“Grazie alla Corte Costituzionale un passo avanti per il diritto alla salute dei detenuti” La Repubblica, 22 aprile 2019 A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione, nel commentare la pronuncia della Corte in merito al dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. “La sentenza della Corte Costituzionale, la n. 99, è importantissima per il diritto alla salute dei detenuti. Finalmente la malattia psichica viene considerata alla stessa stregua della malattia fisica, nel caso in questione ai fini della concessione della detenzione domiciliare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, nel commentare la pronuncia della Corte in merito al dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. “Un rimedio alle timidezze del legislatore”. “Con questa sentenza - dichiara ancora Gonnella - la Corte rimedia alle timidezze e alle paure del legislatore che aveva avuto l’occasione in sede di riforma dell’ordinamento penitenziario di introdurre questo principio sacrosanto, ma non lo aveva fatto ignorando la scienza ma anche la pratica medica. Una sorta di rimozione del problema del disagio psichico che finalmente viene superata. Ci auguriamo che da questa pronuncia si riproponga al centro dell’agenda politica l’equiparazione totale tra malattia fisica e psichica e dunque anche l’incompatibilità di quest’ultima con lo stato di detenzione arrivando, quando questa si presenta, a prevedere la sospensione o il differimento delle pena”. Una violazione al diritto alla salute. Nella sua pronuncia la Corte costituzionale ha sottolineato come l’assenza di una alternativa al carcere per chi fosse colpito da una grave malattia mentale, rappresentasse una violazione del diritto alla salute, sostanziandosi in un trattamento inumano e degradante che, provocando grave sofferenza e cumulandosi con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, arrivava a determinare un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. “In carcere - afferma ancora il presidente di Antigone - tutti sanno che c’è un disagio psichico enorme. Il carcere stesso è produttore di sofferenza e di malattia psichica. L’enorme uso di psicofarmaci in carcere. Non è un caso che fra i farmaci più usati, secondo rilevazioni effettuate dagli stessi medici, vi siano gli psicofarmaci. Dunque ci sono tantissimi detenuti con una malattia psichica certificata che potrebbero finalmente essere curati in modo adeguato, fuori da un ambiente a così alto rischio per la salute psico-fisica”. “Dalla sentenza - conclude Patrizio Gonnella - arriva anche indirettamente un monito a migliorare le condizioni di detenzione e l’intera offerta di salute all’interno delle carceri, essendoci un legame molto stretto fra la qualità della vita negli istituti e l’insorgenza di sofferenza psichica”. Rieducazione e certezza della pena di Laura Quagliarini periodicodaily.com, 22 aprile 2019 Questo articolo nasce in seguito al servizio televisivo andato in onda venerdì 18 aprile all’interno della trasmissione televisiva Propaganda Live, su La 7 TV. Il servizio mostrava la realtà virtuosa del carcere femminile di Rebibbia, a Roma. Le detenute sono coinvolte in un programma di formazione lavorativa in un allevamento di polli e conigli, nell’ottica di un futuro reinserimento sociale, dopo aver scontato la pena. Subito dopo, un’intervista ad un signore nigeriano di cinquant’anni, ci mostrava invece il lato oscuro del carcere, all’interno del quale anche il miglior ragazzo può perdersi per sempre. Personalmente io ho lavorato in un carcere per circa due anni, come medico-psichiatra. Ho scelto di dimettermi perché, pur dedicandomi con il cuore al mio lavoro, le logiche istituzionali non ne tenevano conto, ed io tornavo a casa piena di angoscia, carica della sofferenza dei detenuti, che non riuscivo a metabolizzare. Quando mi sono dimessa il vice direttore, una donna, mi ha chiesto in ogni modo di rimanere, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, ma io non ce l’ho fatta. Venerdì la trasmissione ha evocato i fantasmi di quel periodo e ho