo di dare la colpa alla compagna Non solo aveva festeggiato su Facebook il suicidio di un detenuto (“Uno di meno”) ma quando il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria lo ha sospeso dal servizio per due mesi, ha ritenuto il provvedimento ingiusto e ha presentato ricorso al Tar. I giudici amministrativi hanno però respinto la richiesta di un ispettore del corpo di polizia penitenziaria che all’epoca prestava servizio nel carcere di Marassi. Anzi, per la precisione all’epoca - eravamo nel 2015 - era distaccato a Roma per l’esercizio di un incarico sindacale presso la segreteria generale dell’O.S.A.P.P. (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). I giudici hanno respinto anche la banale motivazione con cui l’ispettore ha tentato di farsi annullare la sanzione: ha sostenuto che quel post fosse stato scritto non da lui ma dalla compagna che accedeva al social network con le sue credenziali. Sulla pagina Facebook riconducibile alla sigla sindacale Al.Si.P.Pe. (Alleanza Sindacale Polizia Penitenziaria) era stata pubblicata la notizia della morte per suicidio di un detenuto nel carcere milanese di Opera. Dei molti, troppi, vergognosi post comparsi sulla pagina, si era scoperto che almeno 16 provenivano dalle pagine di agenti della penitenziaria che erano stati tutti sospesi dal ministro Andrea Orlando. Il disperato tentativo di scaricare sulla sua convivente la responsabilità del post è stato seccamente respinto dai giudici: “Tale prospettazione, seppure suffragata da una dichiarazione sottoscritta dalla pretesa autrice della frase in questione, non appare del tutto convincente in quanto, nonostante le spiegazioni fornite, non sono chiare le ragioni che avrebbero indotto la compagna a “visitare” la pagina Facebook di una sigla sindacale della polizia penitenziaria, mentre i motivi di interesse del ricorrente sono resi pienamente evidenti dalla sua attività professionale e sindacale. In ogni caso, anche volendo ammettere la fondatezza della proposta ricostruzione fattuale, essa non varrebbe ad escludere la responsabilità del dipendente in ordine all’episodio contestato. Come correttamente rilevato dall’Amministrazione, infatti, la circostanza che le credenziali del ricorrente fossero state comunicate ad una terza persona implicava l’autorizzazione all’accesso al suo profilo Facebook. Il commento “postato” con il profilo dell’ispettore, pertanto, non può ritenersi frutto di un accesso abusivo, né risulta che fossero stati violati in qualche modo i limiti dell’autorizzazione concessa dal titolare del profilo informatico, il quale, prima dell’avvio del procedimento disciplinare, non ha comunque ritenuto di doversi dissociare dal commento medesimo”. Il Tar conclude respingendo il ricorso e confermando la sanzione disciplinare: “a fronte dell’obiettiva gravità della condotta del ricorrente, non può certo ritenersi che l’azione disciplinare sia stata alimentata dall’esclusiva volontà di porre rimedio al discredito cagionato dai commenti immorali postati da alcuni appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, sicché il dedotto sviamento di potere è frutto di mera illazione”. Casale Monferrato (Al): “Nelle caserme dismesse laboratori per reinserire i detenuti” di Franca Nebbia La Stampa, 28 aprile 2019 Il progetto si chiama “riabilitazione avanzata”. Non riguarda anziani che devono riprendere confidenza con le proprie gambe, ma carcerati da reinserire nella società. E potrà coinvolgere le caserme di Casale abbandonate, sia la Nino Bixio, a Porta Milano, sia la Mazza al Valentino, del Demanio. Ed è proprio il Demanio, in accordo con i ministeri di Giustizia e Interno, ad avere proposto al Comune una possibilità di riuso della Bixio per crearvi laboratori dove i detenuti possano lavorare, seguiti da educatori e tecnici, per attività legate all’artigianato. “La caserma Mazza, invece, sarebbe più adatta ad attività agricole, visti i larghi spazi verdi che la circondano” spiega il sindaco Titti Palazzetti. E sui problemi carcerari e sulla necessità di iniziative di edilizia penitenziaria, magari sfruttando caserme abbandonate, martedì all’Hotel Candiani alle 19,15 la Lega ha organizzato una conferenza con Jacopo Morrone, sottosegretario del ministero della Giustizia, con interventi del capogruppo alla Camera Riccardo Molinari e del candidato Lino Pettazzi, sindaco di Fubine. Un’occasione anche per Casale, con la riqualificazione di due caserme che, lasciate all’abbandono, vanno sempre più in degrado. Alla luce del sovraffollamento e della carenza di personale, c’è l’impossibilità per molti detenuti di effettuare quel percorso di recupero e reinserimento che dovrebbe essere l’obiettivo primario di un carcere. Con la possibilità di accedere a progetti di attività e di lavori fuori dall’istituto di pena. Come avviene, ad esempio, ad Alessandria o a Vercelli con laboratori di falegnameria (ad Alessandria c’è anche una bottega solidale) sfruttando legno di recupero. Ma altri sono già stati testati, come un laboratorio di sartoria, l’allevamento di quaglie, la coltivazione di prodotti agricoli. Un lungo ciclo di conferenze su questi temi è stato recentemente proposto in sala Cavalla, in Seminario, da alcune associazioni che si occupano di volontariato nelle carceri con interventi di educatori, direttori, ex detenuti su progetti in corso o da avviare per il reinserimento di chi è dietro le sbarre. E a conclusione era stato lanciato un appello rivolto a nuovi volontari per sostenere ulteriori progetti. E il progetto di riutilizzo delle due ex caserme avrebbe possibilità di sviluppo diretto per Casale, perché da quanto detto in Comune dal Demanio, potrebbe coinvolgere diverse centinaia di persone: detenuti, educatori ed assistenti. Bologna: Coro Papageno, la musica esce dal carcere di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 28 aprile 2019 Sabato 4 maggio il coro Papageno, voluto da Claudio Abbado e formato dalle detenute e i detenuti del carcere di Bologna, si esibirà per la prima volta in città fuori dalle mure del carcere. Ad accompagnarlo il trio del famoso jazzista americano Uri Caine. “Il Coro è espressione della società ideale, un modo per ascoltarsi e per ascoltare gli altri, per dosare la propria voce nel rispetto del gruppo. Ha grandi valori di inclusione e di rapporto con gli altri”. Anche