La “Carta del carcere e della pena” per i giornalisti: questa sconosciuta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2019 È un protocollo deontologico per l’informazione sui diritti dei detenuti. Nata su iniziativa delle tre redazioni carcerarie: “Carte Bollate”, “Ristretti Orizzonti” e “Sosta Forzata” nel 2013 è stata approvata dall’ordine dei giornalisti. “Farla franca”, quando il detenuto sconta una misura alternativa, oppure “pregiudicato”, quando si parla di persone che nel passato sono state condannate e hanno finito di scontare la pena, quindi riabilitate e che dovrebbero avere il diritto all’oblio. Sono tante le terminologie che imperversano in numerosi articoli di giornale e dove si fa anche una effettiva disinformazione dando come valore negativo il trattamento penitenziario che prevede anche l’affidamento al servizio sociale e quindi una graduale proiezione verso la libertà. In realtà nel 2013 Il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha approvato all’unanimità la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano”, relativa ai diritti dei detenuti, che diventa così un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La “Carta di Milano” ha una origine particolare: viene dal basso, non direttamente dall’Ordine dei giornalisti. È, infatti, il risultato di una lunga riflessione, nata dai giornalisti interni alle carceri, dagli operatori dell’amministrazione carceraria e dagli stessi detenuti a partire dal 2011. L’esigenza di uno strumento regolativo sull’informazione carceraria viene inizialmente maturata in tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre redazioni carcerarie promotrici della sua nascita erano state, rispettivamente, quella di carte Bollate, periodico diretto da Susanna Ripamonti all’interno del carcere di Bollate, quella di Ristretti orizzonti, giornale diretto da Ornella Favero e promosso dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca e quella di Sosta forzata, rivista della Casa circondariale di Piacenza, diretta da Carla Chiappini. Numerosi sono stati, in seguito, i seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, organizzati nei mesi di marzo e aprile 2011 dalla redazione di carte Bollate e rivolti sia agli allievi del Master di giornalismo dell’Università Iulm e dell’Università statale di Milano, sia ai giornalisti professionisti. L’obiettivo di questi incontri era quello di sensibilizzare maggiormente il bisogno di un’informazione deontologicamente corretta nei confronti di chi vive tutti i giorni nel mondo carcerario o a contatto con esso. Nel corso del 2012 la Carta si è diffusa progressivamente in tutta Italia ed è stata sottoscritta anche dagli Ordini dei giornalisti di Toscana, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia. La Carta, però, era valida ancora solamente a livello regionale. La spinta definitiva alla sua approvazione a livello nazionale è avvenuta l’ 8 gennaio 2013, data in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti. La sensibilità comune nei confronti delle condizioni degradanti del mondo carcerario, inoltre, è aumentata notevolmente in seguito al discorso pronunciato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della visita alla casa circondariale di San Vittore, avvenuta il 6 febbraio 2013. L’11 aprile 2013, con l’approvazione definitiva da parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la “Carta di Milano” è diventata ufficialmente un protocollo deontologico obbligatorio per tutti gli operatori dell’informazione. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea. Negli otto articoli della Carta si ribadisce il valore di ogni azione che tenda al reinserimento sociale del detenuto, un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come prevedono le leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi premio, la semilibertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova al servizio sociale. Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Viene rispettato tutto ciò, come la deontologia impone? La follia fuori dal carcere, la sentenza della Consulta di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 24 aprile 2019 La sentenza costituzionale depositata alcuni giorni fa, segna un passo in avanti per i detenuti con malattia psichica. Non sempre e non per tutti la vita è una cosa meravigliosa, anzi. I suoi imprevedibili tornanti possono far uscire di strada, precipitando nel binomio follia-reato. Accade al “reo folle”: imputabile, dunque processato e condannato al carcere, colpito da sopravvenuto disturbo mentale incompatibile con la detenzione. Se gravato da una pena superiore ai quattro anni, il suo è un destino kafkiano indirizzato lungo un binario morto. Gli ospedali psichiatrici giudiziari finalmente non esistono più, sostituiti da residenze sanitarie riservate però alla cura dei non imputabili socialmente pericolosi (i “folli rei”). Misure alternative come il differimento della pena o la detenzione domiciliare gli sono egualmente precluse, in ragione della loro formulazione testuale o per come correntemente interpretate. Né la recente riforma penitenziaria ha risolto il problema, lasciando colpevolmente inattuata sul punto la legge di delega. Non resta che trattenere il “reo folle” dietro le sbarre, in apposite articolazioni psichiatriche del carcere, se e laddove esistano, in una situazione di regresso trattamentale e di sostanziale privazione di tutela giurisdizionale, nel timore di un definitivo gesto autolesionistico o nello stordimento di un letargo farmacologico. Vite di scarto, direbbe Foucault, che si sono ormai giocate - de jure e de facto - “la loro libertà, la loro sventura, spesso la loro morte, in ogni caso il loro destino”. È, questo, uno sbarramento legislativo incostituzionale, che acuisce la “condizione di duplice vulnerabilità” del “reo folle”. Assurge a trattamento “contrario al senso di umanità”, amplificando “la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti”. Nega il “paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale, che può riassumersi nel passaggio dalla mera custodia alla terapia”. Pregiudica ulteriormente il diritto alla salute, che vale per il malato psichico come per il malato fisico. Così si legge nella sentenza costituzionale n. 99, depositata alcuni giorni fa. Spetta al legislatore rimediare al problema in esame, optando tra molteplici soluzioni possibili. Un tempo, tale discrezionalità sarebbe stata sufficiente a precludere l’intervento, altrimenti politico, della Corte costituzionale. Oggi non più, dopo il cambio di stagione che ha investito la sua giurisprudenza in materia penale. Oggi le è consentito pronunciarsi nel merito di simili questioni, purché siano ravvisabili nell’ordinamento “soluzioni già esistenti, ancorché non costituzionalmente obbligate”, atte a rimediare alla violazione di diritti fondamentali, assicurandone così una tutela effettiva e immediata. Nel caso in esame, la soluzione è indicata nell’istituto della detenzione domiciliare umanitaria, prevista dal codice penale in deroga a quella ordinaria. Spetterà al giudice decidere se il “reo folle” debba essere trasferito fuori dal carcere (qualora non ricorrano prevalenti esigenze di sicurezza pubblica), dove trasferirlo (anche in luoghi pubblici di cura, assistenza e accoglienza), come limitarne la libertà d’azione (a garanzia della sicurezza individuale, familiare e collettiva). La detenzione domiciliare - rammenta la Corte - è una modalità di esecuzione della pena, non una sua alternativa. Ha dunque da essere individualizzata “caso per caso” e monitorata “momento per momento” da parte del giudice, garante di una pena che deve mirare al recupero sociale e non può mai tradursi in trattamenti inumani o degradanti. In tempi di populismo penale, venato da cicliche nostalgie custodiali per la malattia mentale, la Consulta si conferma così un’isola della ragione, onorando al meglio il proprio ruolo. Risposte al sovraffollamento delle carceri. Conferenza a Strasburgo coe.int, 24 aprile 2019 Il Consiglio d’Europa organizza una conferenza a Strasburgo il 24 e 25 aprile al fine di esaminare le tappe possibili del procedimento penale (in particolare la fase istruttoria, decisoria ed esecutiva) atte a fornire soluzioni al problema ricorrente del sovraffollamento di numerosi istituti penitenziari europei. Il sovraffollamento delle carceri ha gravi conseguenze negative per i detenuti, ma anche per il personale carcerario e la società. Nella pratica questo significa che le condizioni di vita dei prigionieri sono al di sotto degli standard e che il rischio di trattamenti inumani e degradanti e di violenza tra detenuti è aumentato. Il sovraffollamento implica anche una pressione continua sul personale carcerario e mina il reinserimento nella società dei detenuti dopo il rilascio. La conferenza, che riunirà pubblici ministeri, giudici, esperti in diritto penale e rappresentanti dei Ministeri della Giustizia dei paesi del Consiglio d’Europa, è sostenuta dalla Commissione europea e si terrà sotto gli auspici della Presidenza finlandese del Comitato dei Ministri. I partecipanti discuteranno inoltre delle misure da attuare per favorire l’applicazione delle raccomandazioni contenute nel Libro bianco sul sovraffollamento carcerario, adottato nel 2016 dagli esperti in diritto penale del Consiglio d’Europa. Un altro punto all’ordine del giorno riguarderà l’esame del tasso di criminalità e di detenzione in Europa, basato sulla recente pubblicazione dello studio contenente le Statistiche annuali Space per il 2018 sulla popolazione carceraria. Legittima difesa. I dubbi del Colle sulla libertà di sparare di Ugo Magri La Stampa, 24 aprile 2019 Approvata 27 giorni fa, la legittima difesa è ancora “al vaglio” del Quirinale. Come mai tutto questo tempo per promulgare una legge? Escluso che dipenda dalla lunghezza. Il testo si compone di soli nove articoli, e il succo è concentrato nei primi due, di cinque righe ciascuno. Altrettanto impensabile è che Sergio Mattarella se la sia presa comoda: non rientra nel suo personaggio. Dunque, evidentemente, c’è qualche altro problema. È possibile, ad esempio, che la libertà di sparare agli intrusi non convinca Mattarella al cento per cento; o addirittura la consideri uno strappo alla nostra civiltà giuridica. Può darsi insomma che la lunga riflessione voglia segnalare un dubbio importante, una decisione sofferta. Nei casi più estremi, il presidente potrebbe negare la propria firma, chiedendo alle Camere un supplemento di esame. Ma sulla legittima difesa sarebbe un boomerang: la maggioranza in Parlamento è così vasta, dai Cinque Stelle a Forza Italia passando per FdI e Lega, che il testo tornerebbe sul Colle tale e quale; a quel punto Mattarella dovrebbe piegarsi o dimettersi. L’arma atomica del rinvio potrà servire forse per qualche futura occasione. Più plausibile che le eventuali perplessità possano manifestarsi sotto forma di messaggio contestuale alla firma, come del resto è avvenuto per la legge istitutiva della Commissione banche. Questione di giorni, comunque: la Costituzione dà al presidente un mese di tempo per decidere, e ormai ci siamo. Decreto penale, sì all’estinzione del reato se la nuova condanna non è definitiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 23 aprile 2019 n. 17411. In assenza di una condanna passata in giudicato, la pendenza di un nuovo procedimento penale per un reato della stessa indole non può impedire, trascorsi cinque anni, l’estinzione del reato per il quale sia stato emesso un decreto penale di condanna. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17411 di oggi, accogliendo con rinvio il ricorso dell’imputato. Se è vero infatti, si legge nella decisione, che “l’estinzione del reato per il quale sia stato emesso decreto penale di condanna è impedita dalla commissione di un delitto nel termine di cinque anni, decorrente dall’irrevocabilità del decreto”, tuttavia, la condizione è che “l’ulteriore reato sia accertato con sentenza passata in giudicato, ancorché pronunciata oltre il quinquennio”. Al contrario, il Tribunale di Padova aveva rigettato l’istanza di estinzione del reato definito con decreto penale di condanna (divenuto irrevocabile nell’aprile 2011) per decorso del termine previsto dall’art. 460, comma 5, c.p.p. Per il Tribunale infatti l’istanza non poteva essere accolta a causa della pendenza di un procedimento penale per altro reato della stessa indole commesso nel quinquennio (maggio 2011), per il quale gli era stata inflitta con sentenza di primo grado la pena di quattro mesi di reclusione. A prescindere dunque dal suo accertamento con sentenza irrevocabile. Una lettura bocciata dalla Suprema corte secondo cui è ormai superato l’orientamento che escludeva la possibilità di estinzione in presenza di un procedimento penale pendente per altro reato commesso successivamente. In coerenza con i principi affermati dalla Corte costituzionale sui presupposti per l’estinzione del reato oggetto di patteggiamento (sentenza n. 107/1998), prosegue la decisione, va operata “una distinzione tra il fatto oggettivo in senso naturalistico del comportamento illecito, che per essere rilevante deve collocarsi nel periodo indicato dalla legge e quello dell’accertamento giudiziale della relativa responsabilità, che può anche verificarsi successivamente, ma che deve essere già intervenuto per impedire l’estinzione”. Per la Cassazione dunque “seppur espressa in riferimento al meccanismo estintivo previsto per il patteggiamento, non sussistono validi argomenti per discostarsi da tale linea interpretativa, posto che l’art. 460, comma 5, c.p.p. presenta formulazione esattamente corrispondente a quella dell’art. 445, comma 2, c.p.p. anche in riferimento alle conseguenze dell’estinzione in termini di cessazione degli effetti penali della condanna e di irrilevanza della condanna stessa ai fini dell’accesso da parte dell’imputato ad una successiva sospensione condizionale della pena”. Pertanto, conclude la Corte, “poiché al momento della pronuncia dell’ordinanza impugnata non risultava che il ricorrente avesse riportato condanna definitiva per altro delitto, commesso nei cinque anni dall’irrevocabilità del decreto di condanna, l’ordinanza impugnata, affetta da erronea interpretazione della legge, deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Padova”. Ricorso in Cassazione, per i minori non scatta la condanna alle spese di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 23 aprile 2019 n. 17444. Il minorenne che abbia proposto ricorso per cassazione non può essere condannato, in caso di rigetto o di dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende. Lo ha stabilito la II Sezione della Corte di cassazione, sentenza n. 17444 di oggi, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un minore contro la condanna per danneggiamento aggravato di un cancello elettrico. Secondo la Suprema corte che richiama un proprio precedente “in ragione della minore età del ricorrente al momento del fatto ed in ossequio alle disposizioni dettate per il rito speciale per gli imputati minorenni, non va disposta la condanna alle spese del giudizio, né altre sanzioni accessorie previste dall’articolo 616 del codice di procedura penale”. La III Sezione con la sentenza n. 5754/2014 aveva infatti chiarito che “la previsione di cui al Decreto Legislativo 28 luglio 1989, n. 272, articolo 29 che, derogando al generale principio della soccombenza del condannato in tema di pagamento delle spese del processo e di custodia cautelare, stabilisce che la sentenza di condanna nei confronti di persona minore di età non comporta detto obbligo, si inserisce nel quadro della disciplina del processo minorile, strutturalmente finalizzato alla ripresa o al recupero del percorso educativo del minore”. La ratio cui è ispirata la norma, spiegava la Cassazione, “è quella di esonerare il minore dalle negative conseguenze che gli deriverebbero dall’applicazione della anzidetta regola della soccombenza, e ciò vale sia in relazione al giudizio di merito che a quello di legittimità, dovendosi pertanto escludere una interpretazione del predetto articolo 29 in base alla quale l’esonero può operare soltanto con riferimento alla definizione dei procedimenti di merito e non anche in sede di legittimità”. Del resto, già nel 2000 le Sezioni Unite (sentenza n. 15) avevano definitivamente affermato che “il minorenne che abbia proposto ricorso per Cassazione non può essere condannato, in caso di rigetto o dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende”. Accoglienza dovuta ai migranti omosessuali non protetti nel loro Paese di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2019 Non può essere negata la protezione internazionale al migrante che dichiara di essere omosessuale se ci sono motivi per ritenere che, a causa dell’orientamento sessuale, la sua incolumità sia in pericolo in caso di rimpatrio. Prima di negare lo status di rifugiato è necessario accertare che nel paese di provenienza non ci siano leggi discriminatorie per i gay e che le autorità locali prevedano un’adeguata tutela anche nell’ipotesi di persecuzioni di tipo familiare. Partendo da questi principi la Cassazione (sentenza 11176) ha accolto il ricorso di un cittadino della Costa d’Avorio al quale era stata negata l’accoglienza. Un no arrivato senza gli approfondimenti del caso, malgrado l’uomo avesse dichiarato di richiedere la tutela per l’assenza di protezione per le persone omosessuali nel suo Stato e di essere oggetto di gravi minacce. Il ricorrente aveva riferito di essere di religione musulmana, coniugato con due figli, e di avere intrattenuto una relazione sentimentale omosessuale. Legame che aveva suscitato il disprezzo e le accuse da parte della moglie e di suo padre, Imam del paese. La decisione di fuggire era stata presa dopo che era stato ritrovato il cadavere del proprio partner ucciso, in circostanze non note, a suo dire, ad opera di suo padre. La Commissione territoriale di Crotone aveva negato la protezione internazionale, anche in forma sussidiaria. Per i giudici di appello non c’erano ragioni per l’accoglienza perché, dal racconto del ricorrente, “non si evinceva una situazione di pericolo grave per la persona derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o interno”. L’uomo non aveva fatto cenno, in sede di audizione davanti alla Commissione, a situazioni di violenza generalizzata, limitandosi alla sua storia personale. La Corte territoriale aveva accertato che “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, nè lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”. La decisione, per la Cassazione, non è conforme al diritto. L’assenza di norme che vietino, direttamente o indirettamente, i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso, non è risolutiva per escludere la protezione internazionale. Prima di negare l’accoglienza bisogna accertare che lo stato garantisca un’adeguata protezione anche dalle minacce, gravissime nel caso esaminato, provenienti da soggetti privati. Non risulta poi, precisa la Suprema corte, che i giudici di appello abbiano espresso riserve sulla credibilità del ricorrente. La Corte d’Appello non ha valutato, nello specifico, la situazione di vulnerabilità del cittadino ivoriano e i concreti pericoli che correrebbe in caso di rimpatrio: trattamenti inumani e degradanti “e la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto dello statuto della dignità”. La Corte territoriale è chiamata a rivedere il verdetto alla luce delle indicazioni fornite. Imprese, controllo giudiziario solo se l’infiltrazione mafiosa è occasionale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17451/2019. Il controllo giudiziario richiesto dall’impresa, colpita da un’interdizione antimafia, può essere riconosciuto solo se l’infiltrazione mafiosa é occasionale. La Cassazione (sentenza 17451) ha respinto il ricorso di una società cooperativa interdetta a seguito di un’informazione antimafia emessa dal prefetto e impugnata dinanzi al Tar. Il Tribunale, pur affermando l’ammissibilità dell’istanza, aveva respinto nel merito la richiesta di controllo giudiziario, previsto dall’articolo 34bis del Dlgs 159/2011, perché l’agevolazione mafiosa non appariva occasionale. L’assoggettamento dell’attività imprenditoriale al rischio di infiltrazioni da parte della camorra era già stato accertato in precedenza con un primo