Cambio al vertice della Cedu: se ne va il giudice che condannò l’Italia per tortura di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 aprile 2019 Guido Raimondi è stato il primo magistrato italiano a scalare i vertici della Corte di Strasburgo. Terminerà il prossimo 4 maggio l’incarico di Guido Raimondi alla presidenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Raimondi è stato il primo magistrato italiano a scalare i vertici della Corte di Strasburgo e sono state numerose le sentenze con cui la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani. Alcune meritano di essere ricordate. La più importante è certamente la sentenza “Torreggiani” del 2013 relativa ai trattamenti inumani e degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Una sentenza definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota”, in quanto ha affrontato per la prima volta il problema strutturale del non funzionamento del sistema penitenziario italiano. “La carcerazione - affermano i giudici di Strasburgo - non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. “La grave mancanza di spazio proseguono i giudici - sperimentata dai ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza”. Una citazione merita la sentenza “Bartesaghi Gallo e altri” del 2017. La vicenda riguarda le violenze perpetrate dalle forze di polizia in occasione del G8 di Genova del 2001. In particolare durante l’ormai tristemente celebre irruzione nella scuola Diaz. Irruzione paragonata da un funzionario di polizia intervenuto sul posto ad “una macelleria messicana”. In questo caso la Corte ha affermato che il trattamento al quale furono sottoposti i ricorrenti deve essere considerato alla strega della tortura, “in considerazione della sua natura particolarmente grave e crudele e dell’acuta sofferenza fisica e psichica causata alle vittime”. “I ricorrenti - aggiungono i giudici - sono stati sia vittime che testimoni della violenza incontrollata della polizia, che si è scagliata sistematicamente nei confronti degli occupanti della scuola Diaz, i quali non avevano commesso alcun atto di violenza o di resistenza”. La Corte ha sul punto richiamato quanto indicato nella sentenza “Cestaro” del 2015, relativo ai medesimi fatti avvenuti durante il blitz alla Diaz, in particolare all’inadeguatezza dell’ordinamento italiano per quanto attiene alla repressione della tortura. Innumerevoli, infine, sono state le sentenze di condanna per l’eccessiva durata dei processi. Solo in ordine di tempo, la sentenza “Fasan e altri” del 2017 con cui la Cedu ha disposto il risarcimento, respinto in precedenza dall’Italia, per un processo durato circa 30 anni. Oppure la sentenza “Olivieri” dell’anno prima, con la quale sono stati ampliati i paletti fissati dalla legge Pinto per l’ammissibilità agli indennizzi. Non si saprà mai, invece, se l’applicazione della legge Severino a Silvio Berlusconi nel 2013 fu violazione dei diritti umani o meno. “Presi in considerazione tutti i fatti del caso, in particolare la riabilitazione di Berlusconi e il suo inequivocabile desiderio di ritirare il ricorso, la Corte conclude che non ci sono circostanze speciali relative al rispetto dei diritti umani che richiedano di continuare l’esame del ricorso”, scrissero in una nota lo scorso novembre i giudici di Strasburgo. “Dal boss Turatello a Mani Pulite. I miei 40 anni di lavoro in carcere” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 aprile 2019 Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore, va in pensione. “L’inizio fu un trauma. Cusani? Riteneva di poter cambiare il carcere”. Non è stato solo un testimone, in 40 anni di carriera: Luigi Pagano è stato anche un artefice del processo di cambiamento che ha investito il carcere in Italia, che però è ancora lontano da essere al passo con i tempi. Laurea in giurisprudenza, sposato, due figli, 65 anni, napoletano, Pagano è stato direttore di molti istituti, ultimo San Vittore per 15 anni. Dal 2004 è al vertice del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia, tranne la parentesi 2012-2016 in cui è stato vice capo del Dap nazionale. Il 1° maggio andrà in pensione. Quarant’anni di carcere? Come c’è finito? “Dopo un breve periodo da avvocato a Napoli, a 25 anni per caso vidi l’annuncio del concorso che poi ho vinto”. Primo incarico? “Pianosa”. Isola bellissima, ma lavorarci a 25 anni non deve essere stato facile… “Fu un impatto tremendo, c’era solo il carcere e io non ero mai entrato in un carcere in vita mia. Eravamo sotto Natale e il comandante degli agenti fece l’errore di portarmi nella sezione di massima sicurezza per fare gli auguri ai detenuti. C’erano i brigatisti del delitto Moro. Arrivarono minacce da tutte le parti, insulti. L’avevano presa per una provocazione”. Un trauma… “Tremendo, anche per mia moglie che era incinta. Un detenuto lavorante un giorno le disse con molta gentilezza che le madri non avrebbero mai dovuto morire. Peccato che aveva sterminato la famiglia, madre compresa”. Poi? “Nuoro. Arrivai dopo una rivolta con due morti e dopo che avevano sparato al vice questore all’uscita dal carcere. C’ero quando ammazzarono Francis Turatello, il criminale della mala milanese”. Cosa successe? “Non lo potrò mai dimenticare. Erano in quattro ad accoltellarlo, tra cui Pasquale Barra (condannato per questo all’ergastolo ndr). Scattò l’allarme e proprio quando raggiunsi il cortile gli diedero il colpo di grazia. In carcere, nonostante i forti controlli, allora entrava di tutto, coltelli, detonatori, esplosivo. C’era un clima pesantissimo”. Temeva per la sua vita? “La paura è un sintomo vitale, l’importante è vincerla” Altra sede? “Asinara, riaperta solo per ospitare Cutolo (glissa) e Piacenza. Era il 1982 e fu arrestato Bruno Tassan Din, (ex amministratore delegato della Rizzoli-Corriere della Sera coinvolto nel crac del Banco Ambrosiano, ndr). Quindi Brescia, dove per la prima volta il carcere si aprì all’esterno grazie anche all’allora ministro Mino Martinazzoli. Trasmettemmo dall’interno il Maurizio Costanzo show”. Nel ‘92 è a Milano. Mani pulite, Mario Chiesa in cella. “L’avevo conosciuto come presidente del Pat per iniziative di lavoro per i detenuti”. La presenza dei colletti bianchi cambiò qualcosa? “No. La maggior parte si unì agli altri detenuti i quali, però, li vedevano come corpi estranei”. Accade la tragedia del suicidio di Gabriele Cagliari. “Credo che il carcere c’entri relativamente. Da quello che ho capito, fu una sua speranza di uscire che fu delusa, ma non c’erano avvisaglie di quello che sarebbe poi accaduto. Anche questa è una giornata che non dimenticherò. Fu come quando si addensa una tempesta. Dopo il suicidio di Cagliari, alla mattina, i detenuti sbatterono oggetti facendo rumore per molto tempo; la sera un altro detenuto si uccise nel centro neuropsichiatrico”. In carcere arrivò Sergio Cusani che a lungo avrebbe fatto parlare di sé. “Con il quale ho avuto rapporti conflittuali, ma gli riconosco dignità. Affrontava il carcere come se prima non fosse esistito. Riteneva di poterlo cambiare. Non credo alle rivoluzioni d’impeto, ma alle conquiste giorno per giorno”. Cos’è oggi il carcere? “Diverso da quando ci entrai. Allora era duro, ora i detenuti lavorano all’interno, come a San Vittore dove aprimmo il primo call center, possono accedere a internet, seppure con limitazioni, telefonare. Anche i detenuti sono diversi, sono tossicodipendenti e stranieri. A San Vittore per il 75% non sono italiani”. È comunque un luogo di punizione. “È una delle contraddizioni che si porta dietro: pensare che una struttura chiusa per definizione, che isola rispetto al mondo possa nel contempo reinserire il condannato nella società come dice la Costituzione è difficile da capire. Le misure alternative, però, stanno dimostrando che la strada da seguire è questa: chi ne beneficia, uscito dal carcere, statisticamente ritorna molto meno a delinquere. Bisogna pensare anche a chi resta dentro. Il carcere non è la soluzione a tutti i mali”. Lei è stato vice capo del Dap. Che esperienza è stata? “Coinvolgente. Abbiamo affrontato la sentenza Cedu sul sovraffollamento. Le istituzioni hanno lavorato insieme per risolvere un problema di civiltà ed economico. Se non avessimo dato risposte a Strasburgo l’Italia avrebbe dovuto sborsare 20-30 milioni di euro. Anche grazie ad alcune riforme, i detenuti scesero da 66 mila a 52 mila”. I detenuti l’hanno sempre rispettata. Che rapporto ha avuto con loro? “Li trattavo come persone ricordando loro però che ero sempre un carceriere che, per quanto illuminato, non fa promesse e ti chiude dentro, anche se ha lavorato per cambiare il carcere e superarlo perché lo ritiene anacronistico per molte tipologie di detenuti”. Mattarella: “No a scambi libertà-sicurezza” di Diodato Pirone Il Mattino, 26 aprile 2019 Festa della Liberazione, richiamo di Mattarella: memoria dovere morale. Il presidente della Repubblica Mattarella parla a Vittorio Veneto nell’anniversario della Liberazione: “La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”, ammonisce. Assenti i ministri della Lega. Mentre la lite tra Di Maio e Salvini sulla vicenda Siri si sposta sull’antimafia: “Inutile andare a Corleone”; “io qui contro i clan”. Anche il 25 aprile è stato scandito dalle frecciate fra 5Stelle e Lega. Il vicepremier pentastellato Luigi Di Maio ha reso omaggio alla Liberazione attaccando apertamente il vicepremier leghista. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico da Napoli diceva che “il fascismo fa schifo”, Di Maio era alla sinagoga Beth di Roma, con i colleghi di governo Grillo e Bonafede, dove ha sottolineato: “Il 25 aprile divide chi non vuole festeggiarlo”. Prima bordata lanciata a Salvini che ha scelto di non celebrare la Liberazione per recarsi a Corleone per l’apertura di un commissariato. “Noi non vogliamo essere divisivi - ha aggiunto Di Maio - questa deve essere una giornata di unione. Deve essere una giornata in cui, al di là dei colori politici, si festeggia e si lavora per far sì che chi ci ha consentito di arrivare fino a qui, cioè i nostri nonni, siano onorati”. Poi nuova stoccata all’alleato: “Puoi anche andare a Corleone a dire che vuoi liberare il Paese dalla mafia, ma per farlo devi soprattutto evitare che la politica abbia anche solo un’ombra legata a inchieste su corruzione e mafia. La mafia la elimini se tu dai l’esempio”, ha detto Di Maio. Che ha poi cannoneggiato a tappeto sul caso Siri: “Siri si deve dimettere da sottosegretario. E se non lo fa? Chiederemo con ancora più forza, all’interno del governo, di farlo. E lo dico a tutti, anche al presidente del Consiglio, perché noi in qualche modo lo abbiamo disinnescato e neutralizzato togliendogli le deleghe, ma quella è una indagine di corruzione che riguarda anche fatti di mafia”. La replica di Salvini è stata di tutt’altro tono. “Fascismo, Di Maio? Mi sono impegnato a non rispondere sulle polemiche, sono in modalità zen. La polemica politica la lascio agli altri. Sono a Corleone per dire che batteremo la mafia”, si è limitato a dire il vicepremier del Carroccio. Sulla stessa lunghezza d’onda di Di Maio si è collocato il resto del Movimento. Espressioni analoghe a quelle del vicepremier pentastellato, ad esempio, sono state pronunciate dal sottosegretario agli Affari regionali, Stefano Buffagni, braccio destro di Di Maio: “Ci aspettiamo che Siri possa assolutamente andare via dal governo immediatamente, da senatore si difenderà, chiarirà la sua posizione e poi potrà tornare ad occuparsi di quello che ritiene importante”. Dal canto suo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è stato tranchant: “A me dispiace che in questi giorni mi sembri di tornare un po’ al passato, quando ai tempi di Berlusconi si parlava della giustizia contro qualcuno o per qualcuno”. Più tardi Di Maio si è spostato in Umbria dove ha continuato a stuzzicare Salvini. “La nostra presenza nel governo serve anche ad arginare alcuni atteggiamenti che non considero accettabili - ha spiegato Di Maio. Perché, va bene la legittima difesa, ma poi se qualcuno vuole una legge per far proliferare le armi, quella cosa va fermata e lo abbiamo fatto. Così come sull’autonomia, è giusto darla ma non bisogna spaccare l’Italia in due o in tre. Noi saremo sempre baluardo di coesione nazionale”. Un duello, quello fra 5Stelle e Lega, che viene stigmatizzato dal Pd. “Le due forze al governo litigano su tutto, persino sul 25 aprile. L’Italia non merita questa continua polemica e queste provocazioni - ha detto ieri il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Specie se toccano i valori fondamentali della nostra democrazia. La festa della Liberazione è una giornata che deve unire, avvicinarci, farci sentire tutti parte di un percorso comune. Lasciamo stare quindi le polemiche strumentali, gli utilizzi parziali e ipocriti”. Il 25 aprile di Mattarella: “Non si baratta la libertà con promesse di ordine” di Ugo Magri La Stampa, 26 aprile 2019 Il presidente contro la narrazione del derby tra comunisti e fascisti: “Non solo partigiani, la Resistenza fu serbatoio di valori morali e civili”. Sergio Mattarella ha smontato un paio di “fake” che da qualche tempo circolano nella politica. Anzitutto la leggenda di un fascismo “buono”, che fece opere benemerite tipo le bonifiche, ma commise l’errore di entrare in guerra dalla parte sbagliata; e poi la grossolana rappresentazione della Resistenza che qualche leader (da ultimo ci è cascato Matteo Salvini) riduce a un sanguinoso derby tra comunisti e fascisti, con gli italiani spettatori o vittime. Non andò affatto così, spiega il presidente della Repubblica da Vittorio Veneto, dove ieri mattina ha festeggiato il 25 aprile. Anzitutto il fascismo fu una pessima dittatura che si racconta da sé: “Niente libertà di opinione, di espressione, di pensiero. Abolite le elezioni, banditi i giornali e i partiti di opposizione. Gli oppositori bastonati, incarcerati, costretti all’esilio o uccisi. Bisognava obbedire agli ordini più insensati e crudeli che impartivano di odiare gli ebrei, i dissidenti, i paesi stranieri. Ma soprattutto si doveva combattere, non per difendersi ma per aggredire, per conquistare e per soggiogare”. Tradotto nel linguaggio di ogni giorno: il regime fascista fu una vera schifezza morale. Portava ordine, è vero. Ma “la storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”. Maneggiare i mitra è sempre fonte di guai. Non solo partigiani - Quanto alla Resistenza, è falso dire che mobilitò al massimo 300 mila partigiani. Loro, certo, furono in prima fila. Ma per Mattarella contribuirono anche “i soldati italiani che combatterono fianco a fianco con l’esercito alleato coprendosi di valore”. E dei resistenti fecero parte i 600 mila militari, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, che “rifiutarono l’onta di servire sotto la bandiera di Salò e dell’esercito occupante preferendo l’internamento nei campi di prigionia nazisti”, dove morirono in 50 mila. Né va dimenticato, sostiene il presidente, l’apporto “delle centinaia di migliaia di persone che offrirono aiuti, cibo, informazioni ai partigiani”, e il contributo “dei tanti giusti delle Nazioni che si prodigarono per salvare la vita degli ebrei, rischiando la propria”. La Resistenza fu un vasto movimento capace di affratellare donne e uomini di diversissime tendenze: azionisti, socialisti, liberali, comunisti, cattolici, monarchici e perfino molti ex fascisti delusi. Una rete che ricollegò l’Italia agli “alti ideali del Risorgimento”, permettendole di riprendere posto tra le nazioni democratiche e libere. Le pagine oscure - Poi, certo, ci furono degli eccessi. Al 25 aprile 1945 seguirono “vendette e brutalità inaccettabili contro i nemici di un tempo”. Anche quella violenza va condannata, e Mattarella non si tira indietro. L’operazione verità va condotta a 360 gradi. Ma una volta fatta luce sulle pagine oscure, resta il giudizio complessivo: “La Resistenza fu un fecondo serbatoio di valori morali e civili”. Chi li snobba rischia di ritrovarsi, come compagni di strada, i camerati di Forza Nuova e di Casa Pound. Nemmeno la Lega si pone in alternativa a quei valori, come ha testimoniato ieri la vicinanza a Mattarella del governatore veneto Luca Zaia, insieme a quella di tanta gente. Perché in Italia il processo penale non è un monumento di certezza di Massimo Krogh Il Mattino, 26 aprile 2019 Mi riferisco al commento di Giuseppe Tesauro “Il cittadino spaesato nell’agone giustizia” (Il Mattino 23.04.2019) che segnala lo “sconcerto” suscitato dall’andamento della giustizia penale, dove affluiscono sentenze che si incrociano in un contesto di incomprensibili contraddizioni e di proposizioni poco verosimili; gravi imputazioni che non resistono al secondo o al terzo grado di giudizio, lavoro investigativo durato anni e poi sconfessato; insomma, un capogiro nell’incrocio fra chi fa le leggi e chi deve applicarle. Il commento del professore Tesauro è lungo e documentato, va letto con attenzione e lascia un quadro della nostra giustizia assolutamente sconcertante. Una visione che condivido pienamente. Naturalmente, il cittadino si chiede di chi siano le responsabilità di un simile stato di cose; vi è chi addita gli avvocati, chi i magistrati, chi gli amministratori pubblici, e soprattutto la politica. Questa, generalmente, è chiamata in causa come responsabile di tutto ciò, peraltro è strano che il cittadino, nel cogliere queste responsabilità, non si renda conto che i politici li produciamo noi, li produce cioè l’intero paese. Il che dovrebbe portare a concludere che il merito o demerito non è di questo o quello, ma va tutto intero agli italiani, un popolo di grandi tradizioni ma anche di grandi “furbate” troppo spesso esibite al posto dell’intelligenza. Il commento del professore Tesauro scorre agevolmente nella posizione mondiale della nostra giustizia, classificata, per la durata dei processi, agli ultimi posti del mondo, meglio al penultimo; dall’ultimo posto ci salva l’isola di Cipro. Forse, occorre riconoscere che il nostro Paese non aveva la cultura istituzionale presupposta da un processo penale di rito accusatorio, da noi introdotto nell’88 in sostituzione del rito inquisitorio. Non si è pensato che il processo accusatorio non può convivere con un sistema giudiziario che privilegia il criterio di obbligatorietà dell’azione penale e che assume, come un proprio fondamento, il primato della verità sostanziale da conseguirsi attraverso il libero convincimento del giudice, piuttosto che la verità processuale, più rapida e che parrebbe più rassicurante per la sua oggettività. Lo sconcerto denunciato da Tesauro è il risultato di un rito processuale continuamente modificato e rattoppato con leggi peggiorative e quasi sempre orientate verso una delega in bianco all’ufficio del pubblico ministero, cui si attribuisce la chiave di lettura non solo della legalità, come potrebbe essere naturale, ma anche della eticità, la quale sicuramente non può appartenere a un ufficio giudiziario. La linea di confine fra l’etica e il penale è forse esile ma va fortemente salvaguardata, evitando che il tasso di moralità di un Paese sia affidato alle leggi piuttosto che alla coscienza di ciascuno, evitando, cioè, confusioni che rischierebbero uno sconvolgimento culturale di imprevedibile deriva. Va pure detto che in tutte le democrazie ogni potere è equilibrato da un contropotere, che sia in grado di evitare sbilanciamenti; ciò sembra mancare da noi, dove il “libero convincimento” non sembra dotato dei necessari anticorpi, sicché lo stesso fatto può costituire reato per un tribunale e non per un altro tribunale. In effetti, bisogna forse liberarsi dall’ansia giustizialista che disturba l’equilibrio dei poteri e che sviluppa una forma di ansia punitiva; per punire tutti si rischia di non punire nessuno. In realtà, difettano le garanzie di fondo, quali la parità iniziale delle parti e l’immediata oralità; cose che richiederebbero, anzitutto, la separazione di carriera giudici/pm, inutilmente invocata da anni dall’avvocatura. Un pubblico ministero che si sente anche giudice finisce, fatalmente, per spaziare nei teoremi, con indagini lunghe e spesso non necessarie. Occorre recuperare il senso della giurisdizione restituendo centralità al giudizio come momento essenziale della giustizia. Altro tema importante è la sicurezza, che di là del riflesso psicologico, non può venire dai processi e dalle pene, cose che arrivano dopo il delitto, ma dal controllo del territorio, che sia tale da garantire