sentito l’urgenza di scrivere delle contraddizioni, dei punti di vista, delle sofferenze di tutti coloro che ruotano intorno al pianeta carcere. Da una parte una società che si autoproclama onesta, dall’altra persone che spesso vivono ai margini della stessa società, ma che a volte invece ne sono una delle tante espressioni. Spesso dove c’è un colpevole c’è una vittima: un cadavere, un truffato, una violentata, un minore abusato. E con la vittima ci sono dei fratelli, genitori, società, paesi, città, che sono immersi in un trauma psichico, oltre che reale. Il dolore investe le loro vite, un dolore tagliente, profondo, che annebbia e lacera la mente e per il quale l’unica cosa che fornisce sollievo è il pensiero della vendetta: la vendetta è la maniacalizzazione del dolore. La società occidentale europea incanala il desiderio di vendetta in desiderio di giustizia, per questo noi non abbiamo la pena di morte. Perché nella pena di morte è insito il concetto della vendetta: occhio per occhio, dente per dente. La vendetta è pericolosa, perché non favorisce l’elaborazione del lutto e, dopo la sua consumazione, si rimane con un senso di vuoto, che ha portato anche al suicidio i parenti delle vittime. La giustizia, però, non può prescindere dalla certezza della pena, cioè dalla garanzia che colui o colei che siano ritenuti responsabili di un delitto, paghino il loro debito con la società. Soprattutto su questo punto partono le strumentalizzazioni mediatiche, oltre che politiche. Pensiamo alla coppia Mambro-Fioravanti, condannati a nove ergastoli, che nel 2013 lei, nel 2009 lui, hanno visto estinta la pena, dopo un percorso di riabilitazione intenso e partecipato. Più di qualcuno ha storto il naso. Oppure su Angelo Izzo, condannato all’ergastolo per il massacro del Circeo, che in regime di semilibertà compie un altro duplice omicidio, mostrando un fallimento della rieducazione. Credo che non sia possibile trascurare ‘il punto di vista della vittima’. Di questo deve tenere conto l’ala progressista. Il tema non è “marcire in galera”, come i più reazionari si sentono di voler evocare, il tema è garantire un’equa gestione morale, in cui la rieducazione e la pena possano convivere e l’una non renda nulla l’altra. E così come il condannato va rieducato, la vittima va sostenuta, affinché possa elaborare il trauma, accettare una realtà che non sarà mai più la stessa. Solo l’elaborazione del trauma può condurre al perdono, ma occorre rispettare anche coloro i quali non saranno mai in grado di perdonare. Spesso c’è una distanza tra la vittima e la giustizia, e dove la vittima percepisce di avere meno tutele del colpevole, si apre la protesta, l’incomprensione, che porta ad aderire incondizionatamente alla propaganda apparentemente garantista. Riemerge il desiderio di vendetta che non è più sublimato nella giustizia. Nascono i movimenti a favore della pena di morte, ai quali ovviamente non interessano i dati statistici sulla sua efficacia. Reazionari e progressisti hanno bisogno di un compromesso. Una tutela bidirezionale. In modo che tutti possano sentirsi ugualmente umani e ugualmente considerati. Il colpevole e la vittima sono esseri umani, portano il peso della loro storia. Regole e garantismo che servono al Paese di Carlo Fusi Il Dubbio, 22 aprile 2019 Proviamo a rigirarla. Proviamo a pensare che Catiuscia Marini sia ancora governatrice umbra. Che il sottosegretario Armando Siri svolga senza patemi il suo incarico. Che la sindaca Raggi si affacci dal balcone sui Fori e veda solo storiche bellezze. Tutto ciò consentirebbe una discussione, accesa ma rispettosa, sulle incrostazioni che il mancato ricambio politico produce rendendo le amministrazioni riserve ereditarie di consenso? Che le grandi opere e le energie rinnovabili sono decisive occasioni di sviluppo a patto che siano del tutto trasparenti? Che non è serio aspettarsi miracoli nel risanamento delle nostre più belle città dopo decenni di trascuratezza e opache se non criminali connivenze, ma è ancora meno serio prometterli? Quasi sicuramente - e desolatamente