Carcere: occorre creare un ponte esterno di Valter Vecellio lindro.it, 25 aprile 2019 “L’investimento dall’esterno, con risorse ma anche con semplice testimonianza, è fondamentale”. Carcere di Benevento. C’è un detenuto, si chiama G.B., ha 48 anni, originario della zona. Lo hanno arrestato con l’accusa di maltrattamenti in famiglia; in sostanza picchia la moglie. Una, due, dieci volte. La donna non ne può più. Denuncia l’uomo; i carabinieri lo portano in cella. Non ci sta molto, in carcere, G.B., evade. Ci ha pensato a lungo, studiato i particolari. Aspetta che il suo compagno di cella vada al colloquio. Appena da solo, con alcuni vestiti si fabbrica una corda: se la lega attorno al collo, un piccolo salto, il buio: quello definitivo. “Non si può morire di carcere e in carcere”, dice il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. Non si può, ma si può. Per G.B., poche righe nei giornali locali. Che un detenuto decida di togliersi la vita dopo appena qualche giorno di cella, e con la prospettiva concreta di non dover scontare una lunga pena, interessa a pochi; e a pochissimi interessa ‘indagarè come e perché si possa arrivare a un livello di disperazione tale, che qualche giorno di carcere diventi insopportabile; insopportabile al punto che si preferisce morire a qualche giorno in carcere. Si potrà obiettare che G.B., forse, anche prima di essere arrestato, era mentalmente instabile. Ci può stare. Ma in questo caso, la cella di un carcere non è certo la miglior cura. In ogni caso, e quale che sia la storia dietro questa definitiva evasione, è una sconfitta. Al ministero della Giustizia episodi come questo dovrebbero inquietare, e si dovrebbe agire e intervenire di conseguenza. Che non accada, aumenta inquietudine e perplessità. Secondo le ultime stime, sono 47.257 i nuovi ingressi in carcere nel 2018: il 57,2 per cento sono italiani: 25.097 gli uomini, 1.915 le donne; il restante 42,8 è costituito da stranieri: 18.682 uomini, 1.563 donne. Si chiama Luigi Pagano: una vita in carcere, ma non da detenuto. Dall’altra parte, come direttore: provveditore regionale delle carceri lombarde, oggi. Da quel 1 dicembre 1979, dopo la laurea, si occupa di detenuti: a Pianosa, negli anni di piombo e delle guerre di mafia; poi a Badu ‘e Carros, all’Asinara; e in giro per l’Italia: Piacenza, Brescia, Taranto, a Milano: quindici anni a San Vittore; provveditore regionale lombardo, vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), di nuovo alla guida alla ‘sezionè lombarda. Tra qualche giorno, la meritata pensione. Quale migliore “osservatore” delle questioni legate al carcere? “Occorre creare un ponte con il mondo esterno”, dice subito Pagano. “Senza questo ponte, parlare di reinserimento sociale è mera utopia. L’investimento dall’esterno, con risorse ma anche con semplice testimonianza, è fondamentale. Altrimenti l’istituto rimane una monade: l’isolamento non porta al reinserimento”. Dalle sue parole traspare amarezza: “Oggi il carcere, più che un luogo di pena che porta al reinserimento, è diventato assistenza”. La ‘fotografia’ che emerge dalla situazione lombarda è emblematica: i detenuti definitivi sono circa seimila; circa due terzi potrebbero beneficiare delle misure alternative; la maggior parte non può ottenerle perché non ha casa, non ha lavoro, è irregolare. Persone che restano in carcere non perché siano pericolose, ma perché non hanno altre possibilità. Pagano esorta a pensare a pene diverse: “Se l’efficacia del carcere si misura in relazione all’articolo 27 della Costituzione che pone al centro il reinserimento sociale, per quelle persone non c’è una possibilità. Ma se non c’è l’opinione pubblica dalla tua parte, nessuna riforma cammina”. Si dovrebbe, a questo punto, fare un’opera di informazione che non viene fatta. Spiegare, dati alla mano, che le misure alternative sono generalmente più efficaci della pena detentiva: le stime sulla recidiva di una persona che non lascia mai il carcere sono del 70-80 per cento; si abbattono con le misure alternative. “Il rischio del carcere”, avverte Pagano, “è l’infantilizzazione. Occorre responsabilizzare i detenuti, bisogna passare dalla marcatura a uomo a quella a zona. Ma non servirebbe una rivoluzione: le norme già ci sono, basterebbe solo applicarle”. Il 67% dei detenuti ha problemi di salute, il 55% assume almeno un farmaco Adnkronos, 25 aprile 2019 Migliorare l’assistenza farmaceutica penitenziaria, promuovere studi e ricerche e azioni normative per la regolamentazione delle attività di farmaceutica nelle carceri, anche identificando aree di necessità e relative proposte regolatorie da sottoporre congiuntamente agli organismi istituzionali preposti. Questi gli obiettivi di un accordo firmato a Roma dalla Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (Sifo) e dal Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane (Co.n.o.s.c.i), per mano dei due presidenti Simona Serao Creazzola e Sandro Libianchi. Secondo uno studio su un campione di 16.000 detenuti, nel 67,5% dei casi esiste una situazione patologica. I detenuti italiani sono affetti soprattutto da disturbi psichici incluse le patologie da dipendenza, da malattie dell’apparato digerente e da malattie infettive; inoltre i reclusi che assumono almeno un farmaco sono 8.296 (oltre il 55% del campione), con una media di 2,8 farmaci per persona (tra i più diffusi ci sono gli ansiolitici, gli antipsicotici e gli antiepilettici). “Il settore della sanità penitenziaria è indubbiamente un ambito negletto, in quanto sono solo 10 anni che la responsabilità dell’assistenza sanitaria è passata in carico alla sanità regionale, mentre prima era in capo al ministero di Grazie e Giustizia”, ha spiegato Libianchi, presidente di Co.n.o.s.c.i e responsabile medico nel carcere di Rebibbia. Con l’accordo, le due associazioni si impegnano da oggi ad avviare progetti di ricerca, di formazione e confronto, quali convegni, seminari, tavole rotonde e meeting, pubblicazioni sui temi coerenti con l’ambito penitenziario, ma anche “iniziative di informazione e documentazione utili all’aggiornamento e approfondimento dei temi sulla salute in ambito penitenziario, anche attraverso campagne di sensibilizzazione, divulgazione e di creazione di nuovi modelli gestionali da mettere a disposizione delle autorità sanitarie competenti”. Accordo tra farmacisti e operatori della salute in carcere quotidianosanita.it, 25 aprile 2019 Per favorire qualità e appropriatezza delle cure. L’Accordo di collaborazione, siglato da Sifo e Conosci (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiana) prevede “azioni di miglioramento dell’assistenza farmaceutica penitenziaria, promozione di studi e ricerche e l’identificazione di azioni normative per la regolamentazione delle attività di farmaceutica penitenziaria”. La Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie (Sifo) e il Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiana (Conosci) hanno firmato a Roma all’interno di un workshop scientifico un Accordo di Programma e di Collaborazione Scientifica per mano dei due presidenti Simona Serao Creazzola e Sandro Libianchi. L’Accordo di collaborazione prevede “l’identificazione congiunta di azioni di miglioramento dell’assistenza farmaceutica penitenziaria, la promozione di studi e ricerche nonché l’identificazione di azioni normative per la regolamentazione delle attività di farmaceutica penitenziaria, anche identificando ambiti di necessità e relative proposte regolatorie da sottoporre congiuntamente agli organismi istituzionali preposti”. “La collaborazione tra le nostre due Società è iniziata nel 2018 in occasione di un Corso di Perfezionamento interprofessionale sull’assistenza penitenziaria promosso a Napoli in collaborazione tra la ASL Napoli 1-Centro, il Dipartimento di Sanità Pubblica della Facoltà di Medicina dell’Università Federico II e lo stesso Coordinamento Nazionale - Conosci”, ha sottolineato la presidente Sifo, Simona Serao Creazzola, nonché Responsabile della UOC di Farmaeceutica Convenzionata e Territoriale della Asl Napoli 1-Centro. “In quella occasione prestigiosa ci si siamo trovati immediatamente sulla stessa lunghezza d’onda, abbiamo condiviso che il problema dell’assistenza farmaceutica penitenziaria era importante e probabilmente sottovalutato, concludendo quindi che si trattasse di un argomento che reclamava attenzione sia per le varie criticità incontrate da tutti gli operatori sanitari, sia per la carenza di normative di settore, di soluzioni organizzative e di best practice”. La collaborazione Sifo-Conosci è poi sfociata nella realizzazione di una sessione congiunta inserita nel programma del XXXIX Congresso della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera svoltosi a Napoli a novembre 2018, evento che ha coinvolto anche la Simspe e diversi altri medici e farmacisti operanti nelle realtà penitenziarie che hanno portato la loro esperienza: si è trattato del primo evento in Italia dedicato alla farmaceutica penitenziaria. In quella sede Conosci aveva presentato i dati di uno studio su un campione di 16.000 detenuti che ha fotografato una condizione patologica per il 67,5% del totale. Secondo quanto emerso dalla ricerca, i detenuti italiani sono affetti da disturbi psichici incluse le patologie da dipendenza (secondo il manuale ICD-9), da malattie dell’apparato digerente e da malattie infettive; inoltre i reclusi che assumono almeno un farmaco sono 8.296 (oltre il 55% del campione), con una media di 2,8 farmaci per persona (tra i più diffusi ci sono gli ansiolitici, gli ant ipsicotici e gli antiepilettici). Il tutto a descrivere un ambito sociale ed umano in cui le patologie spesso si vanno a intrecciare con le dipendenze da una o più sostanze stupefacenti. “Il settore della sanità penitenziaria è indubbiamente un ambito negletto, in quanto sono solo 10 anni che la responsabilità dell’assistenza sanitaria è passata in carico alla sanità regionale, mentre prima era in capo al Ministero di Grazie e Giustizia”, ha precisato nella sua relazione scientifica nell’ambito del workshop Sandro Libianchi presidente di Conosci nonché responsabile medico nel carcere di Rebibbia, ricordando il Dpcm del 1 aprile 2008 (“Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”). “L’obiettivo finale di questo nostro progetto congiunto è creare i presupposti per una corretta gestione della salute della popolazione carceraria attraverso un’organizzazione migliore, con modelli operativi regionali ed aziendali di cui si sente il profondo bisogno. Il tutto deve significare garanzia di un’assistenza di qualità, di appropriatezza delle cure che riguarda anche le prescrizioni farmaceutiche, di razionalizzazione delle risorse con successivo contenimento di spesa”. Con l’accordo siglato a Roma, le due Associazioni si impegnano da oggi ad avviare progetti di ricerca, di formazione e confronto, quali convegni, seminari, tavole rotonde e meeting, pubblicazioni sui temi coerenti con l’ambito penitenziario, ma anche ad avviare “iniziative di informazione e documentazione utile all’aggiornamento e approfondimento dei temi sulla salute in ambito penitenziario, anche attraverso campagne di sensibilizzazione, divulgazione e di creazione di nuovi modelli gestionali da mettere a disposizione delle autorità sanitarie competenti”. In questo modo la collaborazione Sifo-Conosci viene così avviata e proposta - come dichiarato dai due presidenti - quale azione di “nuova cultura sociale, in un’attenzione rinnovata ed esplicita ai diritti della persona ed all’art.2 della Costituzione”. Premio “Goliarda Sapienza”, il 9 maggio la premiazione a Torino Famiglia Cristiana, 25 aprile 2019 Al Salone del Libro la finale del concorso letterario nato nel 2011 e rivolto ai detenuti con Edoardo Albinati, Erri De Luca e il presidente dell’ Associazione Antigone Patrizio Gonnella. Tema di quest’ edizione la follia in carcere con una factory creativa formata da alcuni degli autori, tra detenuti e qualche ex detenuto “Malafollia” è un progetto speciale del Premio Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere, il concorso letterario nato nel 2011 e rivolto alle persone detenute, con il coinvolgimento diretto di grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor. La premiazione del vincitore di quest’ anno si terrà giovedì 9 maggio alle ore 15.30 al Salone internazionale del Libro di Torino (Sala Rossa) alla presenza degli scrittori Edoardo Albinati ed Erri De Luca e di Patrizio Gonnella, presidente dell’ Associazione Antigone. Aprirà la cerimonia un reading tratto dai racconti del libro con Luigi Lo Cascio e Andrea Sartoretti, insieme ad alcuni dei detenuti-autori. Poi l’ annuncio e la premiazione del vincitore di questa VIII edizione del Premio Goliarda Sapienza, stabilito dai voti della Giuria presieduta da Elio Pecora e composta da scrittori e giornalisti quali Annamaria Barbato Ricci, Paolo Di Paolo, Massimo Lugli, Giordano Meacci, Angelo Pellegrino, Federico Ragno, Marcello Simoni, Cinzia Tani, Nadia Terranova, e da circa 250 studenti liceali. Fin dalla sua nascita, il Premio ha come madrina la scrittrice Dacia Maraini, ed è organizzato da Inverso Onlus con il sostegno di Siae - Società Italiana degli Autori ed Editori. Curatrice è la giornalista Antonella Bolelli Ferrera, che ne è anche l’ ideatrice. Per questa edizione speciale dal titolo Malafollia, è stata costituita una factory creativa formata da alcuni degli autori (detenuti e qualche ex detenuto) che si sono distinti nel corso delle precedenti edizioni del concorso e che qui si sono cimentati nella scrittura di racconti sul tema della follia in carcere, ispirandosi alle proprie esperienze personali. Ne sono emerse storie spiazzanti, di grande forza comunicativa, che trasportano il lettore nei luoghi più misteriosi della mente umana. I racconti saranno pubblicati in un libro dall’ omonimo titolo Malafollia - Racconti dal carcere edito da Giulio Perrone Editore, con l’introduzione dello scrittore Edoardo Albinati, del Presidente della Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, e la prefazione di Antonella Bolelli Ferrera. Il volume, i cui proventi contribuiranno alla realizzazione di progetti in favore della cultura della legalità, sarà presentato nel corso della cerimonia finale del Premio, il 9 maggio, al Salone Internazionale del Libro di Torino. Addio al rito abbreviato per i reati da ergastolo di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 aprile 2019 La legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale. È stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 23 aprile, il testo della legge che rende il giudizio abbreviato inapplicabile ai reati puniti con la pena dell’ergastolo. Il provvedimento modifica gli articoli. 