Assunzione di 1.300 agenti penitenziari nei prossimi quattro anni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 aprile 2019 Lo ha annunciato alla Camera il Sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. A questi vanno aggiunti 976 allievi vice-ispettori che a marzo hanno terminato il corso di formazione. Prima di tutto, gli organici. E poi le infrastrutture. La strada intrapresa dal governo giallo-verde per cercare di risolvere i problemi del settore giustizia, a partire dal sovraffollamento degli istituti penitenziari, è chiara: un massiccio piano di investimenti in personale e in nuove carceri. Dunque, nessun provvedimento “svuota-carceri”, come era stata chiamata la modifica dell’Ordinamento penitenziario voluta dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Tale riforma, subito stoppata da Alfoso Bonafede al momento del suo insediamento, per diminuire la popolazione carceraria prevedeva un forte ricorso alle misure alternative, ritenute però dall’attuale esecutivo un “inaccettabile vulnus al principio fondamentale di certezza della pena”. Dopo il recente ampliamento di 600 unita nella pianta organica dei magistrati, di cui 70 destinati alla Corte di Cassazione, da via Arenula arriva quindi il semaforo verde anche per l’ampliamento dei ruoli della polizia penitenziaria. Ad annunciarlo è stato il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, rispondendo la scorsa settimana alla Camera ad una interrogazione del deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin. “L’obiettivo prioritario del governo è quello di affrontare in maniera efficace ed incisiva le varie criticità che affliggono il settore penitenziario: in tale ottica si iscrive il potenziamento degli organici della polizia penitenziaria”, ha dichiarato Morrone. Potenziamento organico che, per il governo, ha due finalità: “Garantire maggiore efficienza al sistema penitenziario e standard di sicurezza più elevati all’interno delle carceri”. Con la legge di bilancio 2019, precisa sempre Morrone, saranno assunti nell’anno in corso 1.300 agenti, 577 nel periodo 2020-2023. A questi si devono aggiungere 976 allievi viceispettori che a marzo hanno terminato il corso di formazione. Per quanto attiene il comparto funzioni centrali, aggiunge il sottosegretario, “vanno ricordati i lavori per il conferimento degli incarichi di livello dirigenziale, con le procedure per l’immissione di 173 dirigenti penitenziari (attualmente almeno un terzo degli istituti non ha un direttore titolare, ndr)”. L’aumento di risorse per il personale ammonta così a 71,5 milioni di euro per il triennio 2019-2021. Sul fronte infrastrutture, infine, Morrone ha voluto sottolineare la possibilità per l’amministrazione di “individuare immobili in disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali al fine della loro valorizzazione per la realizzazione di strutture carcerarie”. “Carlo Castelli”. Il concorso letterario che premia i detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 23 aprile 2019 Al via il “Premio Carlo Castelli per la solidarietà”, concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri e degli istituti penali minorili italiani organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il Ministero della giustizia e il patrocinio di Camera e Senato. Il carisma di San Vincenzo de Paoli, il Santo che ha vissuto combattendo ogni forma di povertà, rivive infatti anche nell’attività di volontariato carcerario destinato ai detenuti e alle loro famiglie prestato dalla Società omonima, 850 mila soci e 1.500.000 volontari in 155 Paesi del mondo e una rappresentanza presso le Organizzazione delle Nazioni Unite di Ginevra. Un impegno di lungo corso quello dei volontari vincenziani nelle carceri com’è altrettanto consolidata l’esperienza del Premio Castelli arrivato alla dodicesima edizione e nato con lo scopo di stimolare delle riflessioni tra i detenuti sulla base di una traccia che cambia da un anno all’altro. Nel 2019, i detenuti si confronteranno su “Riconoscere l’umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”, tema scelto per ispirare saggi brevi, racconti, poesie, lettere e riflessioni che non dovranno superare le tre cartelle per 9 mila battute totali. La scadenza è fissata al 31 maggio 2019. Ai vincitori andrà un doppio premio dove il riscatto di sé passerà anche per la buona causa che finanzierà. Il primo classificato si aggiudicherà mille euro e una donazione di altri mille a suo nome per materiale e sussidi didattici a una scuola di un paese povero, al secondo andranno 800 euro e il contributo di mille euro a un progetto formativo o di reinserimento per minori del circuito penale e al terzo 1.400 euro di cui 600 al vincitore e 800 euro per un’adozione a distanza di cinque anni a suo nome, per far studiare un bambino di un paese povero. Intervistato da Italia Oggi Sette, Claudio Messina, delegato nazionale Carceri della San Vincenzo de Paoli ricorda che negli anni la premiazione è avvenuta ogni volta in un carcere diverso: “Nel 2009 eravamo a Palermo con il tema “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”, nel 2011 da Reggio Calabria, il tema era “Riconciliarsi con le vittime: follia o guarigione”, nel 2014 da Bari, con il tema “Ma tu ti senti colpevole?”, nel 2016 ad Augusta con “Il cuore ha sete di perdono” fi no all’ultima del 2018 dal carcere minorile di Nisida con il tema “Un’altra strada era possibile: cosa cambierei nella società e nella mia vita”. “Il domani è già oggi: oggi scelgo che domani sarò un uomo diverso, che domani sarà un giorno diverso”, si legge in uno degli scritti di minori e giovani adulti consapevoli, che pur nello struggente rimpianto per quotidianità familiari mancate o spezzate, ricominciano a sperare. La San Vincenzo organizza nelle carceri corsi di giardinaggio e di cultura biblica, servizi di organizzazione del guardaroba, partite di calcio, feste per le famiglie e incontri culturali a carattere musicale: tante iniziative che testimoniano l’attivismo del volontariato vincenziano. Se n’è parlato nell’incontro “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova” organizzato lo scorso 11 aprile presso l’Università Europea di Roma in collaborazione con la Società di San Vincenzo De Paoli. Attraverso le testimonianze del presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, Antonio Gianfico, e dello stesso Messina, è stato presentato l’operato dell’Associazione, diffusa in tutto il mondo, che ha come scopo principale quello di aiutare le persone in difficoltà, tra di loro anche i detenuti. “Gli ultimi degli ultimi”, li chiama Messina, con vent’anni di esperienza da assistente volontario in carcere. “Abbiamo avuto sempre attenzione per il mondo carcerario”, sottolinea Messina, “fi n da quando il mio predecessore Carlo Castelli ha avviato con l’ordinamento penitenziario del 1975 prima e la legge Gozzini, poi, un forte impulso riorganizzativo a questo tipo di volontariato formato da gruppi più strutturati rispetto al passato. Si tratta infatti di un tipo di attività che necessita di formazione specifica, della dovuta conoscenza dell’ordinamento penitenziario e dell’ambiente carcerario dove si deve entrare con il giusto approccio psicologico”. L’11 aprile l’organizzazione vincenziana ha presentato il settore Carceri all’Università europea: “In quell’occasione erano presenti una cinquantina di studenti a cui abbiamo raccontato la nostra esperienza di volontariato nelle carceri, attualmente stiamo valutando con l’ateneo la possibilità di inserimenti dei loro corsisti nelle nostre attività. Un percorso di stage valido ai fini dell’ottenimento dei crediti universitari”. Il cittadino spaesato nell’agone giustizia di Giuseppe Tesauro Il Mattino, 23 aprile 2019 Periodicamente i media ci propongono qualche vicenda giudiziaria, specie penale, che suscita sconcerto o almeno sorpresa. Spesso la protagonista è una donna e dunque alimenta in misura maggiore la reazione del comune cittadino. Penso ad una sentenza che ne riforma un’altra riducendo magari a metà la pena per il colpevole di un delitto che sembrava meritevole, per il giudice della fase precedente, di una pena molto vicina all’ergastolo: semplicemente perché l’uomo, che aveva da poche settimane una relazione con la vittima, sarebbe stato in preda ad una “tempesta emotiva”. Penso alla sentenza resa da un collegio interamente femminile che non ha considerato stupro un rapporto con una donna non bella e “mascolina”, non importa se non consenziente. Ma penso anche a quelle imputazioni gravi che non resistono al secondo o al terzo grado di giudizio per qualche clamoroso errore o anche al riesame che già in primo grado sconfessa il lavoro investigativo durato anche più di qualche settimana o mese o perfino anni; o a quei permessi durante i quali il “bravo” detenuto commette un ulteriore delitto. E che dire poi di una sentenza del giudice delle leggi, che ha ritenuto non irragionevole una norma che vieta la chiamata in un dipartimento universitario di un parente entro il quarto grado o di un affine di uno dei professori, ma tace sulla chiamata di un coniuge. In breve, il coniuge sì, ma il fratello del coniuge no: eccentricità del legislatore distratto che ben poteva essere risolta con una lettura intelligente già del giudice comune. Il cittadino si domanda dove sia la tanto celebrata certezza del diritto. Alcuni di questi episodi possono collegarsi fisiologicamente ai diversi esiti dovuti ai tre gradi di giudizio e dunque ad una diversità che va salutata con favore da chi ritiene che sia riuscita a correggere una decisione clamorosamente eccentrica. È questo il caso, ad esempio, della pronuncia della Cassazione di riformare la sentenza cui accennavo prima della Corte di appello di Ancona che, nel 2017, aveva assolto due giovani sudamericani accusati di aver violentato quattro anni prima una ragazza peruviana a Senigallia. La singolare pronuncia aveva fatto scalpore, in quanto aveva rilevato che l’aspetto “mascolino della vittima … come la foto del fascicolo processuale appare confermare” fosse rilevante per giudicare uno stupro. Per fortuna, la Cassazione ha ribaltato completamente il percorso motivazionale e dichiarato che l’aspetto fisico della vittima non è un elemento rilevante ai fini della valutazione di atti di stupro e che la sentenza di appello era fondata dunque su elementi “irrilevanti in quanto eccentrici rispetto al dato di comune esperienza rispetto alla tipologia dei reati in questione”. Altri episodi, tuttavia, si collocano in un quadro complessivo del sistema giustizia che presenta qualche criticità, da sempre censurate anche fuori dai nostri confini, non solo quanto all’irragionevole durata dei processi; e che meritano qualche riflessione più generale. Anzitutto, le leggi sono pezzi di carta, consegnati in elenchi di vario tipo (codici, raccolte varie, Gazzette Ufficiali e altro), dove il giudice trova la soluzione dei casi che gli sono sottoposti. Il giudice è chiamato a far vivere quei pezzi di carta rispetto ad un caso concreto, proiettandone il senso anche in un contesto di valori più alto, magari costituzionale e non solo, alla ricerca eventualmente di un parametro di legittimità ulteriore rispetto alla legge che possa aumentare il tasso di tutela dei diritti dei singoli. Questa operazione intellettuale non è sempre agevole, anzi lo è oggi sempre meno rispetto al passato, per il numero enorme, diciamo pure eccessivo, di leggi e leggine scritte magari in fretta, troppe volte su spinte in senso lato populiste, comunque in un gergo non facilmente comprensibile, integrate con interventi successivi spesso non coerenti, che richiedono una ricerca certosina e affannosa del comma giusto e non abrogato, così come integrato e modificato e come risulta da più testi non sempre coordinati in una versione in vigore. Il tempo vola, le interpretazioni opinabili non sono soltanto possibili, ma probabili. La tentazione del distacco più o meno voluto e trasparente dalla norma è forte, talvolta nasconde un protagonismo umano, frutto di delusioni e illusioni insieme, di chi soffre la pesantezza di una burocrazia fuori misura, di un apparato carcerario che non regge il confronto con Paesi di media civiltà, dell’insufficienza degli strumenti di supporto e di conforto per l’esercizio della funzione strettamente giurisdizionale, della pressione di una classe forense a sua volta afflitta dalle criticità più disparate. A volere infine tacere dell’effetto diretto e immediato di questo scenario sull’economia. C’è poi il limite dell’insofferenza per il quotidiano, per la routine, che porta a desiderare un intervento non solo distaccato dalla norma ma frutto di un momento emotivamente significativo, un atto di ribellione magari inconsapevole rispetto alla normalità, che però si traduce in uno scoop giornalistico che fa discutere per giorni, certo non di più, nei bar del quartiere o nei corridoi dei palazzi di giustizia. Il fenomeno, beninteso, è fortunatamente solo limitato ad una minima eccezione rispetto alla serenità e all’equilibrio della grandissima maggioranza dei magistrati. Il giudice è comunque un essere umano, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le emozioni, le sensibilità, i momenti con pensieri a volte lontani dalla realtà costruita dall’immaginario collettivo, ma che sono vicini all’ego di ognuno di noi. C’è, infine, la consapevolezza che le esigenze e gli interessi del corpo sociale hanno una velocità di aggiornamento e di innovazione molto maggiore rispetto sia al legislatore, sia a chi dell’opera di quest’ultimo è chiamato a fare applicazione, sì che anche il distacco dalla norma scritta, se non si esagera, non è necessariamente un male assoluto. E qui mi permetto una citazione di Calamandrei dalla nota arringa per Danilo Dolci del 30 marzo 1956 dinanzi ai giudici penali di Palermo: “Vi sono tempi di stasi sociale in cui il giudice può limitarsi ad essere il fedele secondo del legislatore, il seguace che l’accompagna passo per passo, ma vi sono tempi di rapida trasformazione in cui il giudice deve avere il coraggio di esserne il precursore, l’antesignano, l’incitatore”. Tornando agli esempi ricordati di vicende penali, c’è chi teme un ritorno al delitto d’onore con tutto quanto ne segue in termini di attenuanti e di pene; c’è chi - a difesa dei giudici - sostiene correttamente che è necessario leggere la sentenza nella sua integrità per coglierne il percorso argomentativo e non fermarsi ad un solo frammento. Nondimeno, lo sconcerto del cittadino comune resta ed è di sicuro maggiore per i casi di violenza di genere, che per molti meriterebbe almeno un inasprimento della pena: per “qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato”, secondo la formula della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, stipulata ad Istanbul il 23 maggio 2011e in vigore dal 2014. Legittima difesa, attesa la decisione di Mattarella Adnkronos, 23 aprile 2019 Non è stata ancora firmata e promulgata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la legge sulla legittima difesa, approvata in via definitiva dal Senato il 28 marzo scorso. In settimana sono dunque attese le decisioni del Capo dello Stato, visto che, in base all’articolo 73 della Costituzione, ha un mese di tempo per promulgare il provvedimento, a meno che, con messaggio motivato, non ne chieda un nuovo esame al Parlamento. Dal Quirinale, complici anche i giorni di festa, trapela poco o nulla su quelle che potrebbero essere le decisioni del Presidente della Repubblica, che si concederà ancora qualche ora di riposo, prima di rientrare al Colle e riprendere in mano il dossier, sul quale comunque è stata già avviata l’istruttoria. Come ha più volte ricordato lo stesso Mattarella, il Capo dello Stato può chiedere alle Camere di riesaminare il testo qualora ravvisi “evidenti profili di illegittimità costituzionale”, fermo restando che, in base all’articolo 74 della Costituzione, la legge va promulgata se riapprovata in modo identico. Finora una sola volta nel corso del suo mandato l’attuale Presidente della Repubblica ha rinviato al Parlamento una legge, quella sulle mine antiuomo il 27 ottobre 2017. Può tuttavia accadere che il Capo dello Stato, per varie ragioni tecniche e politiche, decida di promulgare comunque una legge, accompagnando però la sua decisione con lettere ai presidenti delle Camere e del Consiglio, nelle quali si registrano rilievi che si ritiene debbano restare in ogni caso agli atti. Da ultimo è accaduto il 29 marzo scorso, quando Mattarella ha accompagnato la promulgazione della legge che istituisce la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, con una lettera ai presidenti del Senato, Elisabetta Casellati, e della Camera, Roberto Fico, per ricordare i limiti d’azione dell’organismo parlamentare rispetto all’attività creditizia. In precedenza Mattarella, il 4 ottobre dello scorso anno, nell’emanare il decreto legge sicurezza, aveva scritto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, avvertendo “l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”. La legge sulla legittima difesa è inutile e dannosa per la sicurezza di Vincenzo Macrì* Wall Street International Magazine, 23 aprile 2019 Il 28 marzo 2019 il Parlamento italiano ha definitivamente approvato la proposta di legge volta a modificare la disciplina della legittima difesa. Va precisato che, ad oggi, 15 aprile, a diciotto giorni di distanza dalla sua approvazione, la legge non è stata ancora promulgata dal Presidente della Repubblica, di conseguenza non è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Dunque non è ancora in vigore. Una singolarità che denuncia probabilmente la particolare attenzione riservata dal Capo dello Stato a una legge che presenta innegabili profili di incostituzionalità, oltre che riflessi su diritti fondamentali dell’uomo, quali il diritto alla vita e la sua doverosa tutela nei confronti di tutti i cittadini, criminali compresi. Per comodità di esposizione si userà comunque il termine legge, nonostante che il suo iter non si sia ancora perfezionato e al momento non può ricevere applicazione alcuna. Trae il suo fondamento dal contratto stipulato con scrittura privata con firma autenticata, redatta dai dirigenti di due formazioni politiche (associazioni di diritto privato a tutti gli effetti) oggi al governo, che, di fatto, vincola l’operato non solo delle formazioni politiche che lo hanno prodotto (e sin qui nulla di illegittimo), ma anche di organi costituzionali, e delle loro funzioni; il Parlamento, titolare della potestà legislativa (art. 70 Cost.) e il Capo del Governo, al quale la Costituzione affida la direzione politica generale del Governo e della quale è responsabile (art. 95 Cost.). Per effetto del contratto le prerogative del Parlamento e del Capo del Governo risultano attenuate, formali, riducendosi alla mera esecuzione dei contenuti fissati in sede contrattuale, ritenuti vincolanti e prioritari. A pag. 22 del contratto, sotto il titolo Area penale, procedura penale e difesa sempre legittima (sic!), si legge: “In considerazione del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, si prevede la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione e nel proprio luogo di lavoro”. Colpisce il richiamo alla inviolabilità della proprietà privata, già sanzionata autonomamente con il reato di violazione di domicilio e da quello di furto in abitazione, sui quali la nuova norma interviene solo per aumentare i minimi e i massimi delle pene previste, considerata offesa sufficiente per giustificare a priori e senza eccezione alcuna il ricorso alla legittima difesa, anche armata. In secondo luogo non si comprende quali fossero “gli elementi di incertezza interpretativa” se non nella necessariamente diversa valutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice, in relazione alla specificità di ciascuna fattispecie di legittima difesa esercitata con uso di armi con conseguente morte o ferimento dell’autore dell’intrusione. Gli articoli del codice penale interessati dalla riforma sono il 52 e il 55 del codice penale. A rischio di appesantire la lettura ne riportiamo il testo, quale oggi vigente, e quale quello “riformato”, (le innovazioni sono quelle inserite tra parentesi, in grassetto). Art. 52: Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che difesa sia proporzionata all’offesa. Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste (sempre) il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si applica (Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si applicano) anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. (Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone). È utile precisare che il secondo e terzo comma erano stati a loro volta aggiunti dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, proprio per ampliare la previsione della legittima difesa ai casi di irruzione di ladri o rapinatori in casa o negli esercizi commerciali e professionali. Art. 55: Quando nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente, i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. (Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, n. 5, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto). Non si farà cenno ad altri aspetti meno rilevanti della riforma, meglio cercare di comprendere il contesto nel quale essa si inserisce. Il disegno di legge di iniziativa popolare sul quale si è incardinato al Senato l’iter legislativo della legge aveva come titolo Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima, tanto da determinare la inconsueta rapidità con la quale venne esaminato dai due rami del Parlamento (da fine ottobre 2018 a fine marzo 2019). Verrebbe da pensare che il fenomeno delle rapine in abitazioni ed esercizi commerciali sia in costante aumento e che il paese stia attraversando una fase di recrudescenza dei reati “predatori” e di generale turbamento dell’ordine pubblico. Le statistiche ufficiali offrono un quadro del tutto opposto alla “narrazione” di governo, che, così come è avvenuto per il fenomeno degli sbarchi dei migranti, mira a conquistare il consenso popolare ed elettorale sulla base delle paure suscitate ad arte con i continui allarmi lanciati con particolare enfasi mediatica per ogni episodio criminale che avviene nel paese. Gli omicidi sono in forte calo rispetto agli anni Novanta (da 1.916 omicidi volontari nel 1991 a 368 nel 2017). In particolare, sono in forte diminuzione gli omicidi compiuti dalla criminalità organizzata (da 342 a 55) e quelli commessi dalla criminalità comune (da 879 a 144). Sia consentita una testimonianza diretta di chi scrive: nella seconda metà degli anni ‘80 ero giudice istruttore del Tribunale di Reggio Calabria. In città imperversava la guerra di mafia, durata da ottobre del 1985 alla metà del 1991. I morti ammazzati furono oltre settecento. Ricordo che in un solo anno raggiunsero il numero di duecento. La media nazionale di omicidi era all’epoca del 3 per centomila abitanti, quella della Regione Calabria del 10, quella della provincia di Reggio Calabria di poco meno del 30. Oggi la media nazionale è dello 0,3 per centomila abitanti. Le rapine negli esercizi commerciali nell’ultimo decennio sono in consistente calo (da 8.149 nel 2007 a 4.517 nel 2017) e anche quelle nelle abitazioni sono meno di dieci anni fa (erano 2.529 nel 2007, sono state 2.301 nel 2017). Più che dimezzati gli omicidi per furti o rapine: si passa da una media annuale di oltre 80 omicidi a inizi anni Novanta a circa 30 nell’ultimo quinquennio. Nel 2017 gli omicidi per furti o rapine nelle case degli italiani sono stati 16: è il numero più basso da 30 anni ad oggi. Parlare di emergenza sarebbe fuori luogo, se non per chi è alla continua ricerca di consenso con l’uso di dati alterati e ingannevoli. Ma non è solo la strumentalità della riforma che deve preoccupare, assai più lo sono le ragioni effettive che l’hanno determinata e gli effetti che ne potrebbero conseguire. Sotto il primo profilo, si evidenzia il paradosso di un governo che si autodefinisce sovranista e preoccupato per la sicurezza dei cittadini, ma rinuncia al monopolio della violenza riservato alle forze dell’ordine e alle forze armate, che deve caratterizzare ogni stato di diritto, e affida la difesa della vita e della proprietà ai singoli cittadini, autorizzandoli e anzi incoraggiandoli a dotarsi di armi da fuoco per provvedervi singolarmente. Il rapporto con i fabbricanti di armi, siglato con un patto d’onore “con i detentori legali di armi” da Salvini a febbraio dello scorso anno a Hit Show, la Fiera delle Armi di Vicenza, è segno evidente di come la lobby delle armi (Comitato Direttiva 477, dal 2019 Unarmi) si attenda, da questa riforma, un consistente aumento della richiesta di armi (e non solo di armi da fuoco corte, ma anche di fucili a pompa, e pericolosi fucili semiautomatici tipo Ak-47 e Ar15, d’ora in poi possibile grazie al decreto legislativo n. 104 del 10 agosto 2018, e in vigore dallo scorso 14 settembre, con il quale l’Italia ha recepito la direttiva europea 853/2017 relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, la prima nazione a farlo, e nella maniera più estesa possibile.). La corsa alle armi viene confermata dall’aumento del 41,63% delle licenze di porto d’armi a uso sportivo nel triennio 2014/2017. Come l’esperienza degli Stati Uniti insegna, l’aumento del numero delle armi detenute da singoli cittadini (la nuova legge consente di detenere sino a dodici armi da fuoco in casa), piuttosto che assicurare sicurezza, genera insicurezza, sia tra le mura domestiche, viste le percentuali di omicidi in famiglia, sia all’esterno. Ed è singolare che, così come abbiamo segnalato con l’articolo sul decreto sicurezza, anche questa legge sia destinata a produrre l’effetto contrario, quello di creare insicurezza. Un classico caso di eterogenesi dei fini. Si dice di volere un risultato (maggiore sicurezza) e si ottiene l’opposto, così come per le misure economiche inserite nella legge di bilancio; si voleva sviluppo, si è ottenuta recessione. Nel primo rapporto sulla filiera della Sicurezza in Italia, presentato il 27 giugno 2018 e redatto dal Censis e FederSicurezza, si legge a pag. 27: “Se immaginassimo di avere le stesse regole e la stessa facilità degli statunitensi di entrare in possesso di un’arma, in Italia le famiglie con armi in casa potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini complessivamente esposti al rischio di uccidere o di rimanere vittima di un omicidio sarebbero 25 milioni. Con il cambio delle regole e un allentamento delle prescrizioni, ci dovremmo abituare ad avere tassi di omicidi volontari con l’utilizzo di armi da fuoco più alti e simili a quelli che si verificano oltre Oceano. Le vittime da arma da fuoco potrebbero salire fino a 2.700 ogni anno, contro le 150 attuali, per un totale di 2.550 morti in più”. La ricerca evidenzia inoltre come il maggior numero di armi da fuoco in circolazione faccia lievitare il numero di omicidi, come testimonia il fatto che in America nel 2016 sono avvenuti 14.415 omicidi volontari con arma da fuoco, pari a 4,5 ogni 100.000 abitanti, contro i 150 avvenuti in Italia, dove le leggi erano più restrittive, pari a 0,2 per 100.000 residenti. Dopo le precedenti considerazioni relative alla politica della sicurezza, si può passare a quelle di tipo giuridico e costituzionale. Un primo rilievo è rappresentato dalla sottrazione alla giurisdizione di quello che è la sua principale prerogativa e funzione costituzionale, quello di accertare, caso per caso, se una determinata vicenda umana integra una fattispecie di reato, se l’autore è stato individuato con certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, se sussistano circostanze attenuanti o aggravanti, circostanze esimenti della punibilità. Per restare in argomento, nel caso della legittima difesa, il compito del giudice era quello di valutare la proporzionalità della difesa rispetto all’offesa e non si tratta di una questione di poco conto. Sono in gioco valori costituzionali di primissimo rilievo, quali il diritto alla vita, propria e dei propri cari, all’inviolabilità del domicilio, alla tutela dei beni. Valori che non sono di pari livello essendo quello della vita preminente su tutti gli altri. Quando il legislatore si fa giudice del caso concreto invade il principio della separazione dei poteri, fa a meno della terzietà del giudice, inquina il confine tra la potestà legislativa che emana leggi generali e astratte e potere giurisdizionale che interpreta e applica le leggi al singolo caso concreto. Cumulare le funzioni di potere legislativo, esecutivo e giudiziario rientra forse nelle aspirazioni dei governi sovranisti (e Salvini lo fa, sia pure a parole, molto spesso), ma il diritto penale finisce con l’assumere in tal modo una inammissibile funzione politica, arbitraria e incontrollata. Vi sono due espressioni lessicali che rendono evidente il problema: l’avverbio “sempre”, inserito al secondo e quarto comma dell’art. 52 c.p., che elimina con un colpo di scure ogni possibilità di intervento del giudice. In sostanza non si avrebbe mai un processo, ma un procedimento che dovrebbe accertare solo le condizioni di fatto in cui si è resa necessaria l’azione difensiva, e procedere quindi alla richiesta di archiviazione per l’esimente di punibilità della legittima difesa. Una vera e propria depenalizzazione, che potrebbe comprendere persino casi di omicidio volontario. Il rapporto di proporzionalità non ha bisogno di essere accertato, esiste “sempre”. A prescindere. Anche quando il rapinatore, vista l’arma in mano all’abitante della casa, fugge ma viene colpito alle spalle? Anche quando chi spara al torace poteva colpire alle gambe? Anche quando poteva rinchiudersi in una stanza con porta blindata e aspettare l’arrivo delle forze dell’ordine? O anche quando il gioielliere che uccide il rapinatore, aveva stipulato un’assicurazione contro furti e rapine, che avrebbe coperto per intero il danno patrimoniale subito? Sono interrogativi che sinora sono stati risolti dai giudici penali, valutando le circostanze caso per caso, che non possono essere accorpate indistintamente dal legislatore. Nel quarto comma, poi, si va oltre la violazione di domicilio; la presunzione della proporzionalità che esiste “sempre” opera anche nei casi di “intrusione”, (non quella domiciliare già regolata nei commi 1 e 2) senza che sia chiarito quali sono i locali o gli spazi in cui essa è avvenuta. Si pensi al caso in cui l’intrusione avviene nel giardino o nel parco di una villa. Si può sparare dalla finestra agli intrusi, anche se armati? La nuova versione dell’art. 55 presenta il problema della indeterminatezza della condizione di non punibilità, “l’avere agito in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. L’esistenza di un turbamento, più o meno grave, è una situazione psicologica, soggettiva, temporanea (se fosse permanente influirebbe sulla capacità di intendere e di volere), che non lascia tracce e che resta affidata al racconto dell’autore dell’azione difensiva. Essa peraltro è comune a tutti coloro che compiono un omicidio, tranne che non siano killer professionali. La mancanza di tassatività della previsione normativa, essenziale nella legge penale, la rende inapplicabile di fatto (art. 1 del codice penale). Stridente, infine, il contrasto con la norma dell’art. 90 del codice penale, secondo la quale “gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Gli aspetti critici della legge non si esauriscono con quelli sinora commentati. Lo spazio è tiranno e non mancheranno le occasioni per tornare sull’argomento quando se ne vedranno i primi effetti o quando il giudice delle leggi sarà chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale di una o più delle previsioni esaminate. *Magistrato Salvini con il mitra: dove ci può portare quella foto di Roberto Saviano La Repubblica, 23 aprile 2019 Il giorno di Pasqua Luca Morisi ha condotto un esperimento per comprendere fino a che punto spingere la comunicazione del leader della Lega nella prospettiva di un futuro superamento della Costituzione repubblicana. Luca Morisi, spin doctor di Salvini e consulente del governo, nel giorno di Pasqua ha pubblicato su Facebook la foto del ministro dell’Interno che imbraccia un mitra. Ha espressamente scritto che loro, i seguaci del Capitano, sono armati. Ha in sostanza scritto che da qui al 26 maggio, ogni arma (letteralmente) sarà lecita per fronteggiare gli “attacchi” e il “fango” che la Lega e Salvini dovessero “subire”. Gli attacchi sono le inchieste della magistratura e il fango sono le legittime critiche dell’opposizione democratica; ma anche il fuoco amico: non solo quello pentastellato, ma anche, e soprattutto, quello leghista. Salvini sa bene che i primi a sperare che l’onda su di lui si richiuda sono proprio i suoi colonnelli pronti, all’occorrenza (archiviato Salvini), a offrire buonsenso e sovranismo moderato, ma che oggi tacciono di quel silenzio interessato che trae comunque dalla comunicazione salviniana vantaggio elettorale. Quella di Morisi è stata un’evidente istigazione a delinquere, reato che i giuristi definiscono di pericolo concreto. Se l’alter ego social del ministro dell’Interno - colui il quale è al vertice della Polizia di Stato ed esercita quindi il monopolio della forza - minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate, quindi di morte, il pericolo è concreto per definizione. Sono passate molte ore. In migliaia hanno segnalato quel post. Ma Facebook non lo ha rimosso. Perché Morisi ha deciso in maniera cosciente di affrontare un possibile processo per un delitto punito fino a cinque anni di carcere? E perché quel post non lo ha fatto direttamente come Matteo Salvini? Poi ho capito che la risposta alla mia domanda era la reazione di Facebook: Morisi ha testato su se stesso il limite. Il limite fino al quale spingersi in vista delle elezioni del 26 maggio. Le inchieste incombono. Secondo l’accusa dei pm, tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione. Quindi bisognerà spingere il piede sull’acceleratore. E il gioco vale la candela: una volta preso il potere anche la punibilità di Morisi potrebbe essere messa in discussione. Tante volte, nel corso della storia, il Potere è stato conquistato commettendo reati poi lavati via con un colpo di spugna una volta consolidato il Nuovo Ordine. Silvio Berlusconi era ed è tra gli uomini più ricchi del mondo; quando era necessario, Silvio Berlusconi pagava. Pagava i giudici, gli avversari interni ed esterni. Possedeva buona parte dell’informazione e in parte ancora la possiede. Salvini no. Non ha quel potere economico. Ma Salvini ha dalla sua l’inquietante frangetta di Luca Morisi, un Finkelstein in sedicesimi completamente a suo agio sui social. E ha Facebook, che è un Potere globale travestito da infrastruttura. Qualche tempo fa postai la foto della donna e del bimbo annegati nello stesso naufragio al quale è sopravvissuta Josefa, soccorsa dalla Ong Proactiva Open Arms. Prima di postarla avevo reso irriconoscibile l’immagine del bimbo, ma nonostante ciò venne oscurata e per potervi accedere ancora oggi è necessario andare oltre l’alert connesso normalmente a “immagini forti o violente”. Per Facebook quella foto era ed è evidentemente una fonte di malessere per i suoi utenti. Perché Facebook non ha invece censurato la foto di Matteo Salvini - il ministro dell’Interno, non certo un comune cittadino - che imbraccia un mitra, postata da un soggetto con un profilo neanche verificato, che parla espressamente di uso delle armi contro chiunque si frapponga tra loro e il Potere? Quali sono i reali rapporti tra l’apparato comunicativo di Salvini e Facebook? L’impressione è che Facebook abbia scelto. Ha scelto di ritenere quella comunicazione rispettosa dei suoi standard. Dobbiamo concludere, dunque, che per Facebook non può essere denunciato l’orrore genocida delle politiche di accoglienza europee, ma che minacciare di gravi conseguenze la magistratura, gli oppositori politici e chi semplicemente critica le azioni del ministro dell’Interno vada bene. Facebook ha scelto, e lo ha fatto in maniera assai rischiosa anche per la piattaforma stessa, dato che ha condiviso, nella sostanza, una prospettiva in potenza eversiva senza aver fatto evidentemente i conti con le leggi dello Stato che, giova ricordarlo a chi pare vivere solo sulla superficie delle cose, puniscono l’incitamento all’odio. Ma Facebook vive dell’illusione totalitaria che fuori da Facebook un personaggio pubblico non esista. Che non esistano le opinioni al di fuori di Facebook, perché non conoscibili. Un vicolo cieco nel quale la tecnologia travolge le democrazie liberali. Ma l’amaro risveglio, oggi, non possiamo dire ancora con certezza a chi toccherà, poiché la partita tra Facebook e gli Stati democratici è ancora aperta, si sta ancora giocando. Facebook è, in maniera palese, concorrente almeno nel reato di istigazione a delinquere commesso da Luca Morisi, dato che ha scelto di non censurare quel post e quella immagine e dunque li ha condivisi, incurante delle migliaia di segnalazioni di cittadini terrorizzati, ai quali ha implicitamente detto: “Questo è il futuro che vi aspetta”. Ma qualunque Procura sa che Facebook se ne infischia delle rogatorie dell’Autorità giudiziaria italiana. E anche questa è una condizione da mutare in maniera radicale, ma è evidente che con l’avatar di Luca Morisi, Matteo Salvini, tutto ciò difficilmente accadrà. Il giorno di Pasqua, utilizzando - con l’agghiacciante amoralità che lo identifica - le centinaia di vittime dell’odio religioso in Sri Lanka, Luca Morisi ha condotto un esperimento per comprendere fino a che punto spingere la comunicazione di Matteo Salvini nella prospettiva di un futuro superamento della Costituzione repubblicana. Già, la Costituzione. Chissà quanto durerà ancora la Costituzione nell’era di Facebook e della sua irresponsabilità. Chissà quanto inconsapevole. Ma, in fin dei conti, dobbiamo essere per certi versi grati a Luca Morisi: oggi conosciamo meglio i volti, le parole e le azioni di chi vuole spingerci di nuovo nel buco nero della Storia. Non vi daremo tregua e fino a che avremo fiato in gola denunceremo i vostri intenti criminali. Dovrete ucciderci per farci tacere. Post scriptum. Mentre scrivevo queste parole, le lacrime mi hanno rigato il volto. Ho pensato che Massimo Bordin non potrà leggerle, magari criticandolo e intervallando la lettura con i suoi letterari colpi di tosse. Grazie Bordin, grazie. Cercheremo ogni giorno di essere degni della tua libertà. Il ministro con la divisa di Ascanio Celestini Il Manifesto, 23 aprile 2019 Il ministro dell’Interno del mio Paese indossa la divisa. Non tutta insieme. Una giacca, un caschetto. Se la mette quando fa i comizi o le passeggiate tra la folla. Qualcuno per lui dice “preparate i telefonini”. Lui comunica attraverso la sua pagina Facebook. In quello spazio parla direttamente agli italiani e in molti lo seguono. Ha più di tre milioni e mezzo di follower. Un politico che comunica come il mio compagno di calcetto entra nella mia vita come se fosse un amico. In una foto che ha postato recentemente lo si vede con una t-shirt nera con su stampata una scritta a caratteri enormi: “La difesa è sempre legittima”. È un’altra delle sue tecniche di comunicazione. Si mette addosso una felpa o una maglietta con una scritta. Basta la foto. La scritta parla per lui. Quasi sempre è infilata sopra la camicia. Usata come una bandiera. Poi aggiunge tre righe di commento. Spesso c’è una faccina. Manda baci, saluti e chiede ai follower: “Che ne dite, amici?”