la risposta non potrebbe che essere negativa. Perché nel nostro Paese la politica da troppo tempo ha smesso di interrogarsi su se stessa, di avere respiro e lungimiranza, di svolgere il compito specifico e democratico di ricerca di soluzioni per il bene comune. Una condizione di progressivo degrado e rinuncia che ha prodotto crollo di autorevolezza e scadimento di fiducia. Il perché mezza Italia rifiuti di andare alle urne sta qui. Su queste basi agisce l’uso strumentale e barbarico delle inchieste, che da decenni ha tracimato il livello di guardia. Le indagini sono diventate armi tanto improprie quanto devastanti di lotta politica dove qualunque colpo, compresi i più bassi, è ammesso o addirittura ricercato. Di conseguenza ogni avviso di garanzia diventa colpevolezza certa; ogni intercettazione, senza guardare se correttamente o scorrettamente pubblicata, inappellabile verdetto di condanna; ogni inchiesta, poco importa se è alle fasi preliminari, processo celebrato con sentenza già scritta. Se poi ci aggiungiamo la disinvoltura con la quale in tanti casi i media civettano con le Procure e l’enfasi spettacolarizzante che gioca senza scrupoli con vicende private e talvolta perfino privatissime delle persone, il quadro è sbozzato. Su questo sfondo, i principi cardine della civiltà giuridica diventano trascurabili orpelli. La presunzione di innocenza viene considerata un ingombro, retaggio di un passato da cancellare. O al contrario sfrontato scudo per nascondere responsabilità. Il controllo di legalità è indispensabile. Ma l’uso politico delle inchieste è fatale. Il rispetto delle regole, sempre e comunque, è il garantismo che ci appartiene e preferiamo. Stefano Cucchi, smettiamola di chiamarlo un “caso” di Manuela Avakian Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2019 È tornato alla cronaca il caso Cucchi e, dopo dieci interminabili (sicuramente per Ilaria) anni, qualche verità. Premetto che non mi piace l’espressione “caso Cucchi”. La trovo mortificante poiché annulla l’aspetto umano della persona relegando il tutto alla dimensione prettamente giudiziaria. È di Stefano Cucchi che si dovrebbe parlare. Semplicemente pronunciare il suo nome, bello come tutti i nomi del mondo. Parlare di un ragazzo come tanti, al tempo stesso unico. Stefano avrà sbagliato, travolto da una dipendenza, e nella giusta misura avrebbe pagato il suo conto con la giustizia che ha il compito di riabilitare, non la licenza di uccidere. Era buono, solare, generoso e affettuoso. Così lo descrivono coloro che lo hanno conosciuto. Io non posso che pensare a lui come un ragazzo che amava, odiava, rideva, piangeva, scherzava. Che dava gioie e preoccupazioni ai suoi cari. Forse ha avuto, fino al giorno prima di finire in quella maledetta caserma, una ragazza della quale era innamorato. O forse no, forse ne era alla ricerca. Forse non era pronto ad impegnarsi e voleva, come è giusto alla sua età, fare esperienze non vincolanti. Mi chiedo cosa gli piacesse mangiare, se fosse goloso. Chissà cosa sognava di diventare, quali fossero le sue passioni. Sempre che ne avesse. L’apatia non sarà una gran bella cosa, ma non è neppure un peccato mortale. Mi faccio tante domande su Stefano che sarebbe potuto essere il figlio, il fratello, l’amico di ognuno di noi. Mi angoscia il pensiero di ciò che avrà provato, oltre al dolore fisico, in quei sei giorni - terrore, solitudine, disperazione. Speranza, anche? Chissà che da credente, pur di non rinnegare un Dio a cui talvolta si fa davvero fatica a credere, abbia preferito pensare che l’Onnipotente fosse impegnato in questioni più importanti tanto da non riuscire a salvare Stefano. Uno strano tribunale di Giulietto Chiesa it.sputniknews.com, 22 aprile 2019 Si chiama Tribunale Penale Internazionale (TPI), ovvero in inglese ICC. E, chi legge distrattamente potrebbe essere indotto a pensare che si tratti di un tribunale vero, cioè uno di quei tribunali dove “la legge è uguale per tutti”. Invece si tratta di un Tribunale dove la legge, per definizione, è disuguale. Per intenderci: questo tribunale