provvedimento irrevocabile e con una seconda “interdizione”. Provvedimenti giustificati da un collegamento di interessi con altre compagini a loro volta finite nel mirino dell’antimafia. Per la difesa della cooperativa la decisione non era in linea con la ratio della norma che è quella di salvaguardare la continuità aziendale, evitando le perdite economiche, oltre che di verificare l’efficacia degli interventi sulla gestione, fatti in autonomia dall’impresa, per rimuovere il rischio di condizionamenti mafiosi. Secondo il ricorrente, solo il comma 1 dell’articolo 34-bis contiene un riferimento all’occasionalità, mentre il comma 6, ai fini del riconoscimento del controllo giudiziario, ritiene sufficiente l’esistenza dell’informativa antimafia e la sua impugnazione. A sostegno della sua tesi la società ricorrente cita un precedente del Tribunale di Firenze, secondo il quale lo sbarramento dell’occasionalità contrasta con lo spirito della disposizione e con un’interpretazione letterale del comma 6. In più i giudici non avevano considerato i cambiamenti avvenuti nell’impresa, dove c’era un commissario prefettizio dal 2017, erano state estromesse delle persone, e istituito un sistema dualistico con la creazione di un consiglio di gestione e uno di sorveglianza. La Cassazione conferma però il no alla richiesta ritenendo l’occasionalità dell’infiltrazione un presupposto necessario del controllo giudiziario anche se richiesto dalla società interessata. Per la Suprema corte l’istituto del controllo giudiziario non cambia, sia se la richiesta arriva dal Pm sia dall’impresa, e “si pone come misura di prevenzione ontologicamente connotata dalla natura occasionale del “contagio mafioso” e dalla pendenza dell’impugnazione interdittiva, avendo come precipua finalità quella di garantire la continuità aziendale e di sospendere gli effetti dell’interdittiva prefettizia, in attesa dell’esito dell’impugnazione”. Nello specifico il Tribunale aveva raggiunto la conclusione del contagio mafioso in base al costante rapporto tra la società e altre compagini che facevano capo ad esponenti della criminalità organizzata sul territorio. Legami fondati non solo su vincoli societari ma anche familiari “idonei a infiltrare la società in modo non occasionale”. Sicilia: intesa tra Anci e Ministero della Giustizia per il reinserimento dei detenuti Quotidiano di Sicilia, 24 aprile 2019 Un protocollo d’intesa per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso attività di pubblica utilità che, abbinate a un’adeguata formazione, possano garantire future opportunità di lavoro. Lo hanno sottoscritto, nei giorni scorsi, a Palermo il presidente dell’AnciSicilia, Leoluca Orlando, e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sicilia, Gianfranco De Gesu. L’accordo intende coinvolgere le persone sottoposte a misure restrittive in attività extra murarie avendo come obiettivo la finalità rieducativa della pena. Tra i principali obiettivi del protocollo d’intesa: migliorare le condizioni ambientali e di decoro degli spazi pubblici, incluse le aree verdi, per favorirne la fruizione da parte dei cittadini; potenziare la raccolta differenziata all’interno degli istituti penitenziari al fine di contribuire alla conservazione dell’ambiente e ridurre gli sprechi; stimolare tra i detenuti la socializzazione, il rispetto, la condivisione delle regole, migliorandone le condizioni di vita. Se da un lato l’AnciSicilia si impegnerà a promuovere e coordinare i contatti tra i Comuni e gli istituti penitenziari per il raggiungimento delle finalità generali e specifiche del protocollo, dall’altro il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria promuoverà e coordinerà l’azione delle carceri affinché adottino le iniziative di competenza per selezionare i detenuti da ammettere alle attività di pubblica utilità, motivandoli a raggiungere obiettivi positivi. Infine, l’AnciSicilia si occuperà di favorire, insieme con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la partecipazione a bandi europei e la promozione di progetti da finanziare anche attraverso la cassa delle ammende. “Il lavoro, in questo caso - ha spiegato Leoluca Orlando - assume un ruolo fondamentale all’interno del percorso di riabilitazione. È, quindi, importante offrire ai detenuti l’occasione di uscire dalla casa circondariale nell’orario lavorativo previsto, riprendere familiarità con l’ambiente esterno, prestarsi volontariamente allo svolgimento di lavori utili alla società piuttosto che trascorrere il proprio tempo nella struttura. È fondamentale che ci sia una formazione e una preparazione che siano propedeutiche al reinserimento nella società avendo chiara la scala dei diritti e quella dei doveri”. “L’opportunità del lavoro di pubblica utilità - ha affermato il Provveditore De Gesu - si sta rivelando ogni giorno di più una chiave vincente sulla quale il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap stanno investendo molto in termini di impegno. L’applicazione sempre più ampia del Lpu su tutto il territorio nazionale nonché il recente interesse manifestato dalle Nazioni Unite confermano la assoluta bontà di un progetto di reinserimento dei detenuti che conviene a tutti: ai detenuti in primis, che vengono adeguatamente formati a svolgere un lavoro una volta usciti dal carcere; ai Comuni, che con i soldi risparmiati per la manutenzione del decoro urbano possono reinvestire in altri servizi; e infine alla Giustizia, che attraverso il recupero del detenuto alla società civile vede abbattersi l’annoso fenomeno della recidiva”. Il protocollo, di durata triennale e utile all’intera collettività, può essere considerato un esempio di buone pratiche strutturate tra pubbliche amministrazioni. Trento: l’Osservatorio Carcere dell’Ucpi ha visitato la Casa circondariale camerepenali.it, 24 aprile 2019 La visita ha consentito alla delegazione di toccare con mano alcune criticità segnalate dagli stessi detenuti che hanno trovato conferma nella realtà. Sovraffollamento e ritardi per l’esito delle istanze presentate alla Sorveglianza le più rilevanti criticità, unitamente alla carenza di personale e a problemi sanitari. La struttura, progettata per ospitare 240 detenuti, al momento della rivolta ne ospitava 348. Dopo il trasferimento, dovuto a tale evento, le presenze si sono ridotte notevolmente e il giorno della visita erano 275, di cui 251 uomini e 24 donne. Dopo la ribellione dei detenuti, è in corso una radicale ristrutturazione dell’area sanitaria, anche in considerazione dell’anomalo numero di suicidi registrato negli ultimi tempi. Non vi era un centro diagnostico, né un pronto soccorso con personale medico sempre presente, per garantire l’assistenza nelle situazioni di emergenza H24, sicché, in caso di urgenza, il detenuto veniva trasportato al pronto soccorso mediante il servizio del 118 o, nei casi meno gravi, veniva allertata la guardia medica esterna. Inoltre, lo psichiatra (come pure gli operatori del SER.D.) erano presenti una sola volta alla settimana per 4 ore, e ciò nonostante la presenza di numerosi soggetti con problemi psichiatrici e/o di dipendenza, oltretutto ospitati nelle sezioni comuni insieme a tutti gli altri detenuti. Adesso, invece, l’Azienda Sanitaria ha deciso che l’area sanitaria non faccia più capo al Pronto Soccorso dell’Ospedale S. Chiara (sempre in sofferenza per mancanza di medici e per il surplus di lavoro), ma divenga un’area autonoma, facente riferimento all’A.O.F. (Articolazione Organizzativa Fondamentale) Servizio territoriale e all’Area delle cure primarie, ciò che dovrebbe garantire il reperimento di personale medico (eventualmente anche in regime di convenzione) con maggiore facilità, e così garantire una copertura H24. In particolare, si è previsto che i medici dovrebbero passare da 1,5 a 4-5 unità, mentre gli infermieri da 10 a 14 unità. Anche le ore di presenza dello psichiatra dovrebbero essere implementate, fino a raggiungere le 14 - 16 ora la settimana, come pure la presenza del personale del SER.D. (medico e psicologo). A fronte di una pianta organica individuata con Decreto di n. 229 unità di Polizia Penitenziaria, l’istituto dispone di solo n. 158 unità. Il Magistrato di Sorveglianza viene in Istituto, due volte al mese. Pordenone: è ancora in mano ai giudici il futuro del nuovo carcere di San Vito di Emanuele Minca Il Gazzettino, 24 aprile 2019 A palazzo Rota, sede municipale, sono però fiduciosi che entro l’inizio dell’estate arrivi la sentenza del consiglio di Stato sul ricorso presentato dall’associazione temporanea di imprese Kostruttiva-Riccesi. “La situazione è sostanzialmente in stand by da circa sei mesi” riassume Enrico Sbriglia, provveditore regionale per Veneto-Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige del Dipartimento ministeriale. “A novembre - aggiunge - la vicenda giudiziaria ha portato allo stop dei lavori, quando l’opera era già avviata con la bonifica dell’area. Auspichiamo che entro maggio ci possano essere le condizioni per riavviare il cantiere”. Effettivamente, dopo il rinvio dell’udienza fissata a Roma per lo scorso 4 aprile, si attendono nuovi sviluppi dall’udienza prevista per le prossime settimane, riguardante il ricorso che chiede la revoca della sentenza del Consiglio di Stato presentata da Kostruttiva-Riccesi sulla decisione che ha determinato il subentro, nel contratto d’appalto, dell’impresa Pizzarotti di Parma, giunta seconda nella gara d’appalto. Il nuovo istituto circondariale da 300 posti del Friuli Occidentale è un’opera attesa per rispondere alla grave situazione del Castello di Pordenone, struttura vetusta e piena di problematiche. L’auspicio dell’amministrazione di San Vito, con in testa il sindaco Antonio Di Bisceglie, è che la costruzione del carcere inizi il più rapidamente possibile. La sentenza con la quale è stato annullato il contratto d’appalto firmato il 12 settembre 2016, è arrivata come una tegola, proprio quando i lavori del carcere stavano per prendere il via, dopo che nel corso del 2018 era stato impiantato il cantiere e si era proceduto con la bonifica dell’ex caserma Dall’Armi. Dalla firma del contratto tra ministero e Kostruttiva-Riccesi sono passati più di due anni, nei