. Il giorno di Pasqua ha postato due immagini sbarazzine. In una si fa il selfie con un somaro: “Guardate chi ho incontrato!”. Nell’altra si ritrae con una montagna di polenta. Nelle stesse ore il suo responsabile della comunicazione ha postato una foto sorprendente per il giorno della Resurrezione di Cristo. Il ministro dell’Interno del mio paese è ritratto con un’arma da guerra e poche righe: “Siamo armati e dotati di elmetto!”. Undici anni fa Umberto Bossi minacciò di scatenare i suoi uomini. “Abbiamo 300mila martiri - disse - i fucili sono sempre caldi”. In quel lontano aprile si chiuse il secondo governo Prodi, tornò Berlusconi e non scoppiò una guerra civile. Non credo che scoppi la prossima settimana. Ma in questi anni è cambiato il linguaggio, dei media e il nostro. Un linguaggio che non tutti sanno gestire e che per qualcuno può diventare un delicatissimo detonatore. Poco più di un anno fa un italiano di 28 anni ha sparato a sei immigrati di origine sub-sahariana. È stato arrestato davanti al monumento dei caduti di Macerata mentre faceva il saluto romano e gridava “viva l’Italia” con il tricolore sulle spalle. Anche il ministro dell’Interno del mio paese ha condannato quell’azione. Il ministro è un uomo saggio e peserà ogni parola per il bene del mio paese. Chi c’è dietro la lobby delle armi di Vittorio Malagutti L’Espresso, 23 aprile 2019 Salvini e Meloni sono in prima linea sul fronte del “fuoco facile”. Ma dietro di loro c’è una rete europea. E un’industria che fiuta il grande business. Si chiama “Firearms United”, la Ong preferita dalla Lega di Matteo Salvini. Ha sede in Polonia, a Varsavia, e non soccorre migranti ma promuove il diritto ad armarsi. Hanno grandi progetti, quelli di Firearms United: puntano a diventare il braccio europeo della statunitense Nra (National Rifle Association). Anche la Ong polacca al pari degli amici americani, si è data una struttura da lobby e come tale si è accreditata a Bruxelles, all’Unione europea. Poca cosa, per ora. Un bilancio di poche migliaia di euro e un pugno di dipendenti, tutti volontari. Al primo impegno concreto, però, la lobby delle armi ha fatto subito centro. O almeno così affermano gli attivisti della Ong sul loro sito internet e nei social network. La direttiva sulla vendita e il trasporto di armi varata dalla Commissione europea a giugno del 2017 si è infatti rivelata poco più che un buffetto sulla guancia per quella fetta di opinione pubblica che rivendica il diritto di difendersi da sé, eventualmente sparando. “Una nostra vittoria”, ha esultato in Rete Firearms United, presieduta dal polacco Tomasz Stepien. La lotta continua, però. Con l’obiettivo di respingere gli assalti di quella che viene bollata come la “lobby disarmista”. Anche la Lega combatte la stessa battaglia e in vista delle prossime elezioni europee, affiancata da Fratelli d’Italia, ha mobilitato uomini e mezzi per accaparrarsi i voti del popolo pro armi. È un’amicizia di lunga data quella tra i sovranisti e i sostenitori del libero sparo in libero Stato. Agli atti del Parlamento europeo c’è un emendamento del 2016 firmato da Salvini insieme ad altri quattro eurodeputati di partiti della destra populista, tra cui il Rassemblement National di Marine Le Pen e la tedesca Afd. Con il plauso di Firearms United e soci, il futuro vicepremier e ministro dell’Interno italiano aveva proposto all’assemblea di rigettare in blocco la proposta di direttiva. In Italia, quelle stesse regole sono state trasformate in legge dello Stato nel settembre dell’anno scorso, ma la nuova maggioranza gialloverde ha sfornato un testo il più possibile rispettoso delle richieste dei produttori e dei detentori di armi, che miravano a svuotare dall’interno, per quanto possibile, la riforma varata a Bruxelles. In un Paese come l’Italia che a volte impiega anni e anni per adottare le norme europee, questa particolare direttiva è diventata una delle priorità del nuovo esecutivo. Nel giro di poche settimane dall’inizio della legislatura è così approdata in Parlamento una legge che ha allargato le maglie dei controlli decise a Bruxelles. È stata per esempio modificata, estendendola ad altre categorie, la qualifica di “tiratore sportivo”, cioè gli appassionati che ora potranno acquistare anche fucili d’assalto semiautomatici. Altrove in Europa l’opposizione alla riforma si è rivelata più dura. A fare resistenza sono stati soprattutto i governi sovranisti riuniti nel cosiddetto gruppo di Visegrad, formato da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Ovvero i Paesi a cui Salvini guarda come un modello politico a cui ispirarsi. Intanto, a soli sei mesi dall’approvazione lampo della direttiva, la Lega ha partorito un’altra novità accolta con favore dalla lobby delle armi. A fine marzo infatti, anche con i voti dei Cinque Stelle, il Parlamento ha varato una riforma della legittima difesa che amplia i confini della giustizia fai da te e di fatto funziona come un incentivo all’acquisto di pistole e fucili. Non c’è da sorprendersi, allora, se Unarmi, l’associazione italiana che dichiara di “tutelare i diritti dei cittadini che posseggono legalmente armi”, ha fin qui salutato con favore le riforme varate dal governo. Del resto la stessa Unarmi, che fa parte di una sorta di alleanza internazionale sotto le insegne di Firearms United, l’anno scorso era finita sui giornali perché prima delle elezioni del marzo 2018 aveva sottoposto a Salvini, che l’aveva prontamente firmato, una sorta di contratto in cui il leader leghista si impegnava a difendere le ragioni “dei legali detentori di armi”. All’epoca il candidato premier della Lega promise anche la “ridiscussione delle regole europee” in materia. La scelta di campo del vicepremier non è una novità dell’anno scorso. Già nell’ottobre del 2015, a soli quattro mesi dalla nascita di Unarmi, che all’epoca si chiamava “Comitato D-477”, il segretario della Lega si era affrettato a incontrare i rappresentanti dell’associazione, come conferma un documento pubblicato in Rete. In quel periodo, tra i dirigenti del gruppo pro-armi compariva anche Stefano Ciccardini, descritto come un manager appassionato di tiro. Ciccardini è il marito di Anna Cinzia Bonfrisco, eletta l’anno scorso al Senato con la Lega dopo un lungo peregrinare tra varie forze politiche. Partita come socialista craxiana, Bonfrisco, 56 anni, è passata a Forza Italia, per poi accasarsi, nel 2015, con i Conservatori e Riformisti dell’ex berlusconiano Raffaele Fitto. Nel 2017 la senatrice veneta ha traslocato nel Partito Liberale da dove ha spiccato il volo verso la Lega. Girovagando da un partito all’altro, Bonfrisco non ha mai smesso di battersi, come racconta in un volantino elettorale, “a favore del mondo della produzione, della commercializzazione e della detenzione delle armi”. Un impegno condiviso con il marito Stefano Ciccardini, che pur avendo lasciato nel 2016 la carica di consigliere di Unarmi (all’epoca Comitato D-477), partecipa alle iniziative promosse dagli appassionati di tiro. La battaglia dei coniugi pro-armi ha dato nuovi frutti in questi giorni, quando il nome di Anna Cinzia Bonfrisco è comparso nella lista della Lega per le prossime elezioni europee. Non è chiaro se la senatrice sia pronta a lasciare lo scranno a Roma per traslocare a Bruxelles, oppure se la sua candidatura serve da specchietto per le allodole rivolto al popolo delle doppiette. Di sicuro, quella che in senso lato può essere definita la lobby delle armi, vale potenzialmente centinaia di migliaia di voti. Ci sono almeno 500 mila cacciatori, un numero che peraltro è da anni in forte diminuzione. Le aziende che in qualche modo sono legate al settore armi e munizioni contano invece, in base alle stime più recenti, su almeno 11 mila dipendenti, ma con l’indotto si arriva quasi a quota 80 mila. Poi vanno considerati i frequentatori dei poligoni, cioè i circa 21 mila tiratori tesserati della federazione sportiva che fa parte del Coni. E infine ci sono i cittadini che scelgono di armarsi per difendere se stessi o le loro proprietà. In Italia non esistono statistiche ufficiali sul porto d’armi. Secondo le stime più accreditate queste licenze ammontano a poco più di un milione. Non è da escludere però che negli ultimi anni l’aumento dell’insicurezza percepita, alimentata dalla propaganda della Lega e degli altri partiti della destra, abbia avuto l’effetto di spingere una parte sempre maggiore della popolazione all’acquisto di pistole o fucili. Tutto questo mentre il numero di crimini violenti, come attestano le ricerche in materia, è da tempo diminuzione in Italia. La retorica della paura, però, fa comodo ai partiti a caccia di facile consenso. E gli interessi della politica qui finiscono per coincidere con quelli delle aziende. Imprese grandi e piccole che con la vendita di armi per la difesa personale provano a compensare il calo di fatturato dovuto alla diminuzione dei cacciatori. Ecco, allora, che nella lista di Fratelli d’Italia per le prossime elezioni europee del 26 maggio troviamo anche un esponente di una delle più antiche dinastie di fabbricanti di fucili e munizioni. Il partito di Giorgia Meloni, che rivendica con orgoglio l’invenzione dello slogan “la difesa è sempre legittima”, ha infatti annunciato la candidatura di Pietro Fiocchi, 55 anni, azionista e manager dell’omonima azienda con sede a Lecco. Da almeno un anno, l’aspirante europarlamentare non ha più cariche da amministratore nelle aziende italiane del gruppo, in compenso Fiocchi promette di battersi per difendere i diritti di cacciatori e tiratori. Come? “Entrando nella commissione ambiente del Parlamento europeo”, ha dichiarato Fiocchi, “dove vengono esaminate le nuove leggi in materia di caccia”. A chi ha sollevato il problema del conflitto d’interessi, vista la sua posizione nell’azienda di famiglia, il candidato-imprenditore, sfidando la logica, ha risposto: “Nessun conflitto, gli interessi dei cacciatori sono anche i miei”. Va detto che sul piano del marketing politico non è facile per Fratelli d’Italia arginare la concorrenza della Lega. Su temi come l’immigrazione o la polemica contro Bruxelles, i due partiti hanno un’agenda simile. E anche in fatto di armi, Meloni e Salvini corteggiano lo stesso elettorato. A fare la differenza sono i toni della propaganda degli eredi del Movimento Sociale, che rivendicano una libertà nell’uso e nella vendita di armi ancora maggiore di quella garantita dalle riforme del governo a trazione leghista. Sulla legittima difesa, per esempio, Giorgia Meloni non ha fatto mancare il suo appoggio alla legge, salvo poi dichiarare, poco dopo l’approvazione in Parlamento, che le nuove regole lasciano ancora troppa discrezionalità ai giudici per valutare se la reazione a mano armata sia stata commisurata alla potenziale offesa. Sulla stessa linea è schierato anche Stefano Maullu, già consigliere regionale lombardo (a gennaio condannato a un anno e sei mesi per la vicenda delle cosiddette spese pazze) ed europarlamentare uscente che qualche mese fa è passato da Forza Italia a Fratelli d’Italia. A Milano, il 12 aprile scorso, Maullu è stato il principale animatore di un convegno schieratissimo sin dal titolo: “Le armi: un valore da difendere, un comparto da supportare”. Il candidato alle prossime europee ha parlato della “crociata ideologica dei disarmisti di professione”, promettendo di continuare a battersi contro chi vuole impedire alla “gente per bene” di possedere un’arma. In effetti, Maullu è da tempo impegnato su questo fronte. Già nel settembre del 2016, mentre stava per entrare nella fase decisiva il dibattito sulla nuova direttiva europea, l’allora europarlamentare di Forza Italia fu l’unico politico italiano invitato a parlare in una sorta di convention organizzata a Bruxelles da Firearms United. L’incontro serviva a mobilitare gli eurodeputati contro le nuove regole proposte dalla Commissione. “La direttiva produrrà solo un aumento della burocrazia e finirà per danneggiare le aziende del settore”, disse all’epoca Maullu. Il quale adesso punta a riconquistare un seggio all’Europarlamento. Voglio difendere, ha annunciato via Facebook il candidato di Fratelli d’Italia, “i diritti di chi possiede un’arma anche per poter godere di un oggetto che fa parte di una filiera culturale, industriale e anche commerciale”. Filiera culturale, ha detto proprio così. La politica pistolera degli strateghi della paura di Luca Di Bartolomei L’Espresso, 23 aprile 2019 Matteo Salvini appare come il campione di un interesse abbastanza trasversale della nostra politica a soffiare sulla paura, amplificando l’emotività. Ma chiusi in casa con le dita sul grilletto, rischiamo che le vittime siano i nostri figli. La scorsa settimana, quando in centro a Milano è avvenuto un agguato di stampo mafioso a pochi giorni da un altro omicidio di camorra davanti a un asilo nel napoletano, il vicepremier e ministro dell’Interno ha sentito il dovere di rassicurare l’opinione pubblica dichiarando che i reati sono in calo da anni. Ammettere quello che numeri e forze dell’ordine certificano da tempo, e cioè che l’Italia non vive alcuna emergenza sicurezza, con tassi di omicidi, rapine e furti in costante calo, deve esser stato un piatto amaro da mandar giù per Salvini. Uno che ha sempre brandito l’arma della paura ai fini del consenso e continua a rilanciare ogni episodio criminale che possa risultare favorevole alla sua strategia. Eppure la paura che tanti nostri concittadini sentono avviluppata attorno alle loro vite non accenna a diminuire. Perché la percezione è come una slavina: quando parte è difficilissimo fermarla. Salvini infatti, coglie e alimenta uno stato di perenne angoscia che appare spiegabile solo alla luce di un senso profondo di precarietà che tramortisce le nostre vite (soprattutto sul piano economico-sociale) e dalla frustrazione delle legittime aspettative personali. E il ministro appare come il campione di un interesse abbastanza trasversale della nostra politica a soffiare sulla paura, amplificando l’emotività. Molto più di quanto sia interessata a rassicurare spiegando coi numeri e l’oggettività. In questi mesi di governo il piano per “sicurizzare e impaurire” (uno di quegli ossimori alla “chiagn’e fotti” italiani fino al midollo) ha costruito provvedimenti e leggi di cui pagheremo presto il pegno. La nuova legge sulla legittima difesa non va infatti valutata singolarmente ma pesata come parte di un processo di modificazione cultural-legislativo più ampio. Di questo percorso il primo passo è di agosto, con il recepimento malevolo della cosiddetta “direttiva armi”. Atto che ha prodotto un effetto opposto alle intenzioni del legislatore europeo allargando la possibilità di acquisto di armi (anche fucili da guerra) e cancellando l’obbligo di comunicazione al convivente. Segue la legittima difesa appunto, propagandata come una esigenza improrogabile per consentire al cittadino che si è difeso di non finire sotto al giudizio di un pm (cosa falsa in ogni caso) ma che lascia sgomenti quando si scopre che negli ultimi 5 anni i processi per eccesso di legittima sono stati solo 4 e la condanna una soltanto. Gli altri tasselli cui manca l’approvazione parlamentare, ma che già adesso giacciono come proposte nelle commissioni delle due camere, riguardano il raddoppio della potenza delle armi acquistabili senza bisogno del rilascio di alcuna autorizzazione per il cittadino (e vedrete che finirà come con lo spray al peperoncino) e l’ancora più grave proposta di legge per le modifiche al testo unico in materia di porto d’armi, dove si prevede la possibilità di ottenere questa concessione anche da parte di chi ha precedenti con la giustizia, come ad esempio in caso di furto o di resistenza all’autorità. Il perenne innalzamento dello scontro, a partire da quello verbale, la ricerca e la costruzione del diverso come nemico (migrante, rom, barbone) serve a distrarre l’opinione pubblica da quanto contribuisce a peggiorare la nostra quotidianità fatta di lavori difficili da trovare e da mantenere, di servizi di assistenza di cui si vorrebbe usufruire e che invece sono ridotti o cancellati. E tutto questo a fronte di un debito pubblico che galoppa ad un ritmo doppio rispetto al recente passato e un praticamente certo aumento della tassazione. E allora in mancanza d’altro val bene gridare contro l’arrivo di “migliaia di terroristi provenienti dalla Libia”, pronti per un nuovo nemico. Ma armati e chiusi in casa rischiamo - come dicono le statistiche - che le vittime più numerose finiscano per essere i nostri figli e le nostre compagne. L’invasione dei Trojan. I file “malevoli” amati dalle procure di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 aprile 2019 L’ultima “vittima” è stata l’ex governatrice umbra. L’ultima in ordine di tempo a incappare nel loro utilizzo a fine giudiziari è stata l’ormai ex presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini. L’inchiesta sulla sanità in regione e sui presunti scambi di favori per le nomine di persone amiche si regge principalmente su intercettazioni: telefoniche, ambientali e attraverso il cosiddetti Trojan horse. Questo strumento di indagine, che in gergo tecnico si definisce malware - un file “malevolo” che si installa in tutti i dispositivi mobili e che li trasforma in microspie portatili addosso all’indagato, di cui registrano audio, messaggi e fotografie. Si tratta di un file apparentemente innocuo, che finisce nella memoria del dispositivo mobile attraverso allegati mail o app gratuite, ma che funzione esattamente come l’oggetto di cui porta il nome: il cavallo di Troia. Una volta installato sul cellulare o sul pc, gli inquirenti hanno pieno accesso a tutti i dati contenuti e a tutto ciò che avviene, dalle chiamate ai messaggi, fino all’utilizzo della fotocamera. Nel caso della Marini, il Trojan era installato nel telefono del dirigente regionale Emilio Duca (oggi ai domiciliari) e ha prodotto diverse