è quello che ha fatto morire Slobodan Milosevic in carcere. Facciamo un esempio. Questo tribunale sta cercando in questi mesi di mettere sotto accusa il governo della Siria, per “crimini di guerra”. Chi dovrebbe decidere se avviare la pratica del genere? Un Procuratore generale, possibilmente investito di queste funzioni. Il problema è che esiste un Procuratore generale, ma non è affatto chiaro chi lo nomina. Forse un qualche “governo mondiale”? Niente affatto. Esistono invece dei finanziatori che pagano l’orchestra e, quindi, decidono loro quale musica dobbiamo ascoltare. Perché la Nato non ha condotto un’operazione terrestre contro la Jugoslavia? Chi sono questi finanziatori? Sono l’Unione Europea, la Nato e gli Stati Uniti. E qui siamo di fronte a un paradosso davvero curioso. Gli Stati Uniti non sono tra i firmatari dell’Atto di Roma, istitutivo dell’ICC. Per meglio dire, all’inizio lo erano, poi, sotto George Bush Jr., ritirarono la loro firma. Come mai è presto detto: gli Stati Uniti si considerano un popolo e un paese del tutto eccezionale, che può dunque essere soggetto solo ed esclusivamente a leggi proprie. Dunque è difficile immaginare che un presidente degli Stati Uniti, oppure un generale americano, o chiunque altro pezzo grosso americano (o inglese, o amico loro), possa essere oggetto di incriminazione da parte di un qualsiasi tribunale non strettamente americano. Dunque, per evitare situazioni imbarazzanti, Washington ha cancellato l’adesione all’ICC. Ma questo non significa che gli USA abbiano rinunciato a usarlo. In effetti è molto comodo ai presidenti americani avere un tribunale per giudicare “gli altri”. Com’è noto, infatti, è in corso ormai da parecchi anni l’idea che la legislazione americana debba essere considerata legislazione “mondiale”. Solo che non tutti i paesi del mondo sono dello stesso paese. Per esempio non lo sono la Cina, la Russia, l’Iran. E anche molti altri, per esempio il Venezuela. Che, ovviamente, non hanno la minima intenzione di sottostare a queste angherie. Filippine si ritirano dalla Corte penale internazionale - Comunque l’ICC è in funzione, con 123 paesi firmatari, istituito con lo Statuto di Roma nel 2002. E l’Occidente, con i suoi potenti mezzi, si esercita da allora per farlo funzionare nel proprio interesse. Basti ricordare il caso dell’Afghanistan, dove decine di organizzazioni internazionali hanno chiesto l’avvio di una inchiesta sui crimini americani nei 18 anni (fino ad ora) di guerra, ma nulla è stato fatto. Il governo afghano, nella sua posizione di paese occupato, ha opposto “liberamente” il suo diniego. Un ulteriore tentativo è stato bloccato - dopo l’opposizione del governo americano - da una risoluzione unanime della camera giudicante, che ha negato la prosecuzione delle indagini con l’argomentazione che “le prospettive di successo sarebbero assai limitate”. Meglio dedicarsi ad attività con superiori possibilità di successo. Il bombardamento della Jugoslavia: una lezione importante in nome della democrazia - Del resto uno stato “non parte” (che cioè non ha ratificato l’adesione all’ICC) non è tenuto a estradare un proprio cittadino che abbia commesso crimini in un “paese parte”, e non ci sono mezzi di coercizione internazionale che possano costringere un paese “non parte” a cedere alle richieste della Corte Internazionale. Così si spiega bene perché i due unici processi celebrati sono stati dedicati all’ex Jugoslavia e allo Zambia. Uno a punire i crimini di un paese che non esiste più, perché è stato distrutto dalla Nato, e quelli di un altro paese che non è in condizioni di difendersi da imposizioni e ricatti che provengono dall’Occidente. E, basta guardare l’elenco degl’imputati del Tribunale ad hoc della ex Jugoslavia per constatare una spropositata e ostile attenzione, che molti osservatori hanno definito “unilaterale e vendicativa”, agli imputati di etnia serba. Insomma l’ICC se la prende con i poveri e gli sconfitti e, in base al suo stesso ordinamento, si guarda bene dal toccare i padroni del mondo e i loro sicari. Anche nel caso