quali sono stati espletati numerosi passaggi, compresi quelli legati alla progettazione dell’opera. Progetto definitivo ed esecutivo erano stati realizzati, come prevedeva la gara d’appalto, dalle ditte aggiudicatrici, poi approvati dagli organismi di competenza. Tra gli interrogativi rimangono quelli relativi a quali progetti, se quelli già approvati o altri da rifare, saranno considerati con il subentro nel contratto. Dubbi che si attende siano fugati nelle prossime settimane dal Consiglio di Stato. Ma se venisse riconfermata la sentenza, cosa accadrebbe? L’impresa Pizzarotti avrebbe il via libera per firmare il nuovo contratto già dopo l’estate, sistemerebbe a livello economico la partita del progetto già elaborato, e il cantiere potrebbe partire già entro l’anno. Se venisse invece ribaltata la sentenza, il cantiere potrebbe riprendere anche più velocemente. Non viene invece presa in considerazione l’ipotesi di una chiusura definitiva del cantiere. Vicenza: carcere senza direttore, “emergenze sanitarie e interventi a rischio” di Matteo Carollo Giornale di Vicenza, 24 aprile 2019 Grido d’allarme della Uil-pa Polizia penitenziaria. Da gennaio Cacciabue è stato trasferito a Padova. “Necessaria anche l’assunzione di 50 nuovi agenti”. Carcere di Vicenza senza più direttore. È questa l’attuale situazione della casa circondariale Del Papa. Fabrizio Cacciabue, alla guida del penitenziario per dieci anni, è stato nominato direttore del Due Palazzi di Padova, mantenendo per la struttura berica una reggenza temporanea. Un incarico che lo porta nel carcere di San Pio X solo due volte la settimana. Troppo poco, secondo i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. “L’assenza del direttore comporta una mancanza di progettualità - denuncia Leonardo Angiulli, segretario generale per il Triveneto della Uil-pa Polizia penitenziaria. In questo modo si riesce a portare avanti a malapena l’ordinario”. Un ordinario sul quale pesano anche altri fattori, dalla carenza di organico ai problemi del nuovo padiglione. Dopo dieci anni, dunque, il direttore Cacciabue ha dovuto lasciare la guida del carcere berico, andando a dirigere quello padovano. Una scelta obbligata, come prevede la normativa in materia, che vieta la permanenza per più di una decade di un direttore nello stesso penitenziario. Il problema è che, alla partenza di Cacciabue, nessuno è subentrato al vertice del carcere berico. Così, si continua a procedere con la reggenza e la presenza del direttore garantita solo per due giorni la settimana. Una situazione che, però, può portare a complicazioni e criticità, come quelle legate alla gestione delle situazioni di emergenza. “Se si presentasse la necessità di un ricovero d’urgenza per un detenuto, l’unico che può disporre la relativa misura è il direttore del carcere”, spiega Angiulli. Il direttore, di norma, rappresenta anche la figura che gestisce le risorse economiche delle case circondariali. Tra queste, figurano ad esempio quelle riguardanti le transazioni nei confronti di chi si trova all’interno della struttura per scontare la propria pena. “Se a un detenuto vengono spediti dei soldi - continua il segretario triveneto del sindacato - senza la firma del direttore non può esserci l’accredito sul conto corrente”. Le difficoltà si riverberano anche sui lavori di manutenzione, punto dolente per il penitenziario cittadino. Sempre i rappresentanti degli agenti della polizia penitenziaria denunciano infatti criticità nel nuovo padiglione, dove i problemi sono maggiori rispetto alle ali più vecchie. Nel dettaglio, si sono manifestate criticità agli scarichi delle acque nere e delle acque bianche e all’apertura e alla chiusura automatica delle celle. Non mancano, poi, problemi riguardanti l’impianto di videosorveglianza della casa circondariale e legati al server che comanda gli automatismi della struttura. Non è solo l’assenza del direttore a preoccupare il sindacato triveneto degli agenti. Il penitenziario berico sconta anche il nodo della carenza di personale. “Gli agenti dovrebbero essere 196, invece attualmente siamo in 134 - continua Angiulli. Siamo fuori di oltre 50 unità. Gli ispettori sono solo 3, mentre dovrebbero essere 25; i sovrintendenti sono 2, mentre anche in questo caso dovrebbero essere 25. Ci servono, dunque, una cinquantina di uomini. Per quanto riguarda il direttore, è dal 1995 che non vengono fatti concorsi. Chiediamo che siano fatte le assunzioni, in modo da poter avere un nuovo dirigente”. “Auspico che si concluda in tempi rapidi, il prima possibile, il processo di selezione per il nuovo direttore alla casa circondariale di Vicenza - commenta lo stesso Cacciabue. È già stato emesso un interpello per tutte le sedi rimaste vacanti a seguito degli spostamenti”. Parma: morto il super-boss Mario Fabbrocino, era detenuto dal 2005 anteprima24.it, 24 aprile 2019 Era soprannominato il boss dei “due mondi” perché era in grado di importare tonnellate di hashish dal Sud America all’Italia nel giro di pochi giorni. È morto all’età di 76 anni il boss Mario Fabbrocino, capo dell’omonimo clan, detenuto dal 2005 per i reati di camorra, omicidio, estorsione e traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Il boss era in carcere a Parma nel super penitenziario destinato ai capiclan di mafia e recluso al regime del carcere duro. Negli anni Ottanta guidò la rivolta contro Raffaele Cutolo boss della Nuova camorra organizzata: una faida che portò a migliaia di morti da una parte e dall’altra dello schieramento criminale. Il gruppo che ha base nella zona di San Giuseppe Vesuviano controlla molte zone della città di Napoli grazie alle alleanze create per i traffici di sostanze stupefacenti. Spoleto (Pg): i detenuti si prendono cura dei cani tuttoggi.info, 24 aprile 2019 Al canile comunale 7 cucce realizzate nel carcere di Maiano, allo studio progetto per coinvolgere detenuti nell’educazione dei cani. Sette cucce realizzate nella Casa di reclusione di Maiano e donate al canile comunale. Nasce da qui l’idea di lavorare ad un progetto che permetta ai detenuti che stanno scontando la pena a Spoleto, di prendersi cura di alcuni cani. Venerdì scorso, in occasione dell’incontro organizzato per la consegna delle cucce, realizzate con materiale di recupero all’interno della falegnameria del carcere (uno spazio di oltre 600 mq in cui lavorato 12 detenuti) grazie al lavoro degli agenti della Polizia Penitenziaria Danilo Montioni e Massimo Moriconi, si è tenuto un primo incontro con il vice direttore della Casa di reclusione Chiara Pellegrini per condividere opportunità e prospettive del progetto. “Siamo molto contenti - sono state le parole della Pellegrini - perché ci piace coltivare l’idea di un carcere che, rendendosi utile, dà alla città e alla comunità di cui fa parte. Quello che sta accadendo oggi, con la consegna delle cucce e la disponibilità ad iniziare un percorso che riesca a coinvolgere maggiormente le persone che vivono in carcere, ne è l’esempio migliore”. All’incontro, a cui ha partecipato l’Avv. Federica Faiella in qualità di coordinatrice del progetto “Fuori dalle gabbie”, già avviato in Sardegna nel carcere di massima sicurezza di Cagliari, ha preso parte l’assessore all’ambiente Maria Rita Zengoni: “La nostra volontà è di creare opportunità di formazione e di conoscenza per i detenuti, soprattutto in un’ottica di futuro reinserimento nella società. Cerchiamo quindi di favorire la collaborazione tra soggetti che operano, almeno apparentemente, in ambiti diversi, creando le condizioni, fin dove possibile, affinché si riesca ad elaborare progetti validi e duraturi”. Nello specifico il progetto prevede, da una parte, la formazione dei detenuti in materia di recupero comportamentale dei cani ed educazione cinofila, percorso che permette di acquisire una professionalità spendibile in futuro una volta scontata la pena e, dall’altra, una serie di attività a diretto contatto con i cani volte alla socializzazione dell’animale. “La riunione a cui abbiamo partecipato - ha spiegato l’assessore Zengoni - è stata una prima occasione di confronto per capire meglio le necessità di realizzazione di un progetto del genere. Un secondo incontro si terrà entro la prima metà di maggio per permettere di affrontare alcune questioni tecniche e operative che, ad oggi, non è stato possibile definire in maniera compiuta”. Roma: la vita dopo il carcere “se non hai una possibilità quando esci torni a delinquere” di Veronica Altimari romatoday.it, 24 aprile 2019 Abbiamo incontrato Mirko durante il suo turno di lavoro a “Vale la pena”, pub fondato dalla Onlus “Semi di libertà”. “Mai mi sono occupato di cibo, oggi amo mettere creatività nei taglieri che faccio ai clienti”. Con queste parole si può riassumere Mirko, 45 anni, in semi libertà e ad un mese dalla fine della sua condanna che sta scontando nel carcere romano di Rebibbia. Un passato travagliato il suo, diversi reati, più volte dentro. E poi fuori. “Arrivato a questa età mi sono stufato d fare questa vita - racconta Mirko - grazie a questa possibilità una volta fuori posso lavorare, guadagnare, pagare le tasse. Come tutti i cittadini”. La possibilità a cui si riferisce Mirko è il lavoro nel pub “Vale la pena”, con contratto a tempo indeterminato, che la onlus “Semi di libertà”, guidata da Paolo Strano, gli ha offerto dopo un anno di tirocinio all’interno del birrificio. Un’iniziativa, quella di Strano, nata con l’obbiettivo di contrastare la recidiva, ovvero il ritorno a compiere reati da chi, dopo una pena, esce dall’istituto penitenziario. E come si può fare? Dando ai detenuti una prospettiva per il futuro. “Vale la pena” ha così sviluppato un birrificio che produce una decina di varietà di birre artigianali che ormai da qualche anno si possono trovare nei locali e nei punti vendita. Un esempio dei tanti prodotti presenti nell’economia carceraria che prova, in un modo o nell’altro, a raccontare un pezzo della nostra società. Uomini e donne che provano ad uscire dal proprio passato per tornare ad essere “persone come gli altri”. “Quando sei liberante, ovvero quando esci dal carcere, vivi sentimenti contrastanti, felicità e paura, cadere nella trappola di tornare a commettere reati è