la direttrice del carcere Claudia Clementi racconta come l’esperienza del canto possa essere dirompente per una persona detenuta. “Può voler dire comprendere che si può ripartire in qualsiasi momento, al di là delle differenze sociali, geografiche, religiose”. Alessandra Abbado racconta con grande passione l’esperienza del Coro Papageno all’interno della Casa Circondariale Rocco d’Amato di Bologna. “Il Coro”, spiega, “nasce nel 2011 su volontà di Claudio Abbado ed è il primo Coro in Italia di voci miste, uomini e donne, all’interno di un carcere a cui si uniscono anche coristi volontari di importanti cori cittadini. Settimanalmente si svolgono lezioni di canto corale con il Maestro Michele Napolitano, sia al maschile sia al femminile”. Le attività proseguono grazie all’Associazione Mozart14, che la Abbado presiede. Il Coro Papageno si è già esibito nel 2016 in Vaticano, in occasione del Giubileo dei carcerati, e in Senato per la Festa Europea della Musica dedicata al tema dell’integrazione. A Roma, però, per questioni logistiche non andarono tutti. Per la prima volta il 90% dei partecipanti al Coro avrà invece la possibilità di partecipare all’esibizione in programma a Bologna il 4 maggio, alle ore 17, al Teatro Auditorium Manzoni. “Una grande occasione”, aggiunge Alessandra Abbado, figlia del Maestro che da sempre si occupa di progetti sociali oltre che di musica, “e l’idea è venuta da Uri Caine che in gioventù ha avuto la possibilità di suonare nelle carceri della Pennsylvania, sensibilizzato dal padre docente di diritto”. È stato il grande musicista americano con il suo Trio a proporre il concerto che ha come titolo “Change!”, nome del brano che Uri Caine scrisse per celebrare Octavius Catto, attivista dei diritti civili e fautore dell’integrazione della popolazione nera nell’America post guerra civile. Un’occasione unica anche per gli spettatori. È la prima uscita a Bologna per il Coro Papageno. “Solitamente infatti viene organizzato ogni anno un concerto interno al carcere per un massimo di 150 civili che, eccezionalmente, possono entrare dentro le mura carcerarie per un giorno.” Sono gli stessi detenuti a proporsi per questa attività, una delle tante del carcere che ha attività lavorative, un festival cinematografico e una squadra di rugby. “La voglia di partecipare è di molti”, dice Alessandra Abbado, “dipende dal tipo di voce, che viene poi perfezionata e lavorata nel tempo, e dalla disponibilità. Abbiamo avviato in carcere, oltre alle lezioni di canto corale, anche lezioni di alfabetizzazione musicale. Entrambe sono inserite nel percorso formativo del Cpia (Centro per l’Istruzione degli Adulti di Bologna) e fanno parte della didattica”. Ci sono detenuti storici che da anni partecipano al Coro e altri che lo hanno lasciato alla fine dell’esperienza in carcere. Negli anni il Coro ha visto partecipare oltre 400 detenuti. Chi ne fa parte racconta un’esperienza di rinascita. “A salvarmi dall’abbruttimento è stato il canto”, ha raccontato Donatella, ex corista, “cantare nel Coro Papageno. Quelle ore di lezione erano per me il respiro del mondo di fuori. Una ventata di libertà. Gli unici momenti in cui tornavo a sorridere, quando a volte dimenticavo persino di potere ancora esserne capace”. È ancora in corso l’esperienza di Catia: “Qualcuno mi ha detto che non sono stonata come credevo, così ho iniziato ad avere più fiducia in me stessa e ho scoperto che cantare è bellissimo, trasmette emozioni indescrivibili a noi che cantiamo e a chi ci ascolta. La musica è un elemento fondamentale della vita. Fa superare il disagio, è medicina per l’anima. È magia. È … far parte”. Tutto il ricavato del concerto (il costo dei biglietti in vendita anche sulla piattaforma Vivaticket va dai 10 ai 35 euro) servirà per sostenere le attività del Coro Papageno, portate avanti dall’Associazione Mozart14 che si occupa anche di ricercare fondi per altre attività di musica per il sociale: Tamino, musicoterapia nei reparti pediatrici; Cherubino, attività di ritmo e voce per bambini e ragazzi sordi; Leporello, laboratori di song-writing per i ragazzi dell’Istituto penale minorile di Bologna. La speranza di Alessandra Abbado è che sia la prima di tante occasioni di collaborazione per il Coro Papageno. “Vedo nel futuro un Coro in ogni carcere: donne e uomini che scambiano voci di esperienze, speranze e sogni”. Ridiamo voce a Radio Radicale di Don Luigi Ciotti La Repubblica, 28 aprile 2019 Radio Radicale è un patrimonio del nostro Paese. Patrimonio perché da11975, anno della fondazione, ha svolto un ruolo prezioso di servizio pubblico nel segno di un’informazione attenta, meticolosa, approfondita e mai condizionata da interessi di parte. Un’informazione che si è sempre posta il problema di documentare le questioni politiche e sociali dando spazio a tutte le voci affinché il cittadino potesse approfondire, confrontare e da lì maturare scelte libere e consapevoli. La diffusione della conoscenza e la stimolazione dello spirito critico - prerogative di una vera democrazia - hanno rappresentato la sua missione e il suo orizzonte etico e professionale. Ecco perché oggi dobbiamo mobilitarci, far sentire la nostra voce per tutelare questa realtà e metterla nelle condizioni di continuare il suo prezioso servizio. Radio Radicale ci ha insegnato a essere più radicalmente e responsabilmente cittadini: come cittadini non possiamo restare zitti e inerti di fronte a chi, per calcolo politico e di potere, vuole imbavagliarla. Quel che Grillo non sa di Radio Radicale di Roberto Saviano L’Espresso, 28 aprile 2019 La trasparenza, la disintermediazione, l’informazione senza filtri: il M5S vuole chiudere un’emittente che ha anticipato i suoi principi. Radio Radicale è un insieme di voci; metterne in discussione l’esistenza, significa rinnegare la vita stessa che è atta di ricchezza e pluralità. Accendete Radio Radicale, ascoltatela per un giorno o anche solo per qualche ora; vi accorgerete che apre finestre, attiva neuroni, crea collegamenti, porta prove, verifica notizie. Vi terrà compagnia. Vi farà conoscere dettagli su Medio Oriente, Turchia, Cina, Africa che difficilmente troverete altrove. Radio Radicale è insostituibile. Chiusa Radio Radicale resterà al suo posto nient’altro che il vuoto. Radio Radicale da contratto dovrebbe seguire solo le sedute di Camera