intercettazioni, diventando l’orecchio segreto della Procura di Perugia e della Guardia di Finanza nelle stanze della Asl e della Regione. Proprio per l’estrema invasività nella sfera della privacy dell’indagato, l’utilizzo del Trojan come strumento di indagine è stato più volte modificato da parte del legislatore, riducendone - o allargandone - la fattispecie di utilizzo. La riforma Orlando del 2017 permetteva l’utilizzo del malware limitatamente ai reati di mafia, terrorismo e criminalità organizzata. Questa previsione aveva reso inutilizzabili le intercettazioni attraverso Trojan di Alfredo Romeo, al centro del caso Consip: la Cassazione le aveva infatti ritenute disposte “senza una reale notizia di reato perché Romeo non era interessato dalle indagini di criminalità organizzata che si stavano compiendo”. Inoltre, la riforma Orlando aveva introdotto anche proceduralmente una serie di paletti. Innanzitutto, il decreto autorizzativo del giudice deve indicare le ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini; l’attivazione del microfono deve avvenire solo in conseguenza di apposito comando inviato da remoto e non con il solo inserimento del captatore informatico, nel rispetto dei limiti stabiliti nel decreto autorizzativo del giudice; l’attivazione del dispositivo è disposta nel domicilio soltanto in caso di svolgimento in corso di attività criminosa, (questo punto in particolare aveva provocato le reazioni della magistratura, che lamentava la complessità di tale requisito) e altri dettagli previsti dalla delega. Con l’approvazione della legge Spazza-corrotti da parte dell’attuale governo Conte, invece, l’impiego del Trojan è stato esteso anche alle indagini per reati contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore al massimo a 5 anni. Proprio per questa ragione, la guardia di finanza ha potuto per la prima volta piazzare questa “cimice” ipertecnologica nel cellulare di un funzionario regionale. Inoltre, la Spazza-corrotti ha abrogato anche alcuni dei paletti fissati all’utilizzo: in particolare, ha abrogato la norma che impediva l’uso dei Trojan “quando non vi è motivo di ritenere che ivi sia stia svolgendo l’attività criminosa”. Dunque - almeno potenzialmente - ne ha allargato l’utilizzo anche a tutte le fasi temporalmente precedenti, non fissando più un requisito almeno indiziario per “l’accensione” del Trojan. Non solo, anche dal punto di vista della motivazione all’utilizzo, la norma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede non rende più necessaria, nel decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico, l’indicazione da parte del Pm delle ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini. Lo strumento si presta non solo ad usi di giustizia, ma anche ad abusi. Il caso recente più noto di installazione all’insaputa di privati cittadini di un Trojan sui loro dispositivi mobili è stato lo scandalo “Exodus”, risalente allo scorso marzo: secondo le rivelazioni fatte da Security Wthout Borders - organizzazione no- profit attiva sui diritti digitali - in Italia è stato diffuso su ampia scala un trojan che si installava sui cellulari attraverso gli Store di applicazioni. Il virus, creato da una casa di sviluppo calabrese e in dotazione alle forze dell’ordine, avrebbe raccolto per oltre due anni i dati personali di circa un migliaio di persone. Difficile valutare se si sia trattato di un errore da parte della casa di produzione che detiene i server oppure di un tentativo di “valutare” il grado di sicurezza delle piattaforme come Google Play, da cui l’app Exodus è stata scaricata da cittadini ignari di cosa stava finendo nella memoria del loro cellulare. Attualmente le piattaforme web hanno eliminato la app dalla possibilità di venire scaricata e di “infettare” i terminali e la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta a carico dell’azienda E-Surv. Tuttavia, il fenomeno e la diffusione di questo tipo di prassi solleva in tutta la sua complessità la questione del diritto alla privacy e della sicurezza informatica. Guida e alcool: l’aggravante scatta dopo qualsiasi incidente che provoca pericolo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2019 Cassazione -Sezione IV penale - Sentenza 14 febbraio 2019 n. 7033. In tema di guida sotto l’influenza dell’alcool, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dal comma 2-bis dell’articolo 186 del codice della strada, nella nozione di “incidente stradale” deve intendersi ricompreso qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli. Lo chiarisce la Cassazione penale con la sentenza 7033/2019. I giudici della quarta sezione spiegano che a tal fine non sono richiesti né i danni alle persone né i danni alle cose, con la conseguenza che è sufficiente qualsiasi, purché significativa, turbativa del traffico potenzialmente idonea a determinare danni. Con la precisazione, comunque, che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, è necessario anche che sia accertato un coefficiente causale della condotta della conducente rispetto al sinistro (ciò che nella specie è stato ritenuto, a carico di un imputato che, a bordo della sua autovettura, risultava avere omesso di dare la precedenza a un veicolo proveniente dalla sua destra e aveva urtato contro di esso terminando, poi, la corsa contro un tronco di un albero). La giurisprudenza è nel senso che, in tema di guida sotto l’influenza dell’alcool, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, nella nozione di “incidente stradale” deve intendersi ricompreso qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli; a tal fine non sono richiesti né i danni alle persone né i danni alle cose, con la conseguenza che è sufficiente qualsiasi, purché significativa, turbativa del traffico potenzialmente idonea a determinare danni (di recente, sez. IV, 10 gennaio 2019, Cozzula). Qui, la Corte precisa, comunque, che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, è necessario anche che sia accertato un coefficiente causale della condotta della conducente rispetto al sinistro (in termini, sez. IV, 8 giugno 2016, Minese, dove si è precisato che nella nozione di “incidente stradale” rientra non soltanto lo scontro tra veicoli o tra veicoli e persone, ma anche l’urto di un veicolo contro ostacoli fissi ovvero la fuoriuscita del veicolo dalla sede stradale, dal momento che si tratta comunque di una maggiore pericolosità della condotta di guida, punita più gravemente a prescindere dall’evento che si è verificato effettivamente, che può avere o meno coinvolto altri veicoli o persone). Più in generale, sulla problematica della configurabilità della violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, ai fini della sussistenza dei reati aggravati di omicidio colposo e di lesioni colpose, si afferma che a tal fine rilevano anche le norme di comportamento “aperte” previste dal codice della strada (quali, ad esempio, l’articolo 140, dedicato al principio informatore della circolazione, l’articolo 141, relativo alla velocità, e l’articolo 143, avente a oggetto la posizione da tenere sulla carreggiata), e non solo le norme di comportamento a contenuto chiuso, imposte in loco da apposita segnaletica o da cogente indicazione degli agenti del traffico (sez. IV, 7 marzo 2013, Attanasio, che, da queste premesse, ha ritenuto correttamente contestato il reato aggravato di cui all’articolo 589, comma 2, del Cp, in una vicenda in cui all’imputato era stato contestato di non avere adeguato la velocità alle condizioni della strada e di non avere mantenuto rigorosamente la destra). Bancarotta, il Gup che decide il fallimento non è ricusabile Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17180/2019. Per ricusare il giudice dell’udienza preliminare relativa a reati di bancarotta fraudolenta non basta che sia lo stesso magistrato che ha concorso a deliberare il fallimento dell’impresa. Né é una giusta causa il suo ruolo di relatore nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di insolvenza proposta dall’imputato, se in tali pronunce non ha fatto valutazioni di merito sui fatti addebitati. La Cassazione (sentenza 17180) applica un principio utile a respingere un’istanza di ricusazione per incompatibilità nei confronti del giudice chiamato a presiedere il collegio del Tribunale che doveva decidere sulle imputazioni di bancarotta e truffa aggravata a carico dei ricorrenti. Ad avviso della difesa, la toga doveva fare un passo indietro perché aveva rivestito il ruolo di presidente del collegio civile sull’opposizione allo stato passivo proposta da uno dei ricorrenti e l’aveva rigettata dichiarando l’inammissibilità della domanda riconvenzionale. A rendere ancora più inopportuna la presenza del magistrato c’era anche la circostanza che questo si era avvalso della consulenza tecnica della pubblica accusa. La Suprema corte nega però l’incompatibilità e lo fa mettendosi sulla scia di quanto affermato dalla Consulta con la sentenza 283/2000. I giudici delle leggi avevano affermato l’incostituzionalità della norma del Codice di rito penale (articolo 37, comma 1) per la parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che deve decidere sulla responsabilità dell’imputato, se ha espresso in un altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto. Per la Cassazione non è questo il caso. Nell’ordinanza di rigetto dell’opposizione allo stato passivo si era fatto cenno al delitto di bancarotta, ma solo per ricordare l’annullabilità dei negozi stipulati in frode ai creditori e dunque senza entrare nel merito e decidendo su fatti diversi. Per la stessa ragione non c’è pregiudizio per l’uso della consulenza tecnica. Frazionabilità della dichiarazione della fonte testimoniale o del chiamante in correità Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2019 Prova penale - Parte offesa - Dichiarazione - Valutazione - Frazionabilità - Legittimità - Condizioni. Deve ritenersi legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, in quanto un eventuale giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non necessariamente inficia la credibilità delle altre parti del racconto, non essendo in tale ipotesi sempre e necessariamente ravvisabile un’interferenza fattuale e logica tra le varie parti del resoconto narrativo, unica a poter condizionare e pregiudicare l’intera attendibilità della fonte. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 aprile 2019 n. 15283. Prove - Mezzi di prova - Testimonianza - Oggetto e limiti - Persona offesa - Dichiarazioni della persona offesa relative a una pluralità di reati - Valutazione frazionata - Condizioni. In tema di valutazione dell’attendibilità della persona offesa costituita parte civile, le cui dichiarazioni possono essere poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, è richiesto un vaglio particolarmente rigoroso nel caso in cui una parte del narrato, riferita ad alcuni fatti, sia ritenuta inattendibile, e deve ritenersi illegittima la valutazione frazionata di tali dichiarazioni ove la parte ritenuta inattendibile sia imprescindibile antecedente logico dell’altra parte. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 17 maggio 2018 n. 21886. Prova penale - Chiamata di correo - Valutazione - Frazionabilità della dichiarazione - Condizioni e limiti (Cpp, articolo 192). In tema di valutazione della chiamata in correità, vale il principio di “frazionabilità” delle dichiarazioni accusatorie rese dalla stessa persona, nel senso che l’esclusione dell’attendibilità di una parte del racconto non implica di per sé un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti del medesimo racconto che risultino intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, ma ciò a condizione, da un lato, che non sussista interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa (o comunque inattendibile) e le rimanenti parti del racconto, e, dall’altro, che l’inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante. Per l’effetto, l’applicazione del principio della valutazione “frazionata” esige la puntuale spiegazione, da parte del giudice di merito, delle ragioni (rappresentate, per esempio, dalla complessità dei fatti, dal tempo trascorso dal loro accadimento, dalla volontà del dichiarante di non coinvolgere nel reato un prossimo congiunto o una persona a lui legata da vincoli affettivi o amicali) per le quali la parte della narrazione che è risultata smentita non è idonea a inficiare il giudizio positivo sulla credibilità soggettiva del dichiarante, che costituisce il primo e fondamentale momento valutativo della affidabilità della fonte di prova. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 23 aprile 2018 n. 18018. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - In genere - Mezzi di prova - Testimonianza della persona offesa - Valutazione frazionata delle dichiarazioni - Ammissibilità - Presupposti. In tema di reati sessuali, è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa quando queste siano riferibili ad una molteplicità e diversità di episodi succedutesi nel tempo, soprattutto se con cadenze cronologiche non recenti, in quanto un eventuale giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non necessariamente inficia la credibilità delle altre parti del racconto, non essendo sempre e necessariamente ravvisabile, in tale ipotesi, un’interferenza fattuale e logica tra le parti del discorso. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 giugno 2018 n. 24979. Prove - Chiamata di correo - Attendibilità della dichiarazione accusatoria - Valutazione frazionata - Ammissibilità - Condizioni. In tema di chiamata di correo, l’esclusione dell’attendibilità per una parte del racconto non implica, per il principio della cosiddetta “frazionabilità” della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, a condizione che: non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti; l’inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante; sia data una spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita - per esempio, con riferimento alla complessità dei fatti, al tempo trascorso dal loro accadimento o alla scelta di non coinvolgere un prossimo congiunto o una persona a lui cara - in modo che possa, comunque, formularsi un giudizio positivo sull’attendibilità soggettiva del dichiarante. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 19 maggio 2017 n. 25266. Prove - Mezzi di prova - Testimonianza - Oggetto e limiti - Persona offesa - Valutazione frazionata delle dichiarazioni - Legittimità - Condizioni. È legittima la valutazione segmentata delle dichiarazioni della parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 14 maggio 2014 n. 20037. Toscana: quelle isole divise tra turisti e detenuti di Antonio Fulvi La Nazione, 23 aprile 2019 L’arcipelago toscano e la sua vocazione carceraria: tracce del passato e prospettive. “Hanno tutte una loro voce, le nostre isole. Che va dal pianto notturno delle diomedee in primavera al canto schioccante delle balene, quel canto d’amore che si può a volte ascoltare ponendo l’orecchio sugli scogli”. C’è tanta poesia in quello che sussurrava Beppone Di Meglio, antico pescatore ponzese trapiantato in Capraia. Beppone non c’è più da anni. Ma le diomedee, cioè le berte, continuano a piangere nelle notti di primavera. E il passaggio delle balene tra Capraia, Gorgona e capo Corso è accompagnato dai loro canti. Dicono i biologi che il canto degli odontoceti, ovvero dei capodogli, ha un suono breve e a schiocchi, mentre quello dei misticeti, balene del nostro Tirreno, nella stagione riproduttiva ha modulazioni che possono durare anche più di un’ora e mezzo. I richiami d’amore dei cari mostri del mare. Berte e balene, esempi della vita delle nostre isole del Tirreno, lontane a volte più di Marte. Ignorate dai più che sbarcano col telefonino all’orecchio e al massimo si inebriano dei profumi di mirto, rosmarino e nipitella. Perché pochi capiscono quanta vita naturale sia a rischio nelle nostre isole. E quanto le trasformazioni degli ultimi vent’anni ci hanno fatto perdere, malgrado le tante promesse. Possiamo partire dalla Gorgona, perché in questa primavera è nel mirino con tante iniziative. È rimasta l’unica colonia penale agricola d’Italia, a meno di mezz’ora di gommone dal porto di Livorno ospita una novantina di detenuti e quasi altrettanti agenti di custodia; ha una dozzina di residenti veri, tra cui la nonnina Luisa Citti, 93 anni e tanta vitalità. Regione e Comune di Livorno hanno concordato un piano di fruizione turistica con due corse a settimana del traghetto veloce “La superba”, sabato e lunedì. Bella iniziativa, specie per gli agenti che spesso sono più “in gabbia” dei detenuti. Ma il dito nella piaga l’ha messo il tutore dei detenuti, Giovanni De Peppo. Nominato nel 2018 dal sindaco Nogarin, ha presentato una relazione che non lascia dubbi: Gorgona costa troppo allo Stato, ciascun detenuto costa tre volte e mezzo rispetto a un “collega” del carcere livornese delle Sughere, l’allevamento degli animali non rende. E la difesa ambientale fa acqua: depuratore alimentato a gasolio, energia elettrica lo stesso, poche motovedette con motori obsoleti, l’esperimento di un campo di pannelli solari fallito. Il prelibato vino prodotto da Frescobaldi col lavoro anche dei detenuti è una goccia nel mare. Soluzioni? Il parco dell’Arcipelago fa quello che può ma non è una fonte di reddito. Il nuovo direttore, Carlo Mazzerbo, ha idee ma poche risorse. De Peppo teme che la colonia penale venga chiusa. Sembra incredibile, ma se i naturalisti esulterebbero da tale soluzione, gli esperti la temono. Ci sono esempi che danno loro ragione: Pianosa e Capraia i principali. L’isola ex carcere a sud dell’Elba è rimasta abbandonata dai detenuti, salvo cooperative di servizio alle gite, ma anche dallo Stato. È tutelata dall’ente parco arcipelago, regole rigide ma nessuna vera valorizzazione turistica. Dicono che nella stagione estiva sia infestata dalle zecche. Eppure ha valori culturali enormi, come le catacombe romane, un micro-porto spettacolare e le diramazioni intatte. Senza più detenuti, resta un’isola “in gabbia”. Capraia va ancora peggio: da 20 anni l’ex colonia è in sfacelo, le proposte di valorizzazione ferme, alcuni insediamenti sono stati concessi a attività artigianali minimali, con l’eccezione del vino che diventa un business con il nome di “Palmento” (vasche nella roccia dove spremevano l’uva i monaci). L’isola vive di turismo estivo, ma in molti rimpiangono la colonia. Il che è brutto segno. Cagliari: Sdr; detenuto da 18 giorni in rianimazione dopo inalazione gas cagliaripad.it, 23 aprile 2019 “Per gli operatori sanitari della Casa Circondariale di Cagliari B.B. aveva cessato di vivere alle prime luci dell’alba dello scorso 5 aprile quando in condizioni disperate era stato trasportato con l’ambulanza del 118 al Pronto Soccorso dell’ospedale “SS. Trinità”. In realtà c’è stata una sorprendente risposta dalla tempra del giovane ucraino e da 18 giorni si trova nel Reparto di Rianimazione in coma”. Lo precisa Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, dopo un colloquio con l’avv. Alessandra Boi, legale di B.B. “ Per una carente informazione tra i Sanitari