un attimo, basta l’incontro con la persona sbagliata - continua Mirko. Ai detenuti va dato un lavoro prima di questo momento. Bisogna metterli nella condizione di affrontare la vita fuori, anche perché usciamo con un debito nei confronti dello Stato legato al nostro mantenimento”. La “diaria” che spetta a chi sconta una pena definitiva. “Il mio stipendio, ad esempio, non viene versato a me ma a Rebibbia - spiega -, una volta decurtata la parte relativa al mantenimento me lo versano”. Che prospettive per il futuro? “Continuare a lavorare qui e magari un giorno aprire un pub tutto mio, chi lo sa - conclude Mirko, al momento in regine di semi libertà con l’obbligo di tornare a Rebibbia entro le 23:30 -. Certo è bello rientrare la sera contento di aver fatto qualcosa di buono, senza svegliarsi nel cuore della notte con la paura che ti vengono ad arrestare”, dice sorridendo. Livorno: il Rotary club dona computer e stampanti ai detenuti Il Tirreno, 24 aprile 2019 Sedici detenuti delle Sughere potranno laurearsi più facilmente dal carcere grazie a un progetto del Rotary Club Livorno. I soci hanno infatti donato alla casa circondariale una stampante e cinque computer portatili, grazie ai quali gli ospiti della casa circondariale che hanno intrapreso gli studi come parte del proprio percorso riabilitativo potranno produrre gli elaborati richiesti dai loro docenti dell’Università di Pisa. Nel progetto è compresa anche la donazione di due postazioni fisse, sistemate nelle biblioteche di media e massima sicurezza, che daranno ad altri due detenuti la possibilità di lavorare alla catalogazione e riorganizzazione dei libri. “Ogni volta che la società viene a portare risorse all’interno del carcere è un’occasione positiva”, ha commentato il direttore Carlo Mazzerbo dopo aver ricevuto anche il gagliardetto del Club dalle mani del presidente Fabio Matteucci, il quale ha poi precisato: “Mia figlia è penalista, e mi aveva chiesto di “fare qualcosa per i suoi detenuti”. La terra dove siamo nati e le famiglie in cui siamo cresciuti ci hanno resi dei privilegiati, ed è nostro dovere dare a chi non ha avuto le stesse opportunità”. Mazzerbo e Matteucci raccolgono così l’eredità dei rispettivi predecessori: la consegna delle macchine era prevista per dicembre, ma è stata posticipata per motivi di sicurezza (i computer sono stati “blindati” per impedire qualsiasi connessione). “Doveva essere il regalo di Natale, sarà l’uovo di Pasqua”, ha riassunto Matteucci. Un regalo accolto a braccia aperte dai detenuti, come testimoniato dalla responsabile educativa Patrizia Critti e dal garante Giovanni De Peppo: “Ogni anno abbiamo circa sette laureati, ovvero quasi tutti quelli che si diplomano. Questi computer invoglieranno tutti a migliorarsi, e spingeranno molti a intraprendere gli studi”, ha spiegato la prima, mentre il secondo ha sottolineato come “durante i colloqui emerge sempre l’esigenza di maggiore cultura, necessaria perché i detenuti possano lavorare su se stessi”. Asti: il progetto “Adotta uno scrittore” nella Casa di Reclusione di Quarto di Raffaella Cordara salonelibro.it, 24 aprile 2019 Sono passate due settimane da quando Vanessa ha incontrato per l’ultima volta i detenuti della Casa di Reclusione di Quarto d’Asti, un carcere di Massima Sicurezza dove chi deve scontare la propria pena è obbligato a rispettare regole ferree e privazioni. Solo una scrittrice empatica e carismatica come Vanessa poteva, in pochissimo tempo, riuscire a regalare emozioni e interesse in un gruppo di una ventina di detenuti creato da noi insegnanti, per il progetto “Adotta uno scrittore”. Tengo a precisare che gli studenti reclusi non facevano parte di un gruppo scolastico pregresso; alcuni di loro non si conoscevano perché provenienti da sezioni differenti; per non parlare delle diverse provenienze geografiche e pene attribuite. Una realtà che, a mio avviso profondamente fragile con equilibri precari sotto vari punti di vista, ma nella quale Vanessa è riuscita a creare un ambiente di condivisione sereno e partecipato. Ritengo che questo progetto non solo abbia portato una ventata di entusiasmo dentro le mura del carcere di Quarto, ma abbia regalato ai 22 detenuti che hanno avuto la possibilità di partecipare, la soddisfazione unica di poter avere di fronte una persona che, pur avendo una carriera lavorativa importante, ha aperto loro le porte della sua vita, delle sue esperienze, dei suoi sentimenti; riuscendo così a trasformare un luogo in cui abita la sofferenza in un qualcosa di unico e prezioso. Roma: i fondi ci sono, ma il carcere di Ventotene va in rovina di Igor Traboni Avvenire, 24 aprile 2019 L’allarme sul vecchio penitenziario dell’isola, per la cui riqualificazione sono già stati stanziati 70 milioni di euro, con scadenza 2020. “Serve che il governo riapra un Tavolo”. Edifici che cadono a pezzi, rovi e sterpaglie dovunque, difficile anche il semplice approdo (ancorché vietato proprio per i pericoli di incolumità pubblica). Altro che “cuore” d’Europa e centro-studi per ridare memoria e futuro al Vecchio continente: il vecchio carcere di Santo Stefano, sull’omonima isola di fronte a quella di Ventotene, rischia di finire completamente in rovina, anche e soprattutto perché i 70 milioni di euro, finanziati dal Fondo per lo sviluppo e coesione 2014-2020, tra qualche mese andranno in fumo se nel frattempo il governo non procederà con la nomina dei nuovi componenti del Tavolo e quindi a convocare lo stesso per riprendere la progettualità già avviata. A lanciare l’allarme è stata nei giorni scorsi la Onlus “Per Santo Stefano in Ventotene”, dopo che già a ottobre il sindaco di Ventotene Gerardo Santomauro si era pure rivolto al governo: l’una e l’altra lettera, però, sono rimaste senza risposta e oramai mancano pochi mesi allo scadere del finanziamento, concesso dal governo Renzi e confermato dall’esecutivo Gentiloni, per rimettere a posto il vecchio penitenziario e consegnarlo a nuova vita, nel segno di quella Europa che proprio a Ventotene ha conosciuto una delle sue prime pagine con la firma del “Manifesto”. Costruito nel 1795 per volere dei Borbone, nel corso dei secoli il carcere ha accolto briganti e camorristi, rivoluzionari del 1848 e anarchici (compreso quel Gaetano Bresci che uccise Umberto I), fino a figure dell’antifascismo come Sandro Pertini. Dal 1965 il penitenziario è chiuso e da allora si sono alternati decine di progetti di recupero, sempre e solo a parole. La svolta sembrava arrivata tra l’ottobre del 2015 (con la costituzione del Tavolo tra ministero dei Beni culturali, Regione Lazio, Demanio e Comune di Ventotene) e il gennaio del 2016, quando l’allora premier Renzi, il ministro Franceschini e il governatore del Lazio Zingaretti calarono l’ancora a Ventotene per annunciare il piano di recupero. Nel 2017 è stato anche inaugurato l’eliporto di Santo Stefano, realizzato con circa 1 milione di euro presi da quel finanziamento di 70, ma di fatto ora una piccola cattedrale nel deserto. “Niente di niente - dichiara con l’amaro in bocca il sindaco Gerardo Santomauro - dal governo neppure un cenno e ora quei soldi rischiano di finire altrove. Ma se non vogliono fare più niente, almeno ce lo dicano e lo mettano nero su bianco, assumendosene le responsabilità. Un danno per Ventotene? Certo, ma è un danno per tutta l’Italia e per una certa idea d’Europa”. “È chiaro che non ci arrenderemo neppure stavolta alla mancanza di risposte - aggiunge Guido Garavoglia, presidente della Onlus “Per Santo Stefano in Ventotene” - e mobiliteremo personalità della cultura perché lancino appelli a chi di dovere. Come associazione abbiamo già presentato dei progetti, compreso quello per un museo multimediale al piano terra e nelle celle di una volta, perché i visitatori possano conoscere la storia di questo penitenziario e più in generale della carcerazione in Italia. Pensiamo anche a una parte residenziale da destinare agli studiosi dell’Europa, così come all’adozione di una cella da parte di ognuno dei Paesi dell’Unione Europea, perché qui raccontino come da loro è maturata e si è sviluppata l’idea d’Europa”. Un vento d’Europa che comunque continua a soffiare forte su queste isole dell’arcipelago pontino: il Comune ha lanciato l’idea di chiedere che al ‘Manifesto di Ventotenè venga riconosciuto il titolo di patrimonio dell’Unesco, mentre sulla stessa piccola isola (poco più di trecento residenti in inverno che però diventano almeno cinquemila in estate, con i turisti che la affollano per tuffarsi nel blu del mare) dal 25 al 28 aprile arriveranno centinaia di ospiti da tutto il mondo per la terza edizione del Festival dell’Europa solidale e del Mediterraneo. Aspettando il recupero del vecchio carcere, che però ogni giorno che passa sembra allontanarsi più velocemente degli aliscafi che da Ventotene riportano i vacanzieri a Formia, sulla terraferma. Radio Radicale, l’Agcom chiede proroga e nuova gara di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 aprile 2019 L’Autorità invia al governo una “segnalazione urgente” per evitare il rischio chiusura. La battaglia per la vita dell’emittente arriva su Le Monde e il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Con una “segnalazione urgente” inviata al governo, l’Agcom interviene sulla decisione di chiudere Radio Radicale presa dal sottosegretario Vito Crimi, e invita l’esecutivo a prorogare la convenzione con il Mise per il tempo necessario a organizzare una nuova gara d’appalto per la fornitura del servizio pubblico radiofonico che da 43 anni senza interruzione è coperto dall’”organo della lista Marco Pannella”. In una nota stampa l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha annunciato di aver trasmesso al governo gialloverde “alcune osservazioni e proposte di intervento in materia di affidamento di una rete radiofonica dedicata ai lavori parlamentari, nonché all’identificazione di un servizio media radiofonico e multimediale destinato all’informazione istituzionale con finalità di interesse generale”. E ha auspicato “che al fine di assicurare la continuità di un servizio di interesse generale”, “nelle more di una complessiva e non più rinviabile riforma della materia”, “il Governo possa prorogare