e Senato, ma con i soldi della convenzione fa ascoltare tutte le sedute delle Commissioni parlamentari, i lavori del Consiglio Superiore della Magistratura, segue il Presidente della Repubblica, i lavori del Parlamento Europeo, le conferenze stampa della Presidenza del Consiglio. E poi ancora: segue e registra congressi di partiti, comizi, manifestazioni, presentazioni di libri, conferenze stampa. È nelle aule dei tribunali per registrare udienze. Radio Radicale ha un archivio smisurato, ma ciò che lo rende prezioso è che si arricchisce di ora in ora, di minuto in minuto, del nostro presente e del nostro futuro. Un archivio che è e sarà strumento di lavoro e conoscenza imprescindibile. Tutto questo cristallizza una prassi virtuosa: il lavoro di una radio che ha utilizzato i soldi della convenzione in maniera giusta e fruttuosa. Le lamentele sugli sprechi dei soldi pubblici perdono senso quando poi si uccidono le uniche realtà che li utilizzano correttamente. Rinunciare a Radio Radicale significa rinunciare alla possibilità di conoscere senza intermediari perché entra nelle stanze del potere e ci fa ascoltare, in tempo reale, ciò che avviene. Penso a questo e mi torna alla mente Beppe Grillo che nel 2007 andava in piazza a parlare di democrazia diretta, di disintermediazione politica e di trasparenza delle stanze del potere (politico, giudiziario, amministrativo). Ma qual era il suo modello di riferimento se non Radio Radicale? Perché Beppe Grillo tace oggi mentre la creatura nata dalle sue piazze vuole condannare a morte il modello che più di tutti lo ha evidentemente ispirato? E dire poi che Radio Radicale debba stare “sul mercato” tradisce la mancata conoscenza del principio cardine della teoria di mercato: la simmetria informativa. Tutti i soggetti che agiscono su un determinato mercato devono avere uguale accesso alle informazioni. Radio Radicale ha, negli ultimi 43 anni, consentito ai cittadini-elettori di stare sul mercato della politica con la possibilità di accedere a una informazione plurale e democratica. Uguale per tutti. È il principio essenziale della democrazia liberale e di tutti gli istituti di democrazia diretta: conoscere per deliberare. Chiudere Radio Radicale per il M5S significa dire: “Noi non siamo più quello che volevamo essere e attraverso la chiusura di Radio Radicale vogliamo disperdere ogni traccia della nostra ingenuità degli inizi”. L’ingenuità di ieri rimpiazzata dalla sete di potere di oggi e dalla necessità di nasconderla rendendo inaccessibili le stanze del potere. Ma ciò che addolora di più l’enorme comunità di ascoltatori di Radio Radicale è constatare che un luogo di libertà e conoscenza debba dipendere da un atto di benevolenza e che non sia considerato da chi governa l’Italia un patrimonio irrinunciabile. Forse nemmeno lo sapete e magari non vi interessa saperlo, ma la radio che oggi minacciate di voler chiudere è nata come la restituzione che Marco Pannella intese fare agli italiani dei loro soldi dati al Partito Radicale sotto forma di finanziamento pubblico ai partiti. Fu il Partito Radicale, con il lavoro anche di Radio Radicale, a promuovere il referendum, a lungo tradito, che annullava il finanziamento pubblico ai partiti. Ebbene, Pannella decise di restituire agli italiani la cosa più preziosa che sia mai esistita: l’informazione. Non è un caso che la sua ultima battaglia sia stata proprio per il Diritto alla Conoscenza, che tra tutti i diritti è il più importante. La battaglia delle battaglie, quella per cui oggi dobbiamo spenderci tutti. Chiamatemi ingenuo, ma l’appello che faccio a questo Governo non è semplicemente quello di rinnovare la convenzione con Radio Radicale, ma di fare in modo che nessun altro in futuro possa metterne in discussione l’esistenza. “Una volta ladro sempre ladro”, di Lorenzo Moretto. C’era una volta Tangentopoli recensione di Matteo Di Gesù La Repubblica, 28 aprile 2019 Almeno 4.525 persone arrestate, 25.400 avvisi di garanzia, circa 1.100 tra parlamentari, consiglieri e politici a vario titolo coinvolti. Hanno ormai la caratura refertuale della contabilità della storia, queste cifre. Eppure sono spaventose. Sono i numeri delle inchieste su quella serie di episodi di corruzione e concussione, di frodi fiscali e molto altro, rubricati sotto a un lemma che, da neologismo bislacco dell’italiano televisivo, si sarebbe trasformato in una parola carica di una tale potenza significante da fecondarne altre: Tangentopoli. Come un inaspettato dispaccio da un passato recente, ma che è già lontanissimo, il romanzo d’esordio Lorenzo Moretto, “Una volta ladro sempre ladro”, impone di varcare la ragioneria della cronaca degli anni Novanta e a rovistarvi dentro, raccontandoci di una di quelle 4525 persone. Si tratta del padre dell’autore: Giovanni Moretto, classe 1937, trevigiano trapiantato a Monfalcone, dirigente di un’azienda che produceva aviazione leggera e da diporto, il quale l’11 giugno del 1994 veniva arrestato con l’accusa di ricettazione, rivelatasi infondata dopo sei mesi di carcerazione preventiva e altrettanti di domiciliari. Moretto ricostruisce la vicenda optando per una scrittura sorvegliata e asciutta, ancorata a una prima persona che narra al passato e che non deroga mai da un impianto documentale rigoroso e quasi asettico, che non cede ad alcuna concessione digressiva o sentimentale, a tutto vantaggio della resa stilistica. Nel racconto del padre c’è anche quello del figlio, all’epoca ventitreenne prossimo alla laurea: a lui e al suo tempo appartiene il repertorio di riferimenti, da quelli musicali a quelli calcistici (la tensione, però, si indebolisce quando egli subentra, come protagonista, nella seconda parte, segnata da uno stacco cronologico e tipografico). Se, manzonianamente, la letteratura risarcisce chi nel regesto della Storia è andato disperso, restituendogli un nome e una storia, ci si può dire più che soddisfatti. Adesso il Mediterraneo è pronto ad esplodere di Lorenzo Vita occhidellaguerra.it, 28 aprile 2019 Le portaerei americane che solcano le acque del Mar Mediterraneo e si addestrano a largo di Malta insieme alla Marina britannica, presente con la Hms Duncan. La portaerei Charles de Gaulle che transita tra il Mare Nostrum e il Mar Rosso. La Libia, che rappresenta ancora oggi la grande area di crisi al centro di questo mare