438, 441- bis, 442 e 429 del codice di procedura penale e di fatto impedisce il ricorso al rito speciale nel caso di reati come devastazione, saccheggio e strage, l’omicidio aggravato e le ipotesi aggravate di sequestro di persona. Gli imputati, infatti, non potranno più scegliere la linea difensiva del rito abbreviato, che prevede la definizione del giudizio durante l’udienza preliminare, con la decisione presa allo stato degli atti, dunque assumendo tutti gli atti delle indagini preliminari con piena valenza probatoria. Di fatto, quindi, l’imputato che prende questa via acconsente a non formare la prova in dibattimento, beneficiando di uno sconto della pena di un terzo per i delitti e la metà per le contravvenzioni. Inoltre, la riforma non prevede solo lo stop pro futuro del rito per i reati puniti con l’ergastolo, ma prende in considerazione anche l’ipotesi della modifica dell’imputazione in corso di giudizio. In particolare, la legge dispone che, se a seguito delle contestazione si procede per i riti punibili con l’ergastolo, il giudice revoca anche d’ufficio l’ordinanza che aveva disposto il giudizio abbreviato, fissando l’udienza preliminare. La norma, voluta e portata all’approvazione dalla Lega, ha invece registrato sin dalle prime battute del suo iter parlamentare la netta opposizione delle Camere penali italiane. “L’eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo in nome del populismo e della idolatria del fine-pena-mai è in aperto contrasto con il percorso aperto insieme all’avvocatura, alla magistratura ed all’accademia per individuare nuovi strumenti deflattivi volti a ridurre il numero dei dibattimenti e la durata irragionevole dei processi nel nostro Paese”, è stato il parere lapidario dei penalisti, ii quali hanno sottolineato come l’intervento legislativo esprima una “idolatria della pena eterna” che contrasta con il principio costituzionale del reinserimento del condannato nella società. Tra i problemi sottolineati dal presidente Gian Domenico Caiazza, il pericolo di un intasamento delle Corti d’Assise: “Nei procedimenti per quel tipo di reati, con la ormai vecchia disciplina, gli imputati optavano per l’abbreviato in quasi l’ 80% dei casi. A valutare il fatto era dunque un singolo giudice dell’udienza preliminare, che riusciva a chiudere la pratica nel giro da 3 o 4 mesi. Solo una quota marginale di fascicoli finiva a dibattimento, fase in cui la competenza per simili processi è delle Corti d’assise: si riunisce cioè una giuria popolare che completa il collegio col presidente e l’altro togato. Ci si mette almeno un paio d’anni. E assisteremo così alla paralisi delle Corti d’assise”. La stessa preoccupazione era stata segnalata anche dal Csm, in un parere di inizio febbraio, in cui si era anche paventato il rischio che, con il rito ordinario, si arrivasse alla scadenza dei termini di custodia cautelare prima della sentenza. Insomma, processi ordinari e dunque più lenti, per delitti della massima pericolosità sociale. Critica sulla norma era stata anche l’Associazione nazionale magistrati, in particolare proprio sul potenziale impatto negativo sulla durata dei processi che la riduzione della possibilità di utilizzo di un rito speciale può portare con sè. Tuttavia, il provvedimento non ha visto alcun arretramento ed è stato approvato in Senato a inizio mese con particolare convinzione da parte fronte leghista, in questo caso spalleggiato in aula anche da Fratelli d’Italia e da Leu (in particolare dall’ex presidente del Senato, Piero Grasso), contraria invece Forza Italia (che invece ha sostenuto l’iter approvativo per la legittima difesa). “Con questa legge”, aveva dichiarato al momento dell’approvazione il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, “diamo un segnale fortissimo a tutti i cittadini di questo Paese. Ora c’è la certezza della pena, non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati in questo Paese quando ci sono reati gravissimi. È un segnale forte a tutti i cittadini onesti: chi sbaglia con noi al governo paga”. Ora che la legge è stata pubblicata in Gazzetta, entrerà in vigore in 15 giorni: poi sarà il momento di valutarne gli effetti e monitorarne i risultati, in particolare sul fronte del rischio “collasso” delle Corti d’Assise. Nordio: “Nel nostro sistema penale le sanzioni sono esagerate, ma quasi mai eseguite” di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 25 aprile 2019 “Chi ruba in una notte in tre case diverse rischia trent’anni, come se avesse stuprato e ammazzato un bambino... Poi il giudice gliene dà uno e mezzo con la condizionale e il ladro non sconta nulla. Demenziale”. “Lo Stato non ha fatto le riforme necessarie. Ci sta provando ora con la criminalità e l’immigrazione illegale. Ma è un cammino irto di ostacoli”. La battaglia contro l’immigrazione illegale è stata una straordinaria opportunità per Salvini di aumentare i consensi... ma non può esser fonte di ulteriori vantaggi elettorali, perché ora le preoccupazioni maggiori riguardano l’economia. Lo scontento qui al Nord Est è crescente”. Così ragiona Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, negli anni Ottanta protagonista delle indagini sulle Brigate rosse venete e poi negli anni Novanta sui reati di Tangentopoli. Oggi attento osservatore e commentatore politico, lo incontriamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, “La stagione dell’indulgenza e i suoi frutti avvelenati. Il cittadino tra sfiducia e paura” (Guerini e Associati), in cui analizza gli errori commessi sul fronte della sicurezza e della giustizia, del fisco e dei diritti del cittadino. Il responso è impietoso: lo Stato si è auto-delegittimato agli occhi dei suoi cittadini rinunciando a fare le riforme necessarie al Paese. Domanda. Lei racconta di un Paese che è incapace di assumersi le sue responsabilità, e di un cittadino che si sente sempre più insicuro. Siamo messi così male? Risposta. Siamo messi abbastanza male, ma il messaggio finale non è pessimista. Il nostro Paese ha risorse umane, morali, economiche e culturali immense, e può ancora cavarsela. D. Che ruolo ha svolto la politica degli ultimi decenni? E la magistratura? R. La politica negli ultimi due decenni è stata di fatto subalterna alla magistratura. Questo poteva esser comprensibile - anche se non giustificabile - tra il 1992 e il 1993, quando le indagini giudiziarie avevano vaporizzato i cinque partiti che storicamente avevano governato l’Italia, mentre il Pci, che pur aveva partecipato alla spartizione dei finanziamenti illegali, era a sua volta indebolito dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione della sua ideologia. In un simile vuoto di programmi e di potere la magistratura è stata vista dai cittadini come una sorta di rifugio etico e persino politico. Un gravissimo equivoco, che si sarebbe dovuto chiarire quanto prima, e che invece in parte continua. D. A che punto è oggi il rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario? R. Il potere legislativo fa fatica ad affrancarsi da quello giudiziario, ma non per colpa di quest’ultimo, bensì per debolezza della stessa politica, che strumentalizza le indagini per combattere gli avversari, che non riesce a contrastare con le armi proprie del dibattito teorico e delle riforme concrete. Non si ripeterà mai abbastanza che esiste una presunzione di innocenza, che un’informazione di garanzia non è una condanna ma uno strumento di difesa, e che far dipendere la sorte di un candidato dalla sua iscrizione nel registro degli indagati significa attribuire al Pubblico ministero il potere di condizionare le stesse elezioni. Ma sono parole al vento. D. Quali sono le differenze e le analogie rispetto agli anni del suo impegno contro il terrorismo e la corruzione? R. Quanto al terrorismo è presto detto: anche allora la politica si affidò alla magistratura per combatterlo: la stessa legge sui pentiti, forse spregiudicata ma coraggiosa ed efficace, fu elaborata da noi. Ma allora la politica era più forte, e quando il fenomeno finì, agli inizi degli anni 80, ricondusse la magistratura nei ranghi. Lo fece in modo grossolano, ad esempio con il referendum sulla responsabilità dei giudici, ma lo fece, dimostrando di aver capito la gravità del problema, cioè del sopravvento del potere giudiziario su quello legislativo. D. Perché lo Stato è diventato “indulgente”? R. Nel mio libro spiego che indulgenza non va intesa come generosità costruttiva, ma piuttosto come indifferenza impotente. E lo Stato si è dimostrato tale perché non ha saputo attuare le riforme necessarie. Ci sta provando ora nei confronti della criminalità e dell’immigrazione illegale. Ma come si vede, è un cammino insidioso e irto di ostacoli. Quanto all’economia, meglio non parlarne. La tassazione è insopportabile, e alcune misure demagogiche come il reddito di cittadinanza deprimono le iniziative imprenditoriali. D. I reati diminuiscono, eppure la rappresentazione che tutti abbiamo è di un Paese dove la corruzione dilaga e l’insicurezza aumenta. R. La differenza tra l’insicurezza reale e quella percepita è una distinzione assurda e dannosa. Essere convinti di avere un cancro talvolta può esser più grave che averlo sul serio, e così è per i reati. Che peraltro in parte diminuiscono solo sulla carta, perché non vengono denunciati. D. La certezza della pena non è un rimedio contro il senso di insicurezza? R. La certezza della pena basterebbe, se fosse veramente tale. Nel nostro sistema le sanzioni sono addirittura esagerate, ma quasi mai eseguite. Chi ruba in una notte in tre case diverse rischia trent’anni, come se avesse stuprato e ammazzato un bambino, visto che l’ergastolo è di fatto abolito: poi il giudice gliene dà uno e mezzo con la condizionale e il ladro alla fine non sconta nulla. Demenziale. D. Che cosa ha pensato vedendo la foto del ministro dell’interno e leader della Lega, Matteo Salvini, che imbraccia un mitra? R. Salvini con il mitra? Much ado about nothing, molto rumore per nulla... È la riprova che gli argomenti della critica politica sono così deboli e incerti che ci si affida alle polemiche fondate su una foto. È più che legittimo, e per certi aspetti doveroso, criticare il ministro. Ma farlo in questo modo così puerile e banale è il modo migliore per portargli altri voti. D. La battaglia contro l’immigrazione selvaggia è ancora un cavallo vincente dal punto di vista elettorale? R. La battaglia contro l’immigrazione illegale è stata una straordinaria opportunità per Salvini di aumentare i consensi, perché il problema era ed è reale, e incide su interessi primari dei cittadini, soprattutto di quelli più deboli. Questo problema è ancora attuale, e speriamo non venga esasperato dalle vicende libiche. Ma non può esser fonte di ulteriori vantaggi elettorali, perché ora le preoccupazioni maggiori riguardano l’economia. E lo scontento crescente, soprattutto qui nel Nord Est, minaccia di erodere il consenso ottenuto da Salvini con la politica migratoria e la legge sulla legittima difesa. D. Quali errori ha commesso la sinistra? R. La sinistra aveva capito benissimo il problema dell’immigrazione. La legge che la disciplinava - la Turco-Napolitano - era un suo prodotto, e in realtà seguiva gli stessi criteri oggi predicati da Salvini: in Italia si entra regolarmente, o si vien buttati fuori. Solo che nessuno, né la sinistra né la destra, ha mai avuto il coraggio di applicarla concretamente, e le espulsioni erano provvedimenti cartacei mai eseguiti con l’effettivo rimpatrio. Il fatto è che riportate a casa un clandestino è impresa difficile e costosa. D. Anche con l’attuale governo. R. L’unico rimedio è controllare gli approdi e contrastare il commercio dei trafficanti criminali. Cosa che peraltro Marco Minniti aveva iniziato a fare, e con un certo successo. Nel mio libro gliene rendo ampio merito. D. Qualcuno vede un nuovo fascismo alle porte. Lei ne vede i prodromi? R. No, è una colossale sciocchezza. Il fascismo è morto è sepolto. Ma ci sono altri rischi, a cominciare dall’emotività incontrollata nel legiferare, che porta all’incertezza del diritto, madre di disordini. D. Lo Stato recupera credibilità agli occhi dei suoi cittadini se...? Completi lei. R. Il compito dello Stato non deve essere etico o palingenetico. Deve assicurare lo