l’attuale convenzione” con Radio Radicale, “quanto meno fino al completamento della definizione dei criteri e delle procedure di assegnazione”. Una presa di posizione, quella dell’Agcom attesa e sollecitata da tempo dalla Federazione nazionale della stampa che ieri ha colto con soddisfazione l’invito dell’Autorità presieduta da Angelo Cardani “a non tagliare la convenzione senza che neppure sia stata definita la riforma del settore”. Perché, fanno notare il segretario generale Raffaele Lorusso e il presidente Giuseppe Giulietti, l’Fnsi “sin dal primo momento, ha rifiutato la logica dei tagli e dei bavagli resi già operativi senza che neppure siano stati indicati i percorsi alternativi”. Mentre la procedura decisa dal governo, prosegue la nota di Lorusso e Giulietti, “va nella direzione opposta e contraria a quella valorizzazione delle differenze e delle diversità che sono alla base dell’articolo 21 della Costituzione e che, non casualmente, sono state più volte richiamate dal Presidente della Repubblica. Ci auguriamo - conclude la Fnsi - che chi, in questi giorni, anche all’interno del Governo e della maggioranza, ha solidarizzato con Radio Radicale voglia ora dare un seguito legislativo all’autorevole parere dell’Agcom”. In molti plaudono le parole dell’Autorità, dal Pd a Forza Italia e FdI. Ma va registrata soprattutto la posizione del vicepresidente della Commissione di Vigilanza Rai, Primo Di Nicola, senatore del M5S che, intervistato dalla stessa Radio Radicale, ha avvertito l’esecutivo del fatto che con la chiusura dell’emittente verrebbe a mancare un “servizio di grande interesse e di grande rilevanza come quello della copertura delle trasmissioni parlamentari”. Visto che in tutti questi anni di fare un simile lavoro, ha sottolineato il presidente della Commissione Vigilanza, “la Rai - che avrebbe tutti i mezzi per mettere in campo un servizio adeguato - se ne è largamente fregata”. “Solo nell’ultimo piano industriale - riferisce infine Di Nicola - c’è l’idea di varare questo canale. Ma l’operatività temporale di questo servizio non è stata ancora fissata”. Ma mentre il sottosegretario Crimi (“il gerarca minore”, come lo aveva inquadrato il compianto Massimo Bordin) non sembra dare segni di ripensamento, in Transatlantico si parla di un possibile emendamento al “Decreto crescita” scritto dalla Lega che avrebbe comunque i numeri per essere approvato in parlamento. Una mossa vincente da parte del Carroccio che potrebbe fargli guadagnare visibilità e gratitudine, non solo nazionale. Infatti, gli appelli in favore di Radio Radicale trovano sponde anche all’estero. Ieri per esempio il quotidiano francese Le Monde ha dedicato un lungo articolo alla possibile chiusura di quella che ha definito “un media inclassificabile” per via dell’inestimabile valore del servizio pubblico che fornisce ma anche delle battaglie - “diritto all’aborto, situazione carceri, lotta per il diritto all’eutanasia” - a cui si dedica. E soprattutto per via dell’”archivio, vero luogo della memoria della democrazia italiana”. Anche il Frankfurter Allgemeine Zeitung ha dedicato ieri un approfondimento a “La voce dell’Italia libera”, ricordando anche la figura di Massimo Bordin. The voice, per eccellenza. “Il M5S che aveva promesso onestà e trasparenza in campagna elettorale ha deciso di chiuderla - scrive la Faz - proprio perché trasmette troppe informazioni indipendenti. E così il M5S fa ciò che nemmeno Berlusconi era riuscito a fare”. Il quotidiano tedesco ricorda anche la posizione del vicepremier Matteo Salvini che, anche per calcolo elettorale, ha più volte ripetuto che alla chiusura della storica radio avrebbe preferito la riduzione degli “stipendi milionari in Rai”. Ma, conclude la Faz, “la questione è affidata al ministero dello Sviluppo economico guidato da Luigi Di Maio, che Bordin aveva definito “stalinista e gesuita” evidenziando così la natura totalitaria rinchiusa nell’ipocrisia bigotta dei Cinque Stelle. Chi teme per l’Italia ora ha paura di perdere anche la migliore radio politica del Paese”. La Resistenza oggi vuol dire combattere ogni giorno il razzismo di Carla Nespolo* Il Manifesto, 24 aprile 2019 Anche quest’anno, siamo pronti a celebrare degnamente, con impegno e passione, il 25 aprile, Festa della Liberazione. Il corteo che sfilerà per le strade di Milano, in occasione della Manifestazione Nazionale è, simbolicamente, la conclusione dei cortei che in questa giornata sfileranno in tantissime città e paesi italiani. Ma quelle di oggi non sono le uniche iniziative svolte in Italia, anzi sono ormai mesi e mesi che le cittadine e i cittadini scendono in piazza per difendere la Costituzione, la libertà e la democrazia. Mai come quest’anno si è verificata, nelle manifestazioni, una partecipazione così ampia. C’è un popolo in cammino. È il popolo delle magliette rosse con le partigiane e i partigiani. Il popolo degli operai che, in occasione di questo straordinario 25 aprile, hanno moltiplicato, nelle fabbriche, le celebrazioni in ricordo della lotta di tanti lavoratori che li hanno preceduti e che hanno difeso, spesso sacrificando anche la propria vita, le fabbriche che i nazifascisti volevano distruggere, nella loro risalita verso la ritirata. E poi ci sono i giovani. Una fitta e bella “brigata” di ragazzi e ragazze, che, a cominciare dalle scuole, hanno voluto conoscere per capire. E con loro abbiamo lavorato assieme a insegnanti consapevoli, per studiare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, e la storia della Resistenza stessa. E le biografie di tanti giovani come loro, caduti a vent’anni, per dare a tutti noi un tempo di pace e libertà. Ho ancora negli occhi lo striscione appeso al balcone di una scuola di Prato, in cui gli studenti hanno scritto semplicemente, in risposta ad una manifestazione filofascista, a cui si è ribellata tutta la città: “Abbiamo studiato. Sappiamo cos’è il fascismo”. Magnifica semplicità! È un popolo in cammino quello che abbiamo incontrato e s’illude chi spera di poterlo fermare. Non ci nascondiamo, però, che, in questo inizio secolo, non poche speranze nate nella Resistenza italiana ed europea, sono state deluse. Tanti sogni di libertà, democrazia e giustizia sociale, sono stati disattesi. La Costituzione Italiana, in tante sue parti importanti, non è stata attuata. Pensiamo, per esempio, all’Art. 3 che vieta ogni forma di discriminazione. In Europa, le logiche e gli interessi finanziari sono spesso prevalsi su quelli dei popoli e sotto questa spinta di errori e tensioni “affaristiche”, rischia di soccombere l’intero continente. Occorre fare in modo che, anche da questo nostro 25 aprile, si alzi forte la voce delle cittadine e dei cittadini, la voce dei popoli, per tornare realmente e concretamente all’idea di Europa che animò il Manifesto di Ventotene. Occorre combattere con decisione il razzismo diffuso a piene mani dal Ministro dell’Interno e difendere la Costituzione pretendendo la sua piena attuazione, non lo stravolgimento. Le modifiche istituzionali proposte da questo Governo sono da respingere perché tendono a contrapporre democrazia diretta a democrazia rappresentativa, col risultato di cancellare l’una e l’altra. Il Parlamento, poi, viene continuamente mortificato: ci si impegni, tutti insieme, in ogni luogo e occasione, a ribadire che la democrazia si realizza e sviluppa nelle aule parlamentari non in televisione, sui social o in riunioni private. Sotto sotto, ma neppure troppo, si cerca anche di cancellare il 25 aprile come festa nazionale. Ci aveva già provato Berlusconi e dobbiamo, dunque, tenere alta la vigilanza. Il 25 Aprile è la giornata di Liberazione del popolo italiano dal giogo del fascismo e del razzismo, ed è il giorno in cui l’unità dei partigiani e della Resistenza vinse su dittatura, ferocia e razzismo. Non fu, secondo una misera vulgata, la lotta tra fascismo e comunismo. Non ci faremo trascinare in una inutile e strumentale polemica, ma diciamo a tutti i democratici che per sconfiggere davvero ogni passo indietro, ogni più o meno esplicita tentazione prevaricatrice ed autoritaria, bisogna essere fortemente uniti. C’è una grande differenza tra “predicare” l’unità e praticarla ogni giorno. Io sono tra coloro che guardano con attenzione e rispetto le dichiarazioni antifasciste del Presidente della Camera Fico, del vice premier Di Maio e di tanti altri. Prima o poi questa assurda alleanza di Governo dovrà fare concretamente i conti con i valori antifascisti che fondano la Costituzione e la convivenza civile. Spetterà sicuramente ad altri trovare soluzioni di Governo dignitose per il nostro Paese nel segno di una effettiva realizzazione degli ideali che mossero i combattenti per la libertà. L’Anpi non è un partito e mai lo diventerà. Nostro compito è trasmettere memoria e pretendere l’attuazione della Costituzione. E, in ultimo, ma non per ultimo, difendere i diritti dei più deboli. Lo diremo in ogni piazza, via o contrada. Diremo con voce unica: viva il 25 Aprile, viva la Resistenza, viva l’Italia. * Presidente dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) Migranti. Salvini-Di Maio, scontro sui rimpatri: “Fermi al palo” di Leo Lancari Il Manifesto, 24 aprile 2019 La replica del leghista: “Se avete idee venite al Viminale”. Ma i numeri danno ragione ai 5 Stelle. Una lettera di Luigi Di Maio al premier Conte in cui il capo politico dei 5 Stelle accusa Matteo Salvini di aver eseguito pochi rimpatri di immigrati irregolari è la scintilla che fa scoppiare l’ennesima lite tra i due soci di governo. Il pretesto questa volta sono due fatti di cronaca, entrambi con protagonisti cittadini stranieri. Il primo avviene il giorno di Pasqua a Torino, dove un senegalese di 26 anni armato di una sbarra di ferro aggredisce due poliziotti ferendone uno alla testa. A Roma invece un litigio tra due senza fissa dimora rischia di trasformarsi in una guerra di religione. Un migrante marocchino sferra una coltellata al collo di un georgiano: “Mi ha aggredito perché avevo una catenina con il crocefisso” spiega agli agenti la vittima, sulla cui versione esisterebbe però qualche dubbio. Due episodi che, per quanto gravi, potrebbero concludersi nelle pagine di cronaca e che invece