e che coinvolge in particolare tutta la costa nordafricana. A est, la Siria rimane un punto interrogati, con il Mediterraneo orientale che rappresenta il grande terreno di sfida fra le potenze regionali e mondiali e in cui la corsa al gas si intreccia con la sfida politica alla supremazia del Medio Oriente. E infine, più a nord, la via verso il Mar Nero e lo scontro eterno fra Nato e Russia per l’Europa orientale. Mai come in questi tempi, il Mediterraneo è diventato uno dei mari più caldi del mondo. E lo dimostra il continuo passaggio di navi militare da Gibilterra a Suez fino al Mar d’Azov. E l’Italia, che ci questo mare è centro geografico e importante pilastro politico, non può non essere coinvolta. Tanto più che da qualche tempo, sia per la Libia che per la Nuova Via della Seta, il nostro Paese sembra essere entrato di diritto al centro dei dossier più bollenti che coinvolgono lo specchio d’acqua che separa (o unisce) Africa ed Europa. E sotto questo profilo, i recenti movimenti non devono indurci a dormire sonni tranquilli. A sud del nostro mare, le portaerei Abraham Lincoln e John C. Stennis della Us Navy hanno praticamente deciso di monitorare il movimento delle forze russe e di tutti gli Stati coinvolti nella crisi in Libia: non succedeva dal 2016. Dopo tre anni, due gruppi d’attacco di portaerei Usa sono nel nostro mare. Dall’altro lato, la notizia di una nave francese arrivata a Ras Lanuf, porto in mano a Khalifa Haftar, non smentita dal Parigi, dimostra che la Marine nationale vuole tornare a controllare la rotta del Mediterraneo centrale. La notizia è comunque arrivata alle orecchie molto interessate del governo di Tripoli, che ha parlato apertamente di “suicidio” in riferimento alla possibilità che le potenze entrino direttamente nello scacchiere libico. Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna monitorano quindi la rotta del Mediterraneo. Ma attenzione a non guardare anche ad altri attori più silenti che in questi giorni stanno muovendo eccome le loro pedine. Innanzitutto c’è la Russia, che da questo mar non vuole certo andarsene visto che è la porta verso il Mar Nero e quindi verso i territori sotto il controllo di Mosca. La guerra in Siria ha dimostrato che il Mediterraneo è essenziale per il Cremlino al pari delle altre grandi potenze. E non va sottovalutato il ruolo di questo mare nella sfida mondiale con Washington visto che lo stesso ammiraglio Foggo ha parlato di portaerei Usa che sfidano la forza russa. E a proposito di Siria, c’è un’altra potenza che in questi mesi sembra essersi assopita ma che in realtà è più che attiva nello scacchiere mediterraneo: l’Iran. In queste settimane, si rincorrono le notizie di un ingresso di Teheran nel porto di Latakia, città fondamentale del Mediterraneo orientale e da sempre al centro della strategia russa per il Mare Nostrum. La notizia del possibile arrivo di una flottiglia iraniana nel sud Italia si è rivelata falsa. Ma l’Italia, anche in questo caso, non può rimanere disinteressata: se puntano tutti il Mediterraneo e noi ne siamo al centro (e con la Libia sotto di noi), siamo di fronte a un problema molto serio. Non possiamo far finta di nulla se tutte le potenze stanno per prendere il sopravvento sul “nostro mare”. Che da qualche tempo sembra non essere più nostrum. Fuga da Tunisi, destinazione Italia: i trafficanti di esseri umani puntano sulla costa più vicina di Floriana Bulfon L’Espresso, 28 aprile 2019 Economia al collasso, instabilità politica, minaccia terroristica, guerra alle porte. Per una barca bloccata, altre prendono il largo. In modo invisibile, tanto da dare l’impressione che le complicità non siano episodiche ma un sistema. C’è posto per tutto e tutti, persino per i potenziali terroristi, basta pagare le persone giuste. L’unica primavera araba ancora in vita ha un respiro corto, fragile come i fiori di gelsomino che diedero il nome alla rivoluzione contro il regime di Ben Ali. Otto anni dopo in Tunisia la democrazia resta sempre sospesa sul baratro. Instabilità politica, minacce terroristiche e soprattutto una crisi economica che non si ferma. Un quadro precario, che adesso potrebbe essere investito dalla guerra civile libica: l’assalto del maresciallo Khalifa Haftar a Tripoli sta spingendo migliaia di profughi verso la frontiera tunisina. Il Paese vive in un continuo stato di emergenza, con pieni poteri alla polizia per controllare le piazze. Ma i tentativi del governo di placare il malcontento, ad esempio l’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici deciso un mese fa, irritano le istituzioni finanziarie come il Fondo monetario internazionale che con i loro prestiti sostengono la cassa centrale. Aiuti che non risolvono la questione fondamentale: c’è un popolo giovane che non riesce a trovare lavoro. Secondo la Banca mondiale il 41 per cento dei tunisini ha un impiego in “un’economia parallela”, fatta di sfruttamento, con paghe da fame. Per questo tanti cercano di fuggire e cercare un futuro in Europa. Alimentando così un altro business che arricchisce di nascosto trafficanti e autorità pronte a chiudere un occhio. Qui ci sono tanti porti delle nebbie, da cui si muove un esodo silenzioso. Sull’arcipelago di Kerkennah, a un’ora di traghetto dalla città di Sfax, il vento soffia forte. Mohamed ha rughe di salsedine e povertà. Se ne sta in piedi sulla banchina e guarda le reti vuote. “Qui c’è la miseria”, racconta scuotendo sconsolato la testa, “non c’è più pesce, solo plastica, inquinamento e granchi. Siamo sempre più poveri e allora andiamo via”. Anche suo figlio Ahmed fa il pescatore: “Perché noi lo siamo da generazioni, ma non peschiamo più”. Ahmed ha ventisei anni e una certezza: “Il governo tunisino non ci aiuta, ci dice di andare in Italia. Adesso partirò per la terza volta, Inshallah”. Lampedusa, il sogno europeo, dista meno di 100 miglia. “Sono andato due volte in Italia, sulla barca eravamo in 14 persone e ho speso 3 mila dinari (meno di mille euro al cambio ufficiale ndr)”, spiega mentre rattoppa le reti mangiate dai granchi. Sono arrivati qui un paio d’anni fa e ormai sono l’unica cosa che si pesca. La vita da migrante di Ahmed è un girone infernale racchiuso in poche parole: “È difficile, molti muoiono in mare, ma io guardo il meteo e parto. Adesso sono ritornato da venti giorni. La polizia italiana per