delle due strutture si è creato un equivoco sul decesso e la conseguente donazione degli organi.Carce “Alla buona notizia per la sopravvivenza del giovane ucraino si aggiunge però - sottolinea la presidente di Sdr - quella della cattiva gestione delle comunicazioni tra carcere e ospedale. Il paziente infatti risulta ormai in stato di libertà e quindi non più dipendente dalla Casa Circondariale. I Sanitari quindi non hanno più avuto notizie ma non hanno neppure dialogato con loro quelli del Nosocomio impegnati quotidianamente nel delicato compito di assistenza. Insomma si è creato un cortocircuito probabilmente dovuto alla mole di lavoro dei Sanitari e forse anche al fatto che talvolta la solerzia nel voler archiviare situazioni complesse e dolorose nonché all’apparenza incontrovertibili, impedisce, com’è accaduto, di effettuare un approfondimento sul destino di una persona, che probabilmente avrebbe avuto necessità - conclude Caligaris - di un ascolto più costante e puntuale considerata anche la difficoltà ad esprimersi in un italiano compiuto. L’auspicio è che le Istituzioni dialoghiamo tra loro anche per garantire una informazione corretta”. Viterbo: i Radicali tra i tanti detenuti con problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2019 Visita a Pasquetta di Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Giovanni Zezza. Nel carcere di Viterbo, da anni al centro delle cronache a causa dei suicidi sospetti e presunti pestaggi, c’è un fortissimo disagio per la presenza di numerosi detenuti con problemi psichiatrici, molto spesso avendo come compagni di cella persone con altrettanti problemi come la tossicodipendenza. Situazioni che mettono in difficoltà gli stessi agenti penitenziari a causa anche dei pochissimi operatori sanitari qualificati. Ma non solo. C’è anche la sezione del 41bis dove non mancano detenuti con forti disagi psichici, di cui uno - quando era recluso al carcere duro de L’Aquila - era stato raggiunto da un Tso e punito al 14bis (regime di sorveglianza particolare) che, combinato con il 41bis, diventa un regime ancora più duro. Sempre lo stesso detenuto, nel carcere precedente, era stato anche ammanettato per 3 mesi durante l’ora d’aria. A questo si aggiunge il problema della mancata uniformità delle regole, quindi ad esempio accade che un detenuto al 41bis della stessa sezione ha la possibilità di poter fare le due ore d’aria senza essere sottratta l’ora per la socialità, mentre un altro no. Questo è altro ancora è stato riscontrato ieri, nella giornata di Pasquetta, da Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, tutti della Presidenza del Partito Radicale, che insieme al giovane militante Giovanni Zezza hanno potuto svolgere una visita di 4 ore e mezza. “Per prima cosa - spiega Rita Bernardini a Il Dubbio - voglio ringraziare il Dap che ci ha dato la possibilità di poter visitare la sezione del 41bis, cosa non scontata visto che sono due anni che l’amministrazione ce lo vietava, e voglio sottolineare l’ottima collaborazione da parte degli agenti penitenziari, in primis il comandante Daniele Bologna e l’ispettore Antonio Cinquegrana”. Rita Bernardini spiega innanzitutto che il sovraffollamento è palpabile, 581 sono i detenuti su 432 posti regolamentari ai quali però vanno sottratte 50 celle in via di ristrutturazione. “Il problema più grande - continua l’esponente radicale - è la fortissima presenza dei detenuti con problemi mentali senza essere seguiti dagli psichiatri e non mancano detenuti osservati a vista perché con istinti suicidari, ma è difficile mantenere un controllo costante visto che a volte accade che c’è un solo agente penitenziario durante il turno”. Altro problema riscontrato è la mancanza di lavoro. “Nonostante la promessa del governo che ne ha fatto una questione cruciale - spiega sempre Rita Bernardini - il lavoro è scarso, visto che su 581 detenuti solo 120 sono occupati”. Aggiunge anche un altro dettaglio: “Sui 120 lavoratori totali, soltanto 25 svolgono un lavoro qualificante che gli potrà essere utile in futuro”. E a proposito del futuro, quindi della speranza, c’è il problema dei detenuti al 41bis che si ritrovano in un regime duro, con trattamenti diversi nonostante la circolare del 2017 che avrebbe dovuto, appunto, uniformare l’applicazione. L’esponente del partito radicale Elisabetta Zamparutti, che è anche componente del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura recentemente giunto a fare una visita ad hoc proprio al carcere di Viterbo, elenca a Il Dubbio le criticità del 41bis constatate al carcere di Viterbo. “Ci sono detenuti spiega Elisabetta Zamparutti - che riescono a farsi riconoscere dei diritti dai tribunali, come ad esempio avere il via libera per poter vedere la tv anche dopo la mezzanotte, mentre ad altri questo diritto non viene riconosciuto”. L’esponente del Partito Radicale aggiunge anche che ciò crea problemi anche agli agenti penitenziari, i quali si ritrovano a gestire i 47 detenuti (il numero di chi è al 41bis) con regole diverse l’uno con l’altro. “Abbiamo potuto notare che anche al 41bis ci sono persone in condizioni di patologie psichiche e fisiche gravi - continua sempre Zamparutti - come un detenuto in sedia a rotelle, abbandonato a se stesso, malato e incontinente”. Non mancano anche altri dettagli, ma non insignificanti. Al carcere di Viterbo, l’ambiente per fare i colloqui, divisi da un vetro, è strettissimo e quindi accade che un bambino (sotto i 12 anni i colloqui possono avvenire senza vetro divisorio) si ritrova in una situazione soffocante visto che dall’altra parte del vetro lo spazio è di un metro e mezzo. “Inevitabilmente - denuncia ancora Zamparutti - i bambini vivono un trauma e scoppiano a piangere, visto che si ritrovano di fatto in una minuscola gabbia per poter abbracciare il padre”. Sempre al 41bis la luce è molto debole. Piccoli problemi che però, sommati l’uno con l’altro, rendono durissimo il regime del 41bis, mentre al livello teorico dovrebbe avere solo una funzione: quello di evitare i contatti con l’esterno. A tal proposito, come detto, recentemente ha fatto visita comitato europeo per la prevenzione sulla tortura. Forse il rapporto sarà pubblico a novembre. “Occorre ricordare - spiega Zamparutti - che in Italia, a differenza di altri Paesi, non esiste la pubblicazione automatica dei Rapporti: pertanto, ci dovrà essere un’autorizzazione governativa perché si proceda alla pubblicazione del Rapporto”. E forse sarebbe ora che anche noi ci adeguassimo, in nome proprio della trasparenza. Milano: “Ri-genera”; i detenuti del carcere di Bollate riparano le macchine da caffè di Michela Becchi gamberorosso.it, 23 aprile 2019 Un progetto per aiutare i detenuti e insegnare loro un nuovo mestiere da spendere una volta usciti dal carcere, che si occupa anche di rimettere a nuovo vecchie macchine da caffè ormai rovinate. Tutto su Ri-genera. Ri-genera, perché rimette in circolo vecchie macchine espresso (qui la storia delle aziende italiane) destinate alla demolizione, ma anche perché restituisce dignità e valore a chi ha ormai perso le speranze. Si chiama così il progetto giunto ormai al terzo anno di vita della cooperativa sociale bee.4, onlus senza scopo di lucro che si impegna a sostenere le persone più svantaggiate, detenuti in primis. Quelli del carcere di Bollate, Milano, che da tre anni a questa parte hanno ricominciato lavorare, imparare un mestiere, tenersi occupati durante le giornate, acquisendo nuove conoscenze (così come tanti altri in Italia, grazie ai progetti solidali nelle carceri italiane). L’associazione - Nell’associazione, 120 dipendenti in tutto, di cui 90 carcerati: “Abbiamo iniziato a lavorare con Lavazza, Vergnano, realtà solide che ancora oggi ci accompagnano in questo progetto”, spiega Pino Cantatore, uno dei soci fondatori e direttore della cooperativa. “In principio erano solo macchine da caffè a capsula Ocs, poi siamo passati alle macchine espresso”. Dalla Corte e il reinserimento sociale dei detenuti - Ad aiutarli, un nome di riferimento nel settore: Dalla Corte, fondata nel 2001 da Bruno e Paolo Dalla Corte a Baranzate, che insieme a bee.4 ha creato il progetto Second Chance (seconda possibilità): “Una seconda possibilità per le macchine, quelle vecchie ormai in fase di demolizione, riabilitate dai detenuti, che a loro volta hanno una seconda chance di vita”. Come funziona - Quindi, i macchinari ormai andati vengono rilevati e messi in sesto dai carcerati, per essere poi rimessi sul mercato a un prezzo inferiore, più abbordabile anche per i baristi che non possono permettersi di spendere grandi cifre. “Oltre alle macchine espresso, lavoriamo anche con dei gruppi di vending, per cui ripariamo e rigeneriamo i distributori automatici”. Bee.4 - Una realtà che si occupa anche di altre attività, come il servizio clienti, il call center, sempre con un occhio di riguardo verso i diritti dei lavoratori, “tutti i nostri dipendenti sono assunti con contratto nazionale, tredicesima e ferie”. Ma è con le macchine da caffè che lavorano i detenuti, “in questo modo, possono crearsi una professionalità spendibile anche una volta usciti dal carcere”. L’officina - Per farlo, è stata allestita un’officina di oltre 400 metri quadri, si lavora insieme a una squadra di professionisti. “Escono dal carcere la mattina per svolgere l’attività e rientrano la sera. L’obiettivo futuro è far inserire i carcerati anche nelle sedi delle aziende di macchinari, legge permettendo”. Progetti futuri - Attualmente, la cooperativa sta anche lavorando a un altro spazio attiguo all’officina, “con cabina per la verniciatura, il lavaggio e gli ultrasuoni, per poter coinvolgere altri operatori”. L’obiettivo - Insomma, un progetto che aiuta i meno fortunati, ma che offre anche un sistema di economia circolare, che rimette a nuovo ciò che era destinato a essere distrutto, con conseguenti danni per l’ambiente e spreco di nuove risorse. Piacenza: la cooperativa L’Orto Botanico e la coltivazione di fragole in carcere Piacenzasera.it, 23 aprile 2019 Che sapore ha la dignità? Forse quello zuccherino e fresco delle fragole appena colte, frutto simbolo della primavera, stagione delle nuove opportunità. È proprio questo l’obiettivo del progetto Ex Novo, promosso dalla cooperativa sociale L’Orto Botanico, all’interno della Casa circondariale delle Novate di Piacenza. Dal 2016 la cooperativa ha avviato dei percorsi di lavoro all’interno del carcere, come la coltivazione di fragole e ortaggi, la produzione di miele e un laboratorio di falegnameria e restauro. Piccole attività, che hanno visto coinvolti detenuti scelti dalla direzione penitenziaria, con piccole produzioni, consumate direttamente dagli ospiti delle Novate. Il progetto ora, però, verrà esteso e ampliato, coinvolgendo un numero maggiore di detenuti, che potranno così imparare un mestiere, percepire uno stipendio e iniziare un percorso di cambiamento e riabilitazione. “Nel 2018 abbiamo deciso di rendere le attività già avviate più solide e in grado di sostenersi economicamente - spiega Consuelo Sartori de L’Orto Botanico. Tra i progetti che abbiamo deciso di ampliare c’è quello della coltivazione di fragole, scelto perché richiede un grande fabbisogno di manodopera, coinvolgendo quindi un maggior numero di detenuti. Non solo, si tratta infatti di un ritorno al passato dell’agricoltura piacentina: una volta questa coltivazione era molto diffusa, per essere poi soppiantata nel corso degli anni da altre produzioni a maggior rendimento. Per questo tipo di attività ci siamo avvalsi della collaborazione della facoltà di Agraria dell’università Cattolica e di quella della ditta Geoponica”. Due le tipologie di fragole coltivate, Clery unifera e Murano rifiorenti, sia in serra che in pieno campo. La produzione stimata, per quest’anno, è di 35 quintali. I detenuti saranno quindi coinvolti nella fase successiva di preparazione e confezionamento delle vaschette, che saranno distribuite in alcuni punti di vendita della città nelle prossime settimane. Ma accanto al progetto “fragole”, prenderanno nuovo slancio anche quello dell’orto, della produzione di miele e il laboratorio di falegnameria. “L’idea è quella di realizzare delle cassette con prodotti di stagione e metterle in vendita. Le cassette stesse e i contenitori dei vasetti di miele saranno realizzati dai partecipanti al laboratorio di falegnameria. Tutte le produzioni realizzate in carcere avranno lo stesso logo Ex Novo, con colori diversi: rosso per le fragole, giallo per il miele, verde per gli ortaggi e marrone per la falegnameria” - continua ancora Sartori - La cosa per noi importante, essendo una cooperativa sociale, non è il lucro ma il poter agevolare l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Con Ex Novo - sottolinea Sartori - consentiamo alle persone detenute di imparare un mestiere, di percepire una retribuzione quando si trovano ancora all’interno del carcere, cosa importantissima perché consente loro di dare un piccolo aiuto ai familiari, dà loro dignità. Forse per Piacenza progetti come questo possono rappresentare una novità, ma in altre realtà in cui sono stati attivati si sono dimostrati il migliore strumento per abbattere il tasso di recidiva del 10%, perché consentono di acquisire competenze necessarie per trovare un lavoro”. Una scommessa in cui ha creduto anche Fondazione Cattolica Assicurazioni, con un contributo di 25mila euro che saranno utilizzati per l’acquisto di nuove serre e per far crescere le capacità produttive di “Ex Novo”. Napoli: Marino Massimo De Caro “tutto come prima, nessuno si interessa dei Girolamini” di Giancarlo Tommasone stylo24.it, 23 aprile 2019 Stylo24 ha intervistato l’ex direttore della biblioteca, condannato per il sacco dei libri rari: la vera umanità l’ho trovata a Poggioreale. Ai compagni di cella consigliavo cosa leggere. “Sacco” della Biblioteca dei Girolamini di Napoli, tra carcere e domiciliari, Marino Massimo De Caro (ex direttore del complesso), arrestato nel 2012, ha scontato un lungo periodo di detenzione (terminata in anticipo per buona condotta); sabato scorso ha finito di pagare il suo debito con la giustizia. Stylo24 ha ascoltato il 46enne originario di Orvieto e pubblica in esclusiva, la sua prima intervista, da quando è tornato in libertà. Come ha vissuto durante questo periodo di reclusione? “Partiamo dalla detenzione a Poggioreale, dove ho trascorso sei mesi. Dopodiché sono stato trasferito a Rebibbia, dove durante il periodo di custodia cautelare, ho vissuto per otto mesi, senza ragione, in una cella punitiva di isolamento. Praticamente ero al 41bis. Anche perché l’ora d’aria la trascorrevo in quella che veniva detta la ‘gabbia delle gallinè, un cubo di cemento con una grata sopra e una grata che fungeva da porta di ingresso. Non potevo vedere né parlare con nessuno”. Come veniva giustificato tale tipo di detenzione? “Mi era stato detto che non c’era posto in carcere. Nel frattempo però ho vissuto in tali condizioni per otto mesi, mentre il massimo di permanenza in celle di punizione, consentito dalla legge, è di due settimane. Tra l’altro i colloqui con mio padre si svolgevano attraverso un vetro di separazione. Quindi nei fatti ero al carcere duro”. E poi cosa è successo? “A maggio del 2013 c’è stata, a Rebibbia, la visita di un gruppo di parlamentari; la delegazione che mi ha trovato in quelle condizioni, è andata a protestare con il direttore del carcere. E guarda caso, il giorno dopo sono stato trasferito nella sezione insieme agli altri detenuti”. Quanti anni ha passato in carcere? Come era il rapporto con gli altri reclusi? “In totale, ho trascorso in carcere, due anni. Posso dire che l’esperienza vissuta a Poggioreale è stata incredibile. È lì che ho scoperto la vera umanità. Nella tragedia del momento, ho trovato persone che non mi conoscevano e che mi hanno accolto, sono state gentilissime e mi hanno trattato come un fratello. Tant’è che con alcuni detenuti continuo ad essere in corrispondenza. La vera solidarietà, ribadisco, l’ho conosciuta nel carcere di Poggioreale, è lì che ho avuto il cosiddetto ‘aiuto nel momento del bisogno’, che è poi quello necessario per andare avanti nei momenti più difficili della vita”. In carcere le venivano chiesti consigli su libri da leggere? Se sì, quali volumi ha indicato ai suoi compagni? “Sì c’erano tantissime persone che mi chiedevano consigli sulla lettura. Molti detenuti non avevano mai aperto un libero. Mi ricordo di aver consigliato “La fattoria degli animali” di George Orwell, e “Le favole al telefono” di Gianni Rodari”. Parliamo del periodo trascorso ai domiciliari. “Sono stato trasferito ai domiciliari per motivi di salute; comunque si vive una specie di paradosso. In pratica ti sembra di essere libero rispetto al carcere, ma non è così. Capita, come è successo nel mio caso, che ci sono prescrizioni tali che rischi di non poter partecipare nemmeno alle esequie di un tuo congiunto. Io ho rischiato di non poter andare al funerale di mio padre perché non mi si voleva autorizzare, e quando finalmente, mi è stato dato il via libera, ho avuto i minuti contati. Sono dovuto andare via prima che mio padre venisse seppellito, altrimenti avrei sforato con le ore di permesso concessemi”. Cosa farà adesso, ha già dei progetti? “Quella di Poggioreale è stata una esperienza che mi ha completamente arricchito e dunque, ho deciso di ripartire dal carcere. Nella mia seconda vita vorrei essere impegnato con dei progetti di volontariato rivolti ai detenuti, proprio attraverso dei laboratori di lettura. Io non voglio dimenticare la mia esperienza di recluso, è l’impegno che ho preso con me stesso e con gli ‘ultimi’ che ho conosciuto in carcere”. Come vede oggi la situazione dei Girolamini? “Noto le stesse cose, le stesse dinamiche che hanno portato alla scelta che ho fatto io di prendere dei volumi e venderli, per salvare il complesso. Con la mia vicenda tutti hanno detto che i Girolamini erano importanti, erano al centro dell’attenzione, però fino al giorno prima che emergesse il mio caso, della biblioteca non interessava a nessuno. E oggi vedo lo stesso disinteresse che c’era prima che l’attenzione fosse focalizzata attorno alla mia vicenda. Tutti, o quasi tutti, parlano dei Girolamini, ma poi nessuno ci mette l’interesse e l’impegno necessari per far trovare pace al complesso. Naturalmente trovare pace non significa ricavare nella struttura, una caffetteria, un bar o un ristorante. Come pure, mi sembra si evinca dal progetto della Sovrintendenza”. Treviso: il volontario in carcere “quando entro lì dentro mi sento detenuto anch’io” iene.mediaset.it, 23 aprile 2019 La lettere di un volontario nel carcere minorile di Treviso: “Sconfiggete paure e pregiudizi, lasciatevi trasportare dal fascino dell’ignoto” Care Iene, Mi chiamo Yahya, ho 19 anni e sono un ragazzo di origine marocchina. Vivo a Treviso, dove da circa sei mesi ho iniziato un percorso di volontariato all’interno dell’Istituto penale minorile di Santa Bona. Quando varco il cancello della struttura penitenziaria, improvvisamente anch’io mi sento un carcerato. Mi immedesimo nelle vite dei detenuti. Fisso le sbarre delle finestre come se fossi “in gabbia” da anni, con lo sguardo perso nel vuoto. Piango interiormente come se i miei genitori fossero a casa e si stessero chiedendo: “Dove abbiamo sbagliato? Perché nostro figlio ha commesso un reato?”