Il carcere e la cesura dei legami affettivi di Carlo Alberto Romano* Alias - Il Manifesto, 27 aprile 2019 Esiste una incompatibilità strutturale fra l’universo femminile e quello penitenziario, tradizionalmente restio a lasciarsi contaminare da qualsiasi elemento estraneo alla sua, presuntivamente ritenuta naturale, ruvidezza maschile. Incompatibilità del resto facilmente rinvenibile nella storia più o meno recente dell’istituzione carceraria anche (e per certi versi, diremmo, soprattutto) del nostro Paese. Dopo l’unità d’Italia, in materia carceraria furono discussi, e solo raramente varati, diversi progetti di riforma, per giungere fino all’approvazione del regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1891, che rappresentò il testo base delle istituzioni penitenziarie di una Italia neoliberale ma poco liberatoria: cubicoli ristrettissimi destinati alla punizione, celle senza luce e senza ventilazione diretta, tavolacci per giaciglio. Se dopo la II guerra mondiale, la illuminata visione dei Padri Costituenti, condensata nella felice intuizione che diede origine all’Art. 27, III comma della Costituzione, sancì il principio rieducativo della pena e lo fece assurgere all’apice della gerarchia normativa, la speranza in un sistema penitenziario attento a non ignorare la specificità dei bisogni femminili venne frustrata dalla insuperabile tendenza a teorizzare il carcere in chiave maschio-centrica, manifestata anche dopo la Riforma del 1975 e addirittura anche dopo il Regolamento del 2000, il progetto normativo che in modo più convinto provò ad aggredire la coriacea scorza conservatrice del sistema penitenziario italiano, divenendo il primo testo in cui venne riconosciuta l’esigenza (peraltro poco esaudita) di dotare le celle di un accessorio del tutto sconosciuto al mondo carcerario e dalla dirompente modernità: il bidet. Così, mentre la considerazione verso il mondo del carcere, soprattutto dopo le condanne comminate della Cedu al nostro Paese per le inidonee condizioni detentive, andava aumentato in consistenza, il Legislatore e l’opinione pubblica, hanno sempre rivolto maggior attenzione alle esigenze dei maschi reclusi, stipati in locali vergognosi e privati della dignità propria di ogni essere umano. E i riferimenti al genere femminile si sono succeduti solo sporadicamente o casualmente nel sistema - carcere, tendenzialmente incapace di guarire le ferite, tipicamente femminili, da pregressa vittimizzazione. Un sistema che continua a recidere con inquietante precisione chirurgica i legami affettivi, chiusi all’esterno dei rumorosi cancelli di ferro la cui riapertura, un giorno, non fornirà alcuna garanzia di recupero di quegli stessi legami, messi a dura prova dalla lontananza e, forse ancor più, da una vicinanza fittizia, inscenata per poche ora al mese. Un sistema che consapevolmente aggredisce le matrici identitarie dei reclusi e non fa sconti neppure alla più significativa fra le esigenze di integrità: quella della identità genitoriale, qualificando irreversibilmente la cornice valoriale da cui scaturiranno i tratti salienti del futuro rapporto con i figli. La carcerazione femminile, fra le tante forzature che presuppone, ne lascia emergere una in modo più evidente, ed è proprio il tentativo di compressione della femminilità, agito in modo più o meno palese dal carcere, attraverso l’indebolimento delle risorse identitarie. Eppure nessun testo normativo ha mai autorizzato il sistema carcere a limitare lo sviluppo della personalità umana, tantomeno se declinata al femminile. Anzi, la pena individualizzata, e quindi consapevole delle differenze, anche di genere, dovrebbe essere lo strumento indispensabile per il perseguimento dell’obiettivo rieducativo, costituzionalmente sancito. Non stupisca quindi la asserita incompatibilità strutturale fra i due universi; l’accorato appello di Goliarda Sapienza (L’Università di Rebibbia, Rizzoli, 2006) nell’affrontare i rigidi meccanismi del carcere mediante una rinuncia, evocata al grido …da oggi la fantasia mi sia nemica… diviene un progetto di sopravvivenza fra le mura del carcere, arcigno valico di frontiera fra l’affermazione della propria identità e il rassegnato asservimento di regole tanto meno necessarie quanto più immodificabili. E se emerge un elemento descrittivo e definitorio di questa iniziativa, pensata e voluta da Renato Corsini, ci pare sia proprio quello della volontà e capacità, tutta femminile, di attraversare quotidianamente questo valico, più o meno consapevolmente, con gli eloquenti gesti, che le fotografie di Corsini ci svelano. *Docente di Criminologia penitenziaria, Università degli Studi di Brescia Un accordo per limitare il “carrello della felicità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2019 Firmato dalla Sifo e dal Coordinamento degli operatori della salute nelle carceri. “Carrello della felicità”: così viene chiamata, in gergo penitenziario, la distribuzione di psicofarmaci che spesso si trasforma in un abuso terapeutico. Metà dei detenuti assumono i farmaci, per la maggior parte ansiolitici. Per questo motivo si è deciso di migliorare l’assistenza farmaceutica penitenziaria, promuovere studi e ricerche e azioni normative per la regolamentazione delle attività di farmaceutica nelle carceri, anche identificando aree di necessità e relative proposte regolatorie da sottoporre congiuntamente agli organismi istituzionali preposti. Questi gli obiettivi di un accordo firmato a Roma dalla Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (Sifo) e dal Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane (Co. n. o. s. c. i), per mano dei due presidenti Simona Serao Creazzola e Sandro Libianchi. Secondo uno studio su un campione di 16.000 detenuti, nel 67,5% dei casi esiste una situazione patologica. I detenuti italiani sono affetti soprattutto da disturbi psichici incluse le patologie da dipendenza, da malattie dell’apparato digerente e da malattie infettive; inoltre i reclusi che assumono almeno un farmaco sono 8.296 (oltre il 55% del campione), con una media di 2,8 farmaci per persona (tra i più diffusi ci sono gli ansiolitici, gli antipsicotici e gli antiepilettici). “Il settore della sanità penitenziaria è indubbiamente un ambito negletto, in quanto sono solo 10 anni che la responsabilità dell’assistenza sanitaria è passata in carico alla sanità regionale, mentre prima era in capo al ministero di Grazie e Giustizia”, ha spiegato Libianchi, presidente di Co. n. o. s. c. i e responsabile medico nel carcere di Rebibbia. Con l’accordo, le due associazioni si impegnano ad avviare progetti di ricerca, di formazione e confronto, quali convegni, seminari, tavole rotonde e meeting, pubblicazioni sui temi coerenti con l’ambito penitenziario, ma anche “iniziative di informazione e documentazione utili all’aggiornamento e approfondimento dei temi sulla salute in ambito penitenziario, anche attraverso campagne di sensibilizzazione, divulgazione e di creazione di nuovi modelli gestionali da mettere a disposizione delle autorità sanitarie competenti”. La collaborazione Sifo-Conosci proviene dalla realizzazione di una sessione congiunta inserita nel programma del XXXIX Congresso della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera svoltosi a Napoli a novembre 2018, evento che ha coinvolto anche la Simspe e diversi altri medici e farmacisti operanti nelle realtà penitenziarie che hanno portato la loro esperienza: si è trattato del primo evento in Italia dedicato alla farmaceutica penitenziaria. L’accordo è importante visto che potrebbe regolamentare anche un problema sotterraneo nelle prigioni italiane: l’abuso degli psicofarmaci. In carcere lo chiamano “il carrello della felicità”. Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico. Spesso - va detto - si tratta di cure indispensabili per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte, invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un “contenimento di Stato”, come lo definiscono alcuni agenti penitenziari e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i luoghi di pena e i lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e dolore. Interrogatori con maltrattamenti in un terzo dei Paesi della Ue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2019 Rapporto annuale del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Mykola Gnatovskyy, presidente del Cpt: “in alcuni Paesi sono stati compiuti progressi significativi, ma occorre fare molto di più per sradicare questo fenomeno”. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha sottolineato la necessità che le forze di polizia in Europa migliorino il modo in cui i sospettati vengono interrogati durante le indagini. Nel suo rapporto annuale, il Cpt indica che in alcuni paesi i colloqui di polizia sono ancora finalizzati all’ottenimento di confessioni, aumentando così il rischio di maltrattamenti, mentre dovrebbe essere focalizzato sull’ottenimento di informazioni accurate e affidabili sulle questioni oggetto di indagine. Il Comitato ha sottolineato che, comunque, nella maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa, la maggior parte delle persone detenute con cui hanno parlato le delegazioni del Cpt non ha subito alcun tipo di abuso da parte della polizia. Accoglie anche miglioramenti significativi in tutto il continente per prevenire i maltrattamenti della polizia. Tuttavia, il Cpt osserva che i maltrattamenti durante l’interrogatorio rimane un problema molto serio in un numero significativo di paesi. Negli ultimi dieci anni, e riguarda quasi un terzo degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il Comitato ha ricevuto accuse di maltrattamenti della polizia che potrebbero essere qualificati come tortura. Al fine di evitare maltrattamenti da parte della polizia, la relazione raccomanda alle autorità nazionali di sviluppare regole chiare o linee guida sull’esecuzione dell’interrogatorio da parte della polizia basate su un diverso approccio d’indagine investigativa. Tale approccio deve essere “non accusatorio”, riducendo così il rischio di errori umani e false confessioni. Questo tipo approccio è stato sviluppato in diversi stati membri del Consiglio d’Europa e ha ispirato il Cpt nel suo lavoro di monitoraggio. Mykola Gnatovskyy, presidente del Cpt, ha dichiarato: “In alcuni paesi sono stati compiuti progressi significativi nella prevenzione dei maltrattamenti di polizia, ma occorre fare molto di più per sradicare questo fenomeno nell’intera area del Consiglio d’Europa. Non possiamo aspettarci alcun cambiamento significativo della cultura all’interno dei servizi di polizia a meno che non ci sia un forte impegno a livello nazionale, una maggiore responsabilità della polizia e un approccio moderno per quanto riguarda gli interrogatori della polizia”. Inoltre, la relazione del Cpt incoraggia gli Stati a seguire una tendenza osservata in alcuni paesi di mantenere le persone sotto custodia della polizia in strutture di detenzione centralizzate della polizia piuttosto che in celle di polizia (le celle di sicurezza) in stabilimenti più piccoli. Il Cpt ha spesso ottenuto un’impressione positiva del funzionamento di tali strutture centrali di detenzione della polizia. Un’altra misura raccomandata è quella di avere un personale di custodia designato che abbia anche il compito di supervisionare l’attuazione pratica delle garanzie fondamentali contro i maltrattamenti (notifica della custodia, accesso a un avvocato, accesso a un medico). Nel corso del 2018 il Cpt ha organizzato 18 visite agli stati membri. Otto sono state visite regolari e dieci sono state effettuate visite ad hoc per esaminare questioni specifiche. Nel 2020 il Comitato intende effettuare visite periodiche in Azerbaigian, Finlandia, Germania, Repubblica di Moldavia, Monaco, Serbia, Spagna e Svezia. Sovraffollamento, dalla Finlandia il modello virtuoso delle “carceri aperte” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2019 Alla Conferenza del Consiglio d’Europa esposte le foto della giornalista Raphaëlle Duroselle. Il 25 aprile si è conclusa la conferenza del Consiglio d’Europa sul sovraffollamento carcerario. In contemporanea, e non è un caso, hanno allestito una mostra fotografica sulle carceri aperte finlandesi. La giornalista e fotografa francese Raphaëlle Duroselle ha immortalato per una settimana la routine quotidiana delle detenute della prigione di Vanaja e dei detenuti nella prigione di Ojoinen in Finlandia per la sua mostra “Ritorno al muro”. L’obiettivo della serie di foto è quello di sollevare un dibattito e promuovere lo sviluppo di un sistema carcerario aperto in Francia e, perché no, anche in tutta Europa. Ma perché proprio la Finlandia? Negli anni 70 aveva le carceri più affollate d’Europa. Oggi, in poco più di 30 anni, ha dimezzato il suo tasso di detenzione ed è diventata un modello da imitare. La prima parola d’ordine? Ridurre il tempo trascorso in carcere. In Finlandia, tutti i detenuti beneficiano della libertà condizionata. L’unica eccezione: i recidivi considerati particolarmente pericolosi. In totale, ogni anno il 99% dei detenuti esce sulla parola: la maggior parte dei trasgressori viene rilasciata dopo aver scontato la metà della pena; i recidivi vengono rilasciati a due terzi della loro pena; i giovani autori di reato (dai 15 ai 20 anni) vengono rilasciati e la maggior parte dopo 1/3 della pena. La decisione di concedere la libertà provvisoria secondo le regole sopra esposte è di competenza del direttore del carcere. Tuttavia, per i casi più gravi, la decisione di rilascio condizionale spetta alla Corte d’appello di Helsinki: i condannati ad effettuare tutta la loro condanna in carcere vengono rilasciati dopo l’esecuzione dei 5/ 6 della pena (e almeno tre anni di privazione della libertà), mentre i condannati al carcere a vita (per un numero molto limitato di reati, quali l’omicidio) possono essere rilasciati dopo aver scontato almeno 12 anni di reclusione. Il tempo della libertà condizionale non può essere inferiore a tre mesi né superiore a tre anni. Esiste poi una nuova procedura di liberazione anticipata chiamata ‘ libertà vigilata sotto sorveglianza” progettato per i detenuti a lungo termine che necessitano di un monitoraggio più assiduo, basato anche sul controllo elettronico, che è stato introdotto in Finlandia non come una punizione aggiuntiva ma come un mezzo tecnico utilizzato in diverse fasi della condanna penale. Dal 2001 è stata applicata questa procedura per monitorare i detenuti che lavorano al di fuori del carcere: il detenuto riceve un telefono cellulare che gli permette solo di contattare il carcere e la centrale di allarme; l’apparecchio funziona da dispositivo di rilevamento del luogo in cui si trova il detenuto. Questi deve chiamare periodicamente il carcere, dal carcere possono essere effettuate chiamate senza preavviso al detenuto. Il controllo attraverso il cellulare è ovviamente diverso dal sistema di monitoraggio con braccialetto elettronico utilizzato da alcuni paesi europei come il nostro. È sia meno costoso per l’amministrazione penitenziaria, sia meno stigmatizzante e più accettabile per i detenuti. Il carcere, inoltre, è aperto: non ci sono cancelli, serrature o uniformi. C’è ad esempio il carcere di Kerava, dove i detenuti lavorano nella serra e allevano gli animali. Ricevono otto euro l’ora, hanno il cellulare, fanno la