due volte mi ha rispedito a Tunisi in aereo e mi hanno messo le manette, ma non importa io ripartirò”. Si tenta la sorte mettendo già in conto il rischio che ti rimandino indietro. Ahmed non è il solo a voler scappare via. In questo porticciolo di imbarcazioni sgangherate si ritrovano i tunisini in fuga dal crollo della speranza. Non sono soli. In questi scali arrivano tanti altri che fuggono dalle guerre e dalla povertà. Vengono dal cuore dell’Africa, passano attraverso il caos della Libia e poi si trovano davanti il nuovo muro: quello dei “porti chiusi” dall’Italia e delle vedette di Tripoli che impediscono le partenze. Per tutti la Tunisia è l’ultima chance, da cogliere a qualunque costo. E lo è doppiamente da quando Haftar ha lanciato le sue colonne verso la capitale libica. Lo scorso giugno qui c’è stato il più grave naufragio del 2018. Un barcone si è spezzato in due, portando a fondo un carico di giovani, di donne, di bambini. Il trafficante è stato arrestato e sono stati rimossi alcuni funzionari della polizia e della guardia costiera. Nessuno parla apertamente di complicità, ma se vai sul posto respiri un clima di collusione. Perché ora sull’isola la sorveglianza è ferrea, soprattutto per chi fa domande. Ci hanno fermato una dozzina di volte in due giorni. Siamo stati però gli unici ad essere controllati da uomini in borghese già all’imbarco del traghetto. E poi convocati al commissariato, seguiti da agenti in borghese fino a notte fonda. Ci hanno “scortato” per tutto il tempo, severi con noi e ancor di più con le persone che volevano parlare. Un’intimidazione spessa. Mohamed alla fine lo hanno spaventato così tanto, chiamandolo più volte al cellulare, che si è messo a piangere. Così impaurito da avere timore persino di risalire in auto per farsi riaccompagnare al villaggio: a settant’anni ha preferito camminare per sette chilometri. Secondo il suo amico Abdul, che prima della crisi organizzava vacanze al mare per turisti stranieri, il motivo è chiaro: “Non vogliono che parliamo delle persone che vanno in Italia e di quelle che li portano”. Perché? “Ci sono legami con la polizia”, sussurra temendo di essere ascoltato. Ufficialmente le autorità statali tengono alta la guardia. Poche settimane fa al largo di Sfax la Marina ha sequestrato un peschereccio con dodici “clandestini”, tre dei quali ricercati per reati comuni: età tra i 20 e i 46 anni. Ma a bordo c’erano pure due donne e un bambino di sei anni. Per una barca bloccata, altre prendono il largo. In modo invisibile, tanto da dare l’impressione che le complicità non siano episodiche ma un sistema. Che garantisce una rotta sicura non solo ai mercanti di esseri umani ma anche a chi porta armi, droga, sigarette di contrabbando. C’è posto per tutto e tutti, persino per i potenziali terroristi, basta pagare le persone giuste. “Il contatto che lavora in Tunisia chiede ai clandestini di esibire il documento e dopo di che controlla, grazie a un poliziotto compiacente, la loro posizione penale. Se il controllo è negativo, il clandestino paga 5.000 dinari (circa 1.500 euro ndr) se invece è positivo paga da 10 mila dinari (circa 3.000 euro) in su”, ha rivelato un pentito del jihad detenuto a Genova. Sostiene di aver deciso di collaborare per impedire che i kamikaze dell’Isis possano sbarcare in Italia. Ma seguendo le sue indicazioni, la procura di Palermo e i carabinieri del reparto operativo speciale hanno individuato un’organizzazione criminale di tunisini e italiani capace di gestire il traffico di esseri umani, importare tabacchi e far espatriare soggetti ricercati in Tunisia. Ad aiutarli proprio chi avrebbe dovuto sorvegliarli: “Ho qualcuno nel posto di polizia”, ammette intercettato il capo della banda. Del resto spiega il pentito, “a Tunisi loro sono conosciuti da tutti come “figli di Dogghy”, cioè persone di mafia … che incutono timore e hanno contatti con la polizia”. Questa rotta oggi è quella che preoccupa di più la nostra intelligence. Mentre sono pochissimi i barconi di disperati dalla Libia, dalla Tunisia si moltiplicano gli sbarchi occulti. Quasi tutti i giorni gommoni e pescherecci scaricano gente sulle coste italiane e spariscono. “Un fenomeno che va tenuto nella massima considerazione in un’ottica di prevenzione, per evitare l’arrivo in Italia di personaggi che potrebbero avere collegamenti con il terrorismo”, mettono nero su bianco gli 007 nella loro relazione annuale al Parlamento. Non è un allarme teorico. La Tunisia è il paese che ha esportato il maggior numero di terroristi e ora, dopo le sconfitte in Siria e in Iraq, stanno rientrando. In una nazione che visto scomparire l’industria del turismo con l’attentato al Museo del Bardo e il massacro tra gli ombrelloni di Sousse, adesso il contagio può arrivare ovunque. Una giovane, laureata e senza lavoro, si è fatta esplodere nella principale strada intitolata al Padre della Patria. Perché povertà e disillusione sono un argomento sempre più forte per i reclutatori di Al Qaeda e dello Stato islamico. Lo ripetono tutti: la Rivoluzione dei gelsomini ha portato democrazia ma non lavoro. Sognava un paese libero Abderrazak Zorgui un giovane reporter precario. Otto anni fa era andato in piazza e ci aveva creduto. E invece il 24 dicembre, la vigilia di Natale, a 32 anni, ha lasciato il suo testamento in un video girato con il cellulare: “Se scendiamo in strada per chiedere il diritto al lavoro, ci accusano di terrorismo, questo significa dirci solo di tacere e di morire. Qui la gente muore di fame. Non siamo esseri umani? Ci sono regioni in cui le persone sono vive fuori ma morte dentro. Oggi ho deciso che faccio iniziare una rivoluzione. Questa è benzina. Mi do fuoco tra venti minuti”. Le ragioni del suo gesto sono le stesse che nel dicembre 2010 hanno portato il venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi a darsi fuoco e innescare la rivoluzione. E dopo di lui tanti altri lo hanno imitato: la rinuncia alla vita come un unico strumento di protesta. Ancora oggi l’aumento del prezzo del pane, lo stesso motivo che aveva portato alle prime sommosse del 2011, scatena la protesta. Naima guarda il video di Zorgui e piange. Naima è una mamma e dall’ultimo piano di casa sua vede il mare. “Laggiù c’è l’Italia”, ragiona. Fuori sta piovendo e per ripararsi tra i tubi innocenti le è rimasto solo un telone