una convivenza in termini di civile normalità. Bisogna riconoscere che da noi il processo non è quel monumento di certezza che si vorrebbe, cosa preoccupante e che, come osserva Tesauro, lascia spaesati. Quella banca dati di pochi Dna di Giusi Fasano Corriere della Sera, 26 aprile 2019 È attiva dal 2017 ma contiene solo 6 mila profili sui 160mila di carcerati, ex detenuti e indiziati. Il direttore: “Stiamo lavorando, ce la faremo”. Ha già dato un nome a 60 ignoti autori di reati. Ci sono sessanta persone, nel nostro Paese, che hanno avuto la certezza matematica di essere criminali sfortunati, ammesso che nel loro caso si possa parlare di sfortuna. Sfortunati perché sono stati smascherati come autori di un reato grazie alla nostra Banca dati nazionale che oggi contiene soltanto una piccola, piccolissima parte (6 mila su 160 mila) della montagna di dati che potevano incastrarli. Le tracce biologiche dei 60 sono state prelevate sulla scena di un crimine e schedate come appartenenti a soggetti “ignoti”. Ma poi, immesse nella Banca dati, ecco il match: la coincidenza perfetta fra il profilo “ignoto” e il codice genetico di un detenuto, ex detenuto o indiziato di reato che invece un nome e un cognome ce l’ha. È la prova della responsabilità ed è quasi impossibile smontarla. Gli inserimenti - E adesso i numeri. Sono 15 i laboratori che dal 19 gennaio 2017 stanno creando l’archivio nazionale delle identità biologiche e tutti sono passati dal severissimo giudizio di due enti di controllo: il Cnbbsv, il Comitato della Presidenza del Consiglio, e di Accredia, la società che certifica l’osservazione di regole e garanzie per la scienza, per la sicurezza informatica e per la privacy. Sei sono i laboratori privati, autorizzati all’analisi dei campioni. Otto sono invece quelli delle forze dell’ordine: Ris e Polizia scientifica, autorizzati anche all’immissione dei dati nella Banca. Finora proprio i Ris e la Scientifica hanno inserito circa 13 mila profili ignoti prelevati sulle scene dei delitti. Ma quei profili non servono a nulla senza il confronto con gli altri che consentono di risalire a un nome e un cognome. E qui entra in scena il laboratorio più importante, il quindicesimo: quello centrale di Roma, a Rebibbia. Lì finiscono tutti i campioni di Dna prelevati con il tampone salivale alla popolazione carceraria, agli ex detenuti e agli indiziati di reato che si è deciso di schedare quando è partita la Banca dati. In tutto 160 mila persone. Il laboratorio centrale, che funziona con circa 50 fra biologi e informatici, ha avuto tutte le carte in regola per partire il 27 dicembre 2017 e da allora ha inserito 6.000 profili di quei 160 mila stabiliti in partenza. Quindi ha lavorato al ritmo di 375 identità genetiche al mese. Il che significa che, a parità di avanzamento, per inserire i 154 mila profili mancanti servirebbero 34 anni. La lentezza - Le cause di tanta lentezza sono da cercare nell’effetto imbuto che si crea in quell’unico laboratorio romano, gestore di un flusso di dati così grande. Ma anche nella burocrazia, nelle regole rigidissime a cui attenersi per ogni singolo passaggio e, non ultimo, nella mancanza di investimenti per potenziare il sistema. “Guardare soltanto i numeri è fuorviante, la questione può essere vista anche da angolature diverse” premette Renato Biondo, biologo, dirigente della Polizia di Stato e direttore della Banca dati nazionale del Dna. “Per esempio: farei notare che otto laboratori delle forze dell’ordine hanno inserito in due anni 13 mila profili mentre il laboratorio centrale, da solo, ne ha inseriti 6.000 in sedici mesi. Questo ci dice che non stiamo parlando di lentezza nel lavoro. Ma io - riflette - farei una valutazione più ampia partendo dal 2009, quando il nostro Paese, ultimo in Europa, decise di dotarsi della Banca dati. Fra allora e oggi abbiamo creato il laboratorio centrale che non esisteva, lo abbiamo affidato al Corpo di polizia penitenziaria che non aveva biologi, che quindi si sono dovuti formare da zero. I laboratori accreditati hanno un altissimo standard qualitativo che rende i risultati inattaccabili. Tutto questo richiede tempo, professionalità da perfezionare sempre più, aggiornamenti tecnologici continui. E poi non dimentichiamo che per inserire ogni singolo profilo di Dna è necessario passare dal consenso dell’autorità giudiziaria e anche questo frena i tempi. Ma sono ottimista”, considera Biondo, che confida nelle macchinette americane di ultima generazione per avere profili genetici certificati e di cui però le norme italiane non prevedono l’utilizzo. La condivisione - L’ultima notizia dal fronte della Banca dati è il prossimo collegamento del nostro archivio nazionale con quelli tedesco e austriaco. Fra pochi mesi saremo collegati al milione di profili genetici che i tedeschi hanno inserito nella loro Banca a partire dal 2000. Basteranno 15 minuti per un match mentre servono soltanto pochi secondi se il confronto è tutto italiano. Per dirla con l’ottimismo di Biondo: “Sulla qualità siamo già i migliori. Troveremo il modo di velocizzare tutto e disfarci degli arretrati. Ce la faremo”. Ne sanno qualcosa i 60 ladri, rapinatori, stupratori seriali già incastrati. Il consulente aiuta il Pm a far emergere il reato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2019 Neutralità nella ricerca delle prove, rispetto della distinzione dei ruoli, attenta valutazione delle tempistiche e dei costi, gestione della riservatezza, tanto più importante nell’era dei big data e della digitalizzazione. Sono questi i temi affrontati nella monografia “La consulenza tecnico-contabile del Pubblico ministero in fase di indagini preliminari”, pubblicata da Assirevi - Associazione italiana revisori contabili - a cura del Gruppo di ricerca Forensic, con lo scopo di delineare una best practice operativa in un terreno molto delicato e oggetto di notevoli cambiamenti, imputabili alla crescita delle norme di riferimento, non solo nazionali. Il contesto affrontato è quello del contributo professionale esterno nelle indagini preliminari, con specifico riferimento agli elementi di prova contabile nel procedimento penale, dal falso in bilancio all’aggiotaggio, dal market abuse all’ostacolo alle autorità di vigilanza, fino alla bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale. In questi ambiti sono richieste spesso competenze multidisciplinari, trasposizione di situazioni in cui le nozioni tecniche esulano dalle competenze prettamente giuridiche: a titolo di esempio, in ambito aziendale quelle relative ai principi contabili internazionali Ifrs, oppure ai modelli organizzativi e di gestione previsti dal Dlgs 231/01 e, più in generale, alla cosiddetta compliance regolamentare, dai big data, ai mercati finanziari, ai criteri per la valutazione di strumenti finanziari derivati, di aziende, marchi, brevetti. La non autosufficienza del pubblico ministero - che ha ovviamente la competenza giuridica per inquadrare le condotte illecite, ma non sempre gli strumenti per individuarle - non implica comunque il totale “appalto” della valutazione in capo al suo consulente (che non sempre e non necessariamente trova peraltro interlocuzione nel perito del giudice). Il lavoro di Assirevi indica nella fase del pre-incarico il momento per un serio confronto tra il Pm e il professionista contabile individuato, momento in cui devono essere affrontate le modalità della consulenza, la tempistica e anche i costi, che oggi rappresentano un riferimento imprescindibile per la pubblica amministrazione - e non solo per l’autorità giudiziaria. Nel modello proposto nella monografia di Assirevi il rapporto tra magistrato e professionista non può essere risolto nella metafora del juke-box (risposta a comando) ma nemmeno nel suo opposto, considerato che in ogni caso il consulente - proprio come il Pm - è tenuto a cercare indistintamente tutte le prove, quindi anche quelle a discarico. Il nuovo scenario delle indagini tra l’altro non è immune dai problemi della digitalizzazione, che impongono un’attenta gestione della riservatezza e della sicurezza informatica - particolarmente in riferimento alla e-discovery e all’utilizzo di parole chiave - così come inizia a confrontarsi con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Tutti ambiti in cui il nuovo consulente contabile dell’ufficio giudiziario delle indagini deve possedere una preparazione e una sufficiente autonomia. Il tema della riservatezza/segretezza dell’incarico prevede anche un’adeguata conoscenza in materia di sicurezza informatica, sia nella gestione dei data base sia nella perimetrazione dei server e nella difesa da intrusioni e hackeraggio. Fondamentale, in ogni caso, resta l’affiatamento tra Pm e consulente, partnership che richiede dal punto di vista metodologico una pianificazione e un’organizzazione “fluide”, vale a dire simmetriche rispetto all’andamento degli accertamenti e alle nuove risultanze che emergono dall’indagine, compatibilmente con il rispetto del segreto investigativo. Le due parti, in sostanza, dovrebbero stabilire all’inizio un canale di comunicazione costantemente aperto - meeting, mail o telefonico - per rispondere in tempo reale alle sollecitazioni o alle nuove risultanze dei rispettivi accertamenti. Maltrattamento di animali anche le condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 4 aprile 2019 n. 14734. Ai fini della condanna per maltrattamento degli animali assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dello animale stesso, procurandogli dolore e afflizione. Con la recente sentenza n. 14734/2019, la Corte di cassazione affronta una vicenda che riguardando asini da soma sembra d’altri tempi, coniugando tuttavia una prospettiva novella: una spinta di diritto vivente verso una nuova visione della posizione giuridica soggettiva dell’animale. Le circostanze censurate - Il Tribunale di prime cure aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato poiché nella sua qualità di titolare di una azienda agricola deteneva alcuni asini in condizioni incompatibili con la loro natura, producendo a essi gravi sofferenze. Gli asini presentavano evidenti difficoltà deambulatorie. Un asinello neppure era più in grado di reggersi sulle zampe. Le coordinate valutative - A