sviluppo delle qualità dei cittadini garantendo le pari opportunità, in condizioni di libera competizione e di sicurezza. Da liberale, credo allo Stato che si autolimita, e che detta le regole della propria attività al fi ne di tutelare i diritti degli individui. Roberti: “La Carta non applicata è un regalo alle mafie” di Daniela Preziosi Il Manifesto, 25 aprile 2019 L’ex procuratore antimafia e capolista Pd al sud. Da Salvini berlusconismo in salsa verde. Il 25 aprile è l’occasione per rilanciare i diritti in Costituzione. Sulla corruzione governo non pervenuto. Franco Roberti (ex procuratore nazionale antimafia, assessore alla sicurezza in Campania e capolista Pd al Sud, ndr) il vicepremier Salvini non partecipa alle commemorazioni del 25 aprile ma inaugura a Corleone un commissariato. Fa bene? Mi rifiuto di interloquire dialetticamente con Salvini. Parla per slogan e frasi fatte. Io cerco di ragionare con tutti. Il 25 aprile è importante perché è l’occasione per rilanciare i grandi temi scritti nella Costituzione, nata dalla Resistenza. Purtroppo una parte non è ancora attuata: la pari dignità delle persone, il diritto al lavoro, all’assistenza sanitaria. È un gran regalo alle mafie che sfruttano le diseguaglianze sociali offrendo servizi criminali alternativi. Salvini farebbe bene a considerare questo aspetto, a Corleone ci può andare sempre. Nella mozione di sfiducia del Pd si dice che “il governo deve essere libero anche dal sospetto di asservimento a interessi criminali”. È questa la condizione dell’esecutivo? Al di là del caso Siri, il cittadino investito di pubbliche funzioni le deve adempiere con disciplina e onore. Se è raggiunto da un’ombra deve dimettersi per evitare il sospetto di strumentalizzare il posto che occupa. Siri dovrebbe dimettersi? Senz’altro. Non per giustizialismo, per una condanna che non c’è ancora, neanche un rinvio a giudizio. Ma per opportunità. Il presidente Conte lo guarderà negli occhi e deciderà se chiedergli le dimissioni. Evidentemente il professore Conte ha delle capacità introspettive, magari le avessimo noi magistrati. Beato lui. Per il Pd Siri non doveva essere sottosegretario perché aveva già patteggiato per corruzione. Anche qui, è un fatto di opportunità che doveva essere valutato dai leader politici. È vero che il patteggiamento non è condanna ma in genere uno che si sente innocente non patteggia. Succede che le questioni giudiziarie scandiscano la vita politica del paese? Sono argomenti che mortificano sia i magistrati che i politici. Il magistrato che svolge la sua attività quotidianamente dovrebbe ritagliare i tempi del suo intervento in modo da non interferire nella lotta politica? È una follia. Secondo questa idea la magistratura dovrebbe fermarsi sempre. Non ha senso parlare di giustizia a orologeria, siamo tornati ai vecchi tempi berlusconiani, questa volta in salsa verde. Può succedere che un magistrato sbagli. I magistrati sono uomini e possono sbagliare. Ma i rimedi sono nel sistema. Noi abbiamo un sistema molto garantista. Magari lento, quindi non giusto per i tempi inaccettabili. Il sistema di infiltrazioni mafiose nell’economia e nelle istituzioni lo abbiamo scoperto da trent’anni. Ci sono sentenze che parlano di uomini-cerniera fra le mafie e le istituzioni. Potrebbe stimare quanto contano oggi le mafie in politica? Fino a quando ci saranno le organizzazioni mafiose che controllano il territorio le mafie conteranno. Il loro potere sta nella capacità di interferire sul voto e sull’economia attraverso il riciclaggio e il finanziamento delle imprese in difficoltà in conseguenza della crisi. Quanto pesa? Non lo so, posso solo dire che negli anni abbiamo accertato che le mafie pesano. Ma lo Stato, dalla prima Repubblica a oggi ha fatto passi avanti a suo giudizio? Assolutamente sì. Oggi abbiamo il problema di gestire un patrimonio immobiliare e aziendale enorme, abbiamo creato nel 2010 un’agenzia ad hoc che solo oggi riesce a funzionare. È mancato il contrasto alla corruzione. Dopo Manipulite si è finto di non capire che nei sistemi corrotti si erano inserite le mafie. Mafia e corruzione sono due fenomeni diversi, ma dove c’è una corruzione sistemica prima o poi arrivano le mafie. Credo che una delle componenti della decisione mafiosa di uccidere Falcone e Borsellino sia stata anche Manipulite: faceva capire che lo stato cominciava a fare sul serio. L’arrivo di Falcone e poi di Borsellino alla procura nazionale antimafia sarebbe stato un colpo mortale a Cosa nostra già nel ‘92. Oggi abbiamo una legislazione antimafia che ci invidiano e che in parte abbiamo esportato in Europa. I risultati ci sono, mancano gli investimenti per far funzionare le leggi. Faccia un esempio. La materia ambientale. Dal 2015 abbiamo una legislazione seria. Ma stiamo al palo per l’organizzazione di polizia. E l’assorbimento del Corpo forestale nei Carabinieri, con tutti gli sforzi lodevoli, non dà i risultati sperati. Faccio un altro esempio: i processi camminano sulle gambe dei cancellieri. Ma se noi non mettiamo i cancellieri, come a Napoli, i processi non camminano. Il governo giallo-verde è efficace contro mafie e corruzione? A parte le sparate e gli slogan di Salvini, non mi risulta che abbia messo in campo interventi legislativi e organizzativi. Sul tema della giustizia antimafia non hanno prodotto niente. A lei risulta diversamente? La grande fuga dei pm dalle procure del Sud. E ora è emergenza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 aprile 2019 L’esodo o, meglio, la grande fuga in toga dalle campagne. Soprattutto se al Sud. Anche i giudici subiscono il fascino della metropoli. È sempre più difficile, infatti, trovare magistrati disposti a trasferirsi in un tribunale di un piccolo centro. E chi vi presta servizio, alla prima favorevole occasione, scappa a gambe levate e senza farsi troppi problemi per un ufficio giudiziario di una grande città. Il fenomeno è esploso nell’ultimo periodo e sta mettendo in seria difficoltà l’esercizio della giurisdizione nei centri minori del Paese. Due i casi più recenti. La Procura di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina e il Tribunale di Vallo della Lucania in provincia di Salerno. Nel primo, su un organico di quattro sostituti, oltre al procuratore, è presente un solo pm. Nel secondo, invece, la metà dei posti come giudice è vacante. In entrambi i casi le scoperture sembrano destinate a durare a lungo in quanto nessun magistrato, pare, abbia fatto domanda per esservi trasferito. Molto difficile pensare che un sistema possa funzionare con questi numeri. È sufficiente in inverno un semplice attacco influenzale per chiudere per malattia l’intero ufficio una settimana almeno. Da parte sua il Consiglio superiore della magistratura provvede con continuità a bandire i posti scoperti. Ma è uno sforzo vano in quanto appena il magistrato è “legittimato”, ciò ha maturato il periodo minimo di permanenza nella sede previsto per legge, cioè quattro anni, presenta domanda per andare via. E si ricomincia daccapo con un turn over che per molti uffici ha raggiunto ritmi frenetici. La disciplina dei trasferimenti dei magistrati è strutturata in modo tale che nessuno, Csm o Ministero della giustizia, possa impedire alla toga di fare domanda per andare via dalla sede dove presta servizio. Anche se questo trasferimento creerà una scopertura e un - prevedibile - disservizio all’ufficio. Non è infatti possibile bloccare, salvo per un periodo limitato, il magistrato nella sede in attesa che arrivi il suo sostituto. Ciò invece permetterebbe di garantire la necessaria continuità dell’attività giurisdizionale. Il fenomeno è particolarmente sensibile nel settore civile, dove il ruolo del magistrato trasferito spesso resta in stand by in attesa che venga riassegnato al nuovo collega che verrà. Le conseguenze negative, nel settore giudicante penale, sono ancora più evidenti, con la dilatazione dei tempi dei processi a causa della rinnovazione dei dibattimenti. Non risultano ricerche specifiche da parte del Ministero della giustizia o del Csm sul perché di questa disaffezione per i piccoli centri. Spesso si tratta di realtà con una qualità della vita molto alta, come nel caso del territorio sotto la competenza del Tribunale di Vallo della Lucania. Oltre ad essere una zona turistica, i carichi di lavoro sono notevolmente inferiori a quelli di Salerno, sede della Corte d’Appello da cui dipende, che invece è a pieno organico. Anche i fenomeni criminali sono contenuti. Si possono solo fare ipotesi. Un grande tribunale offre sezioni specializzate, funzioni distrettuali, è appunto sede di Corte d’Appello. Permette una crescita professionale diversificata. Come risolvere il problema spetterà solo al legislatore. Magari rispolverando gli incentivi economici come fece il governo D’Alema. Su questo il Csm ha poco margine di manovra. Due ore d’aria non una per il detenuto al 41-bis di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 24 aprile 2019 n. 17579. Sì alle due ore d’aria per il detenuto al 41-bis. La riduzione a una è possibile, nei confronti del singolo detenuto, solo per motivi eccezionali dei quali la direzione del carcere deve dare conto. La Cassazione, con la sentenza 17579, conferma la decisione del Tribunale di sorveglianza, in favore di alcuni detenuti del carcere di Sassari, e respinge il ricorso della Casa circondariale, del Dap e del ministero della Giustizia. Un carcerato aveva presentato un reclamo contro il regolamento interno che prevedeva un’ora d’aria, in linea con una circolare Dap, e l’altra in biblioteca, previsioni in contrasto con la norma primaria. La legge (articolo 41 ordinamento penitenziario, comma 2-quater lettera f) per i detenuti al 41-bis, il regime previsto per i mafiosi, stabilisce, infatti, che i detenuti sottoposti al carcere duro possono stare all’aperto in gruppi selezionati di non più di quattro persone, per un massimo di due ore al giorno, che possono essere ridotte a non meno di una per motivi eccezionali. Ferma restando la possibilità che il limite delle due ore sia modificato, in senso più favorevole dal regolamento interno, (articolo 36 comma 2, lettera e) del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario). La Suprema corte sgombra, come prima cosa, il campo dall’equivoco che per “permanenza all’aperto” si possa intendere anche la cosiddetta socialità, visto che la prima è finalizzata alla tutela della salute mentre con la seconda si tende a soddisfare esigenze culturali, relazionali e di trattamento. Equivoco in cui è caduta la circolare del Dap che ha equiparato lo stare fuori con lo stare in biblioteca. La prima sezione penale della Cassazione ammette che la norma non “spicca per adamantina chiarezza”, ma non va interpretata in senso restrittivo. Va letta invece tenendo conto del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Il limite imposto dalla circolare Dap non appare certamente idoneo a rafforzare l’ordine e la sicurezza e a prevenire “flussi comunicativi illeciti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale o a organizzazioni criminali contrapposte”. Per la Suprema Corte “quello che potrebbe accadere in due ore, potrebbe accadere anche in un’ora di permanenza all’aria”. Con il tetto più rigido non si assicura dunque un maggiore ordine e una maggiore sicurezza. Quanto alla possibilità operare una stretta sui diritti dei detenuti in generale, questa è possibile solo per esigenze di sicurezza, altrimenti, come affermato dalla Corte costituzionale, le limitazioni acquistano solo un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, in contrasto con la Carta. Pene pecuniarie del Gdp, su conversione decide il Magistrato di sorveglianza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 24 aprile 2019 n. 17595. Nel caso in cui non sia possibile l’esazione, la competenza sulla conversione della pena pecuniaria irrogata dal Giudice di pace spetta al magistrato di sorveglianza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 17595, risolvendo un conflitto “negativo di competenza”, che si ha quando entrambi gli organi giurisdizionali ritengono che la competenza a provvedere spetti all’altro. La decisione richiama la sentenza n. 212/2003 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità degli articoli 238 e 299 del Dpr 115/2002 (per eccesso di delega), nella parte in cui veniva abrogato l’articolo 660 c.p.p., che prevedeva la competenza del giudice di sorveglianza. Per effetto della pronuncia dunque “l’intera materia della conversione delle pene pecuniarie confluiva nelle competenze del Magistrato di Sorveglianza”. Non solo, avendo la Consulta abrogato l’articolo 299 soltanto parzialmente, “restava salva l’efficacia abrogativa che tale norma operava dell’art. 42 del Dlgs n. 274 del 2000, il quale aveva attribuito la conversione delle pene pecuniarie inflitte dal Giudice di Pace a questo stesso giudice”. A questa efficacia abrogativa va aggiunto un altro effetto: “l’abrogazione per intero dell’art. 238, che attribuiva in via generale la competenza per la conversione al giudice dell’esecuzione competente”. “Questo principio generale, dunque - chiosa la Corte -, non trova più applicazione all’istituto della conversione delle pene pecuniarie”. La Cassazione, pur rilevando che in dottrina “non isolati commenti hanno auspicato un nuovo intervento del Legislatore che torni ad assegnare formalmente tale attribuzione al Giudice di Pace”, afferma che “l’attuale situazione normativa non può dirsi irragionevole o non