spesa in città e hanno diritto a tre giorni di riposo ogni due mesi. Pagano l’affitto, possono scegliere di andare all’università in città piuttosto che lavorare e ricevere il contributo di sussistenza. A volte, con i supervisori, vanno in campeggio o a pescare. Il graduale reinserimento nella vita normale, offerto dalle carceri aperte, ha davvero funzionato: il tasso di recidività è infatti sceso del 20% circa. Meno detenuti, meno recidiva e nessun aumento della criminalità. L’avvocato Conte (e i suoi ministri) all’esame di garantismo di Annalisa Chirico Il Foglio, 27 aprile 2019 La frase sugli “ismi” è voce dal sen fuggita. Ma dietro c’è una visione illiberale della giustizia. Pareri di penalisti e giuristi. L’ha detto davvero? Giuseppe Conte, il giurista Conte, l’autoproclamato “avvocato del popolo”, insomma lui, il presidente del Consiglio, ha scandito proprio quelle parole? Gli avvocati non hanno gradito. Intervistato dal Corriere della Sera in merito alle dimissioni di Armando Siri, richieste dal M5s, Conte afferma che l’interessato ha “il diritto ma anche il dovere di interloquire con il suo presidente”, e poi distilla la perla: “Niente ismi. Per principio non sono né per il giustizialismo né per il garantismo che riflettono visioni manichee”. Se la dichiarazione di “equidistanza” fosse stata pronunciata da Luigi Di Maio, la vicenda sarebbe stata derubricata a gaffe di un ministro a basso tasso di istruzione (del resto lui, sempre sul caso Siri, aveva già spazzato via ogni dubbio sui propri rudimenti di diritto affermando, apertis verbis, che spetta all’indagato dimostrare in giudizio la propria innocenza). In questo caso, però, l’equiparazione degli opposti “ismi” proviene dall’avvocato per antonomasia, al giurista cresciuto a pane e codice, allievo di Guido Alpa. “Per un professore di Diritto una tale affermazione è sorprendente”, dice al Foglio Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, “Conte non è persona estranea alla materia, sa bene che il garantismo affonda le radici nel Diritto costituzionale e, in generale, nel Diritto penale liberale. La dichiarazione di equidistanza da garantismo e giustizialismo sarebbe di per sé grave se provenisse da un politico non consapevole della materia, ma quando proviene da un giurista è sconcertante. Dobbiamo concludere che siamo nelle mani di chi ha un’idea non costituzionale del processo penale”. Che cos’è il garantismo? “Si manifesta nel rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza che ispira il diritto processuale penale nella sua interezza. Come può un principio costituzionale peccare di manicheismo? O si crede nel principio di non colpevolezza, con ciò che ne consegue, oppure si opta apertamente per il giustizialismo che sovverte quel principio, non esiste una terza opzione. E la precisazione del premier”, prosegue Caiazza, “non è una pruderie salottiera. Prende piede in modo sempre più evidente un’idea del processo come luogo dove consumare, il più rapidamente possibile, la conferma della presunzione di colpevolezza dell’indagato, non solo nel confronto culturale ma anche nelle proposte di legge. È l’impostazione Davigo: se una persona arriva a essere indagata, o addirittura rinviata a giudizio, quel provvedimento contiene già in nuce una seria valutazione della probabilità di colpevolezza. Il giudizio viene anticipato dal lavoro dell’inquirente. Invece la concezione garantista del processo è esattamente opposta: il processo va celebrato come se l’indagato fosse innocente perché la storia millenaria del pensiero umano si è posta il problema del processo come strumento volto a evitare che un innocente sia ingiustamente punito. Dal principio “in dubio pro reo” del Codice giustinianeo fino alle più moderne elaborazioni della formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il diritto penale liberale fissa le condizioni di verifica della fondatezza dell’ipotesi accusatoria”. La visione panpenalista del governo - E il provvedimento licenziato da questo governo più emblematico di questa visione panpenalista, secondo Caiazza, è “la cosiddetta ‘spazza corrotti’, una concezione lontana dall’alveo costituzionale. Siamo alle solite: il diritto penale è inteso come una clava con cui sferrare colpi e non invece come la ‘Magna Charta del reo’, la codificazione di una serie di norme a definizione dei limiti entro i quali lo stato può intervenire nella vita delle persone”. Secondo Vinicio Nardo, del foro milanese, già segretario dell’Ucpi, “il premier ha detto una supercazzola, anche se forse l’espressione è inopportuna. Mi sembra tuttavia in linea con l’attitudine di questo governo anche in ambiti come l’economia, la politica estera, l’immigrazione. La questione non riguarda gli ‘ismi’ ma il rapporto tra politica e giustizia. Come già accaduto con i governi precedenti, anche quello attuale tende ad affrontare il problema difendendo i propri e attaccando gli altri”. Prosegue Vinicio Nardo: “Non è manicheismo ma è un problema sostanziale che nell’intervista citata Conte ha eluso. Se una giunta comunale o regionale può essere mandata a casa per un avviso di garanzia, non si può far finta di niente se poi, a distanza di qualche mese o anno, la stessa giunta viene riabilitata da una sentenza di assoluzione. Ciò ha a che fare con la qualità di una democrazia, non con le desinenze. E poi, mi lasci dire, un avvocato è per definizione garantista. Conte si è autodefinito “avvocato del popolo”, esattamente come Robespierre che poi sappiamo com’è finito”. Un tempo quelle parole ce le saremmo aspettate da un Di Pietro o da un Ingroia. “La matrice culturale è identica, non mi meraviglio. In generale, grillini e leghisti difendono i propri inquisiti e attaccano gli avversari. L’unico partito a non difendere neppure i propri accoliti è il Pd”. Per il caso Siri il segretario dem Nicola Zingaretti ha annunciato una mozione di sfiducia. “Con la mozione di sfiducia i dem fanno i manichei più dei manichei. La verità è che nello scontro tra i due ‘ismi’ sta vincendo il giustizialismo”. Assai critico è pure Beniamino Migliucci, del foro di Bolzano, già presidente dell’Ucpi: “Da quando i gialloverdi sono al governo, non mi stupisco più di nulla. Se Conte si proclama ‘avvocato del popolo’, io mi dichiaro assai preoccupato a esser difeso da lui. Come si possono porre sullo stesso piano due concetti totalmente opposti? Il giustizialismo è il rifiuto delle regole poste a presidio dell’individuo e della persona in una democrazia liberale. Il garantismo invece significa rispetto di tali garanzie. La nostra Costituzione è ispirata a questi princìpi, racchiusi, in particolare, nel ‘giusto processo’ all’articolo 111 e nella presunzione di innocenza all’articolo 27. Un avvocato, che possa definirsi tale, dovrebbe difenderli con forza. Inoltre, non essendo stato smentito da nessun ministro, si deve ritenere che il Conte-pensiero sia quello del governo nel suo insieme, dunque abbiamo un esecutivo che ha scelto il giustizialismo inteso come processo sommario, presunzione di colpevolezza e rifiuto delle regole poste a presidio di una sentenza giusta”. Se la narrazione populista sembra vincente, il fronte garantista deve fare autocritica? “Non è stata contrapposta una risposta adeguata, è vero, ma non è colpa di noi garantisti se nel paese le garanzie sono diventate un orpello fastidioso e l’indagato è considerato un condannato preventivo. Il processo è come una malattia: solo quando ti capita capisci quanto le garanzie siano importanti. Ancor prima di trascorrere qualche giorno dietro le sbarre per comprendere la realtà carceraria, i politici dovrebbero affrontare un processo in prima persona per rendersi conto che il rispetto delle regole formali è una cosa seria”. Per Vittorio Manes, avvocato e professore di Diritto penale all’Università di Bologna, “suona davvero strana la contrapposizione tra due concetti così diversi, non vorrei che il premier sia stato frainteso”. Le parole attribuitegli non sono state smentite. “Giustizialismo è termine dalla connotazione negativa perché evoca l’idea di una giustizia unilaterale, sommaria e univocamente punitiva. Garantismo invece è l’unico modo di intendere la giustizia penale: anzi si può dire che la storia del diritto e del processo penale sia la storia delle sue garanzie, una sedimentazione secolare che rappresenta l’evoluzione del diritto penale liberale in uno stato di diritto e identifica i limiti imposti alla potestà punitiva dello stato, un sistema di antidoti contro l’errore giudiziario e contro il rischio di un uso arbitrario del potere di punire. In altri termini, il ‘garantismo’ non è una opzione, e la sua unica alternativa, storicamente, è stata rappresentata da accuse segrete, processi segreti, tortura per ottenere confessioni o prove e pena di morte. Sul punto non si possono accettare confusioni o cedimenti, specie in un’epoca, come quella attuale, dove le garanzie e i diritti fondamentali sono costantemente messi in discussione e si tende a dare sfogo a degenerazioni giustizialiste tipiche del cosiddetto populismo penale”. Perché il garantismo è impopolare? “Le garanzie sono sempre state parte di un sistema minoritario, anzi sono strutturalmente antimaggioritarie, perché appunto rappresentano limiti al potere. Oggi che il potere insegue così lascivamente il consenso, anche le garanzie entrano nel trade-off e vengono sacrificate senza particolare premura pur di assecondare il bisogno emotivo di punire, spesso artificialmente indotto. Per affermare l’intransigenza della virginale società civile contro la demoniaca società della politica e del malaffare (salvo poi ricredersi frettolosamente quando si finisce sotto il radar della giustizia penale). Quanto alle affermazioni del premier, ripeto, penso siano state enfatizzate perché il rispetto manicheo per garanzie e diritti è iscritto nel Dna di ogni giurista”. Non crede invece all’ipotesi del travisamento, o del malinteso, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Firenze Sergio Paparo: “Mi domando, anzitutto, chi abbia conferito a Giuseppe Conte il mandato di ‘avvocato del popolo’. La questione è semplice: il garantismo è iscritto nella Costituzione sulla quale ha giurato lo stesso presidente del Consiglio. Il giustizialismo invece è una patologia incompatibile con l’essenza di una democrazia liberale. L’articolo 3 della Costituzione presuppone la garanzia della giurisdizione e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La verità è che la politica dovrebbe rispettare l’esercizio della giurisdizione, con i suoi tempi e le sue procedure, senza strappare gli avvisi di garanzia per farsi beffa dei magistrati. Anziché rinfacciarsi le indagini che colpiscono ora gli uni ora gli altri, i politici abbiano la pazienza di attendere l’esito della vicenda giudiziaria senza intromissioni. Se un partito si dota di un codice interno particolarmente severo che prevede, per esempio, l’obbligo di dimissioni per un avviso di garanzia, nulla quaestio, purché tali vincoli siano liberamente accettati da candidati e iscritti. È importante che ciò sia frutto di una libera scelta e non di un processo di piazza”. Per Guido Sola, presidente della Camera penale di Modena, “le parole del premier che è pure un collega avvocato destano enorme stupore. Prendere le distanze tanto dal giustizialismo quanto dal garantismo, come se fossero due prospettive equiparabili, lascia allibiti. Il garantismo non è una presa di posizione, men che meno manichea. In un sistema costituzionale imperniato sull’articolo 27 il garantismo è dovere di ogni cittadino e giurista. Un avvocato non può che essere garantista perché è chiamato a difendere i diritti, con particolare riguardo a quelli dei più deboli. A mio giudizio, è la conferma che corrono tempi politicamente cupi, caratterizzati da una politica che in materia di giustizia ha un’inaccettabile visione giustizialista e giansenista del processo penale. Non si può ammettere la tesi di Davigo per cui non esistono innocenti ma solo colpevoli ancora da scoprire, e soprattutto non si può pensare che il processo penale sia uno strumento nato per punire irrogando pene esemplari”. Quale provvedimento gialloverde è emblematico di questa visione “giansenista”? “Il teologo Giansenio predicava che l’uomo nasce peccatore e per lui non c’è salvezza, il governo ha la stessa idea. L’esempio icastico è la cancellazione della prescrizione. La sospensione dopo il primo grado di giudizio equivale, di fatto, alla sua abolizione, per giunta il governo ha deciso che ciò valga anche in caso di assoluzione. Solo sposando l’opinione di Davigo per cui non esistono innocenti, si può decidere di tenere sotto processo a vita una persona assolta”. Perché queste idee contrarie alla civiltà giuridica si sono affermate in modo così massiccio? “Da Mani pulite in poi nel paese si è dichiarata guerra ai partiti e alle élite intellettuali, incluse quelle dei giuristi; dalla disintegrazione dei corpi intermedi si è giunti al principio dell”uno vale uno’, tanto caro ai grillini. Senza una classe politica autorevole e forte, non si va da nessuna parte”. Per Valerio Spigarelli, già presidente dell’Ucpi, “è stupefacente che un avvocato dica una cosa del genere, come se il garantismo fosse qualcosa di diverso da quello che è: rispetto delle garanzie. I garantisti vengono ritratti, secondo questa narrazione, come dei mollaccioni indulgenti e iperinteressati, pelosi, quelli che ce l’hanno con la giustizia perché vogliono che tutti la facciano franca. Alcuni anni fa, io proposi l’abrogazione del termine ‘garantista’ per il semplice fatto che in uno stato di diritto ha poco senso definirsi garantisti: tutti dovrebbero ritenersi tali, a partire da quanti ricoprono ruoli istituzionali. Le garanzie sono scritte nella Costituzione”. E il giustizialismo? “I giustizialisti coltivano una visione antigarantista della giustizia. Erigono ghigliottine al primo avviso di garanzia, per loro la pena è vendetta sociale e non retribuzione in vista dell’emenda di ciò che hai commesso. Il premier Conte alimenta la confusione tra i due termini e nega di essere quello che dovrebbe essere. In realtà egli offre il solito messaggio da ‘mediano’ strizzando l’occhio agli uni e agli altri, il suo è il tentativo allusivo di non scontentare nessuno. L’equiparazione però offende la grammatica istituzionale. Finché non si afferma una leva di politici che rifiuta categoricamente la strumentalizzazione delle questioni giudiziarie, si andrà avanti seguendo il copione degli ultimi trent’anni, altro che ‘governo del cambiamento’. L’opposizione, da questo punto di vista, non esiste”. Eppure Zingaretti vuole sfiduciare il governo. “È un’assurdità, un déjà-vu. Forse oggi l’unico elemento di novità è dato dal fatto che le attuali tricoteuses, dopo aver costruito la loro fortuna sull’integralismo giudiziario, si esercitano nell’arte del distinguo al solo scopo di proteggere i propri accoliti più fedeli. Per il resto, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, la legge ‘spazzacorrotti’, che equipara, di fatto, corruzione e mafia, è già finita davanti alla Corte costituzionale. È la cartina di tornasole della qualità della legislazione”. Per Cesare Placanica, numero uno della Camera penale di Roma, “il garantismo è un patrimonio condiviso in un percorso di civiltà. Le garanzie sono regole poste non solo