finiscono in quelle della politica. Il primo a reagire è ovviamente il ministro degli Interni: “Scrivo a tutti i prefetti e questori per aumentare controlli e attenzione in luoghi di aggregazione di cittadini islamici, per prevenire ogni tipo di violenza contro cittadini innocenti” dichiara Salvini, non immaginando probabilmente di scatenare la reazione dei 5 Stelle. Di Maio decide infatti di scrivere una lettera a Conte. “Il problema ce lo abbiamo in casa, non è che scrivendo una lettera o una circolare si risolvono le cose”, afferma. “Bisogna fare di più sui rimpatri che sono fermi al palo”. Conseguente la richiesta al premier di convocare “quanto prima un vertice sui rimpatri, ancora fermi”. Praticamente immediata la replica del leghista: “Se gli amici dei 5 Stelle hanno voglia, tempo e idee, ho convocato proprio per domani (oggi, ndr) alle 10 una riunione al Viminale su immigrazione, terrorismo, sbarchi ed espulsioni, riunioni che in questi mesi hanno portato a Decreti, proposte di legge e Direttive che hanno dato i risultati positivi che tutti gli italiani hanno notato”. In undici mesi di governo è la prima volta che dai 5 Stelle arriva una critica così esplicita e pesante all’alleato su una materia come il contrasto dell’immigrazione irregolare, fiore all’occhiello del ministro leghista. Ulteriore segnale di come, al di là delle rassicurazioni quotidiane, la tensione tra soci sia ormai altissima. E anche se è difficile che al vertice fissato per oggi al Viminale possano arrivare dai 5 Stelle proposte concrete su come aumentare le espulsioni degli irregolari, per Salvini quel “i rimpatri sono fermi al palo” rappresenta un’accusa che brucia. Anche perché non distante dalla verità. Archiviate infatti le promesse elettorali di un anno fa, nelle quali annunciava l’espulsione in tempi brevi degli oltre 500 mila migranti irregolari presenti in Italia, una volta arrivato al Viminale Salvini ha per forza di cose dovuto fare i conti con la realtà. A parlare sono come sempre i numeri: nei primi sei mesi di governo gialloverde i rimpatri forzati sono stati 3.626 secondo i dati forniti dal Viminale, 1.606 quelli effettuati invece dal 1 gennaio al 28 marzo scorso, dei quali 1.490 forzati e 116 volontari. A complicare le cose c’è poi il fatto che i rimpatri non si possono attuare senza un accordo con il Paese di origine del migrante. Nonostante a settembre dell’anno scorso Salvini abbia annunciato di lavorare per raggiungere intese con Senegal, Pakistan, Bangladesh, Eritrea, Mali, Gambia, Costa d’Avorio, Sudan e Niger, al momento l’Italia può contare su soli quattro accordi, siglati da anni con Marocco, Egitto, Tunisia e Nigeria. Anche per questo, come direbbe Di Maio, i rimpatri “sono fermi al palo”. Onu, Trump verso il veto alla risoluzione contro lo stupro come arma di guerra di Marta Serafini Corriere della Sera, 24 aprile 2019 Un veto alla risoluzione Onu che mira a contrastare gli stupri di guerra. A porlo potrebbero essere non solo la Cina e la Russia, come da copione quando si tratta di rispetto dei diritti umani. Ma anche gli Stati Uniti di Donald Trump. Washington - secondo quanto anticipa oggi il Guardian - sembra infatti intenzionata a esercitare il diritto di veto di membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo quanto confermato da una fonte Onu alla Cnn, l’amministrazione Trump contesta il linguaggio con cui si vogliono aiutare le vittime degli stupri di guerra garantendo loro l’accesso ai servizi sanitari compresi quelli per la pianificazione familiare. La mossa, spiega il giornale britannico, rientra nella linea dura di Trump che rifiuta di approvare ogni documento delle Nazioni Unite che contenga un riferimento anche indiretto all’aborto. D’altro canto, come sottolineano il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas e l’attrice-attivista Angelina Jolie in un editoriale del Washington Post, la risoluzione cerca di punire gli autori di violenze sessuali in conflitto, migliorare il monitoraggio di tali violenze e aumentare il sostegno ai sopravvissuti di queste atrocità anche in conflitti più recenti come quelli che hanno visto schierati i miliziani dell’Isis autori di atrocità sulle donne. La bozza di risoluzione era già stata privato di uno dei suoi elementi più importanti, l’istituzione di un meccanismo formale per monitorare e segnalare le atrocità, a causa del veto di Stati Uniti, Russia e Cina, che si sono opposti alla creazione di un nuovo e specifico organismo. “Non siamo nemmeno sicuri se avremo la risoluzione domani, a causa delle minacce di un veto da parte degli Stati Uniti”, ha detto al Guardian Pramila Patten, rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale in guerra. La rappresentanza tedesca all’Onu spera che la risoluzione contro gli stupri di guerra, seppur ridimensionata nel suo raggio di azione, possa venire adottata nella speciale riunione del Consiglio di sicurezza in calendario oggi. Le agenzie delle Nazioni Unite calcolano che più di 60.000 donne siano state stuprate durante la Guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40.000 in Liberia (1989-2003), fino a 60.000 nella ex Yugoslavia (1992-1995), e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra. L’attualità e centralità dello stupro come arma di guerra è stata recentemente confermata dalla Corte Penale Internazionale (CPI) con la condanna all’ex vicepresidente della Repubblica democratica del Congo, Jean-Pierre Bemba Gombo a 18 anni di detenzione in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana tra il 2002 e il 2003. Nel giugno 2008, i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione n. 1820 - appoggiata da 30 Paesi - nella quale si condanna ufficialmente l’uso dello stupro come arma di guerra, minacciando dure e reali azioni verso i responsabili di violenze sessuali contro le donne. Nella risoluzione si osserva che lo stupro e le altre forme di violenza sessuale “possono rappresentare un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità o comunque un atto che afferisce al genocidio”, sottolineando, la necessità di escludere i crimini per violenza sessuale dalle disposizioni di amnistia nell’ambito dei processi per la risoluzione dei conflitti. La risoluzione seguente, la n. 1889 del 2009, nel condannare il perpetrarsi di violenze sessuali nei conflitti in corso, esorta gli Stati membri e la società civile a tenere in considerazione la protezione e la valorizzazione di donne e bambine - comprese quelle associate a gruppi armati - nella programmazione post-bellica. Fra le più recenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, la n. 1960 del 2010 ha dato mandato al Segretario Generale 12 di elencare “le parti verosimilmente sospettate di aver commesso o di essere responsabili di casi di violenza sessuale”, richiedendo l’assunzione di misure finalizzate a monitorare, analizzare e denunciare piani specifici di violenza sessuale collegata ai conflitti. Fino ad oggi, con questa nuova risoluzione che dovrebbe prevedere strumenti di tutela e difesa delle donne. Ma che per gli egoismi dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza rischiano di saltare. Stupri di guerra, gli Stati Uniti annacquano la risoluzione di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 24 aprile 2019 La condanna degli stupri usati come arma di guerra e gli aiuti alle donne vittime delle atrocità, prima bloccati alle Nazioni Unite e poi approvati con una risoluzione svuotata dei suoi contenuti principali per evitare un veto degli Stati Uniti. Ieri il Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro è stato teatro di un dibattito molto teso: il testo preparato dalla presidenza tedesca prima è stato mutilato della parte relativa alla creazione di un organismo di monitoraggio delle violenze sulle donne osteggiato da un’inedita alleanza Cina-Russia-Stati Uniti. Poi il documento è tornato in alto mare per il “no” di Washington agli aiuti sanitari alle vittime. Donald Trump, che ha abbracciato la crociata dei conservatori Usa contro l’aborto, non avalla interruzioni della gravidanza anche quando sono conseguenza di violenze feroci e sistematiche come quelle perpetrate in molti conflitti, dal Sud Sudan al genocidio della minoranza rohingya in Birmania. La risoluzione, illustrata dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, un politico cattolico, e dall’attrice e attivista dei diritti umani Angelina Jolie in un editoriale pubblicato dal Washington Post, aveva due obiettivi: condannare le violenze di guerra sulle donne e aiutare le vittime. La prima parte è stata indebolita con la rinuncia al deterrente della creazione di un sistema di monitoraggio. Svuotata anche la seconda con l’eliminazione dei riferimenti alla “salute sessuale e riproduttiva” considerati dagli Usa un supporto implicito all’aborto (impegni verbalmente ribaditi dai rappresentati europei e di altri Paesi come il Sudafrica). La presidenza tedesca del Consiglio di sicurezza ha preferito rinunciare anche a questa parte pur di non offrire al mondo lo spettacolo di un’Onu incapace di trovare l’accordo anche su una questione non controversa come quella degli stupri di guerra. Ma lo stesso segretario generale, Guterres, aveva giudicato essenziali gli impegni sulla salute sessuale e riproduttiva nel suo intervento d’apertura, seguito da quello dell’attivista Amal Clooney: un appello accorato a combattere “l’epidemia di violenza sessuale con l’unico antidoto possibile, la giustizia”. La ricerca di un compromesso sul linguaggio della risoluzione si è rivelata impresa proibitiva. In casi come questo si cerca di superare l’impasse ricorrendo al linguaggio usato in passato dall’Onu su problemi analoghi. Ma gli Stati Uniti avevano messo le mani avanti dicendo di non condividere più le espressioni contenute nella risoluzione sulla violenza sessuale approvata dall’Onu (e da Washington) nel 2013. Guerra civile in Libia, l’inviato Onu: “Per uscirne la sola via è il dialogo” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 aprile 2019 Intervista a Ghassan Salamé, inviato speciale Onu per la Libia, che incontra Enzo Moavero alla Farnesina: “L’Italia chieda un cessate il fuoco”. “La politica permette sempre una via d’uscita alla guerra. Basta volerlo”. Ghassan Salamé, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, è tra i grandi perdenti del conflitto fratricida, con il diretto coinvolgimento di forze straniere, in cui sta scivolando la Libia. Ma non si dà per vinto. Per un attimo si era ventilato che si dimettesse dal suo ruolo; ma in questa intervista al Corriere rilancia la via del dialogo, “l’unica possibile per evitare la catastrofe”. Oggi, alla Farnesina, incontrerà il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi: l’Italia è uno dei Paesi che sostengono il governo di unità nazionale diretto da Fayez Sarraj e riconosciuto dall’Onu. Il dialogo, certo, non è semplice. Tra il 3 e il 4 aprile il maresciallo Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha attaccato militarmente la capitale, difesa dalle milizie fedeli al governo di Sarraj. Una scelta che ha scombussolato le carte. A metà aprile era prevista nell’oasi di Ghadames la Conferenza nazionale tra elementi della società civile libica, poi rinviata sine die. Lo stesso Salamé l’aveva ideata e annunciata al forum di Palermo lo scorso novembre in previsione delle elezioni e della costruzione di un futuro pacifico. Ne restano solo macerie: oggi tra i due fronti prevale il linguaggio della forza. Lei ha chiaramente accusato Haftar di boicottare il dialogo e aver precipitato il Paese nella guerra. Il maresciallo è ancora un partner? “Le Nazioni Unite hanno sempre fatto del loro meglio per evitare proprio questo tipo di conflitto, incoraggiando i libici a lavorare per mettere in atto i nostri piani d’azione sin dal settembre 2017. L’Onu ora più che mai agisce nell’urgenza su vari fronti per scongiurare il deterioramento della situazione”. Come tornare al tavolo negoziale? “La politica offre sempre una via d’uscita, se le parti hanno il coraggio di imboccarla. Nel settore umanitario lavoriamo notte e giorno per evacuare i feriti oltre ai civili intrappolati e fornire aiuto agli oltre 30.000 sfollati dalle zone dei combattimenti. È fondamentale che siano rispettate le tregue umanitarie, che siano applicate in modo regolare e duraturo. Questo è il primo passo per arrivare al cessate il fuoco, ed è al momento la nostra priorità”. La Conferenza nazionale resta possibile? “Nel lungo periodo la Conferenza rimane essenziale. I suoi preparativi logistici sono ormai completati. Nessun individuo può sovvertire la volontà popolare dei libici. E il popolo libico si è espresso con chiarezza: esige la fine del periodo di transizione, vuole vivere in pace, chiede uno Stato civile retto sulle leggi. La Conferenza è la strada verso questi obiettivi”. Crescono però le complicazioni, perché crescono le ingerenze di attori terzi regionali e internazionali. Per esempio: lei si è consultato con gli americani dopo la recente presa di posizione di Donald Trump a favore di Haftar nella lotta al terrorismo? Inoltre sia Haftar che Sarraj ricevono armi e aiuti dai rispettivi alleati. Non è una sconfitta per l’Onu? “Stiamo lavorando con tutti gli attori internazionali coinvolti per incoraggiare la distensione e il ritorno al dialogo politico pacifico. Come è ben noto, resta attivo l’embargo contro l’invio di armi e di qualsiasi tipo di aiuti bellici in Libia. Ogni tentativo di violare questo embargo da parte di individui o Stati verrà giudicato e punito dalla comunità delle nazioni”. Sappiamo che Haftar riceve armi, tra i tanti, da Arabia Saudita, Emirati, Egitto; ci sono voci di consiglieri francesi con i suoi uomini. Per contro, Sarraj ha aiuti da Qatar e Turchia. Che fare? “Se non torniamo presto al processo politico il vero perdente sarà il popolo libico, che ha già sofferto otto anni di conflitti. La società locale ne è sconvolta, l’economia seriamente danneggiata. Se la Libia è trascinata a diventare scenario di una continua guerra civile la sua popolazione sarà vittima di una tragedia che non ha scelto. Comunque, l’Onu resterà sempre dalla parte dei civili. Non li abbandoneremo”. L’Italia è uno dei pochi Paesi direttamente interessati rimasti fermi nel sostenere il governo Sarraj, unico governo locale riconosciuto dall’Onu. Un’Italia tanto isolata può aiutare? “Noi incoraggiamo l’Italia e tutti gli Stati membri dell’Onu a spingere per il cessate il fuoco e il ritorno al dialogo. Occorre l’impegno collettivo a porre fine a questo conflitto egoista ed inutile. Se invece la situazione dovesse deteriorarsi in modo significativo, a pagarne le conseguenze, oltre al popolo libico, sarebbero settori e interessi molto più ampi”. Arabia Saudita. 37 persone giustiziate a morte per terrorismo. Una è stata crocifissa La Stampa, 24 aprile 2019 L’Arabia Saudita ha giustiziato 37 cittadini sauditi condannati per terrorismo. Lo riferisce il ministero dell’Interno di Riad. Le pene capitali sono state decise dai tribunali di Mecca, Medina, della provincia centrale di Qassim e della Provincia Orientale, base della minoranza sciita del Paese. I giustiziati sono stati giudicati colpevoli di aver “adottato un pensiero estremisti”, di aver “appoggiato il terrorismo e formato cellule per colpire e destabilizzare il Paese”. Secondo quanto scrive l’Agenzia stampa saudita (Spa) una persona è stata crocifissa dopo la sua esecuzione, una punizione riservata a reati particolarmente gravi. Da inizio anno sono almeno cento le persone giustiziate nel Regno saudita, secondo un conteggio basato sui dati ufficiali rilasciati dalla Spa. L’anno scorso, secondo i numeri di Amnesty International, lo Stato del Golfo ha condannato a morte 149 persone, risultando secondo dopo l’Iran. Sono puniti con la pena capitale i condannati per terrorismo, omicidio, stupro, rapina a mano armata e traffico di droga. Iran. Confermata la condanna, l’avvocata Nasrin Sotoudeh resterà in carcere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 aprile 2019 La notizia, temuta, è arrivata ieri mattina quando attraverso un tweet si è appreso che l’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh è stata condannata a 33 anni di carcere e ben 148 frustate. L’esito negativo della sentenza è stato reso noto dal marito di Nasrin, Reza Khandan, che ha anche precisato i termini della vicenda giudiziaria confermando la decisione di primo grado risalente allo scorso marzo. L’avvocata si trova, dal giugno del 2018, nel famigerato carcere di Evin, a Theran (già impiegato dalla polizia segreta dello Scià Reza Palevi), qui vengono rinchiusi giornalisti iraniani e stranieri, blogger, attivisti, studenti, registi, scrittori. Chiunque abbia in qualche modo espresso la propria critica contro il regime degli Ayatollah. Sono sette, e molto pesanti, i capi d’imputazione per i quali Nasrin Sotoudeh è accusata, si va dall’aver “complottato contro la sicurezza nazionale” alle “minacce contro il sistema”, “istigazione alla corruzione e la prostituzione”. Ma soprattutto per essere “comparsa senza velo in un’aula di tribunale”. La legale iraniana infatti è un’attivista per i diritti civili e politici, la sua colpa principale è proprio quella di aver difeso alcune donne che avevano sfidato il divieto di non portare l’hijab (il tradizionale velo femminile obbligatorio nella Repubblica sciita) in pubblico. Reza Khandan ha spiegato che nonostante avesse 20 giorni di tempo per presentare ricorso contro il verdetto di primo grado, Nasrin Sotoudeh ha rinunciato a questo diritto come atto di protesta nei confronti di un procedimento che ha giudicato come irregolare e persecutorio, una decisione che sembra essere stata presa già a marzo. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Irna, in realtà l’avvocata iraniana sconterà 12 anni riferiti solo al reato più grave. A preoccupare intanto sono le condizioni della sua carcerazione, a quanto riporta ancora l’Irna, le autorità carcerarie avrebbero trovato un paio di forbici tra gli oggetti della detenuta sospendendo per tre settimane la possibilità di ricevere visite. La storia di Nasrin Sotoudeh è balzata fin dalle prime battute alla ribalta internazionale, catturando l’attenzione dei media ai quattro angoli del pianeta. Sono stati numerosi gli appelli per una sua immediata liberazione, in suo favore si è mossa anche la diplomazia internazionale ai massimi livelli, a partire dalla Francia. Il 10 aprile scorso infatti il presidente, Emmanuel Macron, ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo iraniano Hassan Rohuani, durante il quale ha sollevato il caso e chiesto la scarcerazione della Sotoudeh. A sostegno della legale dei diritti umani si è espresso anche il Parlamento Europeo che già nel 2012 l’aveva insignita del premio Sakharov per le sue battaglie in favore dei diritti delle donne e contro la pena di morte. Amnesty International, che ha sempre definito il processo “gravemente ingiusto”, da tempo ha lanciato una campagna per raggiungere l’obiettivo di un milione di firme. Riccardo Noury di Amnesty Italia ha dichiarato che tutto ciò “è sconfortante e raddoppieremo i nostri sforzi perché si possa trovare una strada extragiudiziale di annullamento della condanna e per il rilascio di Nasrin”. Myanmar. Genocidio dei Rohingya, negato l’appello ai giornalisti Reuters La Repubblica, 24 aprile 2019 La Corte Suprema del Myanmar ha respinto l’appello di Kyaw Soe Oo e Wa Lone, i due giornalisti della Reuters accusati di aver violato dei segreti di Stato nell’ambito di una loro inchiesta sulle violenze compiute contro la minoranza Rohingya, il gruppo etnico di fede musulmana che risiede nello Stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. I due reporter furono arrestati nel dicembre 2017, poco dopo aver ricevuto dei documenti da alcuni ufficiali di polizia. L’anno successivo, nel 2018, vennero condannati a sette anni di carcere. Ieri mattina, il giudice della Corte, Soe Naing, ha dunque respinto la possibilità di ricorrere in appello per i due giornalisti, confermando la sentenza già emessa. “Wa Lone e Kyaw Soe Oo non hanno commesso alcun crimine né sono state fornite prove sulla loro colpevolezza. Sono stati incastrati dalla polizia che ha voluto censurare il loro lavoro. Continueremo a fare tutto il possibile per liberarli il prima possibile”, ha fatto sapere in una nota la stessa Reuters.