equilibrata”. “Questo sistema, peraltro, - conclude la Corte - appare rafforzato dalla recente introduzione dell’art. 238 bis del Dpr n. 115 del 2002 ad opera del comma 473 dell’art. 1 della legge 205/2017, che, occupandosi della procedura di attivazione della conversione delle pene pecuniarie non pagate, richiama l’art. 660 c.p.p. ed espressamente la competenza unica del Magistrato di Sorveglianza”. Le sanzioni restano fuori dalla confisca di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17535/2019. Nei reati tributari dichiarativi e di omesso versamento, la confisca può essere disposta solo sul valore dell’imposta evasa: le sanzioni, infatti, non costituiscono il profitto del delitto, ma il costo conseguente alla sua commissione. A precisarlo è la Corte di Cassazione (sentenza 17535). La vicenda trae origine dalla confisca disposta dal Tribunale su beni di un imprenditore condannato per i reati di omesso versamento dell’Iva e per dichiarazione omessa. La misura veniva disposta per un valore corrispondente all’ammontare delle imposte evase oltre interessi e sanzioni. L’imputato ricorreva in Cassazione lamentando un’errata interpretazione della norma poiché occorreva escludere il valore delle sanzioni e degli interessi, atteso che il profitto del reato è costituito solo dall’imposta. I giudici di legittimità hanno ritenuto fondata la doglianza. La Suprema Corte ha ricordato che il profitto dei reati tributari è caratterizzato dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi. Le Sezioni unite (sentenza 18734/2013) hanno affermato che è confiscabile il profitto costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del delitto. Un principio affermato però per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 Dlgs 74/2000), secondo il quale l’attività distrattiva soggetta a tutela penale oltre all’imposta, attiene espressamente anche a interessi e sanzioni. La Cassazione ha rilevato che il principio non può essere esteso ai reati fiscali dichiarativi ovvero di omesso versamento delle imposte. In questi delitti il risparmio economico deriva dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione finale (l’Erario). Solo l’imposta rappresenta il “profitto” conseguito dal reo; la sanzione, invece, costituisce il “costo” del reato, originato in seguito alla sua commissione e pertanto non rientra nel “risparmio” o “profitto”. Piemonte: quale futuro dopo il carcere? Il volontariato vuole fare la sua parte di Massimiliano Sciullo torinoggi.it, 25 aprile 2019 “La Costituzione vieta di buttare via la chiave”. La Regione firma un protocollo con il Garante dei detenuti e le Conferenze nazionale e regionale dei volontari della giustizia. È il primo caso in Italia. “La nostra azione diminuisce i rischi di recidiva nei detenuti”. Un patto per contribuire a costruire un domani fuori dalle sbarre, dopo il carcere e per rispondere al rebus spesso senza soluzione del reinserimento sociale di chi ha saldato il proprio conto con la giustizia. Lo hanno stretto - primo caso di protocollo di questo genere in Italia - la Regione, il Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personali e le Conferenze nazionale e regionale del Volontariato giustizia, che raccoglie e rappresenta le forze “civiche” costituite dalle persone che spendono parte del proprio tempo libero facendo servizio presso le carceri. E proprio i volontari sono il cardine di questo patto, persone che spendono la propria attività all’interno delle case circondariali e dunque sono il tramite tra i detenuti e il mondo “fuori”. “I volontari sono cittadini formati e con la loro disponibilità permettono di ridurre nelle persone che incontrano le possibilità di recidiva”, spiega Renato Dutto, presidente del Crvg. “Anche in momenti in cui si dice di chiudere dentro la gente e buttare via la chiave, la nostra Costituzione dice ben altro”. “Vogliamo rafforzare un volontario consapevole e rispettoso delle regole - prosegue - perché bisogna fare profitti per la società e non danni”. “Solo un volontariato forte può scardinare alcune logiche illogiche del mondo penitenziario, sostenendo un dialogo consapevole con l’amministrazione carceraria - aggiunge Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. E fare attività di volontariato non vuol dire solo portare mutande pulite o bagnoschiuma, ma anche porre le condizioni per una rieducazione e un reinserimento sociale. Lo dice l’articolo 27 della nostra Costituzione. E prima che ce lo dica una nuova condanna della Corte Europea, siamo ancora in tempo a cambiare il carcere”. A dare una mano per la realizzazione di percorsi di formazione sempre più dettagliati, si candida la Regione. “Io e la mia collega Cerutti abbiamo voluto arrivare alla firma di questo protocollo dopo un lavoro che è stato lungo. Ma serviva un segnale culturale e civico - spiega Augusto Ferrari, assessore alle Politiche sociali - soprattutto in un periodo in cui si vuole legare per sempre una persona con il reato che può aver compiuto. E questo è un effetto solleticato anche da una certa politica, che lascia pensare che la sicurezza della collettività si ottiene solo chiudendo in carcere per sempre chi sbaglia”. “I volontari e il volontariato sono il ponte per abbattere i muri che spesso si costruiscono nel mondo carcerario, un’istituzione che tende a essere chiusa rispetto alla comunità in cui è inserita. E i ponti li costruiscono le persone in carne e ossa”. Sono 350 i volontari “riconosciuti” tra Piemonte e Valle d’Aosta. Di cui 330 all’interno dei penitenziari, mentre gli altri lavorano nell’ambito di luoghi all’esterno dei penitenziari. Ma se si va oltre i cosiddetti “AVP”, i volontari penitenziari, le cifre salgono anche di molto. “Un detenuto che marcisce in galera fino all’ultimo giorno della pena non rende più sicura la società, ma crea delle mine vaganti sociali pronte a esplodere fin dal primo giorno in cui il detenuto esce. Quando invece una persona esce dopo essere passata attraverso forme alternative di pena, hanno potuto ricostruire reti sociali e iniziare a trovare un nuovo posto, magari imparando un lavoro”, ribadisce Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale dei volontari di giustizia. “Ma per scardinare certe storture che anche la politica contribuisce a volte a rafforzare serve un volontariato che non sia solo delle buone intenzioni, ma che sia preparato e formato. Non si ha a che fare con soggetti deboli, ma complessi e dunque bisogna avere gli strumenti adatti ad affrontare situazioni e persone, che possono anche aver fatto male, molto male”. Spesso, però, le forme di volontariato all’interno dei penitenziari non sono semplici. “Ma i volontari non sono ospiti, dentro il carcere - conclude Favero - rappresentano la componente di società che si rende disponibile per costruire e contribuire alla rieducazione dei detenuti che impone la Costituzione. Spesso in carcere le persone imparano a essere bravi detenuti, ma non vuol dire essere poi bravi cittadini”. Padova: suicidio al Due Palazzi; uccise la compagna, si toglie la vita in carcere Corriere del Veneto, 25 aprile 2019 Si è tolto la vita ieri mattina nella sua cella del Due Palazzi dov’era recluso da sette anni Ahmed Mohamed Yassin, egiziano di 61 anni. L’uomo si è impiccato con un lenzuolo. A trovarlo sono stati gli agenti della penitenziaria che hanno chiamato i soccorsi ma lo straniero era già morto. Del fatto è stata informata la procura di Padova. Yassin doveva scontare 30 anni per l’omicidio della compagna avvenuto nei boschi di Gemona in provincia di Udine nel luglio del 2011. Il detenuto soffriva da tempo di problemi legati alla depressione. L’ultimo suicidio all’interno del carcere padovano risaliva al 22 ottobre del 2016. Uccise la compagna, dopo otto anni si impicca in cella (Il Gazzettino) Ieri mattina ha strappato delle strisce di lenzuolo, le ha legate insieme, le ha attaccate alla finestra del bagno, poi se le è girate attorno al collo e si è impiccato nella sua cella nella casa di reclusione di via Due Palazzi. A togliersi la vita è Ahmed Mohamed Yassin, egiziano, 61enne, che era stato giudicato colpevole di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà, condannato a 30 anni di reclusione per l’assassinio a colpi di accetta di Giulia Candusso, la 45enne di Gemona (Udine) uccisa a colpi di accetta nel bosco di Osoppo, il 7 luglio 2011. Quel mattino la coppia aveva avuto un violento litigio. La donna si era rifiutata di sposare il compagno. Il suo no aveva scatenato la furia omicida dell’egiziano. Yassin aveva colpito la compagna con un’accetta, ripetutamente, almeno con 4 fendenti vibrati con violenza al capo. Poi l’aveva lasciata a terra, senza vita, nel bosco di La Vuache e si era dato alla fuga. Nel giro di un paio d’ore i carabinieri del reparto operativo di Tolmezzo, di Osoppo e del nucleo investigativo di Udine avevano risolto il caso, scovando e arrestando l’egiziano. La sentenza di primo grado è arrivata a poco più di un anno di distanza dai fatti, pesante come un macigno. Il pm Alessandra Burra, titolare delle indagini, aveva chiesto una condanna a 24 anni di reclusione. Sulla scorta della consulenza tecnica, il gup ha ritenuto Yassin perfettamente capace di intendere e volere e ha usato un metro ancora più severo. Ha riconosciuto entrambe le aggravanti prevalenti e ha comminato l’ergastolo che, ridotto per il rito, fa 30 anni di carcere. Yassin, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti, era in aula alla lettura della sentenza. L’ha ascoltata e non ha fatto una piega. Il suo avvocato, Andrea Castiglione, ha preferito non farlo parlare. “Soffre ancora di allucinazioni e dice di sentire le voci”, aveva spiegato il legale che aveva puntato la difesa sul vizio di mente, se non totale quanto meno parziale, riconosciuto dalla consulenza di parte. In subordine aveva chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche per un ulteriore sconto di pena. L’uomo, che in passato aveva avuto comportamenti violenti anche in carcere, era tenuto sotto controllo dagli agenti della polizia penitenziaria. Ieri mattina, durante il primo giro delle 8 era vivo, seduto sul suo letto. Un’ora dopo il poliziotto l’ha trovato appeso. Tutti i soccorsi sono stati inutili. Palermo: gli avvocati denunciano “colloqui impossibili al carcere Pagliarelli” Il Dubbio, 25 aprile 2019 Delibera del Consiglio dell’Ordine del capoluogo siciliano. Nella richiesta al Ministro della Giustizia si evidenziano le difficoltà nel garantire il pieno esercizio della difesa. Chiediamo al ministero della Giustizia di assumere urgentemente ogni possibile iniziativa al fine di destinare ulteriori unità di personale alla casa circondariale Pagliarelli “Antonino Lorusso” di Palermo e garantire così i colloqui tra difensori ed assistiti loro detenuti nel pieno esercizio della difesa”. Durante la seduta del 18 aprile scorso, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati ha deliberato questa richiesta rivolta al guardasigilli dopo aver premesso che da diversi mesi, presso il carcere Pagliarelli, a causa di lunghe attese, si registrano frequenti e gravi problemi nella gestione dei colloqui tra i difensori e e i detenuti, specie in occasione di interrogatori a seguito di ordinanze di custodia cautelare in carcere, con “la conseguente limitazione dell’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito”. In questo contesto, quindi, gli avvocati denunciano che “i detenuti subiscono una evidente lesione dei diritti fondamentali”. Secondo l’Ordine degli avvocati di Palermo, i ritardi nella gestione dei colloqui sembrerebbero dovuti al numero esiguo di sale dedicate, che non consentirebbero lo svolgimento dei colloqui in contemporanea e dalla carenza di personale destinato a tale attività. Una carenza di personale che, sempre secondo l’Ordine di Palermo, è diventata oramai una “criticità cronica”, anche in conseguenza della riforma legislativa che ne ha ridotto la pianta organica complessiva, con la conseguente ed evidente difficoltà per i pochi agenti in servizio di occuparsi di tutte le mansioni alle quali sono preposti. Il consiglio dell’Ordine degli avvocati di Palermo sottolinea che l’importanza dei colloqui con i detenuti ha portato all’introduzione dell’articolo 12 bis del decreto legge numero 207, convertito in legge a febbraio del 2009, che ha introdotto la figura del Garante Regionale dei diritti dei detenuti, al fine di accordare una forma di tutela extra - giurisdizionale alle persone private della libertà, per promuovere l’esercizio dei diritti, verificare le condizioni detentive e il trattamento operato dall’amministrazione e segnalare vari abusi. Per questi motivi, all’unanimità, il consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo ha chiesto un intervento del ministro della Giustizia. Ma ha anche chiesto al direttore del carcere di adibire ulteriori locali in aggiunta a quelli già destinati ai colloqui, nel pieno rispetto della legge e dei diritti di ogni detenuto. Napoli: la direttrice “Poggioreale come officina del fare, contro gli stereotipi” napolicittasolidale.it, 25 aprile 2019 Il carcere di Poggioreale, intitolato a Giuseppe Salvia un suo vicedirettore assassinato dalla Camorra, è il carcere più grande d’Italia in termini di numero di detenuti. Uno studio dell’associazione Antigone del 2018 ha rilevato che l’istituto penitenziario registrava, nel 2018, con i suoi 2299 detenuti un surplus di circa 1611 detenuti, quindi quasi il 50% di persone in più rispetto alla capienza massima. Questa