a vantaggio di chi è sottoposto a procedimento penale ma anche a vantaggio della collettività: soltanto il loro rispetto formale garantisce un risultato finale più affidabile. La proposta d’impunità, per intenderci, ha una capacità corruttiva della fonte di prova superiore alla violenza fisica. Se qualcuno si mostra indifferente quanto al rispetto delle libertà individuali, abbia almeno l’intelligenza di applicare un ragionamento pragmatico: se si rispettano le regole, l’esito del procedimento ha un grado maggiore di attendibilità”. Va sempre ricordato però che il processo penale non è speculum veritatis: la verità processuale può divergere da quella storica. “Esatto. Se così non fosse, non esisterebbe la revisione del processo, originariamente prevista del codice Zanardelli ma poi abolita dal fascismo e reintrodotta solo successivamente nel codice Rocco in seguito a un caso specifico, l’omicidio Gallo”. Un eclatante errore giudiziario: un omicidio senza cadaveri risalente agli anni Cinquanta. “Salvatore Gallo fu condannato all’ergastolo con l’accusa di aver assassinato il fratello Paolo con cui era venuto a diverbio. Sette anni dopo la condanna, il presunto morto si ripresentò vivo e vegeto testimoniando non solo l’innocenza del fratello ma anche il pericolo di presunzioni terribili in materia penale”. Chissà che ne penserebbe Conte, l’avvocato… “Dubito che abbia pronunciato quelle parole in buona fede, nessun laureato in giurisprudenza lo farebbe. Credo che egli si sia espresso così per opportunità politica, vuole ritagliarsi un ruolo più autonomo”. Tra Siri e Raggi, siamo al rimpallo degli indagati tra le forze di governo. “La richiesta di dimissioni sarebbe un atto persino pregevole se fosse il frutto di un’autonoma valutazione politica. Invece costoro la condizionano al giudizio endoprocessuale e, guarda caso, solo quando c’è da colpire gli avversari. Il vero problema è che in Italia manca la figura di un giudice terzo e imparziale che non sia succube di chi svolge le indagini, e ciò vale drammaticamente per gip e tribunali del riesame. Il vaglio critico e indipendente dell’ipotesi accusatoria è andato perduto”. E dire che fino al 1989, prima dell’introduzione del rito accusatorio, i pm potevano emettere i mandati di cattura, oggi è necessaria la firma di un giudice. “Noi avvocati riscontriamo ogni giorno l’assoluta adesività e succubanza della magistratura giudicante alle scelte e agli orientamenti delle procure. L’udienza preliminare è diventata il momento dei passacarte, non filtra un bel niente, anzi spesso è un’inutile perdita di tempo”. A suo giudizio, perché il giudice è succube? “Pm e giudici fanno parte dello stesso ordine, semplice”. Per Francesco Petrelli, già segretario dell’Ucpi, “porre sullo stesso piano garantismo e giustizialismo è una pessima idea, significa negare la radice etica del garantismo che consente segnatamente di separare ciò che appartiene al diritto e al processo penale da ciò che rientra invece nell’insindacabile opzione della politica. Quella degli ‘ismi’ è solo una formula un po’ furba per tenere le mani libere di volta in volta… Il conflitto fra politica e giustizia appartiene alla modernità, le democrazie non ne sono affatto immuni. È ovvio però che nei sistemi democratici meno maturi come il nostro, dove il pensiero liberale non va di pari passo con il processo penale, il conflitto genera gravi squilibri. La debolezza della politica e della democrazia apre la strada all’idea che lo sviluppo della società - da Tangentopoli in poi - sia nelle mani della magistratura, unica garante del bene e del male”. La giustizia orienterà la bussola del Carroccio. Tra Grillo e Berlusconi di Luca Ricolfi Il Messaggero, 27 aprile 2019 Nessuno può sapere come finirà l’affare Siri, indagato con l’accusa di corruzione per avere “asservito ad interessi privati le sue funzioni e i suoi poteri” (in sostanza: per avere caldeggiato norme vantaggiose per uno o più imprenditori amici). Fin da ora, tuttavia, non si può non segnalare un’inquietante anomalia di questa vicenda. La campagna politico-mediatica su Siri, che gli imputa rapporti con la mafia, è condotta a sua volta in stile vagamente mafioso, in base a un teorema del tipo: tu sei in rapporti con x, x è socio in affari con y, di y si sospetta (notate: “si sospetta”, non “si sa”) che finanzi la latitanza del boss dei boss, il ricercatissimo e a quanto pare imprendibile Matteo Messina Denaro, dunque tu sei colluso con la mafia. Non vorrei passare troppo disinvoltamente dalla poesia della lotta alla mafia alla prosa del malgoverno, ma non mi stupirei che, fra qualche mese, qualche anno o qualche decennio, ovvero quando la vicenda giudiziaria di Siri sarà conclusa, la montagna partorisca il topolino, ovvero una verità del tipo: come accade da sempre, e da parte di tutte le forze politiche (comprese quelle che ora si indignano), anche Siri si è dato da fare per far passare emendamenti graditi a particolari gruppi e soggetti privati. Esattamente quel che succede in Parlamento tutti i giorni, con un’intensità parossistica nel mese di dicembre, quando la Finanziaria subisce quello che, giornalisticamente, da sempre chiamiamo l’assalto alla diligenza. Comunque vada a finire, però, l’affare Siri qualche effetto lo sta già producendo. Il più importante a me sembra quello di mettere la Lega di Salvini di fronte al bivio che, fino ad oggi, ha ostinatamente cercato di non vedere: il bivio fra la prosecuzione dell’avventura con Di Maio, e il “ritorno a casa” nel centro-destra. Perché è inutile nasconderselo, ma ancora una volta, di fronte all’attivismo della magistratura (dal caso della nave “Diciotti” alla vicenda Siri), l’unica vera sponda politica di Salvini è Berlusconi, con cui peraltro perdura imperterrita l’alleanza nelle realtà locali, Comuni e Regioni abbastanza tranquillamente governate da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ora il caso Siri, con il Movimento Cinque Stelle che spara ad alzo zero contro Armando Siri, e il Pd che (in Senato) presenta una mozione di sfiducia verso il governo, rischia di far precipitare le cose. Questo non tanto per l’iniziativa del Pd, che essendo contro il governo nel suo insieme avrà il solo effetto di ricompattarlo, quanto per l’asse che è dato intravedere fra Di Maio e il premier Conte. Quest’ultimo, incredibilmente, in dieci giorni non ha ancora trovato mezz’ora per incontrare direttamente Armando Siri (pare che lo vedrà lunedì), ma in compenso ha rilasciato dichiarazioni, sulla particolare “sensibilità per l’etica pubblica” del suo governo, che fanno presagire quantomeno una presa di distanza da Siri, con conseguente peggioramento dei rapporti con Salvini, fermamente intenzionato a blindare Siri, lasciando che sia la giustizia, e non la politica, ad occuparsi del caso. Ecco perché la situazione della Lega e di Salvini non è facile. Se pensa alle cose da fare, soprattutto in materia di tasse e di giustizia, è chiaro che la priorità non può che essere liberarsi quanto prima della zavorra pentastellata, un impasto di giustizialismo e assistenzialismo che non piace ai ceti produttivi del Nord. Ma se invece pensa al futuro della Lega, alla sua immagine, alla sua identità, al suo sogno di radicamento nazionale, è altrettanto chiaro che l’alleato Cinque Stelle, con la sua novità e il suo radicalismo, è assolutamente prezioso, mentre un ritorno fra le braccia di Berlusconi, nel ruolo del figliol prodigo, sarebbe esiziale per il progetto di Lega che ha in mente. Detto in modo un po’ irriverente, alla Celentano: con Di Maio Salvini è rock, con Berlusconi è lento. Certo, penso anch’io che, prima o poi, la Lega tornerà nel centro-destra, e proverà a prenderne il comando. Ma perché questo accada davvero, forse dovremo attendere che, in quel campo, la stella di Berlusconi sia tramontata davvero, anziché solo nella mente dei suoi nemici. “Giudice, non mi fido”. Gli europei non credono nell’indipendenza della magistratura di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 aprile 2019 Alla domanda “vi fidate dei vostri Tribunali?”, la maggior parte degli europei risponde di no. Dicono di non fidarsi della libertà della magistratura, di non fidarsi della politica, dei loro governi troppo ingerenti nei confronti delle decisioni dei giudici. Questo è il risultato di un rapporto pubblicato ieri dalla Commissione europea secondo il quale almeno sette cittadini europei su dieci sono convinti del fatto che il loro sistema giudiziario sia sottoposto a costanti pressioni da parte della politica. “Se la gente non si fida più dei tribunali - ha detto Vera Jourova, commissario Ue alla Giustizia - vuole dire che la democrazia è in pericolo”. Lo studio rivela che rispetto allo scorso anno la percentuale delle persone che ritiene che i propri giudici siano indipendenti è diminuita rispetto allo scorso anno in più della metà dei paesi membri; Vera Jourova ha ragione a dire che non è un buon segnale, ma a osservare i grafici pubblicati ieri dalla Commissione viene fuori che i paesi in cui i cittadini si fidano meno sono quelli contro i quali la Commissione ha avviato una procedura di infrazione per le riforme della magistratura che sarebbero in contrasto con lo stato di diritto: Polonia, Ungheria e Romania. Le procedure di infrazione poco hanno potuto, le minacce anche, la burocrazia europea ancora non permette di prendere delle decisioni o attuare delle misure che siano vincolanti, eppure qualcosa è cambiato. In Polonia sono stati gli stessi cittadini a protestare per settimane contro le riforme, gli ungheresi non hanno la stessa tendenza alla protesta e i romeni ogni tanto ci provano. Sebbene i partiti responsabili di queste riforme, il PiS a Varsavia, Fidesz a Budapest e i socialisti a Bucarest, godano ancora di molto consenso, il report rivela che le nuove leggi sulla magistratura non hanno lasciato i cittadini indifferenti. Qualcosa si muove ed è in fermento dopo i segnali inviati da Bruxelles, e in questo caso la sfiducia è una presa di coscienza. Legittima difesa, da Mattarella una firma con istruzioni per l’uso di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 aprile 2019 Orecchie da mercante. Il presidente promulga la legge ma suggerisce un’interpretazione secondo Costituzione. Salvini lo snobba, il M5S lo applaude. Ha lasciato trascorrere quasi tutti i trenta giorni, il tempo massimo per la promulgazione, poi ieri il presidente della Repubblica ha firmato la legge sulla legittima difesa approvata definitivamente dal senato il 28 marzo. Ma ha accompagnato la firma con una puntuale e preoccupata lettera ai presidenti di camera e senato e al presidente del Consiglio. Una prassi, questa della promulgazione con osservazioni - non giuridicamente rilevanti, ma politicamente pesanti - che è cominciata con Ciampi al Quirinale, è cresciuta con Napolitano e si è affermata negli ultimi anni. In passato Mattarella ha promulgato con notazioni il codice antimafia, il decreto sicurezza, la commissione d’inchiesta sulle banche. Stavolta, di fronte alle maglie larghe per l’autodifesa domestica volute dalla Lega e subite dal M5S, il presidente sente di dover richiamare soprattutto due questioni “evidenti” per limitare la libertà di affrontare in armi gli intrusi. Deve farlo proprio perché il testo della legge, concepito come un volantino elettorale, tende al contrario ad autorizzare qualsiasi eccesso di reazione. Il Capo dello Stato ricorda che “il fondamento costituzionale” della legittima difesa sta nella “esistenza di una condizione di necessità”. Chi si difende, in altre parole, deve trovarsi in una condizione di reale pericolo che non sia possibile fronteggiare in altro modo. Mattarella anticipa cioè quella interpretazione “costituzionalmente orientata” della legge con la quale i giudici potrebbero vanificare buona parte della riforma salviniana. Del resto una cosa del genere era già accaduta dopo la riforma del 2006, con la quale la stessa Lega aveva introdotto la presunzione di proporzionalità della reazione, in tutti i casi in cui l’autodifesa era esercitata all’interno delle mura domestiche (o del negozio). La giurisprudenza aveva velocemente piantato paletti, fissando il criterio della “necessità” che adesso Mattarella richiama. Inoltre il capo dello stato scrive che “è evidente” che il “grave turbamento”, d’ora in poi previsto come causa di non punibilità di chi eccede nella reazione, deve essere “effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Non può essere dato per scontato, anche se questo vuol dire che dovrà essere provato in giudizio, con tutte le intuibili difficoltà trattandosi di uno stato d’animo passeggero. In coda alla sua lettera, il capo dello stato evidenzia due casi in cui la nuova legge tratta in maniera diversa situazioni simili; nel linguaggio giuridico sono manifestazioni di “irragionevolezza” della norma e possono portare alla declaratoria di incostituzionalità. Con l’obiettivo di sbarrare le porte del carcere, la nuova legge - evidenzia Mattarella - subordina la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, solo per gli autori del furto. Si dimentica cioè di prevedere la stessa condizione per chi commette una rapina, un reato persino più grave. E poi il presidente sottolinea come sia stata prevista la gratuità delle spese processuali, ma solo per chi si veda riconosciuta la legittima difesa nel domicilio e non, come sarebbe a questo punto logico, in qualsiasi un altro luogo. Si potrebbe aggiungere che è altrettanto illogico che il criterio del “grave turbamento” valga solo per l’autodifesa all’interno del domicilio e non, per esempio, per chi si veda aggredito in strada. Ma di tutto questo se ne occuperà evidentemente la Corte costituzionale, e i giudici che le rimetteranno la questione potranno richiamare anche le osservazioni sollevate dal capo dello stato. “Adesso è legge dello Stato, lo avevamo promesso e questo è l’importante”, dichiara a tutta prima Salvini, mostrando indifferenza ai rilievi del presidente della Repubblica. Poi assicura di ascoltare “con interesse estremo” le perplessità di Mattarella, ma non cambia nulla perché “a me interessa che i rapinatori abbiano paura quando fanno il loro mestiere”. Parole di chiara impronta propagandistica che vanno in aperto contrasto con quanto richiamato ancora dal presidente della Repubblica nel secondo paragrafo della sua lettera: “La nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ad esclusiva responsabilità dello stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini”. Responsabilità, in teoria, proprio del ministro dell’interno. Mentre i 5 stelle, adesso, sposano i dubbi del Colle, i leghisti li ignorano e per tutta la giornata si diffondono in dichiarazioni di giubilo: importa la sostanza, il volantino elettorale è legge e oggi sarà sulla Gazzetta ufficiale. L’avvocata ministra Bongiorno addirittura sostiene che l’interpretazione di Mattarella è “in linea con quello che abbiamo sempre sostenuto”. Gli avvocati penalisti dell’Unione Camere Penali, al contrario, ritengono che l’interpretazione di Mattarella “vanifica l’intero impianto normativo e ne dimostra la vuota natura propagandistica”. Mentre l’Associazione magistrati vede nella lettera del Quirinale “un ottimo richiamo all’esigenza di tassatività della formulazione delle norme giuridiche”. Perché il “grave turbamento” è “uno dei