Iraq versus Regno Unito è stato bloccato dal Procuratore generale con l’argomentazione che l’Iraq non è “stato parte” e che non c’erano segnalazioni di “stati parte” che giustificassero l’azione investigativa. L’indagine non iniziò neppure. Così Tony Blair se ne sta tranquillo nella sua villa isolana e, anzi, gira per il mondo continuando a svolgere incarichi internazionali assai bene retribuiti. Forse sarebbe il caso di studiare le carriere dei 16 giudici permanenti e del 12 giudici ad litem che sono in forza al Tribunale Penale internazionale. E anche l’ammontare dei loro conti in banca. Oltre 4.000 cristiani uccisi per fede in un anno di Milena Castigli interris.it, 22 aprile 2019 Su 150 Paesi monitorati, 73 hanno evidenziato un livello di persecuzione da “alta” a “estrema”. Sono molte migliaia i cristiani uccisi per ragioni legate alla loro fede ogni anno. Lo scorso anno, sono stati 4.305, in crescita rispetto ai 3.066 del 2017; il maggior numero di vittime si è contato in Nigeria per mano soprattutto degli allevatori islamici Fulani, oltre che dei terroristi Boko Haram. Si contano infatti 3.731 cristiani uccisi in questa nazione, con villaggi completamente abbandonati dai cristiani, che alimentano il fenomeno degli sfollati interni e dei profughi. Lo evidenziano gli ultimi dati della World Watch List, il Rapporto sulla persecuzione anti-cristiana nel mondo pubblicato dalla ong Porte Aperte, l’ultima volta a gennaio 2019. Nel 2018, si legge nel Rapporto, sono saliti a 245 milioni i cristiani perseguitati nel mondo. “Cinque anni fa, solo la Corea del Nord raggiungeva un livello di persecuzione dei cristiani definibile estremo. Oggi sono ben 11 i paesi ad ottenere un punteggio sufficiente per rientrare in questa categoria. In termini assoluti si perseguita i cristiani di più e in più luoghi rispetto all’anno precedente, e difficilmente nella storia dell’umanità troverete un altro periodo storico così oscuro per i cristiani. Se la richiesta di aiuto di oltre 245 milioni di persone non scuote le coscienze, allora siamo ufficialmente entrati nell’era della sordità emotiva”, ha commentato il report Cristian Nani, direttore di Porte Aperte/Open Doors. Sui 150 Paesi monitorati, 73 hanno mostrato un livello di persecuzione definibile alta, molto alta o estrema, mentre l’anno scorso erano 58. Tra i Paesi che rivelano una persecuzione definibile estrema, lo Sri Lanka è in 46/ma posizione. Al primo posto c’è la Corea del Nord, dove si stimano tra 50 e 70mila cristiani detenuti nei campi di lavoro per motivi legati alla loro fede. Anche Afghanistan (secondo posto), Somalia (terzo), Libia (quarto) si confermano tra i Paesi dove la vita per i cristiani è più difficile. Il rapporto riporta una mappa/classifica dei primi 50 paesi dove più si perseguitano i cristiani. I metodi di ricerca e i risultati sono sottoposti a revisione indipendente da parte dell’Istituto Internazionale per la Libertà Religiosa. Nella mappa consultabile nel sito porteaperteitalia.org, la mappa interattiva è divisa in 3 colori diversi per segnalare i 3 gradi dipersecuzione (in base al punteggio): Alta (41-60), Molto Alta (61-80), Estrema (81-100). I sette Paesi “estremi”, sono - oltre ai primi 4 già citati - Pakistan; Sudan; Eritrea; Yemen; Iran; India e Siria. In Asia, incluso il Medio Oriente, un cristiano su 3 è definibile perseguitato. Ad accelerare questo processo è il peggioramento della situazione in Cina, risalita al 27° e al primo posto per incarceramenti di cristiani, e in India, la quale dall’ascesa al potere del Primo Ministro Modi è stata scenario di un costante aggravamento della condizione dei cristiani, fino ad entrare nella top 10 della WWL 2019. A proposito di incarceramenti, registriamo 3.150 cristiani arrestati, condannati e detenuti senza processo, poco meno del doppio del 2017. Ricordiamo che questi sono dati di partenza verificati, dunque il sommerso, sia nell’ambito degli assassini che degli incarceramenti, potrebbe aumentarli di molto. Sono invece 1.847 le chiese (ed edifici cristiani direttamente collegati ad esse) attaccati nello stesso periodo, si legge nel rapporto. Sri Lanka. 