prigione è uno dei due istituti penitenziari di Napoli, situato nel quartiere di Poggioreale dal quale prende il nome, a pochi chilometri dal centro storico ed a pochi passi dalla stazione ferroviaria centrale. Il Carcere di Poggioreale è molto presente nell’immaginario cittadino, se ne parla perfino nella Smorfia ed è citato in innumerevoli canzoni del repertorio classico napoletano. L’imponente edificio fu finito di realizzare nel 1918 come progetto per sfollare le carceri in vigore all’epoca. “Molti dei problemi di Poggioreale sono causati proprio dalla sua vetustà, questo è un edificio che risale all’inizio secolo scorso” racconta la direttrice Maria Luisa Palma. La nuova direttrice, la Dott.ssa Palma, è da poco più di un anno alla guida del penitenziario. Quest’ultima e si sta muovendo per superare le criticità più evidenti, promuovendo e sostenendo numerosissimi progetti realizzati anche in collaborazione con il terzo settore privato “Lo Stato non riesce ad investire abbastanza per realizzare tutti i progetti di cui questo penitenziario ha bisogno. Il terzo settore privato ha la forza e le competenze specifiche per quest’incarico”. La direttrice si è investita attivamente attraverso progetti di ristrutturazione del carcere che hanno come obiettivo di realizzare spazi per la socialità in ogni piano di ogni singolo padiglione. Ma anche alla chiusura definitiva delle aree non conformi ai principi di dignità umana. In particolare sono stati realizzati molti lavori di ristrutturazione al padiglione Roma, quello che ospita Tossicodipendenti, sex offender e Transessuali. Non solo questo padiglione è stato ristrutturato, in particolare il secondo e terzo piano, ma ospita anche un Ser.D. interno per i detenuti tossicodipendenti, un caso più unico che raro nelle prigioni italiane. “Secondo le leggi in vigore in Europa- continua la dottoressa Palma - ogni detenuto deve avere uno spazio calpestabile di 3mq2, noi queste regole le rispettiamo, poi ovviamente bisogna fare i conti con una struttura antica ed i suoi limiti strutturali... Stiamo realizzando molti lavori all’interno del carcere, sia per incrementare le attività che per migliorare la condizione delle celle. Presto ci sarà l’inaugurazione di un nuovo padiglione. Ci stiamo adoperando per rendere il periodo detentivo non solo una mera privazione di libertà ma vogliamo dare un senso a questo tempo”. Tristemente noto specialmente per il sovraffollamento ed il critico primato in termini di suicidi Poggioreale ha però anche un lato luminoso, che spesso sfugge ai media. All’interno del penitenziario sono numerose le attività a disposizione dei detenuti, che si tratti di attività formativo professionali come l’officina di metalli, la falegnameria industriale o ancora la Tipografia ed il ricondizionamento toner; o ancora ma corsi ludico creativi, come lo yoga, scrittura creativa, laboratorio di arte presepiale ed il Teatro. Esiste anche un programma che permette ad un piccolo numero di detenuti, selezionati accuratamente, di fare un’esperienza professionale fuori al carcere. Nel futuro prossimo ci sarà anche la realizzazione di un progetto alquanto singolare, partendo da un’idea promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, a Poggioreale aprirà i battenti una pizzeria “Abbiamo già trovato i locali - dice la Dott.ssa Palma - una pizzeria a Poggioreale è il simbolo di quello che stiamo cercando di fare in questo penitenziario”. Trento: piano per la prevenzione dei suicidi in carcere “più contatti con l’esterno” di Stefano Voltolini salto.bz, 25 aprile 2019 Ma la capienza sale a 418 detenuti (rispetto a 241) e ci sono solo 5 educatori. L’aumento dei suicidi e la crescita del sovraffollamento sono i tratti salienti del 2018 nelle carceri italiane. Lo scrive l’associazione Antigone scorrendo i dati dell’anno trascorso. Il flagello delle morti volontarie dietro le sbarre è un fatto noto, di cui si parla riguardo alle annose problematiche delle strutture penitenziarie del Belpaese, avvertite anche in regione. Un dibattito che però sovente finisce nel nulla. A Trento si prova ad andare in direzione contraria. Con un piano per la prevenzione dei gesti estremi e dell’autolesionismo, che punta ad accrescere la salute, i contatti esterni, riducendo al contempo le pratiche che possono alimentare tra i reclusi la sensazione di “impotenza e umiliazione”. Per arrivare alle linee guida approvate dalla giunta provinciale, in accordo con il “gruppo di lavoro interistituzionale” formato da prefettura, questura, azienda sanitaria e amministrazione locale, c’è voluta - purtroppo - la rivolta del dicembre scorso. Partita proprio dal gesto estremo di uno dei detenuti. La protesta ha costretto le autorità a guardare come si vive dentro la struttura di Spini di Gardolo, inaugurata appena nel 2011. Salutato in pompa magna dall’allora ministro di grazia e giustizia Angelino Alfano, voluto e finanziato dalla Provincia, il carcere è stato pensato per una “capienza regolamentare” di 241 posti, come riporta anche Antigone. Peccato che oggi sul sito del ministero, aggiornato a gennaio, si sia arrivati a 418 “posti regolamentari”, di cui 325 occupati. Ma il vero problema sono i numeri drammatici del personale: 175 agenti di polizia penitenziaria “effettivi”, rispetto ai 225 previsti, e 5 educatori (sui 6 indicati), a cui si aggiungono 12 amministrativi. E sono proprio i funzionari ministeriali addetti alle attività educative, alternative, per i detenuti, ad avere un compito fondamentale. Se manca la rieducazione, o è carente, viene meno il fine riabilitativo della pena sancito dalla Costituzione, e soprattutto la speranza del singolo. I dati sulle morti volontarie starebbero a dimostrarlo. Ecco quindi dove si situa l’iniziativa annunciata dalla Provincia di Trento, un seguito alle promesse ai detenuti fatte da commissario del governo e questore per placare la rivolta di dicembre. Proposta che fra l’altro arriva nella primavera del 2019, dopo un 2018 difficile nelle carceri italiane. Dove ci sono stati 63 suicidi, contro i 47 del 2017 e i 39 del 2016. “Ogni 900 detenuti presenti, durante l’anno, uno ha deciso di togliersi la vita, venti volte di più che nella vita libera” nota l’associazione. A Trento gli episodi sono stati 7 dal 2011 al 2017 e due solo l’anno scorso. Nelle linee guida, elaborate da dipartimento salute e politiche sociali, dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari e del provveditorato penitenziario del Triveneto, “si raccomanda di includere nel piano operativo della casa circondariale tutti gli interventi realizzati da parte enti, istituzioni e associazioni che hanno la finalità generale di migliorare la salute, il benessere”. Per ridurre i fattori di rischio che possono portare “non solo per comportamenti autolesivi ma anche per la radicalizzazione islamista”. Si punta a incentivare i contatti familiari ed esterni, ridurre le dipendenze, promuovere attività fisica e abitudini salutari, soprattutto a rilevare “eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva, in correlazione con un rischio suicidario, facendo particolare attenzione al presidio delle situazioni potenzialmente stressanti per i reclusi (ingresso, trasferimenti, colloqui, processi, eventi della vita in sezione eccetera)”. Burocrazia del carcere permettendo. Teramo: troppi detenuti, il “caso Castrogno” finisce sul tavolo del ministro emmelle.it, 25 aprile 2019 L’On. Pezzopane interroga Bonafede. La parlamentare del Pd, reduce da una visita assieme a Di Nanna (Agl Abruzzi), chiede un intervento a tutela della dignità umana. “Ringrazio l’avvocato Di Nanna perché mi ha dato l’occasione di conoscere direttamente una situazione che avevo appreso solo tramite i mezzi d’informazione. Quella al carcere di Teramo non è la prima visita che faccio, ma devo dire che le condizioni di Castrogno sono al di là del bene e del male”. Lo ha dichiarato l’onorevole del Pd, Stefania Pezzopane, nel corso di una conferenza stampa che si è svolta oggi a Teramo, a seguito di una visita ispettiva condotta dalla deputata insieme all’avvocato teramano Vincenzo Di Nanna, segretario di Agl Abruzzi. “Bisogna intervenire: ecco perché ho presentato una interrogazione a risposta urgente e spero che il ministro Alfonso Bonafede risponda presto - ha detto la parlamentare aquilana -. Una condizione di sovraffollamento così esplicita non può che determinare conseguenze quali quelle che hanno denunciato i detenuti, che vivono in uno spazio ristrettissimo: dov’è prevista una persona, ce ne sono due. I servizi igienici sono molto carenti e mi ha colpito quanto è stato riportato in merito alla difficoltà di contattare gli avvocati. È urgente l’intervento del ministro, in particolare per quanto riguarda le questioni relative al sovraffollamento, ma anche per sollecitare la nomina del garante dei detenuti - ha concluso la Pezzopane”. “Recentemente il Tribunale Civile dell’Aquila ha riconosciuto una violazione della legge nazionale e internazionale, condannando il Ministero della Giustizia a pagare il risarcimento dei danni, oltre alle spese legali - ha ricordato Di Nanna. Qualora la situazione dovesse perdurare, calcolando che in presenza della violazione dell’art. 3 Cedu il risarcimento per ciascun detenuto è pari a 8 euro per ogni giorno di carcerazione illegale, se moltiplichiamo la cifra per 365 e 430 (quanti sono ristretti nel carcere di Teramo) otteniamo, solo per un anno, un costo pari a 1.250.600 euro: oltre alla già grave violazione dei diritti umani, abbiamo quindi anche un danno all’erario”. “Con l’onorevole Pezzopane, alla quale ci siamo rivolti conoscendo la sua sensibilità su questi temi e che ha subito ritenuto necessaria una visita urgente, abbiamo riscontrato mancanza d’illuminazione, condizioni igieniche precarie, assenza di acqua calda e di riscaldamento, lesione del diritto allo studio e altro: di qui l’iniziativa dei carcerati, i quali hanno voluto rendere noto un problema sul quale la politica finora è stata purtroppo assente”. Firenze: teatro in carcere, il mito di Ulisse in scena a Sollicciano di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 25 aprile 2019 Il carcere Sollicciano di Firenze ospiterà, il prossimo 4 maggio alle ore 11, la messa in scena dello spettacolo “Ulisse. L’arte della fuga. Navigando da Bach a Dallapiccola”. L’iniziativa s’inserisce nel programma del Maggio musicale fiorentino per il secondo anno consecutivo a conferma dell’investimento sulla dimensione culturale da parte della casa circondariale della città. L’arte e la cultura diventano così strumento di rieducazione e reinserimento sociale, oltreché occasione di intrattenimento. Alla rappresentazione teatrale, promossa dal centro studi Luigi Dallapiccola, potranno partecipare, insieme ai detenuti, anche persone esterne. Lo spettacolo, che si svolgerà nel teatro della struttura penitenziaria, è prodotto e donato gratuitamente dalla compagnia QA-Quasi Anonima Produzioni (nata nel 2013 a Messina e attiva soprattutto sul territorio siciliano) con l’attore e regista Sergio Basile, repertorio musicale curato ed eseguito dal vivo da Filippo La Marca e con testo poetico e coordinamento artistico a cura di Auretta Sterrantino. Trapani: i detenuti in scena con un progetto dell’Alberghiero di Erice tp24.it, 25 aprile 2019 Si terrà lunedì, 29 aprile, con inizio alle ore 11, alla casa circondariale San Giuliano, una performance dei detenuti dal titolo “Traduzioni - Shakespeare alla prova”, nell’ambito di un progetto Pon a cura dell’Istituto Alberghiero “Florio” di Erice, curato dal regista Massimo Pastore, che, per la realizzazione dell’iniziativa, intende ringraziare la Dirigente Scolastica, Pina Mandina, la professoressa Patrizia La Commare, tutor del progetto, la dottoressa Manuela Mancuso, psicologa, e Alessandra De Vita, assistente alla regia. “Dopo 30 anni di esperienza nei laboratori teatrali nelle scuole - dice Pastore - non nascondo che questa nuova dimensione carceraria mi aveva all’inizio spaventato, perché era la prima volta che si realizzava per me la possibilità di lavorare con dei detenuti e sono stato preda di una serie di dubbi, primo tra tutti quello sulla mia eventuale capacità di condurre un laboratorio di questo tipo. Adesso, in dirittura d’arrivo, definisco questa una tra le più belle esperienze in assoluto della mia vita teatrale; tutti i timori sono stati fugati grazie alla complessità e alla ricchezza che ho trovato tra questi “attori”. Li chiamo così non a caso, perché quello che realizzeranno il 29 in scena è un piccolo saggio di cosa veramente dovrebbe essere il teatro. Credo, infatti, che - ora più che mai - la scena debba configurarsi, prima di tutto, come luogo di riflessione, di approfondimento e di studio del nostro orizzonte esistenziale e umano. Ed è chiaro che un ambiente come quello carcerario sia, in questo senso, un orizzonte tutto particolare”. Massimo Pastore ricorda, a tal riguardo, il messaggio diffuso in questi giorni da Eugenio Barba, il fondatore dell’Odin Teatret. “Il regista italiano lascerà la guida di questo prestigioso gruppo internazionale l’anno prossimo e nel suo commiato insiste sulla necessità sociale di un teatro di comunità. E a me pare che, proprio all’interno di una comunità carceraria, la forma e gli strumenti del teatro si presentino come misteriosamente e inspiegabilmente a loro agio”. “Non so se abbiate mai notato che l’anagramma della parola carcere è cercare - aggiunge Pastore -. E proprio questo cercare è stato il filo conduttore