punti dolenti della norma, non è un concetto giuridico ma fattuale e andrà verificato caso per caso”. Da domani la parola sulla legittima difesa passa proprio ai giudici e alla loro libera interpretazione. Legittima difesa. Mattarella firma ma alza gli argini: “no giustizia fai da te” di Ugo Magri La Stampa, 27 aprile 2019 La legge promulgata con un richiamo alle Camere: il grave turbamento dovrà essere dimostrato dai fatti. Soppesati tutti i pro e i contro, il presidente della Repubblica ha dato via libera alla legittima difesa. Non vi ha visto incostituzionalità talmente marchiane da impedirne la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. O meglio: Sergio Mattarella si è persuaso che, se i magistrati applicheranno la legge con un briciolo di buon senso, verrà scongiurata la giustizia fai-da-te con conseguente Far West. E proprio al fine di mettere in chiaro come andrebbero interpretate le nuove regole, l’uomo del Colle ha accompagnato la firma con una lettera alle più alte cariche. Un modo per dire: io mi inchino alla volontà del Parlamento, che sulla legittima difesa si è espresso a larga maggioranza; ma nello stesso tempo bisognerà rispettare alcuni confini invalicabili, fissati dalla Costituzione. Il primo confine, avverte il capo dello Stato, “è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità”. Si potrà sparare per difendersi se e quando non sarà proprio possibile farne a meno. L’articolo 54 del codice penale, dove questo principio viene affermato, è in vigore da quasi 90 anni e non risulta che sia stato abrogato. Concretamente significa che un conto sarebbe impedire una rapina dentro casa propria, altra cosa abbattere dalla finestra il ladro che fugge o sta rubando una mela nell’orto. Valutazione caso per caso - Altra questione sollevata da Mattarella: il “grave turbamento”. La nuova legge stabilisce che, se reagiremo sconvolti da un’intrusione, nessuno ci potrà mai accusare di avere esagerato, la nostra difesa sarà sempre legittima. D’accordo, riconosce il presidente, l’agitazione può fare brutti scherzi. Però “è evidente che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento”. Cioè Mattarella segnala che, per non fare a pugni con la Carta, lo stato di alterazione dovrà essere riscontrato in base ai fatti. Non basterà giustificarsi dicendo “mi è partito un colpo perché ero sotto choc”, altrimenti con questa scusa si potrebbero commettere i peggiori delitti senza venire puniti. Anche un bambino capirebbe il trucco. E la verifica sul grave turbamento non potrà essere automatica. Spetterà al magistrato accertarla, caso per caso. Le bugie della propaganda - Insomma, è nel giusto Salvini quando festeggia sostenendo che la riforma ha retto il vaglio severissimo del presidente, tanto è vero che Mattarella l’ha promulgata. Tuttavia la lettera smonta, una per una, le bugie della propaganda. Non è vero che la difesa sarà “sempre” legittima, come viene raccontato in giro; né il “turbamento” verrà comunque giustificato. Anzi, i giudici (che tramite l’Anm avevano manifestato forti riserve durante l’iter parlamentare) vengono di fatto incoraggiati a fare argine contro le interpretazioni più populiste della legge. In più Mattarella segnala al Parlamento un paio di incongruenze su cui la Consulta getterà certamente un occhio: su risarcimenti e spese di giudizio viene trattato meglio chi subisce una rapina dentro casa rispetto a chi ne è vittima per strada, pochi passi più in là. Una disparità che il presidente trova bizzarra. In ogni caso, assicura Mattarella con tono vigile, “la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini”. Abbiamo le Forze dell’ordine e c’è un ministro: prima di sparare al ladro, rivolgersi a loro. La legittima difesa è legge. Mattarella firma la legge ma chiede correzioni di Claudio Rizza Il Dubbio, 27 aprile 2019 Il capo dello Stato ha firmato la legge sulla legittima difesa. Ma ha scritto una lettera ai presidenti delle Camere e al premier Conte con le sue osservazioni, che in realtà sono preoccupazioni e critiche. Il “grave turbamento” è il nocciolo del problema: per reagire e sparare contro chi entra in casa bisogna che vi sia un effettivo pericolo, oggettivo e dimostrabile, “la condizione di necessità”. Salvini dribbla le critiche: l’importante è che ci si possa difendere. Ma giudici e avvocati criticano le norme. Il turbamento deve essere stato anche quello di Sergio Mattarella, nell’analizzare la legge sulla legittima difesa. Ed infatti il presidente ha promulgato la legge ma ha preso carta e penna per sottolineare ai presidenti di Camera e Senato e al premier Conte cosa proprio non va. Quattro i punti su cui il capo dello Stato si sofferma, con una premessa doverosa: sono le forze di polizia le prime a dover garantire la tutela dell’incolumità e della sicurezza dei cittadini, lo Stato ha la responsabilità di garantire l’ordine pubblico. Ed ecco le criticità: intanto deve esserci la “condizione di necessità”, ben chiara. Poi il cosiddetto “stato di grave turbamento derivante dalla condizione di pericolo in atto” deve essere oggettivo e determinato, in conformità con i principi costituzionali. E quindi perché le spese del giudizio sono a carico dello Stato se riconosciuta la legittima difesa domiciliare, cioé in casa propria, e non quando uno si difende fuori dal domicilio? Infine: perché si subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la condizionale della pena per il furto in appartamento o in uno scippo e non anche quando si tratta di una rapina? Dietro questi interrogativi c’è la grande preoccupazione di come questa legge venga percepita dalla gente comune. Certo non legittima un far west dove ognuno a casa sua è libero di usare le armi. Non si può sparare al ragazzino che recupera il pallone volato in giardino né ad uno che col cacciavite stia scassinando la serratura del cancello. Né si può fare quello che l’imprenditore Angelo Peveri a Piacenza fece al ladro: lo catturò, l’immobilizzò e gli sparò. Beccandosi 4 anni e mezzo in Cassazione per tentato omicidio e subito la visita di Salvini in carcere. Non era stata certo legittima difesa, ma al leader della Lega questo non importò pur di fare campagna elettorale. E non fu il solo: Peveri fu sommerso dalla solidarietà dei più. La preoccupazione è dunque questo messaggio che sembra legittimare il farsi giustizia da soli. Il turbamento deve essere una cosa seria, e derivare dall’oggettivo pericolo della situazione in cui ci si trova. Non può essere un salviniano automatismo “se rubi rischi di morire”. Ora il Colle si augura che il Parlamento affronti i nodi mal risolti. Ed è certo che magistrati e avvocati hanno gli stessi dubbi, più volte resi espliciti con fermezza durante il dibattito sulla legge, e che la materia finirà facilmente davanti alla Corte Costituzionale appena i nodi verranno al pettine. “Il provvedimento si propone di ampliare il regime di non punibilità a favore di chi reagisce legittimamente a un’offesa ingiusta, realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati, il cui fondamento costituzionale è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità”, recita la lettera del Presidente. “Va preliminarmente sottolineato che la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia”. “L’art. 2 della legge, modificando l’art. 55 del codice penale, attribuisce rilievo decisivo “allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”: è evidente - sottolinea Mattarella - che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. “Devo rilevare che l’articolo 8 della legge stabilisce che, nei procedimenti penali nei quali venga loro riconosciuta la legittima difesa “domiciliare”, le spese del giudizio per le persone interessate siano poste a carico dello Stato, mentre analoga previsione non è contemplata per le ipotesi di legittima difesa in luoghi diversi dal domicilio”, osserva. “Segnalo, infine, che l’articolo 3 della legge in esame subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo ma che lo stesso non è previsto per il delitto di rapina. Un trattamento differenziato tra i due reati non è ragionevole poiché - come indicato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 125 del 2016 - “gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina”, rimarca il Capo dello Stato. L’unico argine all’impresario della paura di Massimo Giannini La Repubblica, 27 aprile 2019 Matteo Salvini canta vittoria. Ha cristianamente onorato la Santa Pasqua con un’arma in pugno, declinando alla sua maniera la triade Dio-Patria-Famiglia. Ha gioiosamente tradito la celebrazione civile del 25 aprile, svendendo per trenta denari sia l’antifascismo sia l’antimafia. Adesso Capitano Mitra fa finta di festeggiare un’altra “bellissima giornata”. Ha appena portato a casa anche la legge sulla legittima difesa, che sancisce una volta di più la netta egemonia politica e mediatica della “Lega di lotta” nel governo gialloverde. Ma stavolta il grido di battaglia gli si strozza in gola. Ancora una volta, a intralciare il percorso di guerra di questa sua destra radicale nel messaggio e violenta nel linguaggio, si ritrova Sergio Mattarella. In attesa che Di Maio trasformi in atti concreti e non in vacui slogan la tardiva “resipiscenza civica” del Movimento, tocca sempre al capo dello Stato contenere le intemperanze istituzionali e costituzionali del leader padano. Ci provò già Berlusconi con Scalfaro e poi con Napolitano, dal 1994 in poi, e oggi Salvini fa lo stesso: a forza di strappi, spallate e provocazioni, azzarda uno stress-test sulla tenuta del sistema. E il sistema, per ora e per fortuna, tiene. Il presidente della Repubblica dà il suo via libera alla “nuova” legittima difesa. Ma intanto, e non per caso, prima di firmarla si prende tutti i 30 giorni canonici che la Costituzione gli assegna. E poi, mentre promulga la legge, di fatto la neutralizza. Con la sua “lettera di accompagnamento”, Mattarella fissa tre paletti invalicabili. Primo: la sicurezza dei cittadini è compito “esclusivo” dello Stato e delle Forze di polizia (e dunque, nonostante il criminale story-telling digitale veicolato a spese dei contribuenti dal sedicente “guru” Luca Morisi, in una democrazia occidentale non c’è e non ci sarà mai spazio per una giustizia fai-da-te). Secondo: nessuna legge ordinaria potrà mai vulnerare il principio di proporzionalità tra l’offesa e la difesa previsto dalla Costituzione (e dunque, a dispetto della macabra grancassa leghista che suona da settimane un’altra musica, non è affatto vero che d’ora in poi “la difesa sarà sempre legittima”, ma continuerà a esserlo solo se chi reagisce uccidendo lo fa per difendere la sua vita da un pericolo concreto e attuale). Terzo: sarà ancora e sempre la magistratura a stabilire se la persona offesa ha agito in base a un “grave turbamento” (e dunque, al contrario di quello che sostiene inopinatamente la ministra Bongiorno folgorata su via Bellerio, a certificarlo dovrà essere una valutazione “oggettiva” maturata da un giudice terzo, non una giustificazione auto-certificata dalla parte in causa). Il Quirinale ci sta dicendo questo: per quanto gli impresari della paura si adoperino per trasformare il malcontento in categoria politica, le istituzioni democratiche sono vigili e non arretrano. L’Italia non diventerà mai il Far West che piace ai patetici trumpisti in armi di casa nostra. La Costituzione non sarà mai un saloon da “todos caballeros”, ma è e resterà sempre la casa di tutti gli italiani. Almeno finché a presidiarla ci sarà un galantuomo che ha sempre creduto nei valori della Repubblica nata dalla Resistenza e che ha stretto tra le braccia un fratello morente assassinato dalla mafia. Altro che “mummia sicula”, come lo hanno descritto i tanti miserabili che animano il penoso teatrino politico-mediatico dell’Evo Sovranista. C’è un filo rosso che unisce il senso della lettera di Mattarella sulla legittima difesa e le parole che ha pronunciato due giorni fa, a Vittorio Veneto, ricordando la lotta contro il nazifascismo: “La Storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”. Questa pedagogia repubblicana dovrebbero capirla soprattutto i pentastellati. Hanno appena riscoperto una venatura di sinistra mai conosciuta prima, e l’hanno sbattuta in faccia al socio di governo e alla sua destra dura e pura. Dal congresso sulla famiglia di Verona (“il raduno degli sfigati”) alla Flat Tax (“se è per i ricchi non se ne fa niente”), dai porti chiusi (“le migrazioni non le fermi con una circolare”) all’ordinanza sui prefetti (“torniamo ai podestà dell’era fascista”). Un’escalation di istanze solidali, egualitarie e progressiste. Culminate nella sorprendente “vocazione partigiana” del 25 aprile, tra un Conte che dice “questa è la data da cui origina l’affermazione dei valori della libertà, della dignità, della pace”, un Di Maio che va alla sinagoga di via Balbo a onorare i caduti della Brigata Ebraica, una Raggi che sfida le contestazioni e condanna tutte le ambiguità leghiste sul neofascismo. Una manna dal cielo, se le Cinque Stelle che lo abitano brillassero di luce vera e sincera. Purtroppo il legittimo sospetto è che si tratti invece di una banalissima messinscena elettorale. È troppo tardi, adesso, per riequilibrare a sinistra una coalizione che con buona pace del travaglismo in servizio permanente effettivo ha portato il Paese a surfare sulla cresta dell’onda nera montante in Europa. Per un anno i grillini hanno taciuto e subito, peggio ancora avallato e condiviso. Dov’erano, mentre Salvini imponeva al governo il “decreto sicurezza”, che ha abolito i permessi umanitari e smantellato gli Sprar, trasformando in clandestini e lasciando per strada migliaia di migranti? Dov’erano, mentre Salvini obbligava loro e l’intero Parlamento a votare “no” al suo processo per la nave Diciotti, spacciando il disumano rifiuto di far sbarcare 177 disperati a Messina per “difesa dell’interesse nazionale”? Dov’erano, mentre Salvini ordinava al Consiglio dei ministri di varare una normativa che trasforma la legittima difesa in licenza di uccidere, sulla quale per ora è calata la clausola di salvaguardia del Colle e presto probabilmente si abbatterà la mannaia della Consulta? E dov’erano, infine, mentre Salvini pretendeva una poltrona ministeriale per Armando Siri, plenipotenziario leghista per l’economia e “architetto della tassa piatta”, ma già condannato per bancarotta fraudolenta e salvo solo grazie a un patteggiamento? È troppo poco, adesso, obiettare a babbo morto su tutto. Piangere sui diritti negati e i valori versati. Esigere il passo indietro di un sottosegretario in odore di corruzione e collusione con i volonterosi carnefici di Cosa Nostra. Si metteranno d’accordo, un’altra volta. Conte, da bravo Azzeccagarbugli, spiegherà il papocchio con la sua solita neo-lingua, che parla tanto ma non dice niente. Rinvieranno a dopo le elezioni europee il vero regolamento dei conti, scaricandone il costo sugli appositi cittadini. E anche l’apparente conversione pentastellata, allora, si rivelerà per quella che è: una recita posticcia. Utile forse a recuperare una manciata di voti da un Pd ancora in cerca d’autore. Ma non a ridare l’anima a un Movimento che, con ogni evidenza, l’ha ormai venduta al diavolo il 1° giugno di un anno fa. Grasso (Anm): “La sicurezza non si può privatizzare” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 27 aprile 