“Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori” di Gigi Riva L’Espresso, 21 aprile 2019 Abbiamo passato una giornata con i detenuti di una sezione “Alta Sicurezza”, parlando di calcio, libri e di quelle scelte che ti cambiano la vita. Che nesso c’è tra un rigore sbagliato e un reato commesso? Un’assonanza più stretta di quella già evidente per i tifosi di calcio poteva trovarla solo un detenuto. Siamo alle Sughere, carcere di Livorno, ramo alta sicurezza. Mi hanno invitato a parlare del mio libro “L’ultimo rigore di Faruk” (Sellerio) nell’ambito del progetto “Caro amico, io scrivo...” coordinato da Monica Sarno del provveditorato regionale toscano dell’amministrazione penitenziaria. In galera si guarda molto calcio in televisione, si gioca al calcio, si parla di calcio. A Livorno c’è, oltretutto, Gennaro De Tommaso, detto “Genny ‘carogna”, condannato a 18 anni per traffico di droga, capo dei Mastiffs, frangia ultrà del Napoli, diventato famoso perché nel 2014 trattò con le autorità le modalità di svolgimento della finale di Coppa Italia tra la sua squadra e la Fiorentina, dopo gli incidenti e il ferimento di un suo compagno di fede, Ciro Esposito (spirerà in seguito). E io voglio raccontare delle curve degli stadi jugoslavi, degli hooligan trasformati in zelanti miliziani dediti agli stupri, alle carneficine e alle esecuzioni sommarie. Non solo Genny, c’è anche Giovanni Mercadante, 70 anni, radiologo e docente universitario, 10 anni e 8 mesi di pena per associazione mafiosa, l’accusa, che ha sempre negato, di essere il medico del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la lunga latitanza. E poi pluriomicidi, trafficanti internazionali di eroina e cocaina, camorristi, mafiosi. Molti di loro si sono laureati in galera, seguono gruppi di lettura, impiegano il tempo sui libri. Sono stato per lavoro in altre prigioni, erano sempre edifici ben che vada ottocenteschi, scuri, tetri, l’architettura stessa che implacabilmente suggerisce di lasciare ogni speranza a chi ci entra. Alle Sughere, costruito nel 1984 dove la città muore nella campagna, la luce vince sulle comunque solide sbarre perché filtra da ampie finestre. Non un luogo ameno, ovvio, ma senza l’oppressione aggiuntiva del buio perenne. La sala dove mi aspettano è gremita. Oltre alla sessantina di detenuti che hanno deciso di partecipare all’incontro, la giudice di sorveglianza Valeria Marino, il direttore Carlo Mazzerbo, qualche educatore, qualche guardia. Nessuna tensione, sembra la normale presentazione di un volume in un posto solitamente deputato. Ci sarebbe una sorta di cattedra, decido di mettermi in piedi, davanti a loro, per abbattere le barriere. Fuori si sente il rumore sordo di un pallone che sbatte contro il muro, stanno giocando al calcio, sarà la colonna sonora adatta e in sintonia col tema. Visti da questa prospettiva i prigionieri sembrano tutti uguali o quasi. Scarpe da ginnastica, tute dal colore dominante blu. Spiccano alcuni ragazzi neri, uno in particolare dai capelli rasta, ben integrati sembrerebbe, laggiù verso il fondo della sala. Hanno volti ma non hanno nomi. E si faticherebbe a riconoscere quelli noti alle cronache, così diversi ormai dalle foto pubblicate sui giornali o sui siti Internet. La cella non ne ha stravolto i connotati, questo no, però ne ha mutato nel profondo le espressioni. Dov’è lo sguardo truce e sfidante di Genny? Dov’è la posa sicura di sé del Giovanni Mercadante primario radiologo sempre ritratto in inappuntabile giacca e cravatta? Solo l’accento tradisce l’origine ed è una prevalenza di napoletano. Fin da prima che cominci il racconto. “Dicci di Maradona”. Ed era la domanda attesa, magari non così presto. L’esergo del libro, in diversi lo hanno già letto, è una frase che Diego Armando Maradona mi disse nel lontano 1986 su un volo Milano-New York come risposta a una mia domanda di intervista: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”. Un evidente aforisma per rendere esplicita una verità che a lui, dio del football, sembrava chiara. Il calcio non è solo un gioco ma una partita che lo trascende perché investe l’economia, la finanza, la politica, la guerra persino. Il napoletano che per primo ha rotto il ghiaccio mi fornisce l’assist per la narrazione del mio Faruk. Faruk Hadzibegic è stato il capitano dell’ultima nazionale di calcio della Jugoslavia. Al mondiale italiano del 1990 sbagliò