di plastica. Suo figlio Chokri le aveva promesso che per l’inverno ci sarebbe stato il tetto e anche le pareti dipinte d’azzurro, ma Chokri non lavora più. Faceva il parrucchiere a Milano, poi la polizia l’ha rimandato indietro e ora non sa più che fare. “Voglio che torni in Italia in qualsiasi modo, che prenda la barca, che torni là”, chiede Naima. Poi si interrompe e piange: “Da quando è tornato è in uno strano stato mentale, sono molto preoccupata per la sua testa, è molto instabile”. Anche lei teme il peggio. Nonostante la situazione dei suoi cittadini, la Tunisia per altri è quasi un paradiso. I migranti che arrivano qui dall’odissea africana e dalle torture libiche trovano accoglienza. Un grande centro della Mezzaluna Rossa a Medenine, alle porte del deserto, cerca di lenire le ferite dei disperati. Tra loro Nancy, incinta al settimo mese. Credeva di avercela fatta, era riuscita a salpare dalla Libia la scorsa estate. Ma è rimasta in balia delle onde per due settimane perché nessun paese del Mediterraneo autorizzava lo sbarco. “Abbiamo visto i soccorritori, in mezzo al mare ci hanno salvati. Poi ci hanno tenuto due settimane a bordo della nave. Eravamo 40 africani e bengalesi. Noi volevamo andare in Europa, abbiamo pagato 3.000 dinari a persona al trafficante libico. E invece voi non ci volete. Non ci hanno detto perché. Ci hanno solo portato in Tunisia”. Ora vive sospesa in un limbo umanitario: “Qui mi danno da mangiare e i vestiti, ma non c’è lavoro. Non posso mandare soldi alla mia famiglia e dovrò partorire e crescere qui mio figlio. Io voglio andare in Europa, qui non c’è nulla: non c’è un futuro”. Mamadou si nasconde dietro un nome di fantasia per evitare ritorsioni. Non ha ancora diciott’anni e racconta: “Sono in viaggio da un anno e tre mesi. Tutti durissimi. Ho attraversato il deserto del Sahara e sono entrato in Libia. Lì ti picchiano per avere i soldi. Io ho dovuto telefonare ai miei genitori, che hanno mandato il denaro per la mia liberazione. Ma dopo mi hanno preso altri banditi. Mi hanno fatto lavorare senza pagarmi, minacciandomi e colpendomi con il calcio dei fucili, ho dovuto bere l’acqua salata e mi sono ammalato, vedi?”. Si alza la maglietta e mostra un fisico scheletrico, con le tracce dei pestaggi. “A Zwara aspettavo la barca per andare in Europa, mi avevano detto così e invece si sono mangiati i miei soldi. Poi sono scappato, ma la polizia mi ha preso e mi ha messo in prigione. Anche lì mi hanno obbligato a lavorare: mi davano da mangiare una volta al giorno. Quando sono fuggito ho camminato fino al confine e sono passato a piedi in Tunisia. Qui è meglio che in Libia: c’è la libertà, ma non c’è lavoro. Per ora ho dimenticato l’Europa, ma devo guadagnare per me e per rimborsare i debiti della mia famiglia. Poi cercherò di partire: voglio realizzare il mio sogno. Altrimenti la vita non ha senso”. Droghe. “Festival della cannabis a Milano, la pubblicità è odiosa e pericolosa” di Zita Dazzi La Repubblica, 28 aprile 2019 Anche Sala interviene sul manifesto “Io non sono una droga”. Per gli organizzatori “lo slogan strumentalizzato, tra due giorni per fortuna sparirà”. “Io non sono una droga”. Una foglia di canapa indiana con sopra questa scritta è l’immagine scelta per la campagna pubblicitaria della prossima fiera “4.20 Hemp Fest” dedicato ai molteplici usi della cannabis, che si terrà a Milano, dal 3 maggio, con 150 espositori internazionali negli East End Studios di via Mecenate. Un logo forte che ha scatenato polemiche e sul quale è più che perplesso anche il sindaco Giuseppe Sala. Ieri mattina a margine della Colazione a Stadera, a sud di Milano, l’ha criticata: “Al festival si parla di canapa industriale, e questa è una realtà. Ma il manifesto è sbagliato, odioso, pericoloso perché un ragazzo giovane non distingue, vede una foglia di canapa, e può arrivare a pensare che la marijuana sia legale”. Per questo il Comune si è rivolto all’Agcom, che non ha ancora risposto, segnalando il manifesto. “Poi ho chiesto al vicesindaco di parlare direttamente con i promotori del festival chiedendo loro di intervenire immediatamente per togliere quelle pubblicità - ha concluso. Non credo che si possa vietare l’evento, ma il manifesto non va assolutamente bene: quindi che lo si rimuova e una cosa del genere non abbia più a ripetersi”. Proteste ce ne sono state a valanga a partire dall’assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, Riccardo De Corato (FdI): “Fuori tempo massimo, inopportune e con davvero poco senso. Non ci resta che definire così le parole di Sala. Faccia togliere i manifesti senza aspettare Agcom”. Nella stessa direzione le parole di Maria Stella Gelmini (Forza Italia) che chiede proprio di “impedire “il Festival della cannabis a Milano perché a Milano, una delle città dove si consuma e si spaccia più droga in Europa, servono educazione, informazione, prevenzione”. Idem Giorgia Meloni, leader di FdI, che parla di “messaggio devastante” e di “ignobile propaganda della droga libera”. Da sinistra, nei giorni scorsi anche il Pd si era mosso, chiedendo attraverso la consigliera Alice Arienta la rimozione della “pubblicità ingannevole che sta accompagnando l’evento, messaggio fuorviante con cui si vuole normalizzare il consumo di sostanze psicotrope”.ù Di fronte al diluvio di proteste, Marco Russo, imprenditore del settore e promotore della fiera, smentisce che si tratti di un festival: “È un evento fieristico durante il quale si terranno anche conferenze sul tema legislativo e terapeutico, oltre che esposizione di prodotti da un settore industriale che produce milioni di fatturato e migliaia di posti di lavoro. Una pianta che viene ingiustamente demonizzata”. Sulle parole del sindaco, Russo va cauto: “È stato molto comprensivo e questa cosa ci fa piacere perché ha individuato e compreso che l’evento non ha attitudini illegali. Lui commenta solo il claim pubblicitario che è stato strumentalizzato, dato che è accompagnato da altri 29 claim su la canapa come base per fabbricare carta, come alimento, combustibile, materiale per la bioplastica, la bioedilizia, oltre a tutto quello che può essere a livello terapeutico e industriale”. Comunque, anche gli organizzatori adesso aspettano la fine della campagna di comunicazione “che finirà in base agli accordi prestabiliti con agenzia