2019 “La sicurezza non si può privatizzare. Giusti i rilievi di Mattarella”. Parola del presidente dell’Anm, Pasquale Grasso. “Con l’avvocatura vi sono importanti convergenze su alcuni temi della giustizia”. Inizia così l’intervista a Pasquale Grasso, presidente dell’Anm, giudice civile al tribunale di Genova ed esponente di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe. Riformare la giustizia, da Mani pulite in poi, è una delle priorità di tutti i governi. Per il vicepremier Matteo Salvini il sistema così non funziona ed è necessario intervenire urgentemente, non condividendo molte delle modifiche volute dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Cosa non va e da dove bisognerebbe iniziare? Occorre distinguere la materia civile da quella penale, e ricordare sempre - è una premessa necessaria - che la giustizia non è solo giustizia penale, e che anzi la materia civile è quella che di fatto e in modo davvero concreto incide sulla vita dei cittadini “normali”, come singoli e come società. Se ricordiamo ciò, nel settore civile il vero elemento di crisi è nella strutturale carenza di risorse, umane, economiche e materiali. Il “rito” invece - grazie anche a un susseguirsi ultradecennale di piccoli e meno piccoli “aggiustamenti”, e soprattutto grazie alla sincronica professionalità di magistrati e avvocati (che, ad esempio, insieme si sono trovati ad affrontare la “rivoluzione” del pct) funziona bene ed è ormai uno strumento moderno e in grado di coniugare in modo soddisfacente l’accertamento dei diritti delle parti e la potenziale rapidità della risposta di giustizia. Certo, come ogni cosa umana, è perfettibile, ma non è certo un fattore di crisi, non può essere assolutamente individuato in sé come causa, ad esempio, della eccessiva durata delle controversie. Questo abbiamo chiarito, come Anm, al ministro della Giustizia quale premessa della pur completa disponibilità a fornire il nostro contributo alle ipotesi di riforma “portate avanti” dall’esecutivo. È invece del tutto evidente, per fare un esempio, che il tempo (e la qualità) della risposta di giustizia che si può pretendere da un giudice chiamato a trattare 1500, 800, 600 o 300 fascicoli contemporaneamente, non possa essere il medesimo. Facciamo in modo di chiamare ciascun giudice a trattare un numero adeguato di cause. Il vero “malato” è il processo penale? In campo penale, effettivamente, il codice di rito mostra, a 30 anni dalla sua approvazione, alcuni importanti limiti. È un sistema complesso, e a fronte di un nucleo di possibili interventi condivisi tra magistratura e avvocatura, permangono posizioni divergenti sotto profili specifici. Mi limito a dire però, come fatto in passato, che interventi urgenti e poco raccordati, magari sull’onda di spinte emotive contingenti, potrebbero condurre a risultati a lungo termine non apprezzabili. Devo evidenziare che con l’avvocatura vi sono importanti convergenze su temi relativi all’udienza preliminare, di cui si vuole rafforzare la funzione di filtro, e ai riti alternativi, nonché su forme di depenalizzazione condizionata, e confido che il legislatore ne vorrà tenere conto. Poi vi sono aspetti che, come Anm, riteniamo importanti comunque, come la necessità di semplificazione del procedimento di notifica, la modifica della disciplina delle letture consentite nel dibattimento, l’abolizione del divieto di reformatio in peius in appello, la reintroduzione dell’appello incidentale del pm. Tutte proposte finalizzate a ridurre le tempistiche processuali. A proposito del numero di fascicoli che un giudice può gestire in maniera efficace, una storica battaglia di Magistratura indipendente riguarda proprio i “carichi esigibili”. Un giudice, mediamente, quante sentenze può scrivere in un anno? Le sentenze, civili e penali, non sono tutte uguali, non tutte richiedono il medesimo tempo di studio e di redazione. Inoltre non va dimenticato il lavoro di gestione del processo, che “sta dietro” ogni singolo fascicolo trattato. Numeretti non si possono dare, e non abbiamo mai inteso darne. L’Anm ha finalmente colto il senso della battaglia sui carichi esigibili, elaborando uno studio di “pesatura” delle singole materie trattate dai giudici civili e penali, che si riverbera sul carico di lavoro esigibile dal singolo giudice nel periodo di riferimento. Trasmetteremo questo studio al Csm e confidiamo sarà tenuto nella dovuta considerazione. Il processo, dice la Costituzione, deve svolgersi in tempi ragionevoli. Quali sono secondo lei? La sua domanda, per come è posta, induce a dare numeri. E io non ne voglio dare. Mi limito ancora una volta a evidenziare che, calandoci nel concreto della realtà, i tempi ragionevoli sono quelli consentiti dal contesto strutturale e dalle risorse della macchina giustizia. Se invece per ragionevole intendiamo il tempo che sarebbe giusto aspettarsi in una società ideale, cui tendere, allora è una domanda da porre a chi fa un lavoro diverso dal mio, a chi è chiamato a determinare la quantità di risorse dedicate a un settore di importanza primaria come quello della giustizia. L’eccessiva durata dei processi resta un problema serio. L’Anm lamenta sempre mancanza di risorse. Leggendo però le statistiche del ministero della Giustizia, l’incidenza della prescrizione tra i diversi uffici giudiziari varia da distretto a distretto ed è il più delle volte indipendente dalle carenze d’organico. Dipende in larga misura dall’organizzazione individuata dai singoli capi ufficio, più o meno sensibili al controllo di gestione. Non sarebbe il caso di far funzionare meglio i tribunali? La sua domanda sconta la visione panpenalistica del sistema. Volendo comunque seguirla in questo ambito, evidenzio che le statistiche che lei cita fanno riferimento a uno solo dei molteplici indici dello stato di salute della giustizia penale, che valutato isolatamente e senza considerazione del sistema complessivo, nulla dicono di reale. Aggiungo che per troppo tempo i giudici si sono fatti personalmente carico della carenza di risorse sviluppando al massimo grado l’attenzione per il migliore assetto organizzativo del proprio lavoro. Direi che siamo giunti al grado massimo di sforzo sotto questo profilo. Affermare che occorra far funzionare meglio i tribunali, quindi, è una bella frase ad effetto, ma del tutto distaccata dalla realtà. Il Csm ha recentemente punito con l’ammonimento Michele Emiliano per l’iscrizione al Pd. Un magistrato può ricoprire qualsiasi ruolo in politica a condizione che non abbia in tasca la tessera di un partito. Non le sembra una ipocrisia? I magistrati, ferme le specifiche limitazioni di legge, sono cittadini con gli stessi diritti politici degli altri. Ciò posto condivido l’assoluta opportunità di una netta cesura tra l’attività politica e il lavoro di magistrato, e apprezzerei comunque un maggior rigore nell’applicazione delle norme esistenti. Avvocato in Costituzione. Condivide la proposta del Cnf recentemente tradotta in un ddl di modifica dell’art. 111? I costituenti hanno già dedicato uno speciale rilievo alla figura dell’avvocato (membri laici del Csm, possibili componenti della Cassazione, giudici della Corte Costituzionale), figura nella quale si materializza e incarna il diritto, posto dall’art. 24, alla difesa “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Le modifiche costituzionali cui lei fa riferimento e che ho letto, mi pare nulla aggiungano al ruolo costituzionale del difensore quale elemento fondamentale e dinamico della funzione giurisdizionale. Mi sembra siamo al cospetto di una proposta che ha limitato significato concreto. Sugli incarichi direttivi il Csm è stato più volte “bacchettato” dal giudice amministrativo. Che opinione al riguardo? Non entro ovviamente nel merito delle singole vicende. Posso dire di aver apprezzato molto lo sforzo dell’attuale Csm volto a rendere le proprie decisioni, pur sempre prerogativa di autogoverno, maggiormente aderenti ai profili di più idonea e concreta motivazione, la cui esigenza è alla base di molti interventi del giudice amministrativo. È favorevole, per evitare il “condizionamento” delle correnti nella scelta dei capi degli uffici, alla rotazione degli incarichi? Vorrebbe essere la soluzione al problema, sottinteso, della “corsa” ai ruoli direttivi e della non sempre adeguata valutazione degli aspiranti, da parte del Csm. Ebbene ritengo sia una soluzione che perde ogni fascino una volta in cui si analizzi con serietà la questione, che ha forti elementi di comunanza con la proposta di sorteggio per i componenti togati del Csm. Ha anticipato la mia domanda. Bonafede sarebbe favorevole al sorteggio per i componenti del Csm…. Guardi, io in passato, da giudice di tutti i giorni e in tempi di minore impegno associativo, mi sono avvicinato senza pregiudizi alla questione. Pensi che partecipai alla effettuazione di un sorteggio parallelo di possibili candidati rispetto a una delle passate elezioni per il Csm. L’esperienza maturata mi induce oggi a essere radicalmente contrario. Tanti gli argomenti tecnici dietro il no: è un sistema incostituzionale; svuoterebbe di significato il concetto stesso di autogoverno; condurrebbe subdolamente a minore profilo di indipendenza dei componenti, e così dell’organo. Mi limito a segnalare, molto concretamente, come anche l’argomento base usato dai sostenitori del sorteggio, e cioè quello per cui qualsiasi giudice sarebbe in grado di far fronte all’attività di alta amministrazione e di autogoverno proprie del Csm, è in definitiva semplicistico e nega la complessità del sistema. Non è così. Noi giudici ci specializziamo, studiamo anni, approfondiamo le materie che trattiamo, non siamo certo dei tuttologi. La competenza, la preparazione, la conoscenza ordinamentale, l’attitudine a essere parte di un organo decisionale così articolato, sono qualità, richieste a un consigliere del Csm, che non si improvvisano. Ecco, il sorteggio mi pare si risolva in una risposta improvvisata a una questione complessa. Lei è anche giudice tributario. La giurisdizione tributaria è attualmente composta per la maggior parte di magistrati togati. Sono state depositate in Parlamento delle proposte di modifica che prevedono di eliminare l’attuale “part-time” a favore di giudici di carriera, scelti per concorso ed impiegati in via esclusiva. Condivide? Non condivido assolutamente. Ritengo che i togati abbiano assicurato un tasso di qualità indispensabile a un settore il cui rilievo economico è spesso misconosciuto. Mi pare di capire che giudici di carriera sarebbero soggetti necessariamente diversi dagli attuali componenti togati. Non riesco a capire in che modo potrebbe conservarsi un accettabile livello di preparazione. Il 9 maggio il Csm ha organizzato un seminario di studi sulla dignità della persona, sulla libertà di autodeterminazione e sulla disciplina del fine vita alla luce dell’ordinanza della Corte Costituzionale sul caso “dj Fabo”. Fino a che punto può spingersi il potere interpretativo del giudice nel campo dei “nuovi” diritti? Questa è una domanda, appunto, da convegno giuridico. Mi limito a dire che, da giudice e da cittadino, l’attività di supplenza del giudice vorrei fosse qualcosa di assolutamente residuale. La politica abbia la capacità di dare una risposta rapida e responsabile a questioni di così alto rilievo. Ieri il capo dello Stato ha firmato la legge sulla legittima difesa con alcune “riserve”... La lettera del Capo dello Stato costituisce un rilievo di altissimo valore sociale, politico e direi morale, evidenziando il fatto che lo Stato non può e non deve abdicare, nemmeno in minima parte, al proprio compito di tutela dei cittadini. Insomma, nessuna privatizzazione o individualizzazione dell’ordine e della sicurezza pubblica. Mascherin (Cnf): “Tocca allo Stato e non al cittadino fare giustizia” di Greta Marchesi Il Dubbio, 27 aprile 2019 Lo Stato di diritto è quello che garantisce la pace sociale facendosi carico della sicurezza dei cittadini”. Parola di Andrea Mascherin, presidente del Cnf. Presidente Mascherin, come può spiegarsi la lettera di accompagnamento del Capo dello Stato a chi non è un esperto di diritto? A me pare che il presidente Mattarella abbia con puntualità individuato le necessarie chiavi di lettura secondo Costituzione della nuova normativa, a partire dagli obiettivi della stessa, da individuarsi da un lato in un atteggiamento di “favor” per gli argomenti difensivi di chi reagisce a una intrusione illecita nel proprio domicilio, dall’altro nella precisazione che da ciò non deve derivare alcuna deresponsabilizzazione dello Stato in materia di sicurezza e di tutela del cittadino. Diverso indirizzo interpretativo si sconterebbe con i principi costituzionali e con gli equilibri da essa garantiti fra i diversi diritti e interessi coinvolti nella quotidiana convivenza sociale. Cosa intende per deresponsabilizzazione dello Stato? Lo Stato di diritto è quello che garantisce la pace sociale facendosi carico della sicurezza dei cittadini da un lato e della reazione punitiva attraverso il giusto processo dall’altro. In altri termini lo Stato di diritto non può permettere che siano i cittadini a doversi sobbarcare il compito della sicurezza, per assolvere il quale sono richiesti mezzi e professionalità specifica, quale quella delle forze dell’ordine. Neppure può permettersi che siano i cittadini a farsi giustizia da sè, piuttosto che attraverso gli strumenti giudiziali, ovvero il processo e le sue regole. Non a caso il presidente della Repubblica precisa che la nuova norma non (deve) né indebolire né attenuare la responsabilità dello Stato. Quanto invece alla puntualizzazione del Capo dello Stato sullo “stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”? Anche in questo caso si riafferma la necessità di tenere in equilibrio i principi e i diritti costituzionali, tra cui quello primario alla vita. Dunque va escluso ogni automatismo interpretativo da parte del giudice che porti a una applicazione meccanica della esimente della legittima difesa, con il rischio di violare la tutela del bene primario della vita, dovrà invece verificarsi caso per caso e con grande attenzione lo stato di grave turbamento, attraverso una valutazione, appunto, obiettiva del suo ricorrere, e non solo soggettiva. Indagine non semplice, in quanto di natura psicologica... In realtà gli operatori del diritto, avvocati e magistrati, sono adusi a costruire le proprie valutazioni sull’elemento psicologico appoggiandosi necessariamente anche a emergenze oggettive, lo si fa per esempio in tutti i casi in cui si cerca di capire se un testimone ha detto la verità o ha mentito, si cercano riscontri. Cosa è grave turbamento e cosa no? Per esempio non potrà negarsi che sia obiettivamente diversa la situazione di chi sorprenda un intruso in salotto armato e con la pistola in vista, da chi sorprenda l’intruso nell’intento di scappare dalla finestra del salotto una volta vistosi scoperto. Nel primo caso avremo una situazione che oggettivamente potrebbe giustificare il grave turbamento e dunque potranno farsi le ulteriori valutazioni anche di carattere soggettivo, ad esempio la presenza dei figli o del coniuge, l’età, traumatiche esperienze precedenti, ecc. Nel secondo caso a chi sparasse alle spalle del ladro che sta fuggendo scavalcando la finestra, ben difficilmente potrebbe riconoscersi il grave turbamento