giudizio della Corte, configurano reato di maltrattamento di animali non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di compassione verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sui sensi dell’animale, producendogli dolore. Non solo le sevizie, le torture o le crudeltà caratterizzate da dolo quindi, ma anche incuria che reca danno agli animali quali esseri senzienti capaci di percepire gli stimoli del male (parimenti alle attenzioni amorevoli). La configurabilità dell’ipotesi di animali in condizioni incompatibili con la loro natura non può quindi prescindere dall’elemento della sofferenza che deve risultare da un’adeguata prova. Se fosse sanzionabile la semplice detenzione degli animali in condizioni contrastanti con la di essi natura, di per sé sola e dunque in assenza di concreta sofferenza, qualsivoglia detenzione a prescindere dal luogo, dalle modalità, dalla durata e dagli scopi della stessa, si porrebbe per ciò stesso in contrasto col precetto penale, dal momento che si tradurrebbe in una privazione della libertà dell’animale e quindi contrasterebbe con la natura dell’animale stesso, impulsivamente orientato a vivere in libertà dall’uomo. Per altro verso, l’elemento della incompatibilità naturalistica della detenzione conferisce al reato la necessaria determinatezza, così ottemperando al principio di legalità. Il requisito della sofferenza fisica o psichica - In altre parole il requisito della sofferenza fisica o psichica, esprime con chiarezza la scelta di considerare gli animali come esseri viventi suscettibili di tutela diretta e non mediata sol perché oggetto del sentimento di pietà nutrito dagli esseri umani verso di loro. In questa ottica il concetto di inutile sofferenza non risponde a una visione antropocentrica della sofferenza animale (la pietà), ma a un’esigenza di determinatezza della fattispecie altrimenti esposta alle sensibilità soggettive dei consociati e dello stesso giudice. Nel caso di specie, si pone in evidenza come agli animali, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure più ad alzarsi dal carro utilizzato per trasportare gli animali al lavoro, esponendoli tutti a grossi rischi durante l’alpeggio, dovendosi muovere su un terreno non piano. La detenzione in tali condizioni, per la Corte deve ritenersi certamente inconciliabile con la natura degli animali e foriera di sofferenze inaccettabili. A ben guardare la condotta crudele consiste non solo nel cagionare all’animale sofferenze senza alcuna necessità, ma anche nel sottoporre lo stesso a una condizione di vita che, non risultando necessaria alle esigenze della custodia e dell’allevamento, gli cagioni martirio. Di talché, come nel caso di specie, anche la detenzione di un animale in condizioni tali da costringerlo a una postura innaturale, tale da impedire o rendere assai difficile la deambulazione o il mantenimento di una posizione eretta, integra reato di maltrattamento degli animali. Ciò perché la crudeltà, concettualmente presuppone l’assenza di un giustificato motivo del soggetto agente: la disumanità è di per sé caratterizzata dall’assenza di una causa proporzionata o dalla spinta di un motivo intollerabile. Rientrano nella fattispecie le condotte che si rivelino crudeli in quanto espressione di significativa insensibilità umana. Comportamento questo che non necessariamente richiede il preciso scopo di infierire apertamente sull’animale. Devesi aggiungere che determinare sofferenza non comporta necessariamente che si cagioni una lesione all’integrità fisica dell’animale, potendo la sofferenza consistere in meri patimenti interiori dello stesso. Infine la Corte stigmatizza la forza dell’arresto ermeneutico con il rigetto della richiesta, avanzata dal difensore dell’imputato, di esclusione della punibilità per supposta particolare tenuità dei fatti. Sicilia: una giornata della misericordia per detenuti, volontari e cappellani Avvenire, 26 aprile 2019 Per la prima volta in Sicilia viene celebrata la giornata della misericordia delle carceri, a cui parteciperanno i cappellani, alcuni detenuti, personale e volontari dei penitenziari siciliani. L’Incontro si tiene oggi nella parrocchia Santissimo Crocifisso di Pergusa (Enna). Alle 10.30 porteranno la loro testimonianza dei volontari e il cappellano del carcere di Pagliarelli dove le detenute realizzano ostie. Alle 12 la Messa presieduta da Giovanni Accolla, arcivescovo di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela e delegato della Conferenza episcopale siciliana per la Caritas, che concelebrerà insieme a Rosario Gisana, vescovo di Piazza Armerina a cui appartiene Pergusa. Durante la giornata i sacerdoti saranno a disposizione per le confessioni. L’Iniziativa è stata incoraggiata dall’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. Don Paolo Giurato, delegato regionale dei cappellani carcerari, spiega: “In Sicilia ci incontriamo in genere tre volte l’anno. Questo è il primo incontro aperto anche ad alcuni detenuti che possono partecipare con un permesso premio”. Padova: 61enne si toglie la vita in carcere. “Era un malato psichico” di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 26 aprile 2019 La denuncia della Cgil: “Un detenuto del genere non doveva stare in cella”. Era stato condannato a 30 anni di carcere per aver ucciso a colpi d’accetta la compagna a Udine, ieri mattina l’hanno trovato senza vita nella sua cella del carcere Due Palazzi di Padova. Ahmed Mohamed Yassin, 61 anni, egiziano, alle 7 del mattino giaceva esanime. “Aveva problemi psichici, uno così in carcere non ci doveva stare” denuncia Giampietro Pegoraro, responsabile della Cgil Polizia penitenziaria. L’uomo è stato trovato di primo mattino, quando gli agenti della polizia penitenziaria hanno iniziato a fare il giro del piano. È successo nella casa di reclusione, dove scontano le pene i detenuti che hanno già avuto una condanna definitiva. Ahmed Mohamed Yassin era dentro da luglio del 2011. Sul posto sono stati chiamati i soccorsi. Medici e infermieri del Suem 118 hanno praticato le manovre di rianimazione ma non c’è stato niente da fare. Per farla finita ha usato il lembo di un lenzuolo. A ottobre del 2012 l’egiziano era stato condannato a 30 anni per omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione. Insomma, per il giudice era tutto fuorché pazzo e per questo gli era stata comminata l’aggravante della premeditazione e della crudeltà. Ahmed Mohamed Yassin è l’uomo che uccise Giulia Candusso, 45enne di Gemona, massacrata a colpi di accetta sferrati al capo nel bosco di Osoppo, il 7 luglio del 2011. Yassin era stato ritenuto capace di intendere e di volere, mentre il suo legale, l’avvocato Andrea Castiglione aveva puntato la difesa sul vizio di mente. Yassin e Giulia Candusso avevano sancito la loro unione come coppia davanti ad Allah. Lui le aveva lasciato in dote un anello d’oro. In calce alla dichiarazione di matrimonio rilasciata dal centro culturale islamico si erano promessi “la fedeltà per tutta la vita”. A un certo punto lei si è però rifiutata di ripetere quel “sì” anche in municipio, per ufficializzare il matrimonio anche dal punto di vista legale. Così l’amore si è trasformato in odio, rabbia, pazzia e infine anche in furia cieca. Il dramma si era consumato nel bosco della Uache, un’oasi di verde a circa un chilometro dal centro di Osoppo, quando l’uomo aveva colpito la sua “promessa sposa” con una mannaia. Poco più tardi i carabinieri lo avevano rintracciato nella sua abitazione, in pantaloni corti e accappatoio. In casa era stata trovata anche l’arma del delitto, mentre sulla sua 600 c’erano segni di sangue. Inizialmente aveva cercato di negare ma poi era stato incastrato dall’esame del dna. Il responsabile del la Cgil Polizia penitenziaria pone l’accento su un problema che riguarda la “gestione” di determinati detenuti. Ahmed Mohamed Yassin in passato aveva trascorso lunghi periodi in un centro di igiene mentale. Anche se il giudice ha ritenuto di non riconoscere l’infermità mentale, comunque c’erano segni di squilibrio. “Il personale l’ha detto chiaro e tondo” protesta Pegoraro. “E questo è un problema, sia per noi che per i detenuti che poi rischiano di finire in questo modo”. Pozzuoli (Na): dodici detenute vivono nella stessa cella per 21 ore al giorno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2019 È talmente alto il sovraffollamento nel carcere femminile di Pozzuoli, in provincia di Napoli, da dover ospitare 12 detenute in una unica cella. A rivelarlo è Antigone dopo una recente visita in uno dei pochi istituti esclusivamente femminili. Attualmente nel carcere sono detenute 181 persone, a fronte di una capienza di 109 posti, con un tasso di affollamento del 166%. Le celle “fortunatamente sono aperte per più di otto ore al giorno - afferma Antigone ma non tutte”. In particolare, non è aperto per 8 ore giornaliere lo stanzone in cui da circa un anno vivono in media “10 detenute protette, categoria che comprende chi ha commesso reati considerati riprovevoli dal resto della popolazione ristretta”. In passato, secondo quanto denuncia Antigone, queste detenute venivano trasferite entro un paio di giorni in un altro istituto della Campania, quello di Benevento, dove c’è una sezione apposita. Ma da un anno questo non avviene più e le persone ristrette restano, quindi, in una cella chiusa di un reparto aperto, partecipando alle attività comuni in orari disagiati, solo dalle 18 alle 21. A fronte di queste criticità “che è necessario risolvere”, l’associazione afferma anche di aver trovato a Pozzuoli “un buon clima detentivo”. Antigone aveva visitato la struttura - costruita nel XV secolo - già due anni fa ma il tasso di sovraffollamento, allora, era del 144% con 157 detenute a fronte di 109 posti. È bene ricordare che, nel corso del sopralluogo che Antigone fece a Pozzuoli nel 2017, l’associazione trovò delle “condizioni strutturali accettabili”, in particolare perché le 157 donne ristrette svolgevano varie attività lavorative, dalla lavorazione del caffè alla fabbricazione di borse fino alla manutenzione di un’area verde che è stata adibita a orto, ma anche culturali e ludiche come corsi di danza, musica, teatro e fotografia. Il sovraffollamento, ricordiamo, è una piaga che di mese in mese è in costante crescita. Al 31 marzo, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.611 detenuti (il mese precedente 60.348) con il risultato che fa registrare la presenza di 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Al 28 febbraio erano 9.826 detenuti in più. Al 31 gennaio, invece, se ne registravano 9.575. Ancora prima, al 30 novembre ce ne erano 9. 