del nostro laboratorio che partiva dall’idea di lavorare sulla rielaborazione di certi particolari eventi storici (come quello dell’Olocausto) ed è approdato, alla fine, a una sorta di studio sui codici dell’anima e sulle sue libere e molteplici declinazioni e rappresentazioni. Un teatro dell’anima, quindi, per far parlare liberamente l’anima di queste persone che della libertà sono privati.” Nel corso di questi mesi gli allievi sono stati impegnati nello studio e nella rielaborazione di alcuni testi shakespeariani e si sono lasciati condurre a riflettere su temi come la necessità del Bene, la bellezza dell’amore, la lotta per il potere. Alla fine, hanno elaborato uno spettacolo che è una sorta di passeggiata all’interno di alcune opere shakespeariane, da Romeo e Giulietta a Macbeth ad Amleto. Il confrontarsi con l’universalità dei temi trattati in queste opere, li ha portati a realizzare una visione prospettica della loro vita: una possibilità di rileggere il loro passato in vista di un possibile futuro. “La gioia più grande che ho avuto in questi mesi - conclude Massimo Pastore - è stato il sorriso e il grazie con cui queste persone ci salutavano alla fine dei nostri incontri. Una frase di uno di loro, in particolare, mi rimane nel cuore come dono e come insegnamento: “Vi ringrazio, perché nonostante i temi abbastanza complessi che affrontiamo, alla fine mentre risalgo in cella sorrido e vedo sorridere i miei compagni come se avessimo fatto una passeggiata all’aria aperta”. Io non so se questo laboratorio cambierà la vita a queste persone, non so se abbiamo offerto loro una possibilità di ricominciare, un nuovo inizio. So, però, che queste persone affronteranno la scena il 29 aprile con la capacità di non essere ristretti. Ho scoperto, infatti, che il termine con il quale spesso si identificano i detenuti è ristretti. Io, comunque, non li ho trovati ristretti nella loro voglia di confrontarsi con se stessi, con gli altri, con un nuovo progetto per la loro vita”. Soddisfatta per il lavoro portato avanti e l’imminente realizzazione del progetto, la Dirigente Scolastica, Pina Mandina, che sottolinea “l’efficacia didattica e pedagogica di un’esperienza di questo tipo in cui la drammatizzazione ha grande potete catartico ed educativo”. Lo spettacolo è stato inserito nel programma delle manifestazioni promosse dalla Rete dei laboratori teatrali in carcere in occasione della Giornata mondiale del teatro di quest’anno. Radio Radicale ha fatto servizio pubblico al posto di altri e deve continuare a farlo di Iuri Mario Prado Il Dubbio, 25 aprile 2019 Radio Radicale esiste ormai da tanto tempo, ma è finora sopravvissuta pressoché sempre in modo pericolante. E già altre volte, in passato, si giungeva nell’incertezza all’appuntamento con il termine della convenzione che la teneva in vita. Già altre volte l’ipotesi della cessazione di Radio Radicale rischiava di realizzarsi in fatto compiuto. Non è mai successo, per fortuna, ma bisognerebbe domandarsi quale sarebbe stato lo sviluppo dell’informazione in questo Paese se invece fosse successo. Altri avrebbe preso il posto di Radio Radicale? No, o almeno non per fare le stesse cose. Altri avrebbe offerto i servizi resi da Radio Radicale? No, appunto. Sarebbe dunque mancata informazione non solo sui lavori parlamentari e delle istituzioni pubbliche, ma sulla vita dei partiti, sull’attività sindacale e dell’associazionismo, sullo svolgimento dei processi nelle aule di giustizia e insomma sulla vicenda politica, civile e culturale del Paese. E su quella vicenda Radio Radicale ha reso un’informazione non mediata, non filtrata, facendosi riconoscere come la realtà - l’unica capace di far conoscere le realtà altrui. L’informazione altrui: perché i giornali passati in rassegna da Radio Radicale davvero non rappresentavano l’informazione esemplare, dal punto di vista radicale. I partiti altrui: perché Radio Radicale era e rimaneva comunque un organo di partito. Le idee altrui, infine: perché era tramite la diffusione di quelle che Radio Radicale diffondeva le proprie. Altri avrebbe potuto fare tutto questo? Non si sa se avrebbe potuto: ma avrebbe dovuto. Solo che non l’avrebbe mai fatto e non lo farebbe mai. Questo è il punto. Serve al Paese, al mantenimento di una decente temperie civile e culturale del Paese, serve ai cittadini, agli elettori, ai contribuenti, ai militanti dei partiti politici, agli implicati nelle questioni di giustizia, poter fruire di un servizio di informazione quale quello reso da Radio Radicale? Senza Radio Radicale quel servizio non sarebbe reso, pur trattandosi di un servizio che chiunque dotato di sensibilità civile appena accennata riterrebbe dovuto e da assicurare. Ma non ci sono né lo Stato né altri desiderosi di intraprendere una qualsiasi iniziativa neppure vagamente simile, molto semplicemente perché Radio Radicale ha reso doveroso per sé assicurare ciò che in realtà ad essa non competeva ma che nessuno si incaricava di assicurare: il diritto dei cittadini di conoscere quanto più possibile affinché essi potessero poi determinarsi a proprio giudizio. Che questo servizio pubblico non sia stato reso dal cosiddetto servizio pubblico - se non indirettamente, appunto, tramite la radio (Radio Radicale) che ora si vuol sopprimere - la dice lunga su quanto poco sia tenuto in conto il diritto dei cittadini di poter accedere a un’informazione completa sulle faccende che governano la loro vita. E se qui si trattasse di far trasmettere quell’informazione ad altri, di far prestare quel servizio ad altri, insomma di un avvicendamento societario o dell’ingresso pubblico nella gestione diretta di quel servizio, senza snaturamento e a costi paragonabili, allora davvero non ci sarebbe problema. Ma qui non si tratta di questo. Perché senza Radio Radicale non ci sarebbe il servizio di informazione garantito da Radio Radicale. Occorre dunque che Radio Radicale possa continuare a fare esattamente ciò che sinora ha fatto. Che è esattamente ciò che altri avrebbe dovuto fare e non ha fatto. E che, ripetiamolo, non farebbe mai. 25 aprile, il nostro patto di libertà di Ezio Mauro La Repubblica, 25 aprile 2019 Parliamo di noi, del nostro essere incompiuti come nazione e del bisogno di uscire dall’anno zero del populismo vendicativo. In realtà parliamo di noi, oggi, quando parliamo del 25 aprile. Della nostra incompiutezza come nazione, se si intende l’identità nazionale come qualcosa che non è definito solo dalla comunità di discendenza, dal sangue e dalla terra, ma dal riconoscimento reciproco che si scambiano i cittadini nel comune patto costituzionale che fissa i diritti e i doveri dei singoli, insieme con il carattere e la natura dello Stato democratico. Naturalmente entrano in gioco anche partite minori, di cui non varrebbe la pena occuparsi. Il ministro dell’Interno che contrappone la lotta alla mafia all’antifascismo, come se fosse una gara a sottrazione, e non un doppio impegno per un leader democratico: con questo squalificandosi come uomo politico e come uomo di governo. L’altro vicepremier in caduta libera che indossa la pelle del camaleonte scoprendosi all’improvviso antifascista per convenienza, dopo aver predicato per mesi la sua equidistanza pilatesca da destra e sinistra, controfirmando tutte le politiche xenofobe di Salvini. In più un mondo di destra sbandato e senza riferimenti che si affida alla forza virtuale dei sondaggi per riaprire i conti con la storia, pensando ancora una volta, come già nel 1994, che si possa mettere in discussione il 25 aprile in nome di una malintesa pacificazione che cerca sottotraccia un’impossibile equiparazione dei torti e delle ragioni. Infine l’emersione tollerata, blandita, quindi incoraggiata di nuovi gruppi e movimenti che si richiamano al fascismo, pronti alla provocazione che rovescia il significato della giornata di oggi, festa nazionale: come “l’onore a Mussolini” sullo striscione portato ieri nel centro di Milano. Ciò che conta è la coscienza della nazione, il sentimento della Repubblica. Dopo 74 anni dovrebbe essere chiaro a tutti che il passaggio fondativo dello Stato democratico è la riconquista della libertà, conculcata dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista, con il marchio di sopraffazione delle leggi razziali. Su questa pietra angolare - la libertà - si fonda tutto lo sviluppo democratico del Paese, nell’alternanza delle stagioni politiche e culturali, nel passaggio dei governi, nelle crisi economiche e nella sfida con il terrorismo delle Brigate Rosse. Una democrazia sicuramente imperfetta, per anni incompiuta, fragile, a tratti infedele: e tuttavia capace di prevalere, di allargare la sfera dei diritti e dunque di mantenere il patto di libertà stretto con i cittadini quel 25 aprile. Se oggi possiamo dire che quella libertà è stata “riconquistata”, e non soltanto “concessa” dagli Alleati con il loro decisivo intervento, è perché c’è stato un moto autonomo, nazionale e spontaneo di ribellione e rifiuto della dittatura, organizzato e armato, che ha dato vita alla Resistenza. Anzi: quel poco o quel tanto di opposizione organizzata che porterà poi all’insurrezione partigiana, è tuttavia sufficiente per rendere la nostra democrazia non come una licenza sovrana, ma riscattata come il diritto negato a un popolo. La libertà di cui godiamo, dunque, la cultura democratica nella quale organizziamo le nostre vite, sono delle conquiste, frutto di volontà e azione da parte di alcuni italiani, a beneficio di tutti - vinti e vincitori - e a vantaggio delle generazioni future. Qui sta la fonte di legittimazione della Repubblica, che non è una costruzione artificiale o un prodotto d’importazione proprio perché dalla lotta partigiana al fascismo è nata l’emancipazione democratica di una nazione, e da lì sono derivate la Costituzione e le istituzioni che reggono il nostro Paese. Da lì origina il gioco politico che si è articolato negli anni tra destra e sinistra, in un confronto libero nelle elezioni, nel Parlamento, nella società. C’è dunque un percorso coerente che nasce dal 25 aprile e attraversa tutta la vicenda repubblicana. Perché il senso di quella data costituisce il nucleo morale della democrazia ritrovata. Nascono a questo punto due questioni. La prima riguarda quel che è successo in Italia negli ultimi vent’anni, quando è venuta meno la pretesa “totalitaria” (come la chiama Emilio Gentile) degli ex comunisti di rappresentare il vero antifascismo della Resistenza: perché quella parte della destra italiana che non è di derivazione post-fascista non si è impadronita per quota di questo avvenimento di libertà che è il 25 aprile, condividendone significato e testimonianza come ha fatto la Democrazia cristiana, e declinandolo poi secondo i suoi interessi politici? Questa scelta - repubblicana, democratica, costituzionale - non c’è stata, anzi lo sdoganamento degli ex missini da parte di Berlusconi per portarli al governo è avvenuto senza chiedere e ottenere (nel silenzio degli intellettuali) un rendiconto sul fascismo, salvo l’eccezione isolata e subito dannata di Fini: come se la prassi non avesse bisogno della teoria, e tutti gli atti si giustificassero mentre si compiono. Col risultato di un’operazione politica che non ha definito fino in fondo il suo orizzonte culturale, e proprio su un punto sensibile della storia italiana, rivelando così l’incapacità di far nascere anche nel nostro Paese una moderna forza conservatrice europea, e lasciando il campo libero alle incursioni dell’estremismo populista. La seconda questione deriva proprio da questo limite. Mancando un giudizio sulla storia, sul fondamento di libertà del nostro ordinamento costituzionale e istituzionale, oggi l’attacco è al costume democratico, ai valori liberali che regolano la vicenda politica e la nostra convivenza. Non è il caso di parlare di fascismo che ritorna. Ma assistiamo a tentativi continui di sfiorare i tabù democratici, alludendo al passato, mutuando slogan e linguaggi, guardando con indulgenza a quelle espressioni di fascismo sciolto, disorganico, fuori dalla storia (dunque al riparo dalle lezioni del secolo) che si ripropongono come presenza originaria, situazionista, antagonista, realizzata, spiegata e consumata nell’azione. Intanto un nuovo istinto di classe si fa Stato contro il migrante, vede crescere le distanze tra il ricco e il povero, li disgiunge dalla stessa comunità di destino di cui facevano parte fino a ieri nelle loro differenze, mentre la ferocia verbale e la brutalità esibita contro i deboli diventano la cifra della nuova politica. Questo succede quando viene meno la coscienza della vicenda repubblicana, nel suo male e nel suo bene. Quando si smarrisce, per scelta, il sentimento delle origini da cui deriva il processo democratico del Paese. Quando rischia di andare in crisi quel patto costituzionale che è il deposito permanente del 25 aprile. La data di oggi ci ricorda proprio questo: che viviamo da decenni dentro un patto di libertà da difendere, non nell’anno zero di un populismo vendicativo che vorrebbe riscrivere la storia, e fatica a scrivere la cronaca. Il 25 aprile, la mafia e il teatro di Salvini di Roberto Saviano La Repubblica, 25 aprile 2019 Questa dichiarazione di Matteo Salvini sul giorno della Liberazione è stata un atto di chiarezza: “Il 25 aprile non sarò a sfilare qua o là, fazzoletti rossi, verdi, neri, gialli e bianchi. Vado a Corleone a sostenere le forze dell’ordine nel cuore della Sicilia”. La scelta di citare i fazzoletti nei loro vari colori