. Ricordo come fosse ieri il primo giorno dentro il carcere minorile. Una terrificante angoscia mi divorava lo stomaco. Prima di attraversare le mura del carcere, credevo che avrei incontrato giovani detenuti con indosso tute arancioni con i numeri seriali incisi sopra stile Prison Break. Credevo che sarei uscito senza una gamba dall’edificio. Credevo che mi avrebbero puntato il dito senza motivo. Credevo che avrei incrociato agenti spietati con il manganello in mano. E invece, con mia grande sorpresa, ho visto agenti penitenziari che operano in borghese e si rapportano con i detenuti in modo amichevole, quasi familiare. Nella mia ignoranza, tutto ciò che credevo allora si è rivelato sbagliato. Sono passati circa sei mesi dal primo giorno in cui sono entrato nel carcere come volontario e oggi posso dire che il regalo più grande che questi detenuti potessero farmi è stato aprirmi le porte del loro burrascoso passato, riponendo fiducia nei miei confronti. Tre sono i detenuti con cui ho più confidenza. Alle loro spalle hanno condanne molto pesanti. È grazie a loro se non ho abbandonato il percorso di volontariato. Abbiamo imparato a conoscerci mettendo da parte i pregiudizi. Per questo, voglio parlarvi un po’ di loro: A. è un appassionato di tennis, ha vinto numerosi e prestigiosi trofei. Il suo progetto per il futuro è trovare un lavoro che gli permetta di vivere degnamente assieme alla fidanzata. L’ultima volta, prima di salutarci, mi ha promesso che comincerà a partecipare ai corsi di cucina organizzati nella struttura penitenziaria. An. è un’enciclopedia vivente, nel vero senso della parola! Parlare con lui è stimolante. I suoi discorsi ti aprono la mente. Il suo obiettivo è continuare gli studi e, in un futuro possibilmente non troppo lontano, aprire un’impresa nel settore turistico. Lui desidera semplicemente che i suoi genitori stiano bene, il suo più grande obiettivo è prendersi cura di loro. L. all’apparenza è un ragazzo freddo, senza emozioni. Ma è solo una maschera. Tra una chiacchierata e l’altra, ho capito quanto sia intelligente e protettivo nei confronti delle persone a cui vuole bene. È di origine albanese, io marocchina. Così molte volte spendiamo il tempo a disposizione per imparare l’uno la lingua dell’altro. La maggior parte dei giovani detenuti ambisce al riscatto. Tentano di voltare pagina, di dimostrare quanto valgano. Nel carcere minorile mi sono accorto di quanto la musica colmi il vuoto di queste persone, aiutandoli a vagare, almeno con la mente, dimenticando dove si trovano. Ascoltano soprattutto musica rap, anche tutto il giorno, con l’mp3 in mano. Gli artisti più amati sono Capo Plaza e Sfera Ebbasta. Con questa lettera non voglio affermare che la reclusione sia un’avventura da provare. Assolutamente no. Ho vissuto il carcere da uomo libero, quindi non ho il diritto di affermare nulla di simile. Ho voluto raccontare questa esperienza per invitare ognuno di voi ad affrontare nuove sfide. Il volontariato mi sta rendendo una persona migliore, meno egoista e più premurosa nei confronti di chi mi circonda. Ringrazio di cuore le educatrici per la possibilità ed ovviamente i ragazzi detenuti per avermi accolto e accettato. Sconfiggete le paure e i pregiudizi che vivono dentro di voi, lasciatevi trasportare dal fascino dell’ignoto. Intraprendente nuove sfide, mettendo da parte il timore di fallire. Lecce: puntata speciale di “Prima dell’Alba” (Rai3) dedicata ai detenuti Ansa, 23 aprile 2019 Salvo Sottile è entrato nel carcere di Lecce e trascorre un’intera giornata con i detenuti, per scoprire come si vive in un luogo dove è sempre notte, tra solitudine, silenzio e mancanza di libertà. A Pasquetta, lunedì 22 aprile, in seconda serata su Rai3 è andata in onda “Una notte in carcere”, una puntata speciale di “Prima dell’Alba” dedicata all’universo concentrazionario. Per la prima volta il viaggio di Sottile inizia all’alba, attraversando l’enorme porta di metallo dell’Istituto con l’ispettore capo della polizia penitenziaria Maurizio Migliaccio, nell’arma da 27 anni. Insieme passano dal cellario, dove i detenuti vengono privati dei loro beni personali, fino alla sala dove vengono schedati, ripercorrendo un iter di passaggi burocratici che assumono anche un forte significato simbolico, scandendo per i detenuti il distacco dalla libertà e l’ingresso nella lunga “notte” della vita carceraria. Nel cortile dove i detenuti trascorrono l’ora d’aria Salvo Sottile rincontra Luigi, un detenuto conosciuto durante una precedente visita, che gli racconta come riesce ad andare avanti grazie alla famiglia e alla fidanzata, conosciuta quando era già in carcere e che aspetta la sua uscita. Il desiderio di uscire si respira ovunque nel carcere, anche nei laboratori didattici di cucina, tessitura e falegnameria dove i detenuti hanno la possibilità di imparare un mestiere che potrebbe servirgli una volta “fuori”; o nei corsi di scrittura e lettura del collettivo “La Rosa dei Venti” che offre ai detenuti una sorta di “evasione” metaforica che culmina in uno spettacolo teatrale annuale. Questa è l’occasione per loro di entrare in contatto con le proprie famiglie e i propri amici ma anche con la società civile, durante le repliche che vengono messe in scena davanti agli studenti delle scuole del leccese. Quando scende la sera, Sottile incontra Riccardo Secci, comandante della Polizia Penitenziaria, che gli racconta come il momento più complicato per le forze dell’ordine sia proprio la notte, quando tutto tace e la routine rischia di far calare la concentrazione delle guardie. Proprio qui avvengono infatti la maggior parte dei casi di tentati suicidi e di autolesionismo, un fenomeno che in Italia conta migliaia di casi nella disperazione e nel delirio della notte carceraria: oltre 10.423 atti di autolesionismo e 1.198 tentati suicidi solo nel 2018. La sera è anche il momento in cui rientrano in carcere i detenuti in semilibertà come Giovanni che svela la difficoltà dei carcerati nel gestire il rapporto con i figli con i quali hanno poche occasioni di contatto e che spesso non sono nemmeno a conoscenza del motivo per il quale non possono stare con il proprio papà. Nel suo attuale stato di semilibertà - un limbo che forse rende ancora più dura la costrizione - Giovanni sta cercando ora di recuperare il rapporto con le figlie, alle elementari all’inizio della pena, e che adesso riabbraccia da nonno. Ma se la semilibertà è una condizione dura, molto più angosciante è la vita di chi sa già che la sua notte durerà per sempre, come gli ergastolani tra cui Francesco, uno degli attori del collettivo teatrale, che confessa a Sottile di avere ancora speranze e aspettative per il futuro ma di non avere nemmeno il coraggio di esprimerle sapendo che sono destinate a non realizzarsi. “Una notte in carcere” si chiude con l’atteso spettacolo teatrale: i detenuti sono finalmente sul palco e possono esprimere attraverso l’arte tutto quello che hanno dentro e che spesso non riescono a tirare fuori in altro modo: il dolore, l’angoscia, ma anche i sogni, le speranze, la voglia di vivere, di esistere, e non solo di sopravvivere. Ma per loro, dopo gli applausi, è il momento di tornare nelle proprie celle, per il momento della conta, mentre un’altra notte sta iniziando. “Prima dell’Alba” è un format originale Stand by Me di Simona Ercolani. Torino: “Città inferno”, a teatro le storie di donne segnate da una cattiva stella Silvia Francia La Stampa, 23 aprile 2019 Questa sera, 23 aprile, al Teatro “Gobetti” di Torino la pièce di Elena Gigliotti. Ci sono criminali famose, ormai quasi mitiche, come Leonarda Cianciulli, detta “la saponificatrice” e altre di cui nessuno ricorda né la colpa né il nome, ma gravate da fardelli pesantissimi: come la madre che, negli anni Novanta uccise, in provincia di Bologna, i suoi due figli e poi si suicidò. Tutte insieme, accomunate dai loro delitti più o meno gravi, stipate dentro un cella di pochi metri quadrati e sorvegliate da secondine che sembrano suore o madonne. È questo il popolo della “Città inferno” immaginata da Elena Gigliotti, giovane attrice-autrice-regista, che, dopo il diploma alla suola di recitazione dello Stabile di Genova, ha lavorato con artisti come Emma Dante, Gabriele Vacis, Valerio Binasco e Giancarlo Sepe. Il suo spettacolo, nato tre anni fa, approda al Gobetti questa sera alle 19,30, per la stagione del Tst ed è liberamente ispirato al film di Renato Castellani “Nella città l’inferno”: pellicola interpretata da due memorabili premi Oscar come Anna Magnani e Giulietta Masina e, a sua volta, tratta dal romanzo “Roma, via delle Mantellate”, scritto da Isa Mari, la figlia della star del cinema muto Febo Mari. “Mi è capitato di vedere il film per caso anni fa e l’idea di lavorarci sopra è nata quasi subito - dice la regista - ma non era mia intenzione farne una trasposizione tout court. Il film è centrato sui personaggi interpretati dalle due grandi attrici, specie Egle, ruolo affidato alla grandissima Magnani. Nel nostro spettacolo, invece, tendiamo alla coralità e portiamo in luce anche vicende che nel film risultano marginali”. Donne diversissime fra loro, quelle raccontate nello spettacolo: ognuna ha la sua lingua, il suo dialetto e “l’insieme di queste parlate costituisce la bellezza musicale che è l’Italia stessa”, come sottolinea la regista. Donne segnate da una cattiva stella e una cattiva strada, anche se non tutte si sono macchiate di crimini abominevoli. “Nella prima versione - dice Gigliotti - anche io ero in scena, nel ruolo appunto che fu della Magnani e il “delitto” commesso dal mio personaggio era niente più che l’adulterio. Mi ero ispirata a quanto veramente accaduto a mia nonna che, a fine anni Cinquanta, finì in galera proprio per aver tradito il marito. Poi, però, ho dovuto rinunciare a far parte del cast e sono stata sostituita e, di conseguenza, anche il vissuto e il “curriculum” carcerario della nostra protagonista è cambiato per adattarsi a sensibilità e scelte della nuova interprete”. L’azione - cui non manca un finale a sorpresa - è ambientata ai giorni nostri, ma con un richiamo proprio agli anni Cinquanta, dal momento che le vicende narrate riguardano proprio fatti di cronaca realmente successi in questi quasi settant’anni. Pure rivendicando la matrice fantastica del suo lavoro, la Gigliotti ammette: “Trattando un materiale simile, è stato impossibile evitare la grande responsabilità di avvicinarci alla vita vera: quella in cui sfioriamo la realtà delle carceri, l’attività delle detenute, il loro rapporto con il corpo, l’amore, il sesso, la maternità, la mancanza di intimità, le lettere, le testimonianze e i loro sogni”. L’Unione Europea a protezione dello stato di diritto di Marcello Clarich Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2019 Elaborati criteri su garanzie fra cittadini e PA, indipendenza dei magistrati e anticorruzione. Da qualche tempo l’Unione europea ha acceso un faro sulle politiche pubbliche perseguite da alcuni Stati membri: l’erosione delle garanzie dello Stato di diritto. Alcuni segnali preoccupanti provengono infatti soprattutto dai Paesi dell’Europa dell’Est che sono entrati a far parte dell’Unione dopo la caduta del muro di Berlino. Per contrastare il rischio di derive autoritarie la Commissione europea ha pubblicato il 3 aprile una Comunicazione tesa a rafforzare la rule of law all’interno dell’Unione europea (Com (2019) 163/final). Il documento, che fa seguito ad altre iniziative anche del Parlamento europeo, ricorda anzitutto che l’Unione europea ha avviato due procedure di infrazione nei confronti della Polonia nel dicembre 2017 e contro l’Ungheria nel settembre 2018 per contestare alcune iniziative lesive dell’indipendenza della magistratura, cioè del primo presidio dello Stato di diritto. Da ultimo, proprio nelle settimane scorse, anche la Bulgaria è entrata nel mirino per motivi legati alla lotta alla corruzione. La base normativa di queste procedure si trova nel Trattato sull’Unione europea che include nell’elenco dei valori fondanti lo Stato di diritto (articolo 2), accanto alla dignità umana, alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, al rispetto dei diritti umani. In caso di “evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro” di questi valori, il Consiglio può promuovere a maggioranza qualificata un procedimento di contestazione. L’esito può essere la sospensione dei diritti riconosciuti dai Trattati allo Stato membro incluso il diritto dì voto in seno al Consiglio. Quest’ultima costituisce, com’è stato detto, “un’opzione nucleare”. Ma poiché questa opzione non può essere lo strumento ordinario per tutelare lo Stato di diritto, l’Unione europea si deve dotare di strumenti più modulati. Da qui una serie di proposte messe in consultazione con gli Stati membri e con altri stakeholder per raccogliere suggerimenti da includere in un documento finale della Commissione da formalizzare entro giugno. Una prima linea di azione è la promozione della rule of law anche attraverso un’opera di informazione del pubblico, di scambi di esperienze tra gli Stati membri, di elaborazione di standard minimi comuni. Una Commissione di esperti (la cosiddetta Venice Commission) ha già elaborato una griglia articolata di criteri che riguardano l’indipendenza della magistratura, le garanzie dei cittadini nei rapporti con gli apparati pubblici, le misure anticorruzione, ecc. Un’altra linea di azione mira a rafforzare lo Stato di diritto attraverso il sistema dei check and balances nazionali costituiti, per esempio, dalla trasparenza dei processi decisionali, dalle politiche anticorruzione, dall’indipendenza dei media, dalla qualità della pubblica amministrazione. Anche qui l’Unione europea può fungere da supporto agli Stati membri sui quali ricade la responsabilità primaria di garantire la rule of law. In caso di violazione dei principi dello Stato di diritto, l’Unione europea sta già sperimentando, ma deve ancora perfezionare, modalità di intervento anche di moral suasion (segnalazioni, ammonimenti, ecc.) da mettere in opera fin dai primi segnali di pericolo. L’attivismo delle istituzioni non può essere vissuto come un’invasione di campo che lede le prerogative nazionali. Infatti, come chiarisce la Comunicazione, lo Stato di diritto ha almeno due funzioni: creare uno spirito di fiducia reciproca tra gli Stati e i propri cittadini, essenziale per il buon funzionamento delle società democratiche; rafforzare la solidarietà e la coesione degli Stati membri necessarie per lo sviluppo del mercato unico e per la crescita economica, entrambe rallentate in assenza di strumenti efficaci di tutela giurisdizionale e di lotta alla corruzione. La Comunicazione rivolge a chi parteciperà alla consultazione una serie di interrogativi e di problemi sollecitando proposte. Sarebbe auspicabile che anche le nostre istituzioni, in una fase critica dei rapporti con l’Unione europea, offrissero il proprio contributo. Il formidabile discorso della giornalista che ha inchiodato Facebook di Carole Cadwalladr* agi.it, 23 aprile 2019 Al TED di Vancouver Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo), ha spiegato come i social hanno influito sulla Brexit. E come stanno facendo del male alle democrazie di tutto il mondo. Quest’anno non sono riuscito ad andare al TED di Vancouver. Ma ho seguito qualcosa in rete. E mi hanno colpito due cose, collegate fra loro. La prima è il talk della giornalista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo). La seconda il fatto che uno degli sponsor principali di questa edizione del TED di Vancouver fosse proprio Facebook. Ce lo vedete un evento in Italia dove lo speaker principale è quello che attacca lo sponsor principale. O anche solo il giornale, la radio, la tv, l’agenzia di stampa.... Carole Cadwalladr ha fatto un lavoro giornalistico memorabile (per il quale è stata fra i finalisti del premio Pulitzer appena assegnato). Nel suo TED Talk ripercorre la vicenda e pone delle domande molto serie “agli dei della Silicon Valley” e a noi utenti dei social, sul futuro della democrazia. Per questo abbiamo ritenuto di tradurre subito in italiano il suo intervento. Il giorno dopo il voto sulla Brexit, quando la Gran Bretagna si è svegliata con lo choc di scoprire che stavamo davvero lasciando l’Unione Europea, il mio direttore al quotidiano Observer, mi ha chiesto di tornare nel Galles meridionale, dove sono cresciuta, e scrivere un reportage. E così sono arrivata in una città chiamata Ebbw Vale. Eccola (mostra la cartina geografica). È nelle valli del Galles meridionale, che è un posto abbastanza speciale. Aveva questa sorta di cultura di classe operaia benestante, ed è celebre per i cori di voci maschili gallesi, il rugby e il carbone. Ma quando ero adolescente, le miniere di carbone e le fabbriche di acciaio chiusero, e l’intera area ne è rimasta devastata. Ci sono tornata perché al referendum della Brexit era stata una delle circoscrizioni elettorali con la più alta percentuale di voti per il “Leave”. Sessantadue per cento delle persone qui hanno votato per lasciare l’Unione Europea. E io volevo capire perché. Quando sono arrivata sono rimasta subito sorpresa perché l’ultima volta che era stata ad Ebbw Vale era così (mostra la foto di una fabbrica chiusa). E ora è così. (mostra altre foto). Questo è un nuovissimo college da 33 milioni di sterline che è stato in gran parte finanziato dall’Unione Europea. E questo nuovo centro sportivo fa parte di un progetto di rigenerazione urbana da 350 milioni di sterline, finanziato dall’Unione Europea. E poi c’è questo tratto stradale da 77 milioni di sterline, e una nuova linea ferroviaria e una nuova stazione, tutti progetti finanziati dall’Unione Europea. E non è che la cosa sia segreta. Perché ci sono grossi cartelli ovunque a ricordare gli investimenti della UE in Galles. Camminando per la città, ho avvertito una strana sensazione di irrealtà. E me ne sono davvero resa conto quando ho incontrato un giovane davanti al centro sportivo che mi ha detto di aver votato per il Leave, perché l’Unione Europea non aveva fatto nulla per lui. E ne aveva abbastanza di questa situazione. E in tutta la città le persone mi dicevano la stessa cosa. Mi dicevano che volevano riprendere il controllo, che poi era uno degli slogan della campagna per la Brexit. E mi dicevano che non ne potevano più di immigranti e rifugiati. Erano stufi. Il che era abbastanza strano. Perché camminando per la città, non ho incontrato un solo immigrato o rifugiato. Ho incontrato una signora polacca che mi ha detto di essere l’unica straniera in paese. E quando ho controllato le statistiche, ho scoperto che Ebbw Vale ha uno dei più bassi tassi di immigrazione del Galles. E quindi ero un po’ confusa, perché non riuscivo a capire da dove le persone avessero preso le informazioni su questo tema. Anche perché erano i tabloid di destra a sostenere questa tesi, ma questo è una roccaforte elettorale della sinistra laburista. Ma poi, quando è uscito il mio articolo, questa