il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona nei quarti di finale. È rimasto a lungo convinto che se avesse fatto gol, se i plavi avessero vinto la Coppa del Mondo, non ci sarebbero stati i conflitti balcanici degli Anni 90, perché l’euforia collettiva nelle sei Repubbliche che formavano la Federazione sarebbe stata il collante contro l’implosione. Un’illusione. Lo stesso Faruk tempo dopo ha capito che il suo Stato si sarebbe sfasciato ugualmente. E tuttavia oggi i suoi ex connazionali gli rimproverano quell’errore fatale dal dischetto, lo considerano la causa finale scatenante. Un capro espiatorio, perché a noi umani piace semplificare vicende complesse: un rigore che causa una guerra è di immediata comprensione, ha persino un velo di romanticismo. L’internamento degli stranieri è diventato normalità e viene anzi rivendicato con orgoglio da tutte le recenti leggi come il “decreto sicurezza”. Sembra di essere tonati agli anni bui del Novecento Spiego che il mio intento è stato quello di usare la vicenda per riflettere su cosa è la responsabilità individuale. Si può addossare al calciatore la colpa di 150 mila morti, tanti ne fece quella guerra, perché il portiere gli ha parato il tiro dal dischetto? L’uditorio è attentissimo. Intuisco che, nelle loro teste, Faruk è trasvolato. Fino a che punto lo scopro da quella che non è una domanda ma un’accorata perorazione. Un uomo sulla cinquantina, segaligno, capelli neri, barba sfatta, campano si è sentito toccato nel profondo. Attacca: “Questo Faruk avrà pur fatto qualcosa di buono, no? Ha giocato in nazionale, ha vinto dei campionati. Eppure sarà ricordato per quell’errore. È un po’ come noi. Se siamo qui dentro è perché abbiamo sbagliato e giustamente paghiamo. Ma siamo marchiati per sempre, noi siamo la nostra colpa e basta, non è giusto. Anche noi abbiamo fatto qualcosa di buono prima, lo faremo anche dopo”. Gli educatori mi confideranno che alcuni condannati hanno espresso amarezza perché all’epoca del delitto commesso c’era il loro nome e cognome a nove colonne sulla stampa, mentre quando si sono laureati, magari con 110 e lode, nell’ambito di articoli sul recupero e la rieducazione in carcere sono diventati anonimamente “un detenuto che ha ottenuto il massimo de voti”. Continuo a non capire quale sia Mercadante. Genny forse si appaleserà adesso che affronto il tema degli ultrà. Come il serbo Zeliko Raznjatovic detto Arkan, peraltro passato anche dal penitenziario di San Vittore a Milano dove fomentò una rivolta, trasformò dei violenti supporter della Stella Rossa di Belgrado in assassini, feroci strumenti della pulizia etnica. Come gli hooligan della Dinamo Zagabria si arruolarono nella milizia neo-ustascia degli Hos. Come a Sarajevo per difendere la città assediata assoldarono curvaioli e persino galeotti. Come in generale il potenziale esplosivo delle curve sia servito, nell’ex Jugoslavia e altrove, al potere. In Russia ad esempio dove un boss dello stadio è uno degli amici della ristretta cerchia di Vladimir Putin. Sugli spalti sono state sdoganati simboli fascisti e nazisti, si sentono cori antisemiti, il razzismo è diffuso e sempre più spesso si fa il verso delle scimmie contro gli atleti di colore, di recente è avvenuto a Cagliari con Moise Kean, peraltro centravanti degli azzurri oltre che della Juventus. Del resto le curve sono una cartina di tornasole della società. I detenuti neri annuiscono. Qualcuno dice “è colpa di Salvini”. Osservo che sarebbe utile ripristinare tabù che sono caduti in disuso, non si può scherzare sull’Olocausto, l’accoglienza è un valore, la vita umana è sempre sacra, non si può assistere inermi alla trasformazione del Mediterraneo in un cimitero. Allo stesso modo che per Faruk e la responsabilità individuale, anche questo ragionamento produce un cortocircuito. Ho detto “la vita umana è sacra” riferendomi ai migranti ma sono davanti a diversi assassini persino seriali. Gli educatori la interpretano come una involontaria provocazione che può produrre un’eterogenesi dei fini, indurre a una riflessione su se stessi e il proprio passato. Non ho strumenti per capire se succederà, magari è già successo, impossibile indagare in così poco tempo nel profondo l’animo umano. Capisco però che ogni argomento in carcere si coniuga nell’ autoreferenzialità, si riduce al confronto con se stessi e il proprio ambiente chiuso. Le mani si alzano di continuo per chiarire un dettaglio, chiedere una spiegazione. È anche, credo, il tentativo di prolungare un momento inedito o quasi, una piccola vacanza, uno scacciapensieri. Pensieri che, però, tornano ossessivi. Il comandante delle guardie avverte che il tempo a disposizione è scaduto, ci sono le regole, la scansione uguale della giornata deve riprendere il suo corso. Un signore brizzolato con una tuta chiara che lo distingue dagli altri chiede: “Ma lei è il Gigi Riva dell’Espresso?”