pubblicitaria, per fortuna o purtroppo, tra due giorni”. I manifesti della discordia spariranno dalla circolazione. Spagna. Barcellona, il comizio dei leader indipendentisti è in diretta dal carcere di Francesco Olivo La Stampa, 28 aprile 2019 A Madrid la macchina elettorale è già in marcia. Stamattina alle 8 si aprono i seggi in tutto il Paese, politici e giornalisti si passano sondaggi impubblicabili, che fra poche ore diventeranno vecchi e inutili. Qualche centinaia di chilometri più a est, le schede sono pronte, ma lo scenario cambia. L’indipendentistmo catalano, senza perdere consensi (lo dicono i sondaggi), affronta le sue contraddizioni storiche: vuole lasciare la Spagna ma punta a essere decisivo nel parlamento di Madrid. Esquerra Republicana e Junts per Catalunya di Puigdemont lottano, lo schema è antico, per la supremazia del proprio spazio. La battaglia si gioca su più fronti, prigioni comprese. Con un rischio comune: i socialisti possono vincere anche in Catalogna. O peggio: dietro l’angolo c’è la destra che promette vendette. A Badalona lo schermo è diviso in due: sulla parte destra c’è Oriol Junqueras, il leader del partito, in collegamento dal carcere di Soto del Real (Madrid), a sinistra appare Marta Rovira, ex braccio destro del leader, oggi “esiliata” in Svizzera al riparo dai provvedimenti, mai teneri, della giustizia spagnola. I due non si vedono da più di un anno e approfittano per salutarsi, mandarsi baci e abbracci virtuali, prima di cominciare il comizio. Poco dopo, compare l’ex “conseller” Raul Romeva, già capo di una complicata diplomazia catalana. Qualche chilometro più in là, al centro culturale del Born di Barcellona, sulle rovine mitizzate della battaglia del 1714, la scena è simile, ma i protagonisti diversi. L’”esilato” che saluta è l’ex presidente della Catalogna Carles Puigdemont, mentre dietro le sbarre (ma dentro lo schermo) ci sono Jordi Sànchez e gli ex “ministri” Josep Rull, Jordi Turull e Quim Forn. Di qua e di là, il pubblico si alza in piedi e invoca la “libertà per i prigionieri politici”. Sono comizi organizzati con pochissimo preavviso, solo quanto cioè la giunta elettorale e la direzione delle carceri dà il via libera. Ma il popolo “indepe” è mobilitato: in poche ore si riempiono teatri e palazzetti. Lontano da Madrid, in tutti i sensi, la campagna elettorale spagnola è stato anche questa, tra le anomalie provocate dalle continue tensioni territoriali. Non si tratta di manifestazioni di poco conto, perché, se i sondaggi ci hanno azzeccato, stasera Pedro Sanchez dovrà fare i conti con questi signori per restare il capo del governo. Tutte le previsioni, infatti, coincidono sul fatto che socialisti e Podemos non avranno i seggi sufficienti per la maggioranza assoluta, così, almeno che il Psoe non faccia un giro di valzer clamoroso alleandosi con Ciudadanos, in qualche maniera i negoziati andranno portati avanti anche con questi signori rinchiusi e processati dal Tribunale Supremo, con richieste di condanna che arrivano a 25 anni. Sanchez, comprensibilmente, spera che ciò non avvenga e fino alla fine, venerdì mattina in un’intervista all’emittente radiofonica “Cadena Ser”, ha invocato il voto utile “per non dover dipendere dagli indipendentisti, dei quali non ci si può fidare”. La destra poi è pronta a gridare alla complicità dei socialisti con i protagonisti di “un golpe”. Ovvio che a Barcellona (e nelle carceri di Madrid) il ragionamento è opposto. Junqueras e, con molta meno convinzione Puigdemont, hanno fatto sapere che l’obiettivo è non far governare il tripartito di destra (Popolari, Ciudadanos e Vox) che hanno già promesso la mano durissima sull’autonomia catalana. Certo, che questi appoggi non saranno gratis. Con una certa ambiguità, tipica da queste parti, i secessionisti catalani lasciano intendere che per mettersi d’accordo bisogna parlare del referendum di autodeterminazione. Una richiesta considerata irricevibile dai socialisti che, anche volendo, non posso permettersi un azzardo simile, senza vedere la destra in piazza e mezzo partito in rivolta. Insomma, no e poi no. Ma Sanchez sa che per i due partiti indipendenti, in perenne lotta tra di loro, l’alternativa di un governo di destra, a maggior ragione con l’appoggio di Vox, è un’ipotesi troppo pericolosa, anche per Puigdemont, accusato spesso di prediligere il “tanto peggio, tanto meglio”. Perdere di fatto l’autonomia catalana, “a tempo indefinito”, come ripetono nel blocco conservatore, è una responsabilità troppo grande. Nella prigione di Madrid ci sperano: “Dovranno venire qui a negoziare”. Libia. Tra le macerie di Bengasi: distrutti tutti gli edifici costruiti dall’Italia coloniale di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 aprile 2019 Non c’è casa, edificio, o strada che non sia gravemente danneggiato. Dopo tre anni di battaglie il cuore della città è quasi tutto da ricostruire. La domanda che viene spontanea osservando le rovine del centro storico di Bengasi riguarda direttamente le operazioni militari dell’esercito di Khalifa Haftar in questo momento contro le milizie che difendono il governo di Fayez Sarraj a Tripoli. “Se Haftar ha impiegato tre anni per scacciare le milizie islamiche asserragliate in soli tre quartieri in centro Bengasi causando enormi distruzioni e forse oltre 1.000 morti, quanto costerà la presa di Tripoli e quanto tempo durerà la guerra?”. Viene naturale chiedersi di fronte alle macerie di quello che sino al 2014 fu uno dei centri storici più ricchi di imponenti edifici costruiti dall’Italia coloniale, secondo solo a quello di Tripoli. Giriamo per le vie dominati dallo stupore. Non c’è casa, edificio, o strada che non sia gravemente danneggiato. Dopo tre anni di battaglie il cuore della città è quasi tutto da ricostruire. Qui eravamo arrivati da giornalisti verso il venti di febbraio del 2011, solo tre o quattro giorni dall’inizio dell’ondata di proteste contro la dittatura di Muammar Gheddafi. Il capoluogo della Cirenaica si era imposto subito come il motore primo della “Primavera araba” in versione libica. Le truppe di Gheddafi se ne erano appena andate. La zona tra il tribunale principale, la banca centrale, la lussuosa Omar el Mukhtar street vero centro commerciale con le vie colonnate, gli edifici coperti di marmo, l’architettura italiana delle piazze costellate di fontane