donna mi ha contattato. Mi ha detto di abitare a Ebbw Vale e mi ha detto di tutto quella roba che aveva visto su Facebook durante la campagna elettorale. Io le ho chiesto, quale roba? E lei mi ha parlato di roba che faceva paura, sull’immigrazione in generale, e in particolare sulla Turchia. Allora ho provato a indagare, ma non ho trovato nulla. Perché su Facebook non ci sono archivi degli annunci pubblicitari o di quello ciascuno di noi ha visto sul proprio “news feed”. Non c’è traccia di nulla, buio assoluto. Questo referendum avrà un profondo effetto per sempre sulla Gran Bretagna, lo sta già avendo: i produttori di auto giapponesi che vennero in Galles e nel nord est offrendo un lavoro a coloro che lo avevano perduto con la chiusura delle miniere di carbone, se ne sono già andati a causa della Brexit. Ebbene, l’intero referendum si è svolto nel buio più assoluto perché si è svolto su Facebook. E quello che accade su Facebook resta su Facebook. Perché soltanto tu sai cosa c’era sul tuo news feed, e poi sparisce per sempre, ma così è impossibile fare qualunque tipo di ricerca. Così non abbiamo idea di quali annunci ci siano stati, di quale impatto hanno avuto, o di quali dati personali sono stati usati per profilare i destinatari dei messaggi. O anche solo chi li ha pagati, quanti soldi ha investito, e nemmeno di quale nazionalità fossero questi investitori. Noi non lo possiamo sapere ma Facebook lo sa. Facebook ha tutte queste risposte e si rifiuta di condividerle. Il nostro Parlamento ha chiesto numerose volte a Mark Zuckerberg di venire nel Regno Unito e darci le risposte che cerchiamo. Ed ogni volta, lui si è rifiutato. Dovete chiedervi perché. Perché io e altri giornalisti abbiamo scoperto che molti reati sono stati compiuti durante il referendum. E sono stati fatti su Facebook. Questo è accaduto perché nel Regno Unito noi abbiamo un limite ai soldi che puoi spendere in campagna elettorale. Esiste perché nel diciannovesimo secolo le persone andavano in giro con letteralmente carriole cariche di soldi per comprarsi i voti. Per questo venne votata una legge che lo vieta e mette dei limiti. Ma questa legge non funziona più. La campagna elettorale del referendum infatti si è svolto soprattutto online. E tu puoi spendere qualunque cifra su Facebook, Google o YouTube e nessuno lo saprà mai, perché queste aziende sono scatole nere. Ed è esattamente quello che è accaduto. Noi non abbiamo idea delle dimensioni, ma sappiamo con certezza che nei giorni immediatamente precedenti il voto, la campagna ufficiale per il Leave ha riciclato quasi 750 mila sterline attraverso un’altra entità che la commissione elettorale aveva giudicato illegale, e questo sta nei referti della polizia. E con questi soldi illegali, “Vote Leave” ha scaricato una tempesta di disinformazione. Con annunci come questi (si vede un annuncio che dice che 76 milioni di turchi stanno per entrare nell’Unione Europea). E questa è una menzogna. Una menzogna assoluta. La Turchia non sta per entrare nell’Unione Europea. Non c’è nemmeno una discussione in corso nella UE. E la gran parte di noi, non ha mai visto questi annunci perché non eravamo il target scelto. E l’unico motivo per cui possiamo vederli oggi è perché il Parlamento ha costretto Facebook a darceli. Forse a questo punto potreste pensare, “in fondo parliamo soltanto di un po’ di soldi spesi in più, e di qualche bugia”. Ma questa è stata la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso dall’uno per cento dell’elettorato. E questo è soltanto uno dei reati che ci sono stati in occasione del referendum. C’era un altro gruppo, che era guidato da quest’uomo (mostra una foto), Nigel Farage, quello alla sua destra è Trump. E anche questo gruppo, “Leave EU”, ha infranto la legge. Ha violato le norme elettorali e quelle sulla gestione dei dati personali, e anche queste cose sono nei referti della polizia. Quest’altro uomo (sempre nella stessa foto), è Arron Banks, è quello che ha finanziato la loro campagna. E in una vicenda completamente separata, è stato segnalato alla nostra Agenzia Nazionale Anticrimine, l’equivalente del FBI, perché la commissione elettorale ha concluso che era impossibile sapere da dove venissero i suoi soldi. E anche solo se la provenienza fosse britannica. E non entro neppure nella discussione sulle menzogne che Arron Banks ha detto a proposito dei suoi rapporti segreti con il governo russo. O la bizzarra tempestività degli incontri di Nigel Farage con Julian Assange e il sodale di Trump, Roger Stone, ora incriminato, subito prima dei due massicci rilasci di informazioni riservate da parte di Wikileaks, entrambi favorevoli a Donald Trump. Ma quello che posso dirvi è che la Brexit e l’elezione di Trump sono strettamente legati. Ci sono dietro le stesse persone, le stesse aziende, gli stessi dati, le stesse tecniche, lo stesso utilizzo dell’odio e della paura. Questo è quello che postavano su Facebook. E non riesco neanche a chiamarlo menzogna perché ci vedo piuttosto il reato di instillare l’odio (si vede un post con scritto “l’immigrazione senza assimilazione equivale a un’invasione”). Non ho bisogno di dirvi che odio e paura sono stati seminati in rete in tutto il mondo. Non solo nel Regno Unito e in America, ma in Francia, Ungheria, Brasile, Myanmar e Nuova Zelanda. E sappiamo che c’è come una forza oscura che ci collega tutti globalmente. E che viaggia sulle piattaforme tecnologiche. Ma di tutto questo noi vediamo solo una piccola parte superficiale. Io ho potuto scoprire qualcosa solo perché ho iniziato a indagare sui rapporti fra Trump e Farage, e su una società chiamata Cambridge Analytica. E ho passato mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post pubblicitari su Facebook. E lo ha fatto ottenendo illecitamente i profili di 87 milioni di utenti Facebook. C’è voluto un intero anno per convincere Christopher a uscire allo scoperto. E nel frattempo mi sono dovuta trasformare da reporter che raccontava storie a giornalista investigativa. E lui è stato straordinariamente coraggioso, perché Cambridge Analytyca è di proprietà di Robert Mercer, il miliardario che ha finanziato Trump, e che ci ha minacciato moltissime volte per impedire che pubblicassimo tutta la storia. Ma alla fine lo abbiamo fatto lo stesso. E quando eravamo al giorno prima della pubblicazione abbiamo ricevuto un’altra diffida legale. Non da Cambridge Analytica stavolta. Ma da Facebook. Ci hanno detto che se avessimo pubblicato la storia, ci avrebbero fatto causa. E noi l’abbiamo pubblicata. Facebook, stavate dalla parte sbagliata della storia in questa vicenda. E lo siete quando vi rifiutate di dare le risposte che ci servono. Ed è per questo che sono qui. Per rivolgermi a voi direttamente, dei della Silicon Valley… Mark Zuckerberg…. E Sheryl Sandberg, e Larry Page e Sergey Brin e Jack Dorsey, ma mi rivolgo anche ai vostri dipendenti e ai vostri investitori. Cento anni fa il più grande pericolo nelle miniere di carbone del Galles meridionale era il gas. Silenzioso, mortale e invisibile. Per questo facevano entrare prima i canarini, per controllare l’aria. In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia. La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto. E voi ne avete le prove. E non basta ripetere che in futuro farete di più per proteggerci. Perché per avere una ragionevole speranza che non accada di nuovo, dobbiamo sapere la verità. Magari adesso pensate, “beh, parliamo solo di alcuni post pubblicitari, le persone sono più furbe di così, no?”. Se lo faceste vi risponderei: “Buona fortuna, allora”. Perché il referendum sulla Brexit dimostra che la democrazia liberale non funziona più. E voi l’avete messa fuori uso. Questa non è più democrazia - diffondere bugie anonime, pagate con denaro illegale, dio sa proveniente da dove. Questa si chiama “sovversione”, e voi ne siete gli strumenti. Il nostro Parlamento è stato il primo del mondo a provare a chiamarvi a rispondere delle vostre azioni, ma ha fallito. Voi siete letteralmente fuori dalla portata delle nostre leggi. Non solo quelle britanniche, in questa foto nove parlamenti, nove Stati, sono rappresentati, e Mark Zuckerberg si è rifiutato di venire a rispondere alle loro domande. Quello che sembrate ignorare è che questo storia è più grande di voi. È più grande di ciascuno di noi. E non riguarda la destra o la sinistra, il Leave o il Remain, Trump o no. Riguarda il fatto se sia possibile avere ancora elezioni libere e corrette. Perché, stando così le cose, io penso di no. E così la mia domanda per voi oggi è: è questo quello che volete? È così che volete che la storia si ricordi di voi? Come le ancelle dell’autoritarismo che sta crescendo in tutto il mondo? Perché voi siete arrivati per connettere le persone. E vi rifiutate di riconoscere che la vostra tecnologia ci sta dividendo. La mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri telefonini, mentre avanza il buio? La storia delle valli del Galles meridionale è la storia di una battaglia per i diritti. E quello che è accaduto adesso non è semplicemente un incidente, è un punto di svolta. La democrazia non è scontata. E non è inevitabile. E dobbiamo combattere, dobbiamo vincere e non possiamo permettere che queste aziende tecnologiche abbiano un tale potere senza controlli. Dipende da noi: voi, me, tutti noi. Noi siamo quelli che devono riprendere il controllo. Scienza e politica vittime della reciproca sfiducia di Massimiano Bucchi Corriere della Sera, 23 aprile 2019 Come si esce dalla spirale? Invertire la tendenza non è facile. Forse è arrivato davvero il momento di ricostruire un nuovo rapporto tra scienza e politica, non solo sul piano tecnico ma anche e soprattutto su quello culturale. Negli ultimi tempi, soprattutto in relazione a temi come le vaccinazioni o il clima, si è parlato di crisi di fiducia nella scienza e addirittura di un sempre più diffuso “anti-scientismo”. Proviamo a fare un po’ di chiarezza. In realtà, dati nazionali e internazionali (Osservatorio Scienza Tecnologia e Società, Eurobarometro, Pew Center negli Stati Uniti) smentiscono questa impressione per quanto riguarda la società. Gli studi sugli orientamenti del pubblico ci dicono infatti che la fiducia verso la scienza e gli scienziati, anche in Italia, resta molto elevata, soprattutto fra i più giovani e istruiti, e nettamente superiore a quella di altre categorie professionali. L’alfabetismo scientifico nel nostro Paese è in linea con quello degli altri Paesi europei e, seppur permangano rilevanti lacune tra i meno scolarizzati, è significativamente cresciuto nell’ultimo decennio, anche per effetto della maggiore istruzione delle nuove generazioni. Il vero problema, e la vera crisi, riguarda invece il rapporto tra politica e scienza. Sempre più spesso i leader politici ritengono di poter mettere in discussione l’autorevolezza degli esperti scientifici, o addirittura di poter fare a meno della loro competenza. Come si spiega questo fenomeno, e quali sono le possibili strade per affrontarlo? Il rapporto tra scienza e politica, così come lo conosciamo, prende forma sostanzialmente tra le due Guerre mondiali. Vari fattori, tra cui il contributo decisivo offerto da alcuni scienziati nei due conflitti, contribuiscono in quel periodo a rafforzare la convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare di scienza e tecnologia e che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche abbiano un’influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo. Alcuni commentatori definirono scherzosamente questa immagine della scienza, codificata in un celebre rapporto redatto nel 1945 dall’ingegnere Vannevar Bush per la Presidenza degli Stati Uniti, come “gallina dalle uova d’oro”. Oltre settant’anni dopo, la ricerca scientifica continua a essere sostenuta da importanti investimenti pubblici. L’Unione Europea, ad esempio, si appresta a destinare alla ricerca scientifica circa cento miliardi di euro dal 2021 al 2027. Ma non c’è dubbio che la percezione del suo ruolo da parte della politica sia cambiata. Alcune ipotesi possono aiutare a comprenderne il perché. Vi è, in primo luogo, l’ipotesi che gli elementi tecnico-scientifici siano stati incorporati in modo così sistematico nei processi decisionali da divenire, paradossalmente, poco visibili. La scienza sarebbe, in questo caso, “vittima del proprio successo”: dandola per scontata, la politica non è più in grado di capirne l’importanza. Questo effetto paradossale si riscontra anche in alcune ricerche sull’interesse dei giovani per la scienza. Questo è minore proprio laddove scienza e tecnologia sono più diffuse e attive (Scandinavia, Giappone); viceversa c’è più interesse ed entusiasmo nei Paesi in cui investimenti e istruzione scientifica si stanno ancora sviluppando. Un’altra possibilità è che quello tra scienza e politica sia stato perlopiù un matrimonio di convenienza. Con rare eccezioni, le élite politiche non avrebbero mai davvero metabolizzato un senso profondo del ruolo culturale della scienza, limitandosi a riconoscere l’utilità di alcuni risultati. Infine, su questo rapporto in crisi pesa anche la crescente sfiducia da parte della scienza nella politica. Come rivelano varie vicende (le marce degli scienziati, il movimento “314 Action” che recentemente ha portato negli Stati Uniti numerosi scienziati a candidarsi e alcuni a essere eletti al Congresso), il mondo della scienza si fida sempre meno della capacità della politica di compiere scelte informate. Come si esce da questa spirale di sfiducia e incomprensione reciproca? Non è facile, naturalmente, invertire una tendenza così ampia, che non è nata (un altro luogo comune da sfatare) con l’era dei social ma che indubbiamente gli odierni mezzi di comunicazione rendono particolarmente visibile. Secondo lo studioso americano Robert Crease, intervenuto recentemente sul tema sulla rivista scientifica Nature, “denunciare o gridare: “la scienza funziona!” o sbattere sul tavolo grafici e tabelle” non basta di per sé a ristabilire l’autorevolezza della scienza rispetto alla politica. Forse è arrivato davvero il momento di ricostruire un nuovo rapporto tra scienza e politica, non solo sul piano tecnico ma anche e soprattutto su quello culturale, che vada al di là dell’utilità reciproca e dello scambio tra risorse e risultati pratici e tenga conto dei profondi cambiamenti intervenuti dal secondo dopoguerra a oggi. È inevitabilmente un obiettivo di lungo periodo. Ma se non cominciamo a lavorarci oggi, la crisi tra scienza e politica sarà destinata ad aggravarsi con gravi conseguenze per entrambe, oltre che per tutti noi. L’ingannevole favola degli influencer di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 23 aprile 2019 Prima ancora di sollecitare l’acquisto di qualcosa, costruisce ammirazione, stuzzica il desiderio di emulazione, cerca follower fedeli. È l’antitesi della complessità. Quando Papa Francesco ha detto che la Madonna è stata la prima influencer della storia, ho capito che eravamo ufficialmente entrati nella promozione da secondo millennio e potevamo dire: “La pubblicità è morta. Viva la pubblicità”. Réclame, propaganda o influencer, il modo di vendere le cose, ma anche le idee, ha cambiato nome, ma non la sostanza, con qualche aggravante. La pubblicità tradizionale si vende per quello che è, si sa che paga per reclamizzare prodotti o persone. Gli influencer creano un sistema molto più sottile e subdolo che coopta non acquirenti, ma seguaci. Prima ancora di sollecitare l’acquisto di qualcosa, costruisce ammirazione, stuzzica il desiderio di emulazione, cerca follower fedeli. È l’antitesi della complessità, il “Chi mi ama mi segua” e proprio qui sta il pericolo. Con l’influencer non si chiede più di pensare con la propria testa, ma di adorare e seguire. Come spesso accade, le prime ad accorgersene sono state le aziende. Se da una parte il libero scorrazzare sul web dà la possibilità a illustri sconosciuti di emergere dalla massa, dall’altra ha sdoganato un nuovo business commerciale impadronendosi del fenomeno degli influencer che, da persone che parlano di sé e delle proprie passioni, sono diventati strumenti di promozione corteggiatissimi. Poiché la quantità del seguito fa la differenza, si è creato un mercato delle tariffe in base al numero dei follower. L’addetta alle comunicazioni di un’azienda mi ha raccontato due o tre curiosità. Un’attrice abbastanza nota che vorrebbe costruirsi un mercato sui social, per cominciare è disposta a chiedere un compenso modesto, ovvero cinquemila euro a post. Passando invece all’empireo delle influencer, la più nota delle italiane, ovvero Chiara Ferragni, per tre stories su Instagram avrebbe domandato 65mila euro con beneficio di inventario, ovvero previa analisi del prodotto per capire se le interessa. Ora, chi pensa che per diventare influencer di peso basti postare qualche selfie sullo sfondo della propria cucina, sbaglia di grosso. Per essere attrattivi dal punto di vista dell’immagine bisogna postare foto studiate in ogni dettaglio, tant’è che le influencer navigate viaggiano con truccatore, parrucchiere e fotografo. Le top delle top hanno anche un segretario e un agente. Ho conosciuto giovani donne che hanno cominciato quasi per scherzo e per un po’ si sono barcamenate fra il loro lavoro di segretaria, insegnante precaria, ricercatrice o mamma e la loro passione per abiti o prodotti di bellezza. Siccome erano carine, non sceme e sapevano mettersi in posa, le richieste e gli inviti da parte di aziende sono così aumentati che prima hanno dovuto dotarsi di un commercialista, poi hanno fatto il grande salto diventando influencer di professione. Ora, il problema sta proprio nella natura di questo tipo di promozione. Gli influencer viaggiano sul filo di rasoio dell’inganno sfruttando in modo sottile la buona fede dei follower che hanno iniziato a seguirli non perché consci che fossero testimonial di Caio o Sempronio, ma per altre e svariate ragioni. Spesso giovanissimi, a questi inconsapevoli seguaci non viene mai detto che il loro idolo è pagato per promuovere un profumo, un paio di scarpe, una crema, un albergo e quant’altro, anzi gli viene fatto credere che quella è una libera scelta di vita, di oggetti e di stile. Forse è una bolla che prima o poi scoppierà, ma intanto il fenomeno dell’adorazione impazza. Cari follower, tutti ogni tanto abbiamo bisogno di leggere una favola. L’importante è sapere che trattasi di favola. Quante bugie sui migranti di Armando Spataro La Repubblica, 23 aprile 2019 Non c’è mai stata una sentenza in Europa che confermi la tesi di Salvini sui terroristi portati dai barconi. La “never ending story” dei porti chiusi ai migranti si arricchisce quasi ogni giorno di fatti nuovi che, però, non mutano il quadro della situazione: chiudere i porti ai richiedenti protezione non è consentito, se non in casi eccezionali, come quello del “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero” (Convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata dall’Italia nel 1994). Il ministro dell’Interno aveva affermato che la Libia è un Paese sicuro e che, dunque, i migranti provenienti da quello Stato potevano, secondo le convenzioni