serve a rinnegare l’intera storia della Repubblica Italiana. La Resistenza è stata opera di gruppi socialisti, cattolici, comunisti, liberali, anarchici. Salvini ha chiarito definitivamente da che parte sta. Se pensiamo ai giganti che indossarono i fazzoletti - tra questi Ferruccio Parri, Luigi Longo, Sandro Pertini, Raffaele Cadorna, Joyce Lussu, Emilio Lussu - viene da compatire il nostro sventurato Paese, che li vede rinnegati ora da questo mediocre uomo senza qualità. Salvini dichiara di voler andare a Corleone a omaggiare la Polizia; ancora una volta tira in ballo le forze dell’ordine per creare uno strano cortocircuito: mettere in contrapposizione la lotta per la Liberazione dal nazifascismo alla lotta antimafia. Ecco la “furbata”, attaccare la Resistenza nascondendosi dietro la “legalità” (nel caso di Salvini usare le virgolette è d’obbligo). Il ministro non celebrerebbe l’Italia nata dalla Resistenza, ma la Polizia e la lotta al crimine. Eppure la lotta antimafia cos’altro è se non una lotta di liberazione? E la legalità, slegata dai valori costituzionali nati dalla Resistenza, è una legalità ambigua. Trattare come un “derby fascisti-comunisti” la celebrazione del 25 aprile significa dire che si può tifare per l’una o per l’altra parte, indistintamente. Cos’altro è questo se non un favore ai gruppi della destra radicale per i quali è sufficiente non vedere il ministro celebrare il 25 aprile per ascriverlo ai loro? Salvini dice che non gli interessa la storia vecchia del 25 aprile, gli importa il futuro come se il tempo archiviasse l’inutile passato, proprio lui che porta sul bavero la sagoma di Alberto da Giussano ispirandosi alla battaglia di Legnano del 1176. Il ministro appare ridicolo quando giura in tv di impegnarsi perché nazismo, comunismo e fascismo non tornino in Italia, ovvio che nella loro dimensione storica non torneranno ma dovrebbe piuttosto giurare che non sarà sponsor, promotore o destinatario di finanziamenti di nessuna forma di totalitarismo, cosa che non può evidentemente fare essendo vicino a Orbán e sostenuto economicamente da Putin. Slegare la lotta alla criminalità organizzata da un percorso democratico di liberazione è un atto gravissimo. Tutta l’ansia di Salvini nell’accreditarsi come politico antimafia dipende dal fatto che politico antimafia non lo è per nulla perché la storia del suo partito è una storia di comprovata complicità. Quella passata e, secondo le ultime cronache giudiziarie, anche quella presente. La Lega ha riciclato soldi grazie al faccendiere del clan De Stefano, e poi ci sono i rapporti mappati dell’inchiesta Crimine tra dirigenti leghisti e capi ‘ndrina e l’elenco è ancora lungo. Il segretario regionale della Lega in Calabria, Domenico Furgiuele, che ora siede come deputato in Parlamento, è stato amministratore unico di una delle società del suocero, Salvatore Mazzei, che è stato condannato per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Tra i beni confiscati a Salvatore Mazzei (per 200 milioni di euro) c’è anche un hotel a Lamezia Terme in cui nel 2015 Salvini fece una conferenza stampa organizzata da Furgiuele. Nello stesso hotel, nel 2012, avevano pernottato i killer di Davide Fortuna, ucciso per ordine delle cosche, e non pagarono il pernottamento. Oggi invece apprendiamo dei legami pericolosi tra i vertici della Lega e Cosa Nostra. L’imprenditore Paolo Arata, secondo le accuse della Procura di Roma, avrebbe pagato il sottosegretario Siri per ottenere un provvedimento di legge (poi stralciato) che avrebbe dato vantaggi all’azienda di Arata. Ma, secondo le indagini, dietro l’azienda di Arata ci sarebbe Vito Nicastri ossia il prestanome del boss Matteo Messina Denaro. I rapporti tra Arata e Salvini sono molteplici: ad organizzare il primo viaggio negli Usa di Salvini è proprio Federico Arata, figlio di Paolo, e Paolo Arata nel 2017 parlò alla convention “Noi per Salvini”. Se per il passato Salvini poteva raccontare di “essere arrivato dopo” (nonostante egli sia un uomo di primo piano della Lega da un ventennio), per l’affaire Siri-Arata-Nicastri-Messina Denaro questa scusa non basta. Ma cosa fareste se foste a capo di un partito così compromesso; se aveste tra i vostri uomini persone cosi ambiguamente vicine ai clan? Urlereste che siete antimafia, plaudireste a qualsiasi spacciatore arrestato. Ovvio. E così Salvini per far passare il suo falso pedigree antimafia usa la carta facile: “La mafia mi fa schifo”. Tutto già visto. Per comprendere la messa in scena che Salvini andrà a costruire a Corleone, bisognerebbe leggere il libro di Attilio Bolzoni, Il padrino dell’antimafia, che racconta come tutte le organizzazioni criminali italiane si siano convertite alla vocazione antimafiosa all’unico scopo di continuare a fare affari, capendo che il colpo di teatro del mostrarsi antimafia è l’unico modo per continuare a fare affari. Tra il 2005 e il 2007, nei processi contro i maggiori mafiosi di Palermo, i mafiosi stessi urlavano “la mafia fa schifo”. Ad Altofonte, un membro di Cosa Nostra aveva allestito una mostra di pittura dedicata a Falcone e Borsellino. I capi di Sicindustria pubblicamente combattevano i boss, ma erano loro soci in segreto. L’antimafia spesso è un capitale spendibile da Cosa Nostra, che è esattamente la logica che usa Salvini quando a Rosarno tuona contro la ‘ndrangheta, mentre ha al suo fianco Domenico Furgiuele e il volto della Lega a Rosarno Vincenzo Gioffrè (Gioffrè ha fondato la cooperativa agricola con Giuseppe Artuso, secondo la procura di Reggio Calabria personaggio vicino al clan Pesce, e un consorzio di cooperative che ha avuto come presidente Antonio Francesco Rao, considerato vicino al clan Bellocco). Ma a Salvini oggi non basta più dire che la mafia gli fa schifo, deve proprio urlarlo, sperando che in futuro possa valere come argomento difensivo. Siccome a Salvini di smettere la sceneggiata non possiamo chiederlo, poiché significherebbe la fine della sua attività da politico, chiediamo che a Corleone ci sia, da parte di tutte le associazioni antimafia che si riconoscono nei principi democratici, un completo boicottaggio di questa messa in scena. Chiediamo che le forze dell’ordine non accettino questa manipolazione e che si oppongano alla contrapposizione tra la Liberazione dal nazifascismo e la lotta antimafia. Chiedo a chi è costretto a partecipare alle buffonate promosse dal ministro dell’Interno, di sottrarsi, di girarsi di schiena, di non dargli il volto, di boicottare. Boicottare, nel rispetto degli italiani per bene, che non meritano di vedere la loro storia vilipesa e il sacrificio dei loro padri calpestato. Buona Liberazione a tutti! Migranti. I “clandestini”? Salvini adesso ci ripensa: “Sono solo 90mila” di Carlo Lania Il Manifesto, 25 aprile 2019 Aveva parlato di 600mila irregolari. Il M5S: “Lo dice perché sui rimpatri non ha fatto nulla?”. Dimenticate i 500/600 mila migranti irregolari agitati per mesi dal Matteo Salvini, tanto da farne il cavallo di battaglia vincente della passata campagna elettorale. Dimenticateli perché non ci sono più. Rimpatriati dal ministro degli Interni, come aveva promesso? Macché. Più semplicemente sono svaniti, spariti nel nulla o, come sembra più probabile, messi sotto il tappeto perché non si vedano. “Il numero di irregolari che si stima siano presenti sul nostro territorio è molto più basso anche rispetto a quanto potessi presumere”, ha ammesso ieri mattina il ministro leghista. “Dal combinato dei dati degli ultimi quattro anni - ha spiegato - emerge che in Italia si ha una clandestinità di 90 mila soggetti massimo, essendo pessimisti”. Numeri talmente bassi che non sfuggono al Movimento 5 Stelle che proprio in questi giorni con Luigi Di Maio ha polemizzato duramente con il titolare del Viminale accusandolo di aver rimpatriato pochi immigrati irregolari. E che infatti torna ad attaccare. “Sorprendono le parole del ministro dell’Interno visto che fu proprio lui a scrivere nel contratto di governo il numero di 500 mila irregolari - spiegano fonti del Movimento - Non capiamo il senso di dover anche smentire ciò che è riportato dal contratto, forse perché sui rimpatri ancora non è stato fatto nulla?”. Il nuovo racconto salviniano sull’immigrazione comincia al termine del vertice che il ministro presiede al Viminale proprio su immigrazione, sicurezza e terrorismo. E ribalta completamente il quadro dipinto fino a oggi dallo stesso Salvini. “Dal 2015 sono sbarcati 478 mila migranti - spiega il ministro: 268 mila hanno lasciato l’Italia e sono presenze certificate in Paesi Ue e altri 119 mila sono in accoglienza in Italia. Quelli di cui non c’è traccia sono 90 mila: un numero molto più basso rispetto a quanto qualcuno va narrando in questi giorni”. Dietro l’inaspettato stop imposto da Salvini alla sua stessa propaganda ci sono almeno due ragioni: la necessità di rispondere agli attacchi dei 5 Stelle proprio sui pochi rimpatri eseguiti in undici mesi, e quella di dimostrare quanto fatto da quando al Viminale c’è lui. “Stiamo lavorando per le espulsioni, ma per espellere devi trattenere, se non ho posti dove trattenere non posso espellere”, spiega quindi Salvini promettendo più posti nei Centri per i rimpatri (Cpr). A oggi quelli operativi sono sei: a Roma, Potenza Bari, Brindisi, Caltanissetta e Trapani. “I posti sono 672, nelle prossime settimane arriveranno altri 250 posti, tra Bari, Roma, Torino e Potenza, altri 400 entro ottobre, quindi a ottobre 2019 arriveremo a triplicare il numero dei posti per gli immigrati che possono essere espulsi, saranno circa 1.400 rispetto ai 400 trovati”, assicura Salvini. La nuova cifra di 90 mila irregolari rischia di essere sottostimata rispetto alla realtà. Il ministro infatti non sembra considerare coloro che, dopo le due passate sanatorie, negli anni non hanno potuto rinnovare il loro permesso di soggiorno per aver perso il lavoro e sono precipitati nel buco nero della clandestinità. In passato la Fondazione Ismu ha calcolato in circa 450 mila le presenze di immigrati irregolari in Italia, cifra alla quale adesso andranno aggiunti quanti verranno costretti alla clandestinità dagli effetti del decreto sicurezza voluto dallo stesso ministro degli Interni (alcune stime parlano di 50 mila persone solo nell’anno in corso). Ci sarebbe poi da aggiungere che se gli irregolari sono solo 90 mila, allora i governi precedenti non avrebbero lavorato poi così male per fermare gli sbarchi, come invece Salvini accusa da sempre. E infatti dopo il M5S, le reazioni più dure arrivano proprio dal Pd: “Dopo un anno che dal Viminale grida all’invasione, Salvini oggi scopre che non deve più rimpatriare i 600 mila migranti irregolari che ci raccontava in campagna elettorale”, dice Debora Serracchiani. “Avvisi i suoi caporali sui territori che possono stare tranquilli: le ronde possono rientrare”. Migranti e clandestini: chi dà i numeri e chi non li ricorda di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 aprile 2019 Più delle già non combacianti stime di Ocse, Istat, Ispi e Ismu sugli irregolari, ieri meritavano attenzione altri dati sorvolati dal ministro Salvini. Dal 2015 - è il pallottoliere del ministro dell’Interno Matteo Salvini - sono sbarcati 478mila migranti, 268mila sono in Paesi Ue che li vogliono rimandare in Italia, altri 119mila sono nei circuiti di accoglienza, quindi il “numero massimo stimabile di irregolari in Italia dal 2015 è di circa 90mila persone, un numero molto più basso rispetto a quanto qualcuno va narrando in questi giorni”. Qualcuno? Si vede che era un sosia di Salvini quello che dall’opposizione, per tutta la campagna elettorale, ad ogni comizio additava “mezzo milione di clandestini in giro per l’Italia a campare di furti e di illegalità” (Genova, 8 febbraio 2018), e prometteva “l’impegno serio, concreto e sottoscritto di fare mezzo milione di espulsioni di clandestini” (Cagliari, 26 novembre 2017). Talmente sosia che, a volte, raddoppiava: “5 milioni di poveri, 4 milioni di disoccupati, 1 milione di clandestini: non vedo l’ora di restituire sicurezza agli italiani” (27 dicembre 2017). In verità, più delle già non combacianti stime di Ocse, Istat, Ispi e Ismu sugli irregolari, ieri meritavano attenzione altri dati sorvolati dal ministro. Come i 257 morti o dispersi in mare lungo la rotta libica nei primi 4 mesi a fronte di 666 sbarcati in Italia, morti che nel 2014 (170.000 arrivi) erano stati 96; i 3.000 rinchiusi, per l’Onu, nei centri libici di detenzione; o i 272 morti, 1.200 feriti e 35.000 sfollati di quella che in tv Salvini ha negato essere guerra in Libia. Ma i suoi alleati 5stelle trovano solo da dolersi della profanazione del “contratto di governo” ad opera delle “parole del ministro che sorprendono, visto che fu proprio lui a scrivere nel contratto il numero di 500mila irregolari”. In fondo, possono entrambi permetterselo. Perché il problema, più che di chi dà i numeri, è di chi non se li ricorda. Stati Uniti. La sfida libertaria del procuratore John Creuzot di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 aprile 2019 “Niente più carcere per i ladri indigenti”. John Creuzot è un giudice singolare che ha una pessima considerazione del sistema carcerario americano. Un moloch costoso, vendicativo, discriminatorio ma soprattutto inefficace: “Il mio obiettivo è chiudere almeno tre prigioni nei prossimi quattro anni” ha promesso lo scorso novembre, quando è stato eletto procuratore della contea di Dallas (Texas) con il 60% dei voti battendo a sorpresa il giudice di orientamento