419 in più, mentre a settembre erano invece 8.653. In realtà, nei conteggi, non vengono sottratte le celle inagibili o chiuse per i lavori in corso. Dall’ultima relazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, emerge che alla data del 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale, percentuale comunque positivamente diminuita di tre punti rispetto a quella riportata nella Relazione al Parlamento di due anni fa. Permangono casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia solo 24 dei complessivi 57 previsti, in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile. Ma, come più volte ha ribadito il Garante Mauro Palma, non esiste solo il problema della dimensione, ma anche di come dovrebbe essere concepita la cella. Cosa significa? La cella deve essere destinata al riposo, perché il luogo naturale dell’attività (e quindi della vita detentiva) deve essere fuori di essa. Il carcere femminile di Pozzuoli, ad esempio, ciò non avviene visto che, secondo quanto ha denunciato Antigone, le detenute rientranti nella categoria protetta vivono fuori dalla cella solo per tre ore e in orari disagiati. Teramo: l’On. Pezzopane boccia il carcere di Castrogno “è inumano” di Antonella Formisani Il Centro, 26 aprile 2019 “Ho visitato parecchie carceri, ma condizioni così degradanti come quelle del carcere teramano non le ho mai viste”. Stefania Pezzopane, deputata del Pd, non fa sconti dopo quanto ha visto durante una visita alla casa di pena circondariale di Castrogno, avvenuta il 12 aprile. La parlamentare è stata chiamata in causa dall’avvocato radicale Vincenzo Di Nanna, a cui 75 detenuti della sezione “alta sicurezza” avevano segnalato parecchie inadeguatezze della struttura che rendono particolarmente penosa la detenzione. E dal sopralluogo è emersa la presentazione di una interrogazione al ministro della Giustizia su quella lettera-denuncia scritta dai carcerati il 3 settembre del 2018 che sarebbe caduta nel nulla. Lettera inviata al magistrato di sorveglianza di Pescara e, per conoscenza, al comandante del carcere, al Provveditorato Lazio Abruzzo, al Dipartimento centrale di polizia penitenziaria, al tribunale di sorveglianza de L’Aquila e al Garante nazionale dei detenuti. “In base a quanto rappresentato, il sovraffollamento del carcere sarebbe tale che lo spazio calpestabile e disponibile al vivere quotidiano”, scrive Pezzopane al ministro Alfonso Bonafede, “sarebbe di 6,06 metri quadri circa, inoltre si ravvisa una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Pezzopane continua segnalando che i “detenuti denunciano la mancanza di acqua calda, un dato che, ad avviso dell’interrogante, pregiudica in modo inaccettabile quanto evidente la salute psicofisica del detenuto”. L’onorevole parla poi di disagi prodotti da allagamenti, dall’illuminazione insufficiente, dalle limitazioni dei colloqui visivi e della mancanza della possibilità di svolgere un lavoro dignitoso. Insomma condizioni di carcerazione definite da Pezzopane “inumane e degradanti” confermate, in sede giurisdizionale dal tribunale civile dell’Aquila che ha accertato “in relazione ad analoghe fattispecie di carcerazione sofferta all’interno del carcere di Teramo, la violazione dell’articolo 3 della Cedu e quindi il riconosciuto diritto al risarcimento previsto all’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario, con condanna altresì del ministero della Giustizia al pagamento delle spese di giudizio”. Un aspetto, questo, sottolineato da Di Nanna: “Se dovesse perdurare questa situazione si potrebbe incorrere in un danno erariale. Si consideri che ogni giorno di detenzione illegale corrisponde a 8 euro che vanno moltiplicati per i circa 430 detenuti di Castrogno. In un anno lo Stato sarebbe costretto a rimborsare un milione 225.600 euro. Quindi alla violazione di diritti fondamentali si aggiunge il danno all’erario”. Stefania Pezzopane d’altronde conferma che le condizioni di vita nel carcere di Castrogno sono particolarmente dure: “lì sono al di là del bene e del male, non si può rimanere ad occhi chiusi. I detenuti devono pagare un prezzo con la società ma non possono vivere in condizioni assurde e inopportune. Ho chiesto di vedere un materasso: se ci va la Asl fa chiudere il carcere”. Fra le tante magagne la deputata segnala anche la difficoltà di telefonare agli avvocati: c’è una sola ore per contattare l’esterno per tutti i 430 detenuti. In una struttura che potrebbe contenerne poco più della metà, peraltro. Caltanissetta: a Gela e Niscemi detenuti “condannati” ai lavori per la città accentonews.it, 26 aprile 2019 Nel contesto di una serie di attività attuate sinergicamente dal sindaco Massimiliano Conti e dal Commissario straordinario del Comune di Gela Dott. Rosario Arena, volte al rafforzamento della collaborazione istituzionale a beneficio del territorio, i Comuni di Niscemi e Gela, hanno stipulato delle convenzioni con il Tribunale di Gela, che ai sensi delle normative vigenti in materia, prevedono la possibilità dell’espletamento di lavori socialmente utili non retribuiti come espiazioni delle pene inflitte a persone condannate alla detenzione o a sanzioni pecuniarie. Pene che ovviamente, così come previsto da norme giuridiche vigenti, su richiesta degli stessi imputati sottoposti a sentenza di condanna, è possibile scontare anche con lo svolgimento di lavori socialmente utili non retribuiti ed a beneficio della comunità. Sono due infatti le convenzioni della durata di 5 anni che il sindaco Massimiliano Conti ha sottoscritto in rappresentanza del Comune di Niscemi ed altre due quelle firmate dal Commissario straordinario Dott. Rosario Arena in rappresentanza del Comune di Gela e che per il Tribunale di Gela sono state siglate dal Magistrato Lirio Conti, quale delegato dal Presidente dello stesso Tribunale Dott. Paolo Andrea Fiore. Le quattro convenzioni stipulate complessivamente dai due Comuni con il Tribunale di Gela, (due per ogni Ente), prevedono di avviare nei lavori socialmente utili non retribuiti persone condannate alle pene del lavoro ed a favore della collettività. Ciascuna convenzione prevede lo svolgimento di lavori socialmente utili per 10 condannati al lavoro, ovvero in attività volte alla tutela del patrimonio ambientale, alla salvaguardia del patrimonio boschivo, alla prevenzione del randagismo degli animali, alla manutenzione del decoro dei beni del patrimonio pubblico. Radio Radicale è un farmaco di Luca Landò La Repubblica, 26 aprile 2019 Si tratta di una medicina originale che difende la democrazia. Chiuderla è come togliere dal mercato l’aspirina. Caro direttore, gli interventi e gli appelli su Repubblica a favore di Radio Radicale e contro la decisione del governo di sospenderne il finanziamento pubblico hanno spiegato i motivi per cui la perdita di quella voce sarebbe un grave danno per la vita democratica del nostro Paese. Ti chiedo questo spazio, per provare a impostare la questione in maniera diversa. Anziché trattare di politica e democrazia, di diritto e libertà, come ha fatto giustamente chi mi ha preceduto, parlerò prima di farmaci e poi di biologia. Nel settore farmaceutico c’è chi investe tempo e denari nella ricerca di base nella speranza di trovare e realizzare quello che altri non hanno ancora trovato e mai realizzato. Chi ci riesce, e sono pochi, in genere conquista fasce di mercato, a volte vince un Nobel, in genere fa un gran bene all’umanità. È il caso degli antibiotici, degli antivirali o, anche se qualcuno si ostina a pensare il contrario, dei vaccini. Insomma, farmaci che prima non c’erano, una volta che ci sono aiutano a combattere le malattie e a vivere meglio. Accanto a questa attività di ricerca, coraggiosa e meritoria, c’è una politica della finta innovazione: in questo caso, anziché cercare qualcosa di nuovo, si punta a copiare qualcosa che già esiste. Sono i farmaci “me too”, nome che non ha nulla a che fare con il caso Weinstein e le molestie sessuali negli ambienti di Hollywood, ma che significa letteralmente “anch’io”: si prende un prodotto di successo, lo si copia, gli si aggiunge qualcosa per renderlo un po’ diverso dall’originale e dopo averlo brevettato (tecnicamente è un farmaco “nuovo” anche se simile ad altri) lo si lancia sul mercato nella speranza di sottrarre al primo una parte di mercato. Che c’entra questo con Radio Radicale? C’entra, perché Radio Radicale non è un farmaco “me too”, non è un prodotto copiato e lanciato sul mercato: no, quella radio è un prodotto originale, è il principio attivo che ha conquistato con coraggio, lavoro e ostinazione una piccola ma importante fascia di mercato. Chiudere Radio Radicale è come togliere dal mercato l’aspirina o gli antibiotici o i vaccini eliminando, non un farmaco copione (un “me too” facile da replicare) ma un principio attivo originale e importante. Sarebbe come strappare un brevetto dopo averlo finanziato: davvero è quello che vogliamo? Il secondo punto ha a che fare con la biologia e il concetto di selezione naturale. Tra i commenti che in questi giorni circolano su internet a proposito di Radio Radicale il più frequente, lo riassumo così, è che “questo è il mercato, bellezza. E se un giornale o una radio non sono in grado di stare in piedi da soli è giusto che chiudano, che falliscano”. La cosa che più colpisce è che si tratta dello stesso, identico concetto che girava in rete - ma anche su qualche giornale e in diversi talk show - cinque anni fa a proposito della chiusura di un giornale storico e importante come l’Unità e che dunque rivela un pensiero assai diffuso che va ben oltre la vicenda di Radio Radicale o dell’Unità. Purtroppo per noi, per ciascuno di noi, questo modo di ragionare è fallace e fuorviante. Per almeno due motivi. Il primo è che il mercato non è affatto un arbitro imparziale e le sue regole, molto spesso, non sono né trasparenti né uguali per tutti. Il secondo