8 esplosioni in chiese e hotel: 290 vittime, 35 stranieri Corriere della Sera, 22 aprile 2019 Le esplosioni a Colombo, Negombo, Batticaloa e Dehiwela. I feriti sono oltre 500. Arrestate 24 persone. Revocato il coprifuoco, resta il blocco dei social network. Pasqua tragica nello Sri Lanka dove almeno sei esplosioni simultanee - avvenute poco prima delle 9 del mattino ora locale nella capitale, Colombo, e in due altre città (Batticaloa e Negombo) - hanno colpito tre chiese (affollate per le messe) e tre hotel di lusso, frequentati anche da turisti stranieri. Altre due esplosioni hanno colpito il Paese ore dopo le prime sei. Il bilancio è di almeno 290 morti e oltre 500 feriti; 35 delle vittime sono straniere. Tra loro anche Shantha Mayadunne, una chef molto famosa in Sri Lanka. Uno dei sette kamikaze si sarebbe fatto esplodere mentre era in coda al buffet della colazione nel Cinnamon Grand hotel di Colombo: si era registrato sotto falso nome facendosi passare per un uomo d’affari che si trovava in città per lavoro. Revocato il coprifuoco, resta il blocco dei social network «per evitare la diffusione di notizie false». Il funzionario, Ariyananda Welianga, ha aggiunto che gran parte degli otto attentati sono stati realizzati da una persona ciascuno, mentre in almeno un attacco - quello all’hotel Shangri-La di Colombo - gli attentatori erano due. Ventiquattro persone sono state arrestate nell’ambito delle indagini sugli attacchi: la pista seguita, secondo quanto dichiarato dal governo, è quella del terrorismo di matrice religiosa. Lo Sri Lanka è un Paese a maggioranza buddista: il 70 per cento della popolazione è seguace dell’antica scuola Theravada, ma i cristiani con il 7,4 per cento rappresentano la terza minoranza dopo indù (12,6%) e musulmani (9,7%). I cittadini stranieri colpiti dagli attacchi sono, secondo quanto rivelato finora da fonti ospedaliere rilanciate da siti locali e dalle agenzie di stampa, di nazionalità turca, cinese, olandese, britannica, danese, giapponese, statunitense, marocchina, indiana e bangladese. La Farnesina ha confermato al Corriere che l’Unità di crisi è al lavoro per effettuare verifiche sull’eventuale presenza di italiani. «Restate in casa» - Il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza. Il presidente Maithripala Sirisena ha diffuso una dichiarazione in cui condanna «con forza» gli attentati, e invita la popolazione alla calma. «Per favore restate in casa. Ci sono molte vittime, inclusi stranieri», ha scritto su Twitter il ministro per le Riforme economiche Harsha de Silva, che ha visitato alcuni dei luoghi attaccati. «Scene orribili, ho visto arti amputati sparsi dappertutto, le squadre di emergenza sono state inviate in tutti i luoghi. Abbiamo portato molte vittime in ospedale, speriamo di aver salvato molte vite», ha aggiunto il ministro. L’allerta e la rivendicazione (che non c’è) - Al momento non ci sono state rivendicazioni. Il Paese, per decenni, è stato martoriato da una guerra civile, combattuta con i separatisti Tamil, terminata nel 2009. Ma il capo della polizia dello Sri Lanka aveva emanato un’allerta a livello nazionale 10 giorni fa segnalando il rischio di attentati kamikaze contro «chiese importanti». L’ufficiale, Pujuth Jayasundara, aveva segnalato la minaccia l’11 aprile, allertato da un servizio di intelligence straniero, secondo il quale il gruppo radicale islamico National Thowheeth Jama’ath (Ntj) stava «pianificando di compiere attacchi suicidi contro chiese importanti come pure l’alta commissione indiana a Colombo». Il gruppo radicale islamico Ntj è noto dall’anno scorso, quando era stato collegato ad una serie di atti vandalici contro simboli buddisti. Il vescovo: «Atti da punire senza pietà» - I responsabili degli attentati di Pasqua nello Sri Lanka «vanno puniti senza pietà»: ha detto l’arcivescovo di Colombo, cardinale Malcom Ranjith. Il presule ha poi fatto appello al governo dello Sri Lanka affinché avvii una «indagine molto imparziale e severa» e punisca i responsabili degli attacchi «senza pietà, perché solo degli animali possono comportarsi in quel modo». La chiesa dello Sri Lanka ha sospeso tutte le celebrazioni pasquali in programma nel Paese e ha diffuso un appello a donare sangue per i feriti. Le reazioni - «Ho appreso con sdegno e profonda tristezza la notizia dell’efferato attentato che nelle ultime ore ha insanguinato lo Sri Lanka, causando numerosissime vittime anche tra fedeli inermi riuniti per celebrare la Pasqua. In queste drammatiche ore, interprete dei sentimenti degli italiani, desidero far giungere a lei e all’amico popolo dello Sri Lanka le più sincere espressioni di cordoglio e di condanna di questo vile gesto di insensata violenza», ha detto Sergio Mattarella in un messaggio al Presidente Maithripala Sirisena. «Profonda tristezza» ha espresso il presidente francese, Emmanuel Macron dopo gli attacchi terroristi contro chiese e hotel in Sri Lanka. E anche il Papa, in occasione della Messa in piazza San Pietro, ha espresso «dolore per il Paese», «ricordando che Dio non abbandona chi soffre». Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto «indignato per gli attacchi terroristici», in «un giorno sacro per i cristiani di tutto il mondo». In una nota l’ex premier portoghese ha sottolineato «la sacralità di ogni luogo di culto» e ha auspicato che «i responsabili siano rapidamente consegnati alla giustizia». Sri Lanka. Dalla guerra civile all’odio religioso sui social di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 22 aprile 2019 Non è ancora chiara la matrice degli attentati di Pasqua, nel Paese dove da 10 anni il terrorismo (con le Tigri Tamil) sembrava sconfitto. Ma la violenza etnica rimane. Ancora non c’è una rivendicazione per gli attacchi di Pasqua che hanno causato oltre 150 morti, ma lo Sri Lanka ha una lunga storia di terrorismo nel suo passato recente. Dal 1983 al 2009 l’isola tropicale a sud dell’India, l’ex Ceylon diventato indipendente nel 1948 dopo quasi 150 anni di dominio britannico, è stata insanguinata da una guerra civile: da una parte le forze del governo, espressione della maggioranza singalese, dall’altra i guerriglieri delle «Tigri Tamil», un gruppo estremista, comunista e secessionista che ha combattuto con attacchi terroristici di ogni tipo a sostegno della minoranza etnica Tamil. In 26 anni sono morte oltre 70 mila persone, forse addirittura 100 mila, finché dieci anni fa il presidente Mahinda Rajapaksa - dopo un’offensiva in cui è stata denunciata una sistematica violazione dei diritti umani - ha dichiarato sconfitte le Tigri, che hanno deposto le armi. Eppure le accuse di violenze da entrambe le parti sono continuate negli anni. Dopo la fine della guerra civile nel 2009, gli episodi di violenza sono stati sporadici ma legati a motivi religiosi. Ci sono stati attacchi da parte di estremisti della maggioranza buddista Sinhala a moschee e proprietà musulmane, finché nel marzo 2018 non è stato dichiarato lo stato di emergenza, che ha permesso alle autorità di arrestare decine di persone. In Sri Lanka il governo a marzo dello scorso anno aveva bloccato temporaneamente Facebook, perché sui social erano diventati virali alcuni post che incitavano alla violenza di massa verso la minoranza musulmana. Secondo un report statunitense, su Facebook le campagne di odio verso i musulmani e altre minoranze religiose vanno avanti dal 2013. E, dopo l’attacco di Pasqua, mentre è stato revocato il coprifuoco, resta il blocco totale dei social. Il buddismo Theravada è la religione più diffusa nel Paese che conta circa 21 milioni di abitanti: il 70,2% dei cittadini, secondo un recente censimento citato dalla Bbc, fa parte di questo culto, la religione della maggioranza singalese che trova espressione anche nelle leggi del Paese e nella costituzione. La seconda religione più praticata è l’induismo (dal 12,6% della popolazione, praticato dai Tamil), prima dell’Islam (9,7%). Nel Paese vivrebbero anche 1,5 milioni di cristiani (il 7,8%), secondo il censimento del 2012, per la maggior parte cattolici. Dal gennaio 2015 il Paese è guidato dal presidente Maithripala Sirisena, ex ministro della salute, che ha sconfitto a sorpresa l’uomo forte Rajapaksa. Tra le sue promesse c’era anche quella di superare le atrocità della lunga guerra civile. Rispetto a molti altri Paesi del sud dell’Asia, lo Sri Lanka ha un tasso di alfabetizzazione molto alto e una crescita economica costante poco inferiore al 6% l’anno: il tasso di povertà è passato dal 15,3% al 4,1% dal 2006 al 2016, anche grazie a un turismo florido, che ha visto quadruplicare i visitatori negli ultimi dieci anni, da 448 mila a circa 2 milioni l’anno. Rimangono però aree estremamente povere e molti problemi sociali. Turchia. Le condizioni di salute dei prigionieri in sciopero della fame peggiorano retekurdistan.it, 22 aprile 2019 Il co-portavoce dell’associazione per il sostegno ai prigionieri Tuay-Der, Abdulmenaf Kur, dichiara: “Le condizioni di salute dei prigionieri in sciopero della fame peggiorano costantemente. Bisogna fare qualcosa prima che dalle carceri escano morti”. Attualmente in Turchia e in Kurdistan del nord diverse migliaia di prigionieri sono in sciopero della fame per la revoca dell’isolamento del rappresentante curdo Öcalan, nell’ambito della protesta iniziata dalla politica curda Leyla Güven il 7 novembre 2018, quando anche lei si trovava ancora in carcere. Molti prigionieri hanno superato da tempo i 100 giorni, alcuni sono in sciopero addirittura da oltre 127 giorni. Le loro condizioni di salute peggiorano a vista d’occhio. Gli scioperanti hanno dichiarato alle loro famiglie di voler scioperare fino a quando sarà rimosso l’isolamento di Öcalan. ANF ha parlato con il co-portavoce dell’associazione per la solidarietà e il sostegno alle famiglie die priogionieri (Tuay-Der), Abdulmenaf Kur. Riferisce che in particolare le madri dopo le visite in carcere sono sempre più infuriate di prima per il fatto che non viene fatto niente per poter mettere fine allo sciopero della fame. Impedite le visite dei famigliari - Rispetto al comportamento dell’amministrazione delle carceri nei confronti degli scioperanti, il rappresentante dell’associazione afferma: “Appena pochi giorni fa i guardiani nel carcere di Kirikkale hanno spaccato gli armadi dei prigionieri. Applicano isolamento nell’isolamento. Quando le famiglie visitano i loro figli, viene detto che sono in corso misure disciplinari e vengono mandate via. Noi come associazione facciamo il possibile per trovare soluzioni per questi problemi. In particolare i parenti di famiglie che vivono a Amed vengono reclusi nelle province occidentali. Quando qualcuno si rivolge a noi, cerchiamo di portare i problemi soprattutto alla stampa. Poi cerchiamo di fargli avere aiuto e sostegno. Le condizioni di salute dei prigionieri - “Le condizioni di salute di Ilhami Çinar nel carcere di Sakran a Izmir sono pessime”, dichiara Kur. “Soffre di perdita della vista e sputa sangue. Abbiamo saputo che un prigioniero soffre di sanguinamenti addominali. Le famiglie ci hanno riferito che altri prigionieri perdono sangue dalla bocca e dal naso. I prigionieri a Rize-Kalkandere hanno problemi di salute simili. Con ogni giorno peggiorano le loro condizioni di salute. Non riescono più a recarsi da sé alle visite. Ma si sforzano lo stesso di dare alle famiglie un’impressione di forza. Deve immediatamente essere fatto qualcosa per la soluzione di questi problemi. Ogni istituzione e ogni individuo che parla di diritto e giustizia deve capire che qui è in atto una grave ingiustizia”. Tutti devono essere vigili - Kur conclude con le parole: “Le famiglie sono molto sensibili rispetto a questo argomento. In parte ormai volevano partecipare loro stesse allo sciopero della fame fino alla morte. Ci dicono di essere pronte a fare tutto il necessario. Può essere che nei prossimi giorni entrino insieme in sciopero della fame. Hanno comunque già fatto uno sciopero della fame di tre giorni nella sede dell’ordine degli avvocati di Amed. Chi si considera un essere umano deve fare qualcosa. Non vogliamo che dalle carceri arrivino notizie di altre morti”.