e la legittima difesa, pur essendosi svolti i fatti nel domicilio. Lei ebbe modo di essere ascoltato in audizione dalla commissione giustizia alla Camera... Sì, nell’occasione sottolineai l’importanza di evitare automatismi interpretativi di sorta e di considerare sempre la assoluta centralità delle condizioni della “necessità” e della “immediatezza” della reazione da parte di chi invoca la legittima difesa. È chiaro che nei confronti di chi sta all’evidenza fuggendo non potrà ravvisarvi la necessità di sparargli, lo stesso ragionamento deve valere per i tempi di reazione, più sono dilatati più evidentemente si ha avuto modo di realizzare la necessità o meno di usare l’arma. Ovviamente, va considerato che i singoli fatti presenteranno sempre particolarità diverse tra loro che andranno singolarmente indagate. Da quanto suggerito dal Capo dello Stato dunque ne esce una lettura equilibrata della tanto discussa nuova legittima difesa? Direi di sì, in quanto da un lato si offrono elementi presuntivi a favore del diritto alla difesa di chi ha reagito e dall’altro si esclude però che tali presunzioni possano tramutarsi in una automatica legittimazione “a sparare”, ma soprattutto resta così centrale il compito della magistratura di interpretare il caso specifico con l’esercizio della propria discrezionalità così come regolata dalla legge. Chiusa ogni discussione? In genere le discussioni nascono quando si vuole usare il diritto per fini diversi da quello di regolatore dei rapporti sociali. E allora da un lato si è esagerato nel sostenere che con la nuova norma non vi saranno più procedimenti penali a carico di chi invoca la legittima difesa, dall’altro che vi sarà il far west in Italia. Ritengo invece che seguendo le indicazioni del Presidente Mattarella e grazie al lavoro degli operatori del diritto, avvocati, magistrati e accademia, ci si assesterà su una interpretazione costituzionalmente orientata, come del resto penso debba essere quanto sempre voluto dal Parlamento quando legifera. “Ha profili di incostituzionalità ed è inutile. La legge ammette la debolezza dello Stato” di Paolo Colonnello La Stampa, 27 aprile 2019 Intervista ad Antonio Sangermano, procuratore dei Minori di Firenze: l’unico rimedio è la certezza della pena. Il Procuratore del Tribunale dei Minori di Firenze, Antonio Sangermano, già vicepresidente dell’Anm, ha pochi dubbi sulla legge per la legittima difesa: i profili di incostituzionalità sono evidenti. Così tanto Procuratore? “Vi sono vari profili e l’Anm li aveva tutti puntualmente sottolineati: un conto è recepire le istanze di difesa sociale, un conto avere la capacità di convertire queste istanze in moduli giuridici corretti, effettivi e costituzionalmente ineccepibili. Altrimenti si rischia di fare un’operazione inutile”. Quindi ha fatto bene il Presidente Mattarella a scrivere una lettera in cui fissa dei paletti alla legge? “Non mi permetto di rilevare le iniziative del Presidente della Repubblica ma esprimo una totale condivisione con l’analisi giuridica che emerge dal testo della lettera”. Che cosa in particolare? “In particolare il riferimento al “grave turbamento” indotto da un eventuale ladro o rapinatore entrato in casa, che non può diventare una presunzione assoluta ma che deve di volta in volta essere ponderatamente vagliato dall’autorità giudiziaria e in esito alle indagini che andranno comunque svolte”. Il Presidente sembra indicare già degli aspetti da sottoporre alla Consulta. È così? “L’ho già detto: non sono certo io a dover interpretare ciò che dice il Presidente, ma certo in questa legge sono evidenti delle gravi criticità costituzionali che dovranno essere vagliate dalla Consulta”. E una volta vagliate? “Se sopravvivranno se ne dovrà dare allora un’interpretazione costituzionalmente orientata che riconduca, ad esempio il “grave turbamento” alla situazione concreta accertata di volta in volta”. In questo modo però, non cambierebbe molto rispetto alla legge precedente? “In realtà cambia il tentativo di cristallizzare a priori lo stato psicologico della vittima, così alterando il principio di proporzionalità, cioè che la difesa deve essere sempre proporzionata all’offesa”. Ma questa legge potenzia la tutela al cittadino? “No, in realtà è un’ammissione implicita di debolezza dello Stato che pretende di armare i cittadini a fronte di presunte emergenze criminali. Quando in realtà la difesa prioritaria, come autorevolmente sottolineato, deve rimanere in capo allo Stato”. Il ministro Salvini ha detto che vorrebbe vedere uno di voi magistrati che sfoglia un codice mentre vi entra in casa un ladro... “Non condivido mai la personalizzazione che può scadere in facili e comode semplificazioni. Credo che nella situazione concreta chiunque abbia il diritto di difendersi preservando il principio di umanità e tentando di razionalizzare, nei limiti dell’umanamente possibile, la propria reazione in base al principio di proporzionalità. E la norma previgente, già consentiva tutto questo”. Allora che senso ha questa legge? Esiste un rimedio? “Salvini ha colto un’istanza sociale effettiva offrendo a mio avviso una risposta sbagliata. La soluzione dovrebbe essere quella di riportare la effettività e la certezza della pena e del carcere al centro del diritto penale”. Detenuti affetti da grave malattia psichica sopravvenuta lpenalista.it, 27 aprile 2019 “La mancanza di alternative al carcere viola i principi costituzionali”. Corte Costituzionale, sentenza 19 aprile 2019, n. 99. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter ord. penit. nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter. L’attuale assetto normativo non permette alcuna “via d’uscita” qualora durante la carcerazione si manifesti una grave malattia di tipo psichiatrico. Infatti, i detenuti che si trovino in tali condizioni: a) non possono accedere alle Rems, né ad altre misure alternative alla detenzione, se il residuo di pena sia superiore ai 4 anni; b) non possono avere accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. c) ord. penit. prevista per i detenuti con pena inferiore ai 4 anni e che siano gravemente malati (sia a livello psichico che psichico), in quanto la patologia deve essere già presente; c) non possono accedere all’istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena di cui all’art. 146, primo comma, numero 3), c.p., perché la grave patologia psichica non integra il presupposto ivi previsto della malattia grave, in fase così avanzata da essere refrattaria alle terapie e, infine, d) non possono beneficiare del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena di cui all’art. 147, primo comma, numero 2), c.p., perché questa previsione riguarda solo i casi di grave infermità fisica. La Consulta, rilevato il vuoto normativo ha, pertanto, affermato che la mancanza di qualsiasi alternativa la carcere per i detenuti affetti da grave malattia psichica sopravvenuta viola i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, 32, 117, primo comma Cost.. Segnatamente i Giudici delle leggi hanno affermato che: “la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale”, quindi - anche se è competenza del legislatore portare a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario nell’ambito della salute mentale attraverso la previsione di apposte strutture interne ed esterne al carcere - la Corte Costituzionale ha ritenuto di non potersi esimere “dall’intervenire per rimediare alla violazione dei principi costituzionali denunciata dal giudice rimettente, di modo che sia da subito ripristinato un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettività e la necessità di garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.) e assicurare che nessun condannato sia mai costretto a scontare la pena in condizioni contrarie al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.), meno che mai un detenuto malato”. Per negare l’asilo i giudici devono provare che nel Paese d’origine non ci sia rischio per la vita di Alessandra Ziniti Corriere della Sera, 27 aprile 2019 Sentenza della Corte di Cassazione rischia di incidere sulla stretta nella concessione dei permessi. Non bastano più generiche “fonti internazionali”. Il caso di un cittadino pakistano potrebbe mettere a serio rischio la stretta sulle concessioni dell’asilo ai migranti che ne fanno richiesta. È la Corte di Cassazione ad intervenire disponendo che per negare l’asilo a un richiedente bisogna provare che tornando nel suo Paese non rischierebbe la vita. E l’onere della prova è ribaltato e tocca ai magistrati che non possono più basarsi su generiche “fonti internazionali”. Una sentenza che potrebbe allargare le maglie dell’asilo in controtendenza con le indicazioni che arrivano dalla legge Salvini. Con queste motivazioni i giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso di un cittadino pakistano che si era visto negare l’asilo sulla base di generiche “fonti internazionali” che attesterebbero l’assenza di conflitti nel paese di provenienza. Adesso la Cassazione esorta i magistrati a evitare “formule stereotipate” e a “specificare sulla scorta di quali fonti” abbiano acquisito “informazioni aggiornate sul Paese di origine” dei richiedenti asilo. Accolto ricorso di un pakistano. Sulla base di questi principi - inviati al Massimario - la Suprema Corte ha dichiarato “fondato” il reclamo di Alì S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale. Alì - difeso dall’avvocato Nicola Lonoce - ha fatto presente che la decisione era stata presa “in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili” e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine. Il reclamo ha fatto “centro”, e la Cassazione ha sottolineato che il giudice “è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate”, e non di “formule generiche” come il richiamo a non specificate “fonti internazionali”. Il caso sarà riesaminato a Lecce. Asilo politico, la Cassazione rende più difficile negarlo di Leo Lancari Il Manifesto, 27 aprile 2019 Una sentenza della Cassazione assesta un altro colpo al giro di vite imposto da Matteo Salvini alla richieste di asilo. Accogliendo il ricorso di un profugo originari del Pakistan, i giudici della Suprema Corte hanno infatti stabilito che non bastano “generiche fonti internazionali” dalle quali risulterebbe l’assenza di conflitti nei Paesi di origine dei migranti per respingere una richiesta di protezione internazionale. Non solo. A ulteriore tutela del migrante, la sentenza affida proprio al giudice il compito di dimostrare come un eventuale rientro in patria del profugo non comporti rischi per la sua vita. I giudici evitino quindi - esorta la Cassazione - “formule stereotipate” e spieghino “sulla scorta di quali fonti” abbiano acquisito “informazioni aggiornate sul Paese di origine” dei richiedenti asilo. Particolare non secondario visto che, fino a oggi, spettava a quest’ultimo dimostrare di essere in pericolo in caso di rimpatrio forzato. All’origine della sentenza c’è il ricorso presentato da un cittadino pakistano, Alì S., che nel 2017 si era visto respingere la domanda di asilo prima dalla commissione territoriale di Lecce e poi dal tribunale della stessa città. Difeso dall’avvocato Nicola Lonoce, l’uomo nel presentare ricorso ha fatto presente che la decisione era stata presa “in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili” e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine. Motivazioni accolte dalla Cassazione, per la quale il giudice “è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate”, e non di “formule generiche” come il richiamo a non specificate “fonti internazionali”. Adesso il caso di Alì S., sarà riesaminato a Lecce. Non è la prima volta che la cassazione interviene in materia di asilo. Il 23 aprile, con un’altra sentenza era intervenuta a favore di un cittadino omosessuale della Costa d’Avorio stabilendo che prima di respingere la richiesta di protezione è necessario accertare che nel Paese di origine del migrante no ci siano leggi discriminatorie nei confronti delle persone omosessuali e che le autorità garantiscano “un’adeguata tutela” per i gay. A febbraio invece la Cassazione era intervenuta direttamente sull’abolizione della protezione umanitaria prevista dal decreto sicurezza. La Prima sezione civile della Corte ha infatti stabilito la irretroattività della decisione riconoscendo che abrogazione vale solo per quanti hanno presentato domanda di asilo prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del decreto voluto dal ministro degli Interni Matteo Salvini. Uno dei primi effetti della decisione è stato un balzo in avanti del numero dei migranti che hanno potuto ottenere un permesso umanitario, passati dal 2% del mese di gennaio 2019 al 28% di febbraio. Aperta inoltra la strada ai ricorsi, visto che in quattro mesi sono stati più di 23 mila i migranti che, sulla base delle nuove norme, si sono visti negare qualsiasi forma di protezione. Piemonte: la Regione rifinanzia il recupero degli uomini che odiano le donne di Gianni Gennaro torinoggi.it, 27 aprile 2019 Dopo essere stato avviato in via sperimentale, il progetto della Regione Piemonte per cercare di riabilitare gli autori di violenza contro le donne diventa strutturale: entro il 31 maggio gli enti locali, le organizzazioni titolari dei Centri antiviolenza iscritti all’apposito albo regionale, tutti coloro che sono impegnati nella promozione e realizzazione di interventi e attività a favore degli autori della violenza potranno presentare domanda per accedere a finanziamenti che ammontano complessivamente a 100.000 euro. L’assessora regionale ai Diritti sostiene che si intende rendere questi uomini non più un pericolo per le donne che hanno maltrattato, dato che quando escono dal carcere vanno spesso a cercare di nuovo le proprie vittime, diventano stalker, minacciano o si accaniscono verso di loro nei modi più violenti. Fino ad oggi le associazioni specializzate in questo tipo di interventi hanno preso in carico 280 uomini con l’obiettivo di restituire alla società persone non più pericolose ma in grado di gestire la loro aggressività. Alcuni esempi: 60 detenuti nel carcere di Torino, 45 in quello di Vercelli e 15 in quello di Biella con condanna definitiva a sfondo sessuale beneficiano di un programma specifico; le otto associazioni che si sono occupate di portare avanti questo lavoro fuori dal penitenziario (Cerchio degli uomini, Consorzio socio-assistenziale cuneese, Spam-Paviol, Consorzio socio-assistenziale Ossola, Medea, Gruppo Abele, Elios Coop e Punto a capo) hanno in carico 162 persone. Di queste, sette su dieci sono italiane e in sette casi su dieci si tratta di mariti o conviventi delle vittime. Milano: detenuto morto a San Vittore, i familiari “non fu suicidio, riaprire l’inchiesta” Il Giorno, 27 aprile 2019 Presentata una nuova denuncia per omicidio volontario, basata su una consulenza depositata nei mesi scorsi. Un gip dovrà decidere se riaprire o meno le indagini sulla morte di Alessandro Gallelli, un 21enne che oltre sette anni fa, nel febbraio 2012, venne trovato cadavere in una cella del carcere milanese di San Vittore. Una morte più volte archiviata come suicidio, ma sulla quale la famiglia del ragazzo ha presentato una nuova denuncia per omicidio volontario trasmessa dalla Procura di Milano all’ufficio gip affinché valuti un’eventuale riapertura