motivo è però il più delicato e importante: queste parole rivelano infatti che sul mondo dell’informazione è calata una nube pericolosa, una sorta di darvinismo mediatico secondo il quale diventa accettabile, persino giustificabile che a parlare non sia più chi ha qualcosa da dire, ma soltanto chi ha le spalle economiche più robuste. È una visione sbagliata della democrazia e della biologia (essere più forti non significa essere più adatti a un nuovo ambiente) e ricorda le distorsioni del “darwinismo sociale” che cercava di piegare la teoria dell’evoluzione per giustificare le inaccettabili diseguaglianze del capitalismo ottocentesco. Sorprende che un secolo e mezzo dopo ci sia qualcuno che, inconsapevole o meno, cerchi ancora di riesumare Spencer e seppellire Darwin. Motivo in più per non spegnere Radio Radicale. *L’autore è stato direttore dell’Unità e, prima di diventare giornalista, ha lavorato per anni all’Università di Berkeley come neurobiologo cellulare. Per Chiarelettere ha scritto il libro “La Cura - Se l’Italia fosse un corpo umano” Migranti. In 3 anni meno di 20 mila rimpatri di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 26 aprile 2019 La guerra dei numeri sugli irregolari ancora in Italia. Il Viminale: non sono 500 mila ma “solo” 90 mila. Nel 2018 allontanate 7.981 persone sui 23.370 arrivi. Stranieri irregolari in Italia, quanti sono davvero? “Il ministero dell’Interno ha i dati aggiornati in tempo reale. Gli altri possono giocare a lotto, ma i numeri dicono questo”, ribadisce Matteo Salvini che conferma dunque la nuova stima: 90 mila irregolari, rispetto al numero ben più allarmante di 500 mila che lui stesso aveva annunciato in campagna elettorale e poi fatto inserire nel contratto di governo, come sottolineano adesso nel Movimento 5 Stelle. Il ministro spiega i nuovi dati in suo possesso proprio nel giorno in cui l’ufficio statistico dell’Unione europea, Eurostat, comunica che l’Italia nel 2018 ha superato la Francia per l’asilo concesso ai migranti (47.885 permessi contro 41.440). Ora è seconda in Europa, dopo la Germania (139.600). Ma la stima iniziale dei 500 mila irregolari, spiegano al Viminale, era calibrata sul trend degli sbarchi in Italia negli anni dei “porti aperti”. Con i “porti chiusi” dalla scorsa estate, la situazione è cambiata completamente. E questo nonostante i rimpatri - pur essendo aumentati rispetto agli arrivi - si mantengano su una cifra bassissima rispetto alle promesse di Salvini. E infatti, secondo i dati ufficiali, nel 2017 sono stati 7.383 a fronte di oltre 119mila immigrati sbarcati; nel 2018 sono saliti a 7.981 rispetto a 23.370 nuovi arrivi; in questi primi quattro mesi dell’anno sono arrivati a 2.053 (1.931 forzati e 122 volontari). Ma l’accento - dicono al Viminale - va posto su un dato: gli sbarchi sulle nostre coste dal 2015 ad oggi sono stati 478.683, di cui appena 666 nel 2019: appunto, con i porti chiusi. Dunque, secondo il ministero, i 2.053 rimpatri di questo inizio 2019 rappresentano un dato leggermente superiore al trend del 2018, perché gli sbarchi all’epoca erano molti di più e la novità rilevante è che i rimpatri sono più di tre volte gli arrivi (2.053 rispetto a 666). Lo scontro con l’Ue Nel contratto di governo, però, si parlava comunque di 500mila irregolari. Ora Salvini dice che era soltanto una stima. E così spiega il nuovo numero che parla di 90 mila senza documenti: “Oltre ai rimpatriati vanno considerati i moltissimi (268.839 solo quelli accertati secondo il Viminale, ndr) che hanno raggiunto altri Paesi dell’Ue eppoi tutti i migranti in situazione d’accoglienza (circa 119mila)”. Restano poi gli “invisibili” e sono circa la metà: quelli che pur raggiunti da un provvedimento di espulsione, rimangono in Italia facendo perdere le proprie tracce. Ieri la portavoce della Commissione Ue, Natasha Bertaud, soffermandosi sui 268 mila irregolari trasferitisi dall’Italia in altri Paesi Ue ha usato parole dure: “Abbiamo chiesto diverse volte agli Stati membri di prendere misure per prevenire i movimenti secondari e aumentare il numero di rimpatri nei Paesi di origine quando le persone non hanno diritto di restare nell’Ue. In passato abbiamo inviato delle raccomandazioni specifiche all’Italia”. Gli accordi bilaterali Aumentare i rimpatri, però, continua ad essere un miraggio. Il problema resta quello degli accordi con i Paesi di provenienza. A oggi esistono delle intese di massima dell’Italia con Tunisia, Marocco, Nigeria ed Egitto, ma mancano quelli con gli Stati da cui provengono oltre la metà degli irregolari arrivati nel 2019: Algeria, Bangladesh, Senegal e Iraq. Inoltre, i tempi sono lunghissimi: bisogna prima accertare l’identità dello straniero, poi ottenere il via libera dal consolato, senza contare i costi ingenti per le scorte di polizia. L’accordo più efficace finora è quello con la Tunisia: due charter alla settimana da 40 persone. Una goccia nel mare. E Salvini infatti sta provando a potenziarlo. L’unico accordo bilaterale stipulato finora dal ministro è quello siglato a novembre scorso con il Ghana. Ma ìn Italia solo lo 0,47% dei migranti è ghanese. E non è finita. Secondo l’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, il decreto sicurezza di Salvini farà aumentare dito mila gli irregolari in Italia: tutti quelli, cioè, usciti dai Cara senza più la protezione umanitaria. E ancora, secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, la guerra civile in Libia potrebbe causare la partenza verso l’Italia di altre 200 mila persone. Si torna, così, alla stima di un anno fa: più di 500 mila irregolari. Migranti. La politica delle tre “P” e l’eclissi europea dei diritti umani di Maurizio Ambrosini* Avvenire, 26 aprile 2019 Siamo ormai in vista delle elezioni europee e le questioni dell’immigrazione e dell’asilo occupano un posto centrale sia a Bruxelles sia all’interno dei Paesi membri. Un tema un tempo abbastanza marginale è diventato prioritario nei pronunciamenti governativi, nei programmi dei partiti e nelle preferenze degli elettori. Una nuova domanda di confini e di più rigida regolazione degli accessi è il tratto saliente del dibattito. Partiti politici anti-sistema sempre più forti e alcuni governi, tra cui il nostro, si sono impadroniti di questo vessillo, marcando in molti modi le differenze tra “noi” e “loro”. Le istituzioni dell’Unione Europea e i governi meno inclini alla deriva “sovranista” affrontano la materia con difficoltà crescenti. In democrazia hanno bisogno degli elettori, ma devono anche osservare le regole fissate dalle proprie Costituzioni, dalle convenzioni internazionali e dagli stessi accordi sottoscritti nell’ambito della Ue. Vorrebbero tenere il grosso degli immigrati e pressoché tutti i rifugiati lontani dalle loro frontiere, ma nello stesso tempo si sono impegnati a difendere i diritti umani e quindi ad accogliere chi fugge da guerre e persecuzioni. Nella gestione di questa tensione si ha spesso l’impressione di una mancanza di visione e di strategia, ma in realtà alcune decisive scelte politiche della Ue sono ben individuabili. Riguardo a quelle che vengono definite “migrazioni economiche”, si applica una selezione dei candidati secondo tre criteri, che potremmo definire le tre P: i passaporti, i portafogli, le professioni. Rispetto ai passaporti, si è proceduto anzitutto con l’allargamento della Ue verso Est: una politica migratoria non dichiarata, che ha concesso a milioni di persone la libertà di circolare e di cercare lavoro nei Paesi più prosperi e bisognosi di manodopera, Italia compresa. Su 38 milioni di immigrati nella Ue, 17 sono cittadini di un Paese membro, oggi soprattutto dell’Est. Con la politica dei visti inoltre si tollera l’ingresso (nominalmente turistico) dei cittadini di un numero crescente di Paesi europei non comunitari: sotto un governo di centrodestra, Maroni ministro dell’Interno, l’Italia nel 2010 ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i Paesi dell’area balcanica, dall’Albania alla Serbia. Il governo Gentiloni nel 2017 l’ha eliminato per l’Ucraina e la Moldova. Grazie a queste facilitazioni, la maggioranza degli immigrati residenti nei paesi dell’Unione sono europei. La loro scarsa visibilità, specialmente quando sono donne occupate presso le famiglie, aiuta a oscurarne l’eventuale irregolarità. Così Salvini dopo aver enfatizzato per mesi cifre di 500.000 o 600.000 clandestini “sbarcati dall’Africa”, può oggi tentare di far credere che gli immigrati non autorizzati in Italia siano appena 90.000. Omettere dal conto chi arriva dall’Est è il principale artificio per confezionare questa sensazionale trovata che tenta di nascondere un pezzo di realtà e la “fame” di immigrati del nostro sistema. A proposito dei portafogli, i governi della Ue autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori, e in certi Paesi (Cipro, Malta) si accorda loro direttamente la cittadinanza. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis e non diamo giusto valore allo ius culturae, è stato introdotto nella Ue lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro. Infine le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, l’Unione ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Ma non arrivano soltanto scienziati e informatici: con altri tipi di permessi la circolazione di migranti qualificati nella Ue, come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario, infermiere e infermieri in testa. Per quanto riguarda i rifugiati, la politica principale della Ue consiste nell’esternalizzazione dei confini. Incapaci di convenire sulla riforma delle convenzioni di Dublino, governi e istituzioni degli Stati membri si sono facilmente accordati sull’ingaggio come “guardie di frontiera” di Paesi terzi, come la Tunisia, la Turchia, il Niger e infine la Libia: a loro è stato demandato il compito di fermare i richiedenti asilo in transito prima del loro ingresso sul territorio della Ue, dove potrebbero domandare la protezione internazionale. Poco importa come sono trattati e in quali condizioni trattenuti. Nel medesimo tempo l’accoglienza umanitaria sta diventando sempre più volontaria e quindi facoltativa. La Ue è rigidissima sulle regole applicate alla produzione di latte o di olio di oliva, ma assai flessibile sulla protezione dei diritti umani. Su questo tema il gruppo (sovranista) di Visegrad ha vinto la partita, ma gran parte dei giocatori sono stati contenti di perderla. Ciò che rischia di rimanere sul terreno però non è soltanto la solidarietà con i rifugiati, bensì il senso e lo spirito del progetto europeo. *Sociologo, Università di Milano e Cnel Migranti. Salvini, sprezzante con le reti di carità, attacca la Caritas di Daniela Fassini Avvenire, 26 aprile 2019 Con il decreto sicurezza ha svuotato l’attività di accoglienza e ora spara: “La mangiatoia è finita”, accusando gli enti che sostituiscono lo Stato di speculare sugli stranieri. Ecco perché non è vero. “La mangiatoia è finita, chi speculava con margini altissimi per fare “integrazione”, spesso con risultati scarsissimi, dovrà cambiare mestiere”. L’ultima leggenda sui migranti e l’accoglienza è sintetizzata così, in un tweet irriverente del ministro dell’Interno Matteo Salvini che accompagna la notizia, diffusa da un quotidiano locale del Veneto sulla rinuncia della Caritas a partecipare al nuovo bando disegnato sulla legge del decreto sicurezza. “Poche risorse per migranti, anche la Caritas si toglie: non partecipa al bando per l’accoglienza”. Un’offesa per chi ogni giorno si prende cura non solo dell’accoglienza ma anche e soprattutto dell’integrazione dei richiedenti asilo, dedicando persone e risorse che vanno oltre alla “tanto odiata e sbandierata” diaria. È sempre più difficile fare accoglienza in Italia. Con l’entrata in vigore del decreto sicurezza, a fare i conti con un percorso tutto ad ostacoli sono soprattutto le strutture, ecclesiali e laiche, che sin da subito sono scese in campo per aiutare lo Stato a sostenere l’arrivo dei richiedenti asilo. Ora tutto è cambiato nel giro di pochi mesi. Il nuovo decreto svuota infatti completamente il lavoro di accoglienza ed integrazione fatto fino ad oggi. Soprattutto l’accoglienza diffusa in piccoli centri, appartamenti e parrocchie. Il risultato? “Lo Stato ci sta lasciando soli sul territorio a gestire l’emergenza - spiegano gli operatori -. Quando possiamo, continuiamo il lavoro a nostre spese. Ma è sempre più difficile e le storie di invisibili espulsi dal sistema di accoglienza sono destinate a crescere”. L’accoglienza vera, da Nord a Sud Italia, garantiva un percorso di autonomia abitativa e lavorativa. Ricchezza per chi era accolto, ma anche risorsa per il territorio che accoglieva. Tutto questo, adesso, si sta sgretolando. Perché quello che chiede il governo, oggi al terzo settore, è solo un’accoglienza svuotata: un posto letto, un luogo dove mangiare e dormire e nulla di più. Niente più corsi di italiano. Niente più supporto psicologico per le donne che hanno subito violenza. Niente più corsi di formazione professionale e riconoscimento del titolo di studio conseguito nel proprio Paese. Sono in molti oggi a rinunciare ai nuovi bandi delle prefetture. Gli ultimi due casi, in ordine di tempo, hanno riguardato le Caritas di Treviso e Vittorio Veneto e la Croce Rossa di Macerata. Le spiegazioni fornite sono emblematiche. “Le risorse stanziate non sono sufficienti per svolgere quello che noi riteniamo essere un adeguato supporto” spiegano i rappresentanti del gruppo di operatori trevigiani che non ci stanno più a lavorare, secondo i nuovi termini, con la “logica dell’emergenza, a scapito della vera inclusione delle persone”. Non usa mezzi termini anche la presidente di Croce rossa Macerata: “Partecipare al nuovo bando (della prefettura, ndr) ora significa fare un’assistenza che non è degna di un essere umano” sostiene Rosaria Del Balzo Ruiti. “Negli anni abbiamo rendicontato fino all’ultimo centesimo - aggiunge -. Sappiamo quali sono i costi perché accogliere una persona non è solo dare un tetto e del cibo, ma assicurare l’apprendimento linguistico, le condizioni sanitarie ottimali, fare progetti per l’incontro e l’integrazione”. Con il taglio all’accoglienza, è un’intera organizzazione sociale e di solidarietà a collassare. Anche se alcune diocesi hanno le “spalle larghe”, come dimostra Caritas Ambrosiana. “Abbiamo partecipato a solo due bandi, a Monza e Milano - fa sapere il presidente Luciano Gualzetti -. Cento posti in tutto, quelli di “Casa Suraia”. Per il resto faremo da soli, andremo avanti con le nostre forze e non lasceremo nessuno per strada”. Fra pochi giorni scadrà il contratto attivo con la prefettura e chi possiede il permesso umanitario (la maggior parte dei richiedenti asilo) non avrà più diritto a un posto letto. Per effetto della nuova legge voluta dal governo gialloverde dovrà così arrangiarsi. “Ci sono tante famiglie, con fragilità e situazioni particolari - prosegue Gualzetti - che continueremo ad ospitare come abbiamo fatto fino ad oggi”. Caritas Ambrosiana ha già istituito un fondo di solidarietà per continuare a garantire l’accoglienza di “qualità”, quella vera, che punta all’integrazione. “Per noi è una scelta di vita”. Ma il compito di accogliere così, in maniera dignitosa, “è compito dello Stato”, rimarca Gualzetti. “Un compito che in questi ultimi tre anni lo Stato non è stato in grado di fare - aggiunge -. Ha chiesto aiuto al terzo settore e noi abbiamo risposto. Poi è uscita la leggenda del “magna magna e della mangiatoia”. Gualzetti non nasconde lo sconcerto. Oggi paradossalmente si privilegiano le grosse strutture e si dà un colpo di spugna all’ospitalità diffusa, quella vincente ed inclusiva. “Siamo in un delirio completo - conclude preoccupato - dove ognuno dice quello che vuole e le persone vengono trattate come pacchi, parcheggiate nei grandi centri perché vi restino a lungo. Questo porterà sicuramente a problemi di sicurezza ed integrazione, a discapito di tutto quello che abbiamo fatto in questi ultimi anni”. Crisi libica e profughi, l’Italia è troppo isolata di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 26 aprile 2019 Di fronte a una possibile estate di sbarchi avremmo bisogno almeno del sostegno di Francia e Spagna. Ma questa appare purtroppo un’illusione. Stavolta più dei numeri peserà lo status di coloro che tentano di raggiungere le nostre coste: e l’ennesimo scontro acceso da giorni nella maggioranza di governo pare dimostrarlo. Tuttavia, nella ridda di slogan che gravano sempre più sulla questione migratoria, le cifre restano un appiglio razionale. E da lì conviene ripartire. Nonostante i distinguo e (persino) le ironie, quella che Fayez al Sarraj ha gettato di recente sul tavolo della geopolitica - 800 mila fuggiaschi pronti a invadere l’Italia e l’Europa - non è affatto tirata a casaccio. Non c’è dubbio, certo, che i toni ultimativi (e l’aggiunta dei “terroristi Isis” mischiati ai migranti) servano soprattutto pro domo sua, a smuovere noi e la comunità internazionale contro il “traditore” Haftar. Lo spauracchio di sbarchi biblici è peraltro un grande classico dei regimi nordafricani. Testimoni dell’incontro tra Al Sisi e l’allora ministra Federica Guidi in Egitto (nei giorni in cui venne ritrovato il corpo di Giulio Regeni) raccontarono che il rais ammonì la nostra delegazione con toni quasi sprezzanti, ricordando come potesse scaraventarci sulle coste due milioni di immigrati che lui, magnanimo, tratteneva. Sull’altra sponda del Mediterraneo la disperazione dei popoli è la migliore alleata dei tiranni. Ciò premesso, la cifra di Sarraj è alta ma plausibile, perché coincide con quella contenuta in un rapporto dell’Onu (pubblicato proprio sul Corriere di recente). Il report del 18 dicembre 2018 dell’Alto commissariato per i diritti umani (Unhchr) e della Missione di supporto (Unsmil) afferma infatti che ci sono in Libia in questo momento tra i 700 mila e il milione di stranieri provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana e dal Nord Africa. Di questi, 53 mila si troverebbero nei campi di detenzione governativi: ma nei lager “informali” ce ne potrebbe stare il triplo. Parlare di “poche migliaia” come fa il ministro Moavero appare davvero ottimistico. Giusto invece prendere con le molle la tempistica dell’ “invasione”. Quand’anche saltassero tutte le precarie strutture di quel simulacro di Stato, i famosi 800 mila non sono certo tutti ammassati sulla costa con un piede su un barcone: sono al momento sparsi in un territorio immenso e difficile da attraversare, forse nel mezzo di percorsi che durano mesi o anni. È sensato inoltre pensare che una parte di questi, soprattutto molti libici, cercherebbero rifugio negli Stati nordafricani vicini (in primis proprio l’Egitto) come già accadde durante i tumulti che portarono alla caduta di Gheddafi. Ne resterebbe comunque un numero sufficiente a provocare sulle nostre coste un impatto critico importante. Basti pensare che il picco migratorio di questi ultimi anni è stato di 181 mila arrivi nel 2016 e che nel 2017, poiché se ne prevedevano 250 mila, Marco Minniti fu costretto ad aprire la via dei controversi accordi con i “sindaci” libici, che hanno avuto quale risultato un drastico calo delle partenze ben prima dell’era di Matteo Salvini. C’è da considerare, poi, il problema più serio: in questo caso i respingimenti sarebbero esclusi dalle norme internazionali (e dalla nostra Costituzione) poiché ci troveremmo di fronte, senza bisogno di grandi indagini, non a cosiddetti “migranti economici” ma a un flusso di profughi che scappano dalla guerra e hanno diritto, ictu oculi, allo status di rifugiato. Costoro arriverebbero in condizioni che renderebbero impensabile bloccarli. Salvini, cogliendo la portata del rischio, ha aperto per tempo il fuoco di sbarramento, sostenendo che non vi sarebbero rifugiati in questa umanità dolente e rilanciando l’allarme terrorismo paventato da Sarraj: ma applicare a donne e bambini, feriti e fuggiaschi traumatizzati un’etichetta da miliziano dell’Isis è operazione complicata anche per un formidabile giocoliere della politica come il ministro dell’Interno (che ha peraltro appena ridotto “d’ufficio” il numero degli irregolari in Italia da 600 mila a 90 mila). La sua (asserita) policy dei porti chiusi verrebbe spazzata via, infliggendo forse il primo colpo all’uomo forte del governo italiano. Resterebbero tuttavia gli effetti della sua predicazione. Va soppesata infatti l’ulteriore variabile di un’opinione pubblica