internazionali, essere rimandati indietro. Sennonché, al di là dell’opposta opinione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati e di vari organismi internazionali, è scoppiata una guerra proprio in quel “Paese sicuro” e la guerra, con i connessi rischi di ulteriori violazioni di diritti, può costituire una delle ragioni per richiedere asilo in altri Stati: non a caso ha spinto il governo libico a chiedere aiuto anche all’Italia, ma secondo Salvini più che di guerra si deve parlare di scontri! Ottocentomila - si dice - sarebbero i potenziali migranti libici verso l’Italia, un’ipotesi che ha indotto lo stesso ministro a confermare il rafforzamento della politica dei porti chiusi, rivendicando la propria esclusiva competenza in materia e finendo con il suscitare polemiche e divisioni nel governo, contrariamente a quanto avvenuto nel caso Diciotti. I nostri porti devono rimanere chiusi - si sostiene - anche perché alto sarebbe il rischio dell’arrivo di terroristi, visto che migliaia sono quelli detenuti in Libia. Numeri del tutto generici che sembrano citati, da parte libica, per sollecitare l’intervento italiano a proprio sostegno e, dalla nostra, per enfatizzare l’efficacia dell’eterno brand pubblicitario, quello della sicurezza in nome della quale, rassicurando i cittadini, la tutela di altri diritti può arretrare. Come dimenticare i “pacchetti-sicurezza” di dieci anni fa, approvati dopo identiche campagne sugli inesistenti rischi che i migranti avrebbero determinato per il popolo italiano? Come dimenticare le “ronde” di privati cittadini che, previste da una legge di dieci anni fa, non erano sgradite neppure a certi settori dell’allora opposizione. Ma, tornando al rischio dei terroristi migranti sui barconi, non si comprende innanzitutto quale sia la fonte di tale notizia (spesa anche per spiegare il blocco della Diciotti), visto che - se fosse fondata - sarebbe una notizia di reato che la Polizia giudiziaria, le Agenzie di informazione e qualsiasi pubblico ufficiale avrebbero l’obbligo di riferire senza ritardo alla Procura della Repubblica competente. Ma ciò non è mai avvenuto e anzi non è mai intervenuta una sola sentenza (in Italia e, per quanto è dato sapere, in Europa) che confermi la tesi del terrorista-migrante sui barconi. E sul piano investigativo - da quando si è manifestato il terrorismo internazionale, cioè da circa vent’anni - una sola inchiesta, in corso a Napoli, sembra poter confermare tale ipotesi, peraltro con riferimento a un numero ristretto di persone. Dunque, non si tratta di una notizia con solide basi, anche perché, sul piano logico, è difficile pensare che chi viene in Europa per uccidere e uccidersi accetti il rischio di affogare nel Mediterraneo. Ciò non fa venir meno - sia ben chiaro - l’obbligo di indagare con determinazione su ogni serio sospetto di reato, specie se di matrice terroristica, ma lo si deve fare - come in Italia siamo capaci - con freddezza e ragione, lasciando da parte sia le declamate certezze politiche fondate su notizie prive di riscontri, sia la teoria del “non si può escludere che”, che già tanti danni ha arrecato al nostro Paese. Il governo non può utilizzare la politica dei “porti chiusi” per obbligare l’Europa ad accogliere parte dei disperati che arrivano negli Stati costieri: deve operare per vincere le inadempienze di altri governi, ma questo sarà possibile non solo evitando atteggiamenti polemici ed eclatanti, ma anche dimostrando la propria irrinunciabile fedeltà agli obblighi internazionali. Non si dimentichi, in proposito, il caso della nave Khlaifia: nel dicembre 2016 l’Italia fu condannata dalla Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo perché, per ovviare alla saturazione di Lampedusa, i migranti vennero “ospitati” in centri di soccorso e su navi della Moby Lines, per più di 48 ore, senza vedere un giudice, senza garanzie e con divieto scendere. Respingendo l’asserita inerzia degli altri Stati europei come argomentazione difensiva, la Corte qualificò quel “trattenimento” come “privazione della libertà personale senza base legale”. Non sono ammissibili, insomma, restrizioni della libertà e ingiustificati respingimenti di chi lascia la propria patria, a rischio di morire, solo per la speranza di una vita dignitosa. Migranti. Il rischio esodo dal fronte libico: “Pronti a partire in centomila” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 23 aprile 2019 Le stime dei rapporti di Intelligence. Il governo Conte potrebbe affrontare l’emergenza umanitaria prima delle elezioni. Arriva a circa 100mila, il numero complessivo dei migranti posizionati lungo tutta la costa libica, che sarebbero pronti ad imbarcarsi per l’Italia appena dovessero ricevere il segnale di farlo. Se l’offensiva lanciata dal generale Haftar contro Tripoli si trasformasse in una guerra riconosciuta ufficialmente come tale dall’Onu, lo status legale di queste persone cambierebbe, e per il governo italiano diventerebbe impossibile rifiutare di aiutarle. Uno scenario molto preoccupante per l’esecutivo gialloverde, in particolare perché questo esodo potrebbe corrispondere proprio con la fase finale della campagna elettorale per il voto europeo di fine maggio. In questa luce, acquista ancora più importanza la seconda telefonata avvenuta ieri tra il presidente americano Trump e il premier Conte:”Ho parlato con il premier italiano riguardo all’immigrazione, agli scambi commerciali, le tasse e le economie dei nostri rispettivi paesi” ha twittato The Donald. Durante un’intervista con il Corriere della Sera, il premier Sarraj ha detto che circa 800.000 persone potrebbero invadere le nostre coste, tra cui anche criminali e jihadisti. Forse il suo obiettivo era spaventare, per attirare l’attenzione sulla crisi e ricevere aiuto, ma i rapporti di intelligence parlerebbero di almeno 6.000 profughi pronti a partire. La stima complessiva più realistica, effettuata sul campo, dice invece che lungo l’intera costa libica ci sono circa centomila esseri umani praticamente con i piedi nell’acqua. Alcuni si qualificano come rifugiati, e altri come migranti, mentre al numero complessivo andrebbero aggiunti anche i cittadini libici, come ha avvertito l’Alto commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, che nel caso dell’esplosione di una vera guerra civile a tutto campo potrebbero iniziare anche loro a cercare rifugio lontano dal proprio paese. Sul piano legale la materia è regolata dalla Convention Relating to the Status of Refugees del 1951, che garantiva lo status si rifugiati alle persone che hanno fondati motivi di essere perseguitati “a causa della razza, la religione, la nazionalità, l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica”. Questo testo poi era stato ampliato nel 1967 dal Protocol Relating to the Status of Refugees, mentre nel 1984 la Cartagena Declaration aveva stabilito che lo status andava esteso alle “persone che sono fuggite dal proprio paese perché le loro vite, la sicurezza o la libertà sono state minacciate dalla violenza generalizzata, l’aggressione straniera, i conflitti interni, massicce violazioni dei diritti umani, o altre circostanze che hanno seriamente disturbato l’ordine pubblico”. Il testo di Cartagena non è vincolante come gli altri, ma davanti alla fuga di massa da una guerra civile ufficialmente riconosciuta dall’Onu, per Roma diventerebbe giuridicamente molto difficile, e moralmente impossibile, tenere chiusi i porti e negare assistenza. La stima delle centomila persone pronte a partire è riservata, ma realistica, e quindi tiene in grande apprensione il governo. Già durante il precedente esecutivo Renzi, gli sbarchi erano molto diminuiti per gli accordi con le milizie libiche, gli acquisti delle imbarcazioni usate per i trasporti, ma anche perché il ministero dell’Interno si mobilitava ogni mattina prima dell’alba per capire attraverso le previsioni del tempo dove sarebbero avvenute le partenze, e quindi aiutare le autorità locali ad intercettarle. Questa attività è proseguita, e con Salvini si è aggiunta la determinazione a tenere chiusi i porti e osteggiare le attività delle ong. Tutto ciò però difficilmente resisterebbe all’urto di centomila persone in fuga da una vera guerra, con le immagini e le storie delle vite minacciate o perdute. Questo scenario, alla vigilia del voto europeo, accresce ancora di più l’attenzione dell’Italia per quanto sta avvenendo tra Haftar e Sarraj, a cui la settimana scorsa si è aggiunta la telefonata dal presidente Trump al generale, avvenuta due giorni prima di quella col premier Conte. Ieri i due si sono risentiti, per chiarire la strategia e il senso del riconoscimento offerto dal capo della Casa Bianca ad Haftar. Sul piano tattico il generale si è esposto, allungando troppo le retrovie, ma dall’esito della sua sfida dipende ora anche il destino dei migranti con i piedi nell’acqua. Bambini-soldato: non li utilizza solo il generale Haftar di Raffaele K. Salinari* Il Manifesto, 23 aprile 2019 Le stime della Convenzione internazionale contro l’uso dei bambini soldato parlano ancora di oltre mezzo milione di minori impiegati sia da eserciti regolari sia da gruppi di guerriglia in ben 85 Paesi; più di 300.000 di questi bambini soldato sarebbero direttamente impegnati negli scontri a fuoco. La guerra rappresenta la massima forma di violazione dei Diritti Umani in generale e di quelli dei bambini in particolare. Le foto dei minorenni arruolati dalle milizie del generale Haftar nel tentativo di conquistare Tripoli ripropongono una piaga, quella dei bambini soldato, che la comunità internazionale finge di non vedere nelle sue implicazioni più strettamente economiche. Le stime della Convenzione internazionale contro l’uso dei bambini soldato parlano ancora di oltre mezzo milione di minori impiegati sia da eserciti regolari sia da gruppi di guerriglia in ben 85 Paesi; più di 300.000 di questi bambini soldato sarebbero direttamente impegnati negli scontri a fuoco. Ad alimentare questa forma di schiavitù contemporanea è anche il traffico delle armi leggere, più o meno legale o tollerato, che le vede spesso impugnate da bambini sottratti alle famiglie con l’inganno di un futuro migliore o rapiti durante le azioni di rastrellamento. Forse pochi sanno che le armi più popolari, tra cui il famoso L’AK-47, meglio noto come kalashnikov, è stato più volte modificato per adattarsi alle piccole mani. L’uso dei bambini soldato, e non solo in Libia, diventa dunque emblematico di cosa può produrre un modello di sviluppo in cui profitto prevale su ogni altra forma di valore etico. La continua espansione della zona grigia tra economia legale ed economia illegale è il suo strumento principe, mentre nelle periferie del mondo, pauperizzate da un assoluto disequilibrio nella distribuzione delle risorse, i diritti dei più deboli vengono compressi o negletti e spesso, come nel caso dei bambini soldato, assumono forme che suscitano istintivo orrore: traffico di esseri umani, lo sfruttamento della prostituzione infantile, il lavoro forzato ed infine l’assassinio per commercio di organi. Per questi aspetti dell’economia è naturale, in nome della plusvalenza, appropriarsi di beni e di persone, tessere attorno al futuro di tanti esseri umani una tela inestricabile di privazioni. Migrazioni forzate, cambiamenti climatici, guerre senza alcuna regola umanitaria, da ultimo il caso dello Yemen con il bombardamento dell’ospedale di Save the Children, sono tutti aspetti correlati. I bambini soldato fanno purtroppo parte integrante di questo scenario; il loro impiego nelle guerre dimenticate rappresenta dunque emblematicamente il risultato di una duplice negazione: quella della solidarietà di specie, il patto che assicura alle future generazioni di ereditare un mondo che sia migliore di quello passato, e di quella biosferica, che sancisce l’equilibrio tra il genere umano ed il pianeta che lo ospita. Ma la logica consumogena del sistema dominante non guarda in faccia a nessuno, tantomeno al futuro. Non a caso le armi di distruzione di massa, belliche o no, sono oggi sempre più legate alla possibilità di danneggiare l’ecosistema, di inquinare le acque, di spandere materie radioattive, ma anche di pompare senza ritegno materie prime non rinnovabili, di brevettare il vivente per renderlo indisponibile come patrimonio collettivo. L’idea stessa di sostenibilità dello sviluppo, con i suoi tempi lunghi e la necessità di programmare, investire nel capitale umano ed ambientale, nelle energie rinnovabili, rischia di essere azzerata dalla moltiplicazione dei conflitti che sono diventati, non a caso, anche la scusa per ripensare gli accordi multilaterali nel campo della cooperazione internazionale, deviando risorse verso una nuova corsa al riarmo. Ecco allora che le denunce per le violazioni dei più basilari diritti dei bambini nelle guerre sparse per il mondo, così come la riaffermazione dei diritti legati ai minori migranti, alla loro protezione e non discriminazione alcuna a partire da ciò che accade anche in Paesi sviluppati come il nostro, si legano alle battaglie in difesa dell’ambiente, della salute, dell’istruzione per tutti. Le prossime scadenze europee vedranno le Ong internazionali impegnate a sottoporre alle forze politiche questi ed altri temi correlati, in un manifesto programmatico ampiamente condiviso con altre istanze della società civile, nella convinzione che solo creando un ampio fronte solidale si possa contrastare le derive che di fatto rimettono in discussione l’impianto stesso del vivere civile nel nostro Continente e non solo. *Presidente del Cini (Coordinamento Italiano Ong Internazionali) Bosnia. Soldi pubblici all’associazione dei criminali di guerra di Mauro Manzin La Stampa, 23 aprile 2019 Da negoziatore a Dayton nel 1995 per i serbo-bosniaci al carcere come criminale di guerra e ora, scontata la pena, al vertice di una lobby politica denominata “Associazione dei fautori della Republika Srpska” e sponsorizzata anche da finanziamenti governativi. È questa la parabola umana e politica di Momcilo Krajsnik, 74 anni, collaboratore e amico di Radovan Karadzie, l’ex leader condannato all’ergastolo dal Tribunale dell’Aja il mese scorso. I due sono stati i co-fondatori del Partito democratico serbo che è stata la più forte forza politica tra i serbo-bosniaci negli anni Novanta. La denuncia dei versamenti di soldi pubblici nelle casse dell’Associazione “patriottica” è dell’agenzia Birn. Nel 2017 ha ricevuto 14.500 euro dal budget dell’entità serbo-bosniaca; nel 2018 erano 14mila, quest’anno 15mila. “Condannato per nulla” Il sito web dell’associazione afferma che si tratta di un’organizzazione non politica il cui obiettivo principale è “incoraggiare la realizzazione dei principi su cui si basa la Republika Srpska”. Rappresenta coloro che parteciparono alla creazione della stessa Republika nel 1992 come Krajisnik, che insieme a Karadzic fu una figura chiave nella formazione dell’entità guidata dai serbi alcuni mesi prima che scoppiasse la guerra in Bosnia. L’Associazione Creatori della Republika Srpska elenca le sue aree di interesse come libertà e diritti umani, la ripresa economica, la salute pubblica e la protezione sociale dei cittadini, specie dei gruppi che hanno sofferto gli effetti della guerra. Le ultime informazioni disponibili sulle attività dell’associazione, a leggere il suo sito web, risalgono al 2017, quando Krajisnik ebbe un incontro con il capo della Chiesa ortodossa serba, il patriarca Irinej e il leader del partito radicale serbo Vojislavegelj, che fu a sua volta condannato per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aia nel 2018. “Sono stato giudicato colpevole perché il Tribunale dell’Aja - disse Krajsnik a Birn nel 2015 - ha concluso che la Republika Srpska è stata creata attraverso la pulizia etnica”. “Secondo loro, la leadership principale dei serbi bosniaci era colpevole di questo. Radovan Karadzie, Ratko Mladie, me stesso e altri. In sostanza, se uno di noi era colpevole di qualcosa, lo eravamo tutti, così sono stato condannato per crimini di cui non sapevo nulla”. Si ribadì innocente e disse che il processo era uno “spettacolo teatrale messo in scena in aula”. Sudan. Perché al-Bashir dev’essere consegnato alla giustizia internazionale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 aprile 2019 Dopo 30 anni di feroce dominio, l’11 aprile un colpo di stato militare ha deposto il presidente del Sudan Omar al-Bashir. Al-Bashir è ricercato da 10 anni dal Tribunale penale internazionale. Ciò nonostante, le nuove autorità sudanesi non sono disposte a estradarlo e l’hanno trasferito nella prigione di massima sicurezza di Kobar, alla periferia della capitale Khartoum. Il Tribunale penale internazionale ha emesso due mandati di cattura nei confronti di al-Bashir: il 4 marzo 2009 e il 12 luglio 2010. Il ricercato è accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nel contesto del conflitto del Darfur. Un conflitto che, nella regione sudanese, va avanti da 16 anni. Secondo alcune stime il numero dei morti si aggirerebbe intorno al mezzo milione. Vanno aggiunti gli stupri di massa, le torture, i saccheggi, le devastazioni e gli incendi dei villaggi, il trasferimento forzato di civili e, come denunciato da Amnesty International nel 2016, l’uso di armi chimiche nella zona del Jebel Marra. Il Tribunale penale internazionale è stato incaricato di indagare sulla situazione in Darfur da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite risalente al 2005. Le accuse contro al-Bashir si riferiscono agli anni dal 2003 al 2008: in tutto, cinque imputazioni per crimini di guerra, due per crimini contro l’umanità e tre per genocidio. Le accuse contro al-Bashir comprendono i crimini di diritto internazionale commessi dalle forze armate sudanesi, dalle milizie paramilitari chiamate janjawid, dalla polizia e dai servizi segreti. Per il Tribunale penale internazionale vi sono buoni motivi per ritenere che al-Bashir abbia svolto “un ruolo essenziale” nell’organizzare le attività di questi gruppi. In più, al-Bashir è accusato di aver commesso genocidio contro i gruppi etnici fur, masalit e zaghawa, sospettati di essere vicini ai gruppi armati anti-governativi, in particolare ai Movimento per la liberazione del Sudan e al Movimento per la giustizia e l’uguaglianza. Sebbene tutti gli stati che hanno aderito allo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale siano obbligati ad arrestare coloro contro i quali è stato emesso un mandato di cattura, nel corso di questi anni il “latitante” al-Bashir ha scorrazzato impunemente in mezza Africa e non solo: le autorità di Sudafrica, Uganda, Kenya, Chad, Malawi, Repubblica Centrafricana, Egitto, Giordania e Libia (la foto si riferisce a una visita a Tripoli del 2012) hanno evitato di catturarlo. Al di là di eventuali accordi politici grazie ai quali al-Bashir potrebbe essere persino amnistiato, è certo che il sistema di giustizia sudanese non potrebbe assicurare lo svolgimento di un processo equo e trasparente. Per questo, e per far sì che finalmente le vittime del conflitto del Darfur possano avere giustizia, al-Bashir dev’essere consegnato al più presto al Tribunale penale internazionale.