repubblicano Faith Johnson. Ed è stato di parola: come primo passo ha iniziato letteralmente a svuotarle, le carceri, depenalizzando, tra le polemiche, quelli che definisce “reati minori”. In particolare i furti di beni necessari (cibo, pannolini, latte in polvere, coperte) commessi da persone in stato di indigenza per un costo inferiore ai 750 dollari (circa 670 euro). Naturalmente la depenalizzazione non sarà applicata se gli articoli vengono rivenduti: “Se uno entra in un drugstore e ruba cento confezioni di bacon è chiaro che, oltre al furto in sé, vuole commettere il reato di ricettazione”, spiega il procuratore. Ma la politica di Creuzot non piace affatto alle associazioni dei commercianti convinti che le depenalizzazioni non faranno che moltiplicare i piccoli furti, specialmente nei quartieri più poveri, mentre il governatore repubblicano Greg Abbott e i sindacati di polizia parlano apertamente di “istigazione a delinquere”. D’altra parte con le forze dell’ordine di Dallas County non corre certo buon sangue; Creuzot ha infatti più volte denunciato i comportamenti violenti e in alcuni casi, apertamente razzisti dei poliziotti, accusando i gran jury di eccessiva clemenza se non di complicità con gli agenti colpevoli di abuso di potere. Le bordate dei detrattori non hanno tuttavia scalfito le convinzioni di Creuzot che difende con veemenza i suoi principii : “Il nostro sistema si fonda su la criminalizzazione ossessiva dei cittadini e questo colpisce gli strati sociali più bassi e la comunità afroamericana. Tutti sanno che è così, tutti i dati e tutte le statistiche ci dicono che bisogna intervenire ma nessuno ha mai fatto nulla. Per questo ho deciso di agire”, tuona intervistato dal Dallas Observer. Un’altro cavallo di battaglia di Creuzot è la riforma del sistema di libertà sotto pagamento di cauzione che privilegia le classi più agiate, facendo marcire tra le sbarre la gran parte dei detenuti in attesa di processo. Tra i reati depenalizzati ci sarà il possesso di marijuana e la violazione di proprietà privata se questa avviene senza intrusione in un domicilio. Oltre all’abbassamento dei costi, con la sua svolta “libertaria” il procuratore vuole spezzare il circolo vizioso delle recidive: “Quando escono di prigione gli ex detenuti sono più poveri di quando sono entrati e generalmente commettono di nuovo il reato”. In sostanza Creuzot vuole concentrare l’esiguo budget della sua procura (circa 11 milioni di dollari) “sui crimini violenti e i criminali incalliti”, risparmiando l’umiliazione del carcere a chi viene sorpreso a rubare del detersivo in un supermercato. Nonostante le ardenti polemiche i sondaggi dicono che gli elettori della contea sostengono la battaglia del giudice, il che rappresenta una piccola rivoluzione per uno Stato come il Texas noto per la suo giustizialismo primordiale. Per oltre mezzo secolo i procuratori distrettuali sono stati giudicati in base alla loro severità, roba da Vecchio testamento; l’emblema di questa tendenza è il leggendario giudice Henry Wade, autentica ira di Dio che ha imperversato su Dallas County dal 1951 al 1987 sbattendo in galera migliaia e migliaia di cittadini colpevoli di piccoli reati contro la proprietà: “Vorrei passare alla Storia per la mia durezza”, disse Wade quando lasciò la procura per godersi la pensione. Di sicuro non è l’ambizione di John Creuzot che semmai verrà ricordato per il motivo opposto. Libia. 6 migranti uccisi e 19 feriti nel Centro di detenzione di Ben Gassim di Simone Incicco ancoraonline.it, 25 aprile 2019 Amnesty International chiede che s’indaghi per crimine di guerra. Almeno sei persone tra i profughi eritrei e sudanesi sono rimasti uccisi e altri 19 feriti in un attacco di uomini armati nel centro di detenzione di Ben Gassim, in Libia. La notizia è data da don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, in contatto telefonico con alcuni migranti detenuti nel centro, che gli stanno mandando anche foto drammatiche. Secondo una prima ricostruzione durante l’irruzione sono state sparate diverse raffiche contro i migranti che stavano tentato di fuggire perché abbandonati dai secondini, senza acqua né cibo. 6 uomini sono stati uccisi, vi sarebbero poi circa 19 feriti, alcuni dei quali sul punto di morire. Secondo don Zerai il centro governativo “sostenuto con fondi europei è stato abbandonato dai sorveglianti e nella giornata di martedì 23 aprile”, quindi sono entrati “uomini armati che hanno detto di appartenere all’Lna, l’esercito del generale Haftar che controllerebbe il quartiere di Tripoli nel quale si trova il campo”. I funzionari delle Nazioni Unite stanno facendo il possibile per tentare di evacuare i migranti, in gran parte sudanesi, etiopi, eritrei e subsahariani. “Finora però ogni tentativo di accesso è andato a vuoto perché le milizie di Tripoli hanno perso il controllo della zona e non è facile ottenere un corridoio umanitario dalle milizie di Haftar”, precisa don Zerai: “Ora, sotto la minaccia delle armi, le milizie fedeli al generale Haftar, pretendono di trasferire tutte le 700 persone in altri lager, ma non si sa né dove, né nelle mani di chi possano finire. Il timore dei profughi è di essere usati come scudi umani nel conflitto in corso, o di essere venduti ad altri trafficanti di esseri umani”. Don Zerai chiede di aiutarli “senza perdere tempo” e “ottenere il cessate fuoco”. Orribile attacco contro migranti e rifugiati in un centro di detenzione libico (amnesty.it) Il raid portato a termine il 23 aprile da un gruppo di uomini armati nel centro di detenzione di Qasr Ben Gashir, a sud della capitale libica Tripoli, evidenzia l’urgente bisogno che i civili siano protetti e gli autori dell’attacco siano chiamati a risponderne. Lo ha dichiarato Amnesty International dopo aver parlato con testimoni oculari del raid, a seguito del quale - secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) - almeno 12 persone ferite da colpi d’arma da fuoco sono state portate in ospedale. Le immagini girate all’interno di Qasr Ben Gashir mostrano migranti e rifugiati in condizioni disperate: alcuni di loro gridano, tre hanno segni di ferite da colpi d’arma da fuoco, diversi altri sono sdraiati sul pavimento con le bende zuppe di sangue. “Non può esservi alcuna giustificazione per colpire civili indifesi. Gli attacchi diretti contro i civili sono gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e costituiscono crimini di guerra. Queste persone non dovevano neanche trovarsi in un centro di detenzione. C’è urgente bisogno che tutti i migranti e i rifugiati siano immediatamente rilasciati da questi orrendi centri di detenzione, in cui sono trattenuti arbitrariamente e in condizioni inumane e regolarmente sottoposti a violenze”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. “Tutte le parti coinvolte nel conflitto libico devono proteggere i migranti e i rifugiati da ulteriori attacchi e assicurare che i feriti ricevano urgentemente cure mediche adeguate. Le autorità responsabili della loro detenzione devono consentire alle organizzazioni umanitarie l’accesso a questi centri, rilasciare i detenuti e trasferirli in luoghi sicuri”, ha aggiunto Mughrabi. “Questo orribile attacco deve sollecitare gli stati membri dell’Unione europea ad assicurare percorsi sicuri per i rifugiati e i migranti intrappolati in Libia”, ha sottolineato Mughrabi. Una delle persone contattate da Amnesty International all’interno di Qasr Ben Ghashir ha descritto la situazione disperata e ha fatto un appello alle organizzazioni umanitarie perché forniscano assistenza d’emergenza: “Siamo oltre 600 qui dentro, siamo a rischio. Chediamo di essere evacuati. Per favore aiutateci, aiutateci”, ha detto l’uomo. Uno dei testimoni ha riferito ad Amnesty International di aver notato il logo dell’auto-proclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar su uno dei veicoli usati dagli uomini armati. Un altro detenuto ha invece detto di non essere certo dell’identità e l’appartenenza degli aggressori. Ha raccontato che gli uomini armati sono entrati nel centro di detenzione e, dopo aver confiscato i telefoni cellulari, hanno iniziato a sparare. I feriti sono stati portati via con le ambulanze la scorsa notte. I detenuti si sentono ancora in pericolo e temono nuovi attacchi. Nessuna organizzazione umanitaria si è palesata dopo l’attacco. Il Governo di accordo nazionale libico ha condannato l’episodio accusando le forze leali al generale Haftar e ha dichiarato che sono in corso i preparativi per trasferire migranti e rifugiati in aree lontane dai combattimenti. Amnesty International sollecita un’indagine urgente su quanto accaduto. “Questo attacco illustra tremendamente ancora una volta la necessità che intervenga la giustizia internazionale e che siano attivati meccanismi per chiamare a rispondere i responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale e di possibili crimini di guerra commessi regolarmente in tutta la Libia. Il Tribunale penale internazionale dovrebbe includere nelle sue indagini questi ultimi crimini”, ha commentato Mughrabi. L’Unhcr ha dichiarato che si sta cercando di trasferire urgentemente i circa 890 migranti e rifugiati detenuti a Qasr Ben Gashir in zone più sicure. Sempre l’Unhcr ha riferito che almeno 3600 migranti e rifugiati sono intrappolati in centri di detenzione situati nelle zone interessate dagli scontri o a rischio di violenza. Finora l’Unhcr ha trasferito nella sua Struttura di raccolta e transito nel centro di Tripoli 541 rifugiati vulnerabili che si trovavano nei centri di detenzione di Ain Zara, Qasr Ben Ghashir, Abu Salim e Janzour. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), dal 4 aprile, quando l’Esercito nazionale libico ha lanciato la sua offensiva per conquistare Tripoli, vi sono state almeno 90 vittime civili, tra cui 21 morti. Libia. Bengasi in marcia contro i soldati italiani: “Complici di Tripoli” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 25 aprile 2019 Previsti per venerdì cortei di protesta contro Roma: “Quei militari hanno compiti poco chiari”. E si magnifica “la sicurezza” garantita dalle forze di Haftar. L’Italia sempre più al centro della crisi libica. Nel cuore delle basi del maresciallo Khalifa Haftar, l’ostilità per le scelte di campo considerate filo-tripoline del governo italiano solleva passioni e accuse davvero pesanti. Per domani si stanno organizzando a Bengasi e Tobruk cortei di protesta contro Roma in quelle stesse piazze e di fronte alle moschee che nel febbraio 2011 lanciarono la sfida alla dittatura di Muammar Gheddafi. Soprattutto, dopo le richieste di sostegno e aiuto a Roma da parte della coalizione della Tripolitania che fa capo a Fayez Sarraj, anche le forze in Cirenaica che stanno con l’uomo forte di Bengasi chiedono all’Italia di essere ascoltate, accusandola persino di sostenere il terrorismo assieme a Turchia e Qatar. E lo fanno in queste ore con un appello dai toni forti di denuncia contro le “mosse pro Tripoli” italiane e, come scrivono, contro la “presenza di soldati italiani con compiti poco chiari e sicuramente non di carattere umanitario”. Il documento è firmato da 45 tra leader della società civile, dirigenti di associazioni umanitarie e personalità tra Tobruk e Bengasi. Per le strade la gente insiste nel magnificare la sicurezza e la mancanza di vessazioni da parte delle milizie. Bengasi è una città molto sporca, con ancora ben visibili i danni delle rivolte di otto anni fa, il mare inquinato e le infrastrutture mancanti. “Ci mancano i fondi per garantire la ricostruzione. Ma almeno Haftar ha posto fine alla criminalità, sono terminati i sequestri di persona e specialmente polizia ed esercito obbediscono a un comando unificato. Non ci sono milizie a importunare e rubare come invece avviene a Tripoli”, ci dice Mohammad Alsharif, un consulente finanziario 32enne che ha lavorato con importanti associazioni umanitarie occidentali. Già in passato lo stesso Haftar aveva puntato il dito contro l’ospedale militare italiano di Misurata accusandolo di costituire a tutti gli effetti una forma di aiuto bellico al campo avversario. Ma ora l’appello va molto oltre nello sparare a zero contro “le forze militari” italiane che si trovano nell’Accademia dell’aeronautica militare di Misurata “con il compito di proteggere la base”. E specifica: “Da questa base sono partiti gli aerei che hanno bombardato i civili a Tarhuna, Allasabah, Ein Zara, Suk al Khamis e sulla strada principale per Gharian”. Aggiunge inoltre che gli italiani starebbero fornendo “un supporto logistico a bande e milizie che stanno combattendo contro l’esercito nazionale libico”. Ad aggravare i toni, torna l’accusa alle milizie legate a Sarraj, per cui alcune sarebbero legate all’estremismo islamico e al traffico di esseri umani. Già il 16 aprile Abdulhadi Ibrahim Iahweij, responsabile dell’ufficio per gli Affari Esteri in Cirenaica, aveva pubblicato una “lettera al popolo italiano” chiarendo che solo il suo governo sarebbe stato in grado di garantire il blocco del traffico di migranti. Da Roma, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, dopo aver incontrato l’inviato dell’Onu per la Libia Salamé, dice: “Noi crediamo nel dialogo, anche se non è facile. Ma esiste e si può portare avanti: occorrono determinazione e azioni talvolta non visibili, ma efficaci. Occorre credere nella possibilità che esiste di raggiungere il risultato, nell’interesse della comunità internazionale, del popolo della Libia, nel nostro interesse come Italia e come Europa”.