ormai isterizzata sul tema migratorio rispetto a tre o quattro anni fa e che, dunque, reagirebbe presumibilmente assai male a un’impennata di sbarchi: le conseguenze sulla nostra convivenza civile potrebbero essere notevoli. In un quadro simile, l’invito all’unità delle forze politiche lanciato di recente dal premier Conte è apprezzabile, ma rischia di cadere nel vuoto se neppure le forze politiche al governo appaiono unite, mentre, fuori dall’Italia, paghiamo un perdurante isolamento che potrebbe costarci carissimo. Di fronte a una possibile estate di sbarchi e a una sicura crisi umanitaria aperta in Libia, avremmo bisogno, se non della solidarietà di tutta l’Unione, almeno del sostegno degli Stati mediterranei con cui condividere il fardello, Francia e Spagna in prima linea. Ma, con la battaglia per le istituzioni Ue che sarà aperta dopo il 26 maggio, anche questa appare una pia illusione. Nella trappola libica “crimini di guerra” contro i migranti di Ester Nemo Il Manifesto, 26 aprile 2019 Cresce l’allarme dopo il raid delle milizie filo Haftar nel centro di detenzione di Qasr bin Ghashir. E a Bengasi cresce anche la protesta contro la presenza militare italiana nel paese. Intorno a Tripoli infuriano i combattimenti. Va rapidamente peggiorando l’emergenza umanitaria nelle zone a sud di Tripoli man mano che le forze del generale Haftar guadagnano posizioni nella loro avanzata verso la capitale. La Croce rossa internazionale denuncia l’estendersi del conflitto ad “aree densamente popolate” mentre negli ospedali della città iniziano a scarseggiare i medicinali e sono sempre più frequenti le interruzioni nella fornitura di elettricità ed acqua. È l’Organizzazione mondiale della sanità a informare che tre settimane di combattimenti hanno provocato 278 morti, 1.332 feriti e almeno 35 mila sfollati. A destare preoccupazioni particolari è sempre la condizioni dei migranti intrappolati nei centri di detenzione intorno a Tripoli, dopo l’irruzione dei miliziani di Haftar in quello di Qasr bin Ghashir, 20 km a sud della città, che mercoledì ha provocato almeno 2 morti (alcuni testimoni parlano di 6 vittime) e una ventina di feriti. I telefoni dei migranti - unica arma a disposizione - che gli aggressori non sono riusciti a se hanno ripreso alcune fasi concitate del raid, spezzoni di terrore circolati in rete ieri. “Un crimine di guerra che dimostra l’urgenza del rilascio di tutti i rifugiati e i migranti detenuti in questi campi dell’orrore”, è tornata a ripetere la portavoce di Amnesty international Magdalena Mughrabi. In 325 ieri sono stati trasferiti “in un luogo più sicuro lontano dalle zone di conflitto”, annunciato l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha). Ne restano in trappola a Qasr bin Ghashir almeno altri 600, e molti sono bambini. Prosegue anche la guerra di comunicati dei portavoce militari. L’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar e i suoi alleati mantengono il proposito di prendere la città prima che inizi il Ramadan, nell’arco di pochi giorni quindi; Le forze fedeli al governo di al Serraj - il premier sostenuto dall’Onu ieri è tornato ad accusare la Francia di sostenere Haftar - assicurano invece che i progressi ottenuti nell’area di Asbiah, 45 km a sud di Tripoli, potrebbero mettere in grande difficoltà le forze nemiche, tagliando loro le linee di rifornimento. A Bengasi e Tobruk intanto sono in crescita i sentimenti anti italiani per la presenza dei nostri soldati a Misurata. Haftar sostiene che starebbero proteggendo oltre all’ospedale militare la base aerea da cui sono partiti i raid contro le basi del generale di Bengasi. E la gente protesta nelle strade. Lo Stato maggiore della Difesa è stato costretto a diffondere una nota in cui definisce “prive di fondamento” le voci sui militari italiani con “compiti di protezione di infrastrutture militari libiche o di supporto logistico a bande e milizie che combattono dall’una o dall’altra parte”. Iran. Tre anni fa l’arresto del ricercatore Djalali: rischia l’esecuzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 aprile 2019 Oggi ricorrono tre anni dall’arresto di Ahmadreza Djalali, ricercatore specializzato in Medicina dei disastri, nato in Iran e residente in Svezia e già collaboratore dell’Università del Piemonte Orientale. Djajali è stato arrestato il 26 aprile 2016 in occasione della sua ultima visita accademica in Iran, su invito ufficiale dell’Università di Teheran. Costretto a firmare una dichiarazione di colpevolezza, poi trasmessa in tv, sotto la minaccia di morte per i suoi figli e la sua famiglia, nell’ottobre 2017 Djalali è stato condannato alla pena capitale per “collaborazione con un governo ostile”: aveva, secondo l’accusa, passato informazioni al Mossad (i servizi d’intelligence israeliani) su due scienziati nucleari iraniani poi assassinati. Djalali non solo ha respinto l’accusa ma, in una lettera fatta uscire dal carcere di Evin, ha scritto di essere stato imprigionato per aver rifiutato di fare la spia per conto del ministero dell’Intelligence iraniano. Il 5 dicembre 2017 la Corte suprema ha confermato la condanna a morte. Da allora l’uomo è in attesa di esecuzione. Le condizioni di salute di Djalali sono notevolmente peggiorate a causa delle cure mediche inadeguate ricevute in carcere e di uno sciopero della fame, tanto che recentemente si è reso necessario un ricovero ospedaliero. Amnesty International continua a chiedere alle autorità iraniane di annullare le accuse e la condanna a morte nei confronti di Djalali. L’inviato dell’Onu incontra Assange in carcere: “Sta bene, la sua privacy è stata violata” di Stefania Maurizi La Repubblica, 26 aprile 2019 Il professore Joe Cannataci è riuscito a incontrarlo nella prigione inglese di Belmarsch: “Sulle foto e i video girati all’interno dell’ambasciata del’Ecuador, prenderò sicuramente provvedimenti”. È la prima persona in assoluto ad aver fatto visita a Julian Assange nella prigione di Londra di Belmarsch, perché al momento nessuno, a parte i suoi avvocati, può fare visita al fondatore di WikiLeaks, nonostante siano passate due settimane dal giorno del suo arresto. Il professore Joe Cannataci, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Privacy, è riuscito a incontrarlo oggi nella prigione di Belmarsch che è caratterizzata dal regime carcerario più duro tra tutti gli istituti di pena carceraria inglesi e anche i visitatori dei detenuti sono soggetti a controlli molto serie inclusi interrogatori da parte della polizia e ovviamente gli incontri sono monitorati. Repubblica ha intervistato l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Cannataci. Come ha trovato Assange? “La visita è andata bene, il signor Assange era preparato a rispondere alle domande che abbiamo fatto. È andata bene, abbiamo iniziato ad approfondire il caso anche con l’equipe legale di Julian Assange e abbiamo iniziato a fare domande all’ambasciata dell’Ecuador, qui a Londra”. Lui in che condizioni era? Lo chiedo perché siamo rimasti tutti molto colpiti il giorno dell’arresto.. “Non sono un medico quindi non voglio fare una valutazione medica del signor Assange, naturalmente era un incontro in prigione, che non è un luogo gradevole,ma ad ogni modo mi pare che date le circostanze le condizioni erano piuttosto buone”. Lei ha potuto parlarci con un minimo di privacy oppure eravate intercettati e registrati? “No, l’impressione che ho avuto è che il governo inglese ci ha accordato il livello di privacy atteso per un incontro tipo quello detenuto-avvocato. Normalmente, le regole in una prigione inglese sono le seguenti: per una visita sociale, tipo i parenti, non ci si aspetta privacy, invece durante gli incontri con gli avvocati, di norma le conversazioni non vengono registrate: questo tipo di incontri si tengono in un luogo apposta, ci sono 10-15 piccole stanze in cui ogni prigioniero può incontrare il suo avvocato. Io ho chiesto un meeting confidenziale: sono contento che il governo inglese ci abbia accordato questo meeting in cui è stato possibile incontrare il signor Assange in modo privato”. Lei su che cosa sta indagando esattamente, in relazione a questo incontro? “Il signor Assange alla fine di marzo mi ha mandato un reclamo ufficiale, denunciando come il suo diritto alla privacy all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador fosse stato violato. Con il mio team abbiamo fatto una prima valutazione della situazione e ora sto raccogliendo i fatto e ho fatto una serie di domande su quanto accaduto nell’ambasciata. Sono ancora alla fase preliminare della mia indagine: oggi, dopo l’incontro con Julian Assange e il suo staff legale, ho anche incontrato l’ambasciatore dell’Ecuador”. Lei prenderà provvedimenti sulle foto e i video girati all’interno dell’ambasciata, in cui sono state sorvegliate tutte le attività di Julian Assange e poi questi video hanno iniziato a girare nelle ultime settimane? “Prenderò sicuramente provvedimenti. Manderemo una richiesta ufficiale al governo della Spagna affinché renda possibile il mio accesso a procuratori spagnoli che stanno indagando sul caso perché mi risulta che la polizia spagnola ha aperto un’inchiesta. Se mi verrà garantito l’accesso, è possibile che dovrò esaminare migliaia di video della sorveglianza. Mi sono mosso subito, appena WikiLeaks ha denunciato il caso nella conferenza stampa del 10 aprile io mi sono mosso nel giro di poche ore”. È veramente inquietante, anche per noi giornalisti che abbiamo fatto visita in ambasciata a Julian Assange e ogni nostro incontro e conversazione era sorvegliata... “Come può immaginare, non è solo questione di privacy, ma anche di confidenzialità. E c’è una distinzione tra le due. C’è un problema di confidenzialità degli incontri tra il cliente [Assange] e i suoi avvocati, il problema della sua libertà giornalistica, della protezione delle sue fonti, del whistleblowing e della sua libertà di espressione” Lei chiederà all’Ecuador che ruolo ha avuto nella creazione di quei file video e nella loro uscita? “Potrò commentare su questa faccenda solo dopo che avrò i risultati dell’inchiesta spagnola, perché dobbiamo capire se si è trattato di un’azione di stato o di attori “canaglia”. Al momento non ho prove su cosa ha creato questa situazione”.