dell’inchiesta. I legali dei familiari del giovane, tra cui l’avvocato Antonio Cozza, nei mesi scorsi hanno depositato una consulenza nella quale si sostiene che Gallelli venne ucciso “mediante strozzamento con successiva attività di staging” per simulare un suicidio. Di recente un gip archiviando l’ennesimo procedimento ha indicato, però, la possibilità di usare la consulenza come “elemento di novità utile a riaprire le indagini”. Da qui la nuova denuncia trasmessa dall’aggiunto Tiziano Siciliano all’ufficio gip (non si sa ancora quale giudice se ne occuperà. Oggi i familiari del 21enne, con il legale Cozza, hanno incontrato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, mentre l’ufficio gip dovrà decidere a quale giudice assegnare la richiesta di riapertura delle indagini. Sul caso della morte del giovane, trovato impiccato con un laccio, in passato erano già state archiviate altre indagini, che riguardavano, come si legge negli atti, “ipotesi di responsabilità omissiva nella forma del ‘non aver impedito’ la morte” o dell’aver “indotto il ragazzo al suicidio”. Era stato archiviato anche un fascicolo che vedeva indagati per omicidio colposo due agenti della polizia penitenziaria. Una richiesta di archiviazione di un’ultima indagine per omicidio colposo a carico di ignoti era stata presentata nei mesi scorsi dall’aggiunto Siciliano. I legali della famiglia si erano opposti e sulla base della consulenza avevano puntato sulla richiesta di nuove indagini per omicidio volontario. Il gip ha disposto l’archiviazione spiegando di non poter accogliere la richiesta di ordinare alla Procura di indagare per omicidio volontario quei “soggetti che potevano avere accesso nella cella” dove era detenuto Gallelli. Ciò che viene prospettato nella consulenza, ha scritto il gip, è un “fatto del tutto diverso” rispetto al procedimento di omicidio colposo. Per il giudice, però, è “chiaro che il tenore e il contenuto della consulenza di parte” dovranno “essere nel caso utilizzati” o come “fondamento di una nuova denuncia” oppure come elemento nuovo e “utile” per riaprire le indagini. Riapertura su cui nelle prossime settimane dovrà esprimersi un altro giudice. Perugia: il recupero dei detenuti? Comincia dalla cucina di Luigi Cristiani foodmakers.it, 27 aprile 2019 Corso per Addetto alla cucina presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia grazie all’avviso “Umbriattiva Giovani” dell’Arpal Umbria. Dentro, dietro le sbarre, ci sono i lavoranti: lo “spesino”, “lo scopino”, lo “scrivano”, ma in realtà nessuno fa un vero lavoro. Il lavoro che nobilita, a usare una frase fatta, o che riabilita, come nel caso di persone detenute per espiare una pena: i carcerati. Alle persone detenute nel Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia è stata data questa occasione: formarsi e prepararsi per un lavoro vero, come quello svolto “fuori”, per la figura professionale di “Addetto alla cucina”. L’opportunità è offerta a dieci detenuti under 30 anni età del reparto penale dell’istituto perugino, un corso di formazione professionale della durata di 255 ore promosso e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro di Perugia grazie al finanziamento messo a disposizione dall’Agenzia regionale politiche attive del lavoro della Regione Umbria. Un corso di cucina quindi per studenti molto particolari: i giovani detenuti del carcere di Perugia. I piatti che vanno per la maggiore? Pasta, pane e pizza. Soprattutto pizza: “Quando la facciamo è davvero una festa”, spiega uno dei docenti chef. Il corso si svolge in una cucina apposita: partecipano dieci allievi preventivamente selezionati. “Lavoriamo con i ragazzi più tranquilli: i ferri del mestiere possono essere anche molto pericolosi”. Lezioni tutti i giorni, dal lunedì al venerdì: “Facciamo tutto quello che si fa fuori, preparazione e pulizia cibo, cottura, pulizie - a turno - incluse. Dopo le lezioni, mangiamo quanto cucinato. Purtroppo non possiamo condividere anche con gli altri ragazzi, per precise ragioni di sicurezza. Bisogna capire che la giornata di un detenuto ruota attorno a 3 momenti: colazione, pranzo e cena. Il cibo gioca un ruolo fondamentale, non vanno sottovalutate le conseguenza della sua gestione”. Grazie alla professionalità, all’impegno e alla pazienza di affermati chef di comprovata esperienza i detenuti si esercitano nella preparazione di piatti sempre più elaborati. Tutti i giorni per tre ore al giorno sono impegnati nel laboratorio di cucina avendo l’occasione di apprendere a cucinare attraverso lezione sia pratiche che teoriche. Il prossimo maggio si svolgerà la cena evento “Le Golose Evasioni” giunta alla sua quinta edizione, un appuntamento specialissimo tramite il quale gli allievi, supportati dai loro insegnanti, prepareranno una cena aperta alla cittadinanza durante la quale offriranno un saggio delle competenze acquisite. La cuffia bianca, i guanti, qualcuno con la mascherina, intenti ai fornelli o a fare il primo razionamento del cibo che poi, sotto lo sguardo attento del docente, verrà attentamente valutato. “Questa attività - dichiara Luca Verdolini, coordinatore del progetto - rappresenta una educazione al lavoro che è premessa per il futuro, quando per il detenuto le porte del carcere si apriranno definitivamente, scontata la pena. E che sia un metodo efficace di recupero sociale - aggiunge - lo dimostrano i dati sulla recidiva: per chi si è impegnato in una attività formativa e lavorativa è del 10 per cento. Negli altri casi è del 70 per cento”. Tra gli allievi cuochi, Giuseppe, campano, 26 anni, è uno dei più entusiasti: “Devo ringraziare chi mi ha offerto questa opportunità. Si ricomincia solo se c’è qualcuno che crede in te e che ti fa prima comprendere la gravità dell’errore commesso. Non puoi iniziare di nuovo -aggiunge - se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta.” Locri (Rc): quasi tutti i detenuti impegnati in attività lavorative di Emilio Enzo Quintieri ciavula.it, 27 aprile 2019 Il carcere modello per tutta la Calabria. Ieri mattina, accompagnato dalla collega giurista Valentina Anna Moretti, ho effettuato una visita alla Casa Circondariale di Locri ed all’esito della stessa non posso far altro che ribadire il giudizio positivo già espresso negli anni passati. Locri è un modello per tutta la Calabria. Lo dice Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria. La Delegazione visitante, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, è stata ricevuta ed accompagnata negli spazi detentivi e nelle lavorazioni dal Direttore dell’Istituto Dott.ssa Patrizia Delfino e dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Commissario Capo Dott.ssa Giuseppina Crea. Attualmente, nell’Istituto Penitenziario di Locri, che risale al 1862, a fronte di una capienza regolamentare di 89 posti, sono ristretti 101 detenuti, 23 dei quali stranieri, aventi le seguenti posizioni giuridiche: 11 imputati, 16 appellanti, 8 ricorrenti e 66 definitivi, tutti appartenenti al Circuito della Media Sicurezza. Tra i definitivi 5 sono in semilibertà ex Art. 50 O.P., alle dipendenze di datori di lavoro esterni. A 16 detenuti il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria Dott.ssa Daniela Tortorella, in occasione delle festività pasquali, ha concesso un permesso premio ex Art. 30 ter O.P. e agli altri 5 detenuti semiliberi, ha concesso la licenza premio ex Art. 52 O.P. Quasi la totalità dei detenuti ristretti a Locri è impegnata in attività lavorative, alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (54 su 61 definitivi). Una percentuale altissima rispetto agli altri Istituti Penitenziari della Calabria. Altri 10 detenuti svolgono lavori di pubblica utilità ex Art. 20 ter O.P. di cui 7 all’interno dell’Istituto e 3 all’esterno, presso il Comune di Locri, la Diocesi di Locri ed il Tribunale di Locri. A breve, verrà sottoscritta dalla Direzione dell’Istituto altra convenzione con il Comune di Siderno, per l’impiego dei detenuti in progetti di pubblica utilità. Vi sono solo due detenuti con problematiche sanitarie: un tossicodipendente in terapia metadonica ed un sieropositivo; non sono presenti altri soggetti con patologie psichiatriche, con disabilità motorie o altre malattie come l’epatite b e c, la scabbia, la tubercolosi, etc. Non vi sono stati eventi critici negli ultimi tempi: nessun suicidio, nessun decesso, nessun atto di autolesionismo e nessuna aggressione nei confronti del personale che opera nell’Istituto. Per tale ragione anche le sanzioni disciplinari sono pressoché inesistenti. L’Istituto, situato nel pieno centro cittadino, è composto da un unico padiglione, diviso in quattro sezioni oltre al reparto di transito destinato al Circuito Alta Sicurezza, ormai inutilizzato poiché i detenuti partecipano al processo in videoconferenza, ed al Reparto di Semilibertà. Le due sezioni, poste a piano terra, sono a custodia aperta con la sorveglianza dinamica; i 49 detenuti che sono presenti in tali sezioni, permangono per 10 ore fuori dalla camera di pernottamento usufruendo delle numerose attività trattamentali organizzate nell’Istituto. Nelle restanti sezioni, poste al primo piano, in cui sono presenti 47 detenuti, è ancora operativa la tradizionale e più rigorosa custodia chiusa, ma anche questi ultimi trascorrono 10 ore fuori dalle loro camere. Prossimamente, queste due Sezioni, potrebbero diventare a custodia aperta, qualora la Sezione di transito Alta Sicurezza, come detto inutilizzata, venga ristrutturata e diventi sezione destinata all’accoglienza dei “nuovi giunti” dalla libertà. Tale progettualità verrà presentata alla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia che valuterà di finanziare i lavori di ristrutturazione. Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, guidato dal Dirigente Generale Dott. Massimo Parisi, ha individuato la Casa Circondariale di Locri come Istituto destinato alla lavorazione del ferro e della ceramica. È presente altresì una falegnameria ma solo per soddisfare le esigenze interne. Sarà la Casa di Reclusione a Custodia Attenuata di Laureana di Borrello a provvedere alle lavorazioni del legno, per tutti gli altri stabilimenti penitenziari. Attualmente è in costruzione, in economia e tramite manodopera detenuta, un laboratorio per la lavorazione del ferro che, oltre alle attrezzature già nella disponibilità dell’Istituto, riceverà tutti gli strumenti e le apparecchiature presenti ed inutilizzate nella Casa Circondariale di Crotone. Grazie a dei progetti finanziati dalla Cassa delle Ammende “Colore dentro le mura” tutto l’Istituto, dai locali per lo svolgimento delle attività in comune alle camere di pernottamento, è stato completamente ritinteggiato ed allo stato si presenta in ottime condizioni. Inoltre, tutti gli ambienti che sono stati visitati, sono stati trovati in perfetto stato di igiene e pulizia, garantendo senza alcun dubbio elevati standard di vivibilità alla popolazione detenuta. Sono presenti, altresì, due impianti sportivi, uno di calcio a cinque e l’altro di pallavolo, quotidianamente utilizzati, realizzati grazie ai finanziamenti concessi dalla Cassa delle Ammende. È presente ed attiva una palestra, dotata di ogni attrezzatura, a cui possono accedere tutti i detenuti. Nelle condizioni appena descritte, il Carcere di Locri, si pone come una struttura innovativa, dotata anche delle più moderne tecnologie necessarie a garantire la sicurezza, che corrisponde all’idea evoluta di esecuzione della pena, in linea con i lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e della recente Riforma Penitenziaria. Per quanto concerne l’assistenza sanitaria non sono stati riscontrati problemi degni di nota, fatta eccezione per l’assenza del Medico Cardiologo, che verrà rappresentata ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, ed alle altre Autorità competenti. Nel Carcere di Locri in questi giorni è stata allestita una postazione per i colloqui familiari tramite videochiamata Skype, il cui servizio sarà ufficialmente operativo dal prossimo 1 maggio, per facilitare le relazioni familiari dei detenuti e garantire le loro esigenze affettive, nella massima sicurezza. Dal punto di vista giuridico, la videochiamata viene equiparata ai colloqui, anche per quanto riguarda autorizzazioni, durata e controllo. I detenuti, in linea generale, potranno fare fino a sei video-colloqui al mese per la durata massima di un’ora. Per quelli in attesa di giudizio sarà necessaria l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. Prima di svolgere le videochiamate ai familiari, i detenuti dovranno presentare richiesta indicando l’indirizzo mail da contattare e allegando copia del certificato che attesta la relazione di convivenza o il grado di parentela. Il familiare o il convivente destinatario della chiamata dovrà, invece, assicurare (tramite autocertificazione) che parteciperanno al collegamento esclusivamente i soggetti indicati nella richiesta e autorizzati. Per il collegamento i detenuti saranno accompagnati in appositi locali degli istituti dove avranno a disposizione postazioni informatiche abilitate. Per assicurare, accanto alla riservatezza, anche condizioni di completa sicurezza, i colloqui si svolgeranno sempre sotto il controllo visivo del personale della Polizia Penitenziaria che da postazione remota potrà visualizzare le immagini che appaiono sul monitor del computer che sta utilizzando il detenuto. Nel caso di comportamenti non corretti del detenuto o dei familiari, il video collegamento verrà immediatamente interrotto con conseguente preclusione del servizio. *Già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani, candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Pescara: compra un libro, la colletta per i detenuti Il Centro, 27 aprile 2019 Compra un libro e poi regalalo ai detenuti e ai loro figli. È il senso della sesta edizione della “Colletta del libro”, l’iniziativa promossa dall’associazione Stella del Mare e dalla casa circondariale di Pescara con il patrocinio del Comune e della Provincia e la collaborazione dell’associazione Percorsi. L’evento si svolge domani e coinvolge diverse librerie della città. Verrà chiesto all’utenza di acquistare un libro e poi donarlo. Tutti i libri raccolti sono destinati ai detenuti del carcere, ai loro figli o ai minori in case famiglia del territorio. Spiega Mariassunta Paolone, presidente di Stella del Mare: “Pensiamo che dare la possibilità di elevare la cultura delle persone, li aiuti nel loro percorso di recupero e inserimento nella società civile”. Nelle passate edizioni “sono stati raccolti e donati più di mille libri che devono essere nuovi perché altrimenti dovrebbero essere igienizzati prima di essere inseriti in carcere”. Anche quest’anno “tra i volontari che si alterneranno davanti le librerie coinvolte, ci saranno otto detenuti in permesso speciale che chiederanno di acquistare libri. Per loro è un’occasione per rendersi utili e prendere coscienza del male fatto e poter restituire in parte alla società il loro contributo”. Le librerie coinvolte nell’iniziativa sono: Mondadori (via Milano), Edizioni San Paolo (corso Vittorio Emanuele), Feltrinelli(via Milano), Rusconi librerie (stazione centrale), On The Road Galleria Europa 2 (corso Umberto - Montesilvano), Giunti al Punto (Centro commerciale Arca - Spoltore e Village Outlet - Città Sant’Angelo), Mondadori (piazza Sirena -Francavilla). Chi vuol essere volontario per qualche ora, può contattare il 347 9549548 o su Facebook La stella del mare. Rossano Calabro (Cs): detenuto vince il premio nazionale “Sulle ali della libertà” ilcoriglianese.it, 27 aprile 2019 Un detenuto del carcere di Rossano, Francesco Argenteri, ha vinto il premio nazionale “Sulle ali della libertà”, giunto alla seconda edizione, con la tesi di laurea “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale”. La cerimonia di consegna del riconoscimento avrà luogo il 30 aprile nel carcere di Rossano, alla presenza dell’arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Giuseppe Satriano, e della direttrice della casa circondariale, Maria Luisa Mendicino, oltre che di Alessandro Pinna, presidente de “L’Isola Solidale”, ente promotore del premio. “L’Associazione “Isola Solidale” - è detto in un comunicato - accoglie i detenuti che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Il premio consiste in un buono per l’acquisto di libri pari a mille euro. L’iniziativa ha ottenuto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la Medaglia di rappresentanza”. Baby torturatori, per divertirsi di Giuliano Foschini La Repubblica, 27 aprile 2019 “Lo abbiamo fatto per passare il tempo” dice uno degli aguzzini, 17 anni. A perseguitare il vecchio erano in tanti, in competizione. E tutti sapevano. Perché? “Per passare il tempo”. Lo avete ucciso. “Non è vero, che dite! Ho soltanto girato qualche video su WhatsApp”. Non ci sei mai andato? “Qualche volta, fuori di casa. Senza mai entrare”. Perché? “Per ridere”. Per capire l’orrore di Manduria è necessario guardare gli occhi vispi ma apparentemente privi di emozione di questo ragazzo che non ha ancora compiuto 17 anni. Cammina con la testa bassa verso casa. Dice di sognare, da grande, di fare l’attore. E che “si sta facendo troppo casino”. Secondo la polizia è uno dei 14 aguzzini di Antonio Cosimo Stano, “lu pacciu” di Manduria, come lo chiamavano tra di loro, l’uomo seviziato a morte da questi ragazzi e ucciso dalla distrazione di un paese, quasi tutto, che ora si indigna ma per anni sapeva e aveva sempre fatto finta di non vedere. “Non abbiamo fatto niente, solo due messaggi” ripete il ragazzo, prima di andare via. Il niente è una lunghissima chat di WhatsApp. Un gruppo chiuso al quale partecipano una dozzina di giovani del paese. Si chiama “Gli orfanelli” ed è una cassetta postale nella quale compulsivamente ogni giorno, durante le lezioni a scuola e così fino a tarda notte, i partecipanti si scambiavano per lo più cose inutili: fotografie, sfottò calcistici, scherzi audio. I partecipanti sono tutti di Manduria e, in un paese come questo, culla della Sacra corona unita, dove il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, sono quelli che si chiamano “bravi ragazzi”: uno solo, figlio di un pregiudicato, ha precedenti. Gli altri hanno genitori insegnanti, guardie giurate, imprenditori vinicoli, commercianti. E sono tutti studenti (per dire, nei giorni scorsi la polizia è stata in classe per sequestrare uno smartphone). In comune hanno dunque questa chat. E un’ossessione: Antonio “lu pacciu”. L’uomo era un ex dipendente dell’Arsenale militare. Era in pensione da tempo, quasi dieci anni, e da allora aveva avuto problemi di natura mentale. “Tecnicamente era un paziente psichiatrico” spiegano dalla procura di Taranto dove, in queste ore, stanno cercando di mettere ordine all’insensatezza di un crimine senza movente. Se non la violenza stessa. Da anni - c’è chi dice sei, chi un paio - questa banda di ragazzini perseguitava l’uomo. E poi si divertiva a condividere nel gruppo WhatsApp i video delle vessazioni. Per esempio: è febbraio, fa freddo, Antonio ha un lungo cappotto marrone. Gli mettono il cappuccio sulla testa e cominciano a prenderlo a schiaffi. Uno riprende, un paio colpiscono, gli altri ridono. “Miliardi di persone perché vieni sempre da me!” implora di smetterla Antonio sull’uscio di casa, mentre uno dei ragazzi lo spinge forte per terra e gli altri ridono di gusto. Poi, ancora: calci, sgambetti. “Che facciamo oggi?”. “Stasera sciamu tutti dallu pacciu” e via emoticon, risate, e cenni di approvazione. Entrano anche nella sua casa. Un ragazzo brandisce una scopa verde, come fosse la frusta di un domatore. Antonio è spaventato, sulla sedia, prova a ripararsi con le mani, viene colpito, tutti ridono. In diretta e nella chat. “Mamma, che hai fattu allu pacciu! Come lo hanno combinato!”. Antonio era esausto. A perseguitarlo non c’erano soltanto quelli del gruppo de “Gli orfanelli”. Era diventato l’oggetto di una competizione nel paese. Due, tre comitive di coetanei. Che poi si inviavano video tra di loro per vedere chi l’aveva fatta più grossa. Antonio, ormai, non usciva più di casa perché aveva paura di incontrarli. Temeva anche soltanto di aprire la porta per uscire a fare la spesa. Era solo: aveva una sorella più grande, impossibilitata a muoversi di casa. E un nipote, ufficiale di Marina, che si prendeva cura di lui ma viveva lontano, troppo, per rendersi conto di quello che stava accadendo. È impossibile da capire, però, come non abbiano visto quelli che erano vicini ad Antonio. Chi gli abitava accanto, chi ogni giorno assisteva a quelle scene di bullismo. Racconta Roberto Dimitri, educatore nella parrocchia di San Giovanni Bosco, che Antonio frequentava: “Personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamato i genitori, ma senza risultati”. “Non capisco” dice uno degli investigatori, “come sia possibile che non ci sia arrivata mai nemmeno una segnalazione, visto che queste persecuzioni, perché tali sono, andavano avanti da anni”. I poliziotti sono stati allertati dai vicini soltanto all’inizio di aprile, perché non vedevano Antonio in giro. Il 6 sono entrati in casa: lo hanno trovato seduto su una sedia, come tramortito. La casa era un porcile. Non c’era nemmeno un letto, un materasso era poggiato a un muro. Antonio dormiva sulla sedia. Non aveva più il televisore: se l’era portato via uno della banda, chiaramente ripreso dai cellulari degli altri. C’erano ancora i segni delle scorribande dei ragazzi. “Non si rendevano conto del male che stavano facendo”, è convinto l’avvocato Lorenzo Bullo, che difende sei indagati, cinque minorenni e un maggiorenne. Di orrore se ne intende: ha difeso Cosima Serrano, una delle assassine di Avetrana, che da Manduria dista pochi chilometri. E dove in pochi avevano visto, eppure tutti sapevano. Ora i genitori dei ragazzi piangono. Mentre loro, i ragazzi, chiedono “perdono” ma si dicono “certi di non averlo ucciso”. Saranno i medici a stabilire se quella perforazione allo stomaco che sembra aver ammazzato Antonio sia il frutto di un colpo, di una vecchia ulcera o della paura anche solo di uscire di casa e chiedere aiuto. “Ridate i soldi al vecchio” scrivono “Gli orfanelli” in uno degli ultimi messaggi, prima del sequestro dei telefoni. Qualcuno aveva rubato a casa Stano 300 euro, o forse 30. Ma la cifra non importa. “Lu pacciu” non c’era già più. I giovani permale di Michela Marzano La Repubblica, 27 aprile 2019 La violenza è talmente sdoganata che i ragazzi credono che tutto sia gioco e non sentono sulla pelle il dolore altrui. Cosa può passare per la testa di un ragazzo quando bullizza, umilia o tortura un altro essere umano? È accaduto a Manduria, in provincia di Taranto, dove quattordici ragazzi, di cui dodici minorenni, hanno segregato in casa un uomo di sessantasei anni che soffriva di disagi psichici, sottoponendolo a numerosissime sevizie. Ma, dicevo, cosa può mai spingere dei ragazzi a commettere tali atrocità? Una forma di crudeltà, senz’altro. E di totale assenza di empatia nei confronti della sofferenza altrui - immaginando magari che un disagio psichico renda impermeabili al dolore, oppure meno degni di considerazione e empatia. Ma anche una forma di stupidità, visto che solo chi non è in grado di capire che la persona che ci sta di fronte (indipendentemente dalle differenze specifiche che lo caratterizzano e dalle abilità o disabilità che porta con sé) possiede, in quanto persona, il nostro stesso valore intrinseco, può permettersi di calpestare la dignità altrui. Per non parlare poi dell’indifferenza, madre di ogni male, che porta a tapparsi le orecchie e a bendarsi gli occhi di fronte al dolore di chi ci è davanti. Anzi. Spinge addirittura a moltiplicare all’infinito la violenza, e a filmare le scene con il cellulare. Prima di condividerle su WhatsApp con tutti coloro che, indifferenti pure loro alla vulnerabilità umana, confondono la violenza con l’eroismo e la vigliaccheria con il coraggio. Ormai viviamo in una società in cui sono molti coloro che pensano che l’unica cosa che conti sia l’”apparire”: trovare il modo per ottenere condivisioni e “mi piace” sui social, forse perché non si è in grado di esistere in altro modo, forse perché non si riesce nemmeno più a dare valore alla propria esistenza. E allora si immagina che tutto si equivalga: fare, disfare, distruggere, cancellare. Tanto chi può mai essere turbato dalla morte di un marginale? A chi può mai mancare un uomo anziano e disabile? Pare che nei video diffusi sulla chat di WhatsApp, i giovani si siano ripresi proprio mentre prendevano a pugni e a calci la vittima. Così come pare che l’anziano signore fosse vittima di bullismo da anni. Anni di soprusi e umiliazioni, quindi. Senza che nessuno sia mai intervenuto per mettere fine alla tragedia. Perché è di una tragedia che stiamo parlano, non di un videogioco né di un film di Tarantino. Ma forse il problema è proprio questo: aver a tal punto sdoganato la violenza che il messaggio secondo cui, in fondo, tutto è gioco, tutto è possibile, e niente è irreparabile, è ormai parte del Dna di troppi giovani. Mentre la caratteristica della crudeltà è proprio l’irreparabilità: quando il bersaglio è un essere umano, ogni gesto resta, ogni umiliazione si iscrive sulla carne, ogni calcio e ogni pugno calpestano la dignità personale. E non è vero che basti punire i colpevoli per risolvere questo tipo di problemi ed evitare che, in futuro, possano di nuovo accadere tragedie come questa. Finché non si ricomincerà dall’Abc del rispetto e dalle basi della compassione - che non è innata, ce lo spiega bene Freud: se i più piccoli non vengono educati all’empatia, la crudeltà non ha limiti, e non c’è modo di arginarla - sarà difficile immaginare un futuro in cui i giovani sentano sulla propria pelle il dolore altrui, e capiscano il significato dei propri gesti. Il mondo delle relazioni, oggi, necessita di essere riparato. Ce lo spiega l’etica della cura, che sposta l’asse dall’individuo alle relazioni, e mostra come il vivere- insieme può essere preservato solo ricostruendo la capacità dell’”io” a riconoscere il “tu”. Ma soprattutto ce lo impone la realtà, ogniqualvolta ci costringe a fare i conti con i drammi generati dall’indifferenza, dalla stupidità e dalla crudeltà di alcuni ragazzini e a domandarci, un’altra volta, se questo è un uomo. Libia. Spari in un Centro di detenzione. Msf: “Fatto fuoco su uomini, donne e bimbi” La Stampa, 27 aprile 2019 Rifugiati e migranti nel centro di detenzione di Qasr Bin Gashir a Tripoli sono stati attaccati e feriti da colpi di arma da fuoco: lo confermerebbero le evidenze analizzate dalle équipe di Medici senza frontiere. Sono due settimane che Msf e altre organizzazioni umanitarie denunciano la condizione di pericolo di circa 3.000 migranti e rifugiati intrappolati nei centri di detenzione chiedendone l’immediata evacuazione e “questo incidente poteva essere evitato”, denuncia Msf. “La comunità internazionale non può che essere incolpata per la sua totale inazione verso le persone bloccate nei centri. Oggi Msf sta di nuovo implorando che queste persone vengano immediatamente evacuate dal paese. Fino a quel momento saranno in serio pericolo di subire un altro attacco o di finire nel fuoco incrociato”, dichiara Karline Kleijer, responsabile di Msf per le emergenze. Il 23 aprile si sono diffuse notizie di un violento attacco nel centro di detenzione di Qasr Bin Gashir, dove erano rinchiusi oltre 700 uomini, donne e bambini “disarmati e indifesi”, spiega Msf. Versioni divergenti da parte di media e organizzazioni sul campo non sono riuscite a fornire un quadro chiaro dell’accaduto e delle conseguenze per le persone. Secondo diverse testimonianze ci sarebbero alcuni morti e almeno 12 feriti. Sebbene non tutti i dettagli dell’incidente possano essere confermati, foto e video analizzati dai medici di Msf evidenzierebbero che le ferite sono compatibili con colpi di arma da fuoco. Queste osservazioni sono confermate dal racconto di numerosi migranti e rifugiati che erano presenti, sottolinea l’organizzazione, e hanno detto di essere stati “brutalmente e indiscriminatamente attaccati con armi da fuoco”. Messico. Fuga in massa da un Centro per migranti L’Osservatore Romano, 27 aprile 2019 Al collasso le strutture di detenzione in Messico. Almeno 1.300 migranti, principalmente cubani, sono fuggiti ieri sera da un centro di accoglienza a Tapachula, al confine meridionale del Messico. Lo hanno riferito le autorità. “C’è stata un’uscita non autorizzata su larga scala di persone che soggiornano presso la stazione di migrazione”, ha dichiarato l’Istituto nazionale per l’immigrazione, specificando che 700 di loro sono poi rientrati volontariamente, mentre gli altri 600 non sono stati ancora localizzati. Il complesso di Tapachula ha una capacità per ospitare fino a 900 persone, mentre erano presenti circa 3.200 migranti, la maggior parte cubani. Il portavoce del centro di detenzione ha spiegato inoltre che gli agenti all’interno del complesso non erano armati e che, pertanto, “non c’è stato alcun confronto” né impedimento alla partenza in massa dei migranti, nonostante questi avessero minacciato di dar fuoco alla struttura. La polizia federale invece con scudi antisommossa si è riversata poi nell’istituto per controllare la situazione, mentre all’esterno una folla di cubani, famigliari dei detenuti presso la struttura, si è radunata per protestare contro il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche in cui versano i migranti. La mobilitazione sarebbe “stata promossa soprattutto dai cittadini cubani”, ha specificato il centro. Già il 18 aprile scorso, le autorità messicane avevano sventato il tentativo di trecento cubani di raggiungere Città del Messico, bloccando l’autobus sul quale viaggiavano nei pressi della città di Huixtla, nello stato del Chiapas, costringendo i migranti a ritornare nel centro di detenzione di Tapachula. Questo episodio avrebbe fatto scatenare ulteriormente le tensioni tra i migranti e le autorità messicane. Un gruppo di cubani, circa 2.000 - secondo le fonti ufficiali - starebbero da settimane bloccati al confine meridionale del Messico dopo aver attraversato Panamá, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Guatemala. Nei giorni scorsi 148 cubani che avevano un soggiorno irregolare nel paese sono stati rimpatriati. Il flusso di migranti organizzati in diverse “carovane” che si dirigono verso nord si è moltiplicato negli ultimi mesi. Le autorità hanno stimano, a metà aprile, che almeno 5.874 migranti di varie nazionalità, in gran parte provenienti dall’America centrale, sono bloccati nello stato del Chiapas o in attesa al confine per entrare nel paese.