e giardini, avevano visto le prime manifestazioni di protesta, i graffiti, i canti e gli inni alla libertà. Vicino all’imponente edificio del tribunale si erano insediati i portavoce dei ribelli, stavano la ventina di intellettuali che cercavano di dare una guida e un corpo dirigente alle rivolte spontanee. Tutto questo dopo i combattimenti durati dal 2014 al 2017 è adesso solo macerie, rovine, case bruciate, chiese devastate, negozi sventrati, traversine arrugginite e strade vuote. In quelle battaglie contro i gruppi legati ai Fratelli Musulmani, jihadisti inveterati, persino estremisti violenti decisi a morire per la guerra santa, ma anche più semplicemente oppositori all’eventualità di un ritorno a un regime simile a quello di Gheddafi, Haftar aveva forgiato il suo nuovo esercito. Aiutato soprattutto dall’Egitto, era riuscito a soffocare lentamente il traffico di barche tra il tratto di costa di fronte ai quartieri contesi e la città di Misurata. Ma la battaglia si era prolungata senza esclusione di colpi. Ora ci vorranno investimenti enormi e grandi sforzi per ricostruire la città. Tanti tra le milizie che si erano battute contro il suo esercito sono ora impegnate a Tripoli. La zona urbana della capitale è però molto più vasta che non Bengasi. Certo Haftar conta sulle simpatie che lui indubbiamente gode tra una parte degli abitanti di Tripoli per prendere alle spalle i suoi nemici. Ma tutto ciò non toglie che proprio camminando per la Bengasi in rovine ci si debba preoccupare per il futuro di Tripoli. È da sperare che oggi non si precipiti in dinamiche belliche molto simili, ma in scala ancora più grave. Lorenzo Cremonesi Arabia Saudita. Cnn: sciiti giustiziati dopo confessioni estorte, Trump resta in silenzio di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 aprile 2019 Il silenzio della Casa Bianca non si è rotto neppure dopo la presa di posizione della commissione governativa sulla libertà religiosa che ha esortato il Dipartimento di Stato “a smettere di dare un perenne lasciapassare” al regno dei Saud. Non un commento, non una parola. Donald Trump continua a restare in silenzio davanti all’esecuzione - un vero e proprio bagno di sangue - avvenuta a inizio settimana nell’alleata Arabia saudita, di 37 cittadini accusati di “terrorismo”, la maggior parte dei quali appartenenti alla minoranza sciita, oppressa dalle autorità sunnite wahhabite. Uno dei giustiziati, Khaled Abdulkarim Saleh Al Tuwaijri, è stato crocifisso e il suo corpo, e pare anche quello di un altro condannato, è stato esposto in pubblico con la testa infilzata in una picca. Tra coloro che sono stati decapitati non figura nessuno dei responsabili del brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, strangolato e fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul lo scorso 2 ottobre. Una eliminazione di cui il principe ereditario Mohammad bin Salman è considerato il mandante. Un’accusa che sostiene anche la Cia ma che Trump ha ignorato. Il silenzio della Casa Bianca non si è rotto neppure dopo la presa di posizione della commissione governativa statunitense sulla libertà religiosa che ha esortato il Dipartimento di stato “a smettere di dare un perenne lasciapassare” al regno dei Saud, alla luce anche del suo rapporto annuale che classifica l’Arabia Saudita tra “i paesi di particolare interesse” per le violazioni della libertà religiosa contro i quali Washington attua misure punitive. “L’esecuzione da parte del governo saudita di musulmani sciiti sulla base della loro fede non è solo scioccante ma contraddice anche la narrazione del governo di lavorare per il miglioramento delle condizioni attuali di libertà religiosa”, ha dichiarato il presidente della commissione, Tenzin Dorjee. Inutile farsi illusioni. Trump, più dei suoi predecessori, continuerà ad accordare totale impunità e immunità all’Arabia saudita responsabile di gravissime violazioni di diritti umani e politici. Riyadh è un pilastro dell’ordine mediorientale a danno di Iran, Siria e palestinesi proposto dall’”Accordo del secolo”, il piano che l’Amministrazione Usa dovrebbe annunciare a giugno. Un nuovo ordine che vedrà dominanti nella regione Israele e, appunto, Arabia saudita. Senza dimenticare la vendita ai Saud di armi di fabbricazione americana per dozzine di miliardi di dollari. Non servirà a far cambiare idea al presidente la notizia, diffusa dalla Cnn, che dozzine di cittadini messi a morte nei giorni scorsi avevano denunciato, nel corso dei processi, di essere stati brutalmente torturati e costretti a confessare durante gli interrogatori di aver attaccato impianti di sicurezza con esplosivi, di aver ucciso agenti di polizia e di aver collaborato con “organizzazioni nemiche” contro gli interessi del paese. Gli atti processuali ottenuti dalla Cnn, rivelano che uno dei giustiziati, Mohammed al Musallam, aveva riferito alla corte di aver subito percosse e lesioni multiple mentre veniva interrogato dagli uomini dei servizi di sicurezza. “Nella mia confessione non c’è niente di vero. Ci sono referti medici dell’ospedale di Dammam e chiedo che siano presi in esame poiché dimostrano le conseguenze delle torture sul mio corpo”, aveva detto invano ai giudici. Anche Munir al Adam, un ragazzo di 27 anni parzialmente cieco e sordo, aveva smentito di aver confessato: “Non sono le mie parole, non ho scritto un sola lettera, l’ha fatto la persona che mi ha interrogato”. Mujtaba al-Sweikat, che aveva solo 17 anni al momento dell’arresto nel 2012, dopo aver partecipato a delle proteste. “È stato sottoposto ad abusi che gli hanno tolto ogni forza. Mio figlio ha firmato la confessione per fermare le torture che stava subendo”, ha raccontato il padre. Sweikat si stava preparando a partire per gli Stati Uniti, dove era stato ammesso alla Western Michigan University, quando venne arrestato all’aeroporto e posto in isolamento totale per 90 giorni. L’anno scorso il regno dei Saud ha eseguito 149 condanne a morte. Alcuni ricordano che il vicino Iran ha giustiziato un numero più elevato di persone nel 2018 ma l’Amministrazione Usa mentre condanna le politiche interne e nella regione di Tehran, resta in silenzio di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani dell’Arabia saudita, impegnata inoltre in una sanguinosa campagna militare in Yemen costata la vita a migliaia di civili.