. “Sì”. “Sono tanti anni che la leggo”. “Grazie dell’attenzione”. Poi c’è un capannello che mi travolge, non vogliono tornare in cella, ancora un minuto per favore. Un cinquantenne basso e tarchiato mi sussurra abbracciandomi: “Dopo questa giornata guarderò il calcio in modo diverso”. È già un risultato. Quelli che stanno più indietro nel mucchio alzano un braccio in alto per “darmi in cinque”. Rispondo come posso ai sorrisi e alle pacche sulle spalle. Genny non l’ho individuato. “Ma se è uno di quelli che ti ha dato il cinque”, mi informa una guardia. “Ed era piuttosto compiaciuto”. Stando ad alcune cronache si sarebbe pentito e starebbe collaborando con la giustizia. Qualcuno mi passa una penna per la dedica su un libro. È del signore brizzolato con la tuta chiara che precisa: “L’ho già letto e tra quattro giorni esco, ho scontato la pena, sono libero”. “Come si chiama a chi lo devo dedicare?”. “Mi chiamo Giovanni”. Giovanni Mercadante. Ora che avete davanti questo articolo, è già tornato a Palermo. Perché è diventato normale imprigionare i migranti anche se non hanno commesso reati di Donatella Di Cesare L’Espresso, 21 aprile 2019 L’internamento degli stranieri è diventato normalità e viene anzi rivendicato con orgoglio da tutte le recenti leggi come il “decreto sicurezza”. Sembra di essere tonati agli anni bui del Novecento. Ormai si è giunti a credere che sia ovvio, normale, legittimo internare uno straniero - solo perché straniero. Senza che abbia commesso alcun reato. Questa pratica repressiva è un’eredità inquietante del Novecento europeo che l’ha inaugurata. Prima non esisteva. Eppure oggi non si può ignorare a quali crimini sia giunta quella scellerata politica di ecologia della nazione, di pulizia etnica, di detenzione abusiva di esseri umani. Il rapporto offerto dal Garante nazionale Mauro Palma, che fa il punto sul trattamento dei migranti in Italia negli ultimi tre anni, è una lettura raggelante. Ed è lo specchio di quella profonda regressione politica, etica, culturale che non sembra trovare argine. Tutto è peggiorato, in particolare nell’ultimo anno, dopo il cosiddetto “decreto sicurezza”. La detenzione si estende e si moltiplica in uno spazio e in un tempo indefiniti. Ormai sembra lecito trattenere i migranti ovunque, non solo nei famigerati Centri di permanenza per il rimpatrio, ma anche nelle stazioni di polizia, negli hotspot, i punti di smistamento, situati vicino agli sbarchi, nei Centri governativi di prima accoglienza, persino quelli per minori, sui ponti di navi militari, imbarcazioni delle Ong e mercantili, negli ambulatori e nei locali delle forze dell’ordine all’interno degli aeroporti. Non c’è luogo che non sembri idoneo; il giudizio è affidato alle autorità politico-amministrative. Tra Genny ‘a carogna e il medico di Provenzano, abbiamo passato una giornata con i detenuti di una sezione “alta sicurezza”, parlando di calcio, libri e di quelle scelte che ti cambiano la vita Si ammettono così zone buie, sottratte a ogni controllo, nelle quali non giunge lo sguardo dei cittadini. I migranti possono essere esposti a soprusi e vessazioni, senza che nulla trapeli all’esterno. Dove finisce l’accoglienza e dove comincia l’espulsione? In che modo la protezione diventa un alibi per legittimare l’internamento? Certo è che negli hotspot - un termine inglese che tenta ipocritamente di coprire l’oscenità della selezione - si consegnano esseri umani inermi, e spogli di ogni diritto, al potere esercitato dai burocrati della sicurezza. E questi piccoli sovrani possono decidere arbitrariamente grazie all’ambiguità giuridica dei centri di smistamento che ormai assomigliano sempre più sbarrati. A onta della Costituzione italiana, che nell’articolo 13 prevede la libertà di movimento per tutti, e a dispetto della Convenzione europea dei diritti umani. L’Italia è stata già più volte condannata. Ad esempio nel caso di un gruppo di tunisini trattenuti senza motivo nel centro di Lampedusa (“Khlaifia e altri”, 15 dicembre 2016). Insomma chi arriva può essere fatto prigioniero: questa è ormai la legge non scritta. Attenzione, però! Non vale per chi sbarca con le navi da crociera, per gli affaristi russi, per i petrolieri sauditi. Vale per la “subumanità” alla deriva, per i migranti neri, le scorie della globalizzazione, le cui vite di scarto non interessano nessuno. Il Ministro dell’interno Salvini, spalleggiato dai Cinque Stelle, ha ripreso e rilanciato in grande stile la guerra dello Stato contro i migranti. Emblematica è la storia della nave “Diciotti”, il pattugliatore della Guardia costiera italiana che, dopo aver tratto in salvo 177 migranti, è diventata per giorni la loro assurda, illegale prigione. Importante è vedere, dietro l’abuso di potere, la strategia politica che mira a estendere la detenzione degli stranieri perfino in mare. I ponti delle imbarcazioni, che hanno soccorso i naufraghi, diventano, con un rovesciamento ignobile, luoghi di reclusione. Le navi vengono adibite a carceri. Così si favoriscono - i respingimenti di massa. Ma c’è di più: quei migranti, prigionieri proprio - lì dove avevano scorto la salvezza, sono esseri umani usati come ostaggi per dirimere conflitti che una politica inetta e incompetente non è neppure in grado di affrontare. E quando la politica fa acqua si ricorre alla gestione poliziesca. All’indomani del “decreto sicurezza”, visti gli effetti, si può dire che la detenzione sia diventata l’arma preferita, lo strumento cardine usato dal governo gialloverde contro i migranti. D’altronde che cos’altro resterebbe, una volta smantellato il sistema dello Sprar, quella rete di protezione e accoglienza che aveva appena cominciato a funzionare? Il “merito” di aver buttato per strada migliaia di richiedenti asilo, come se nulla fosse, non va riconosciuto soltanto a Salvini. I cinque stelle hanno fatto la loro parte con gli slogan propagandistici sul “business dei migranti”. Sembrano ancora vantarsene. Il risultato è che, per denunciare singoli casi di corruzione nel bilancio, è stato soppresso direttamente il sistema d’accoglienza. Tanto che importa della vita di quei quattro stranieri? Prima gli italiani! L’unica eccezione sono i Centri per il rimpatrio. Luoghi per eccellenza della detenzione, questi campi di internamento, che prima si chiamavano Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sono stati tollerati e, anzi, avallati dai governi di centro-sinistra. Li ha introdotti la legge Turco-Napolitano il 6 marzo 1998; la Bossi-Fini ha inasprito le misure. Si è trattato da allora di un più e un meno, una battaglia sul numero dei giorni di detenzione, come se questo non significasse già accettare l’obbrobrio. Le cifre del Garante sullo stato attuale dei Centri per il rimpatrio sono molto eloquenti. Nel 2018 sono state internate 4.092 persone; meno della metà, il 43%, sono state rimpatriate. E ancora: per buona parte di loro, cioè il 23%, si è trattato di un errore, perché non avrebbero dovuto essere neppure trattenute. Il “decreto sicurezza” estende la detenzione da 90 fino a 180 giorni. Si prevede inoltre la moltiplicazione di questi centri. Tornerà a funzionare anche la sezione maschile di Ponte Galeria, quelle gabbie immonde vicino all’aeroporto di Fiumicino, dove si può praticare con disinvoltura la zoologizzazione degli umani, la loro trasformazione in bestie, senza alcun rispetto per la dignità. A che cosa servono i Centri per il rimpatrio? A nulla, si vorrebbe rispondere. Eppure questi campi di detenzione, che appartengono già all’universo concentrazionario, hanno un valore simbolico. Chi è dentro, costretto senza alcun processo alla paradossale condizione di espulso-trattenuto, viene condannato all’immobilità e all’invisibilità. Può subire qualsiasi sopraffazione, senza che ciò venga alla luce. Questo riguarda tanto più il rimpatrio di cui poco si sa e che si traduce quasi sempre in una partenza improvvisa, in una sosta indefinita in aeroporto, un volo straziante, con le manette ai polsi, su un charter-prigione. Anche per chi calcola in termini di costi-benefici diventa difficile sostenere l’utilità di tenere in ostaggio pochi migranti capitati nei lacci del poliziotto di turno e nelle maglie della cattiva sorte. Dato che questo dispositivo non ha arrestato la migrazione, non è difficile intuire che si tratta di un messaggio propagandistico tutto rivolto all’interno. Si vuol far credere di difendere così l’ordine pubblico fomentando l’odio, alimentando la paura, spingendo i cittadini a cedere i loro stessi diritti in nome di una fantomatica sicurezza. C’è da chiedersi già adesso quanto tempo sarà necessario per riparare un danno culturale e politico così grave inflitto alla democrazia. Scrivere dentro il carcere di Maria Teresa Caccavale* Città Nuova, 21 aprile 2019 L’esperienza decennale di una docente sull’importanza di investire tempo e risorse per laboratori di scrittura dentro i luoghi di reclusione. Un ponte verso l’esterno e un percorso paziente di riabilitazione per la piena libertà. Il tempo della pena diventa un tempo utile se ben utilizzato. Purtroppo ciò non sempre accade nelle carceri, perché il più delle volte le persone sono abbandonate a se stesse e non trovano possibilità di attivare quel percorso di riabilitazione che dovrebbe dare un senso alla loro restrizione. Il carcere diventa, quindi, una prigione nella prigione, un luogo dove l’anima non trova spazio per evolversi. Dopo tanti anni di vita carceraria come docente di scuola superiore, ho avuto modo di osservare e di comprendere le dinamiche che ruotano intorno all’organizzazione degli istituti di pena e, purtroppo, ho dovuto constatare che non sempre, o meglio raramente, si tende a considerare i detenuti come persone e non come piaga sociale. E pertanto a prendersene cura. Ho anche compreso che il vero cambiamento può avvenire solamente con una presa di coscienza delle persone, dentro e fuori il carcere, attraverso un lavoro di sensibilizzazione. Dalla mia osservazione delle tante attività che possono essere utili ai detenuti, una sicuramente riveste un ruolo importante, ed è quello della scrittura. In tanti mi chiedevano sempre penne e quaderni come reliquie. In tanti non sapevano scrivere bene, ma dopo alcuni percorsi di istruzione, sono riusciti a scrivere, a comunicare con le loro famiglie. Vedevo la gioia nei loro occhi e si sentivano orgogliosi di questo traguardo, riacquistando un po’ di quella autostima ormai calpestata. Ecco perché oggi sono ancora più convinta che nelle carceri sono necessari dei laboratori di scrittura permanenti, al di là dei percorsi di istruzione istituzionali. La scrittura è un ponte tra chi scrive e l’esterno, per esprimere tutto il proprio mondo, e spesso i detenuti preferiscono scrivere piuttosto che parlare, perché parlare di se è molto difficile per loro. La scrittura assume così una valenza terapeutica autentica, e chi legge può percepire molti aspetti della personalità di una persona ed aiutarla in un percorso riabilitativo. È un modo per ascoltare ciò che viene dal profondo e che non verrebbe mai espresso. Quasi tutti i detenuti parlano di sé e hanno un grande bisogno di essere ascoltati, perché purtroppo gli operatori penitenziari non hanno molto tempo per ascoltare. La scrittura apre mondi sconosciuti e rappresenta un primo approccio verso l’amore per la conoscenza, il sapere, tanto da desiderare di frequentare i corsi di istruzione, soprattutto per quelle persone che sono inizialmente refrattarie ai corsi scolastici istituzionali. Solo con la cultura si può essere liberi veramente. Tanti sono i laboratori presenti oggi nelle carceri italiane, ma purtroppo lasciati alla scuola o al volontariato, in modo saltuario od occasionale. È necessario, invece, istituzionalizzare questa attività. O attraverso le scuole, quale attività integrativa permanente, o attraverso associazioni che stabilmente si prendono cura di attivare e gestire i Laboratori di scrittura. *Ambasciatrice Epale-Indire Benevento: detenuto suicida, il direttore del carcere “per noi sono sconfitte” tvsette.net, 21 aprile 2019 “Esprimo grande cordoglio per una vita che abbiamo perso. Pur avendo messo in campo tutte le risorse che avevamo non abbiamo potuto evitare il peggio. Queste per noi sono sconfitte. Altro non posso aggiungere poiché c’è un’indagine della magistratura in corso. Ma mi sento di fare un encomio al personale: agli agenti penitenziari, agli educatori e ai medici che hanno agito con grande professionalità”. È il commento all’Adnkronos del direttore della Casa circondariale di Benevento, Gianfranco Marcello, dopo il suicidio in cella di un detenuto avvenuto ieri mattina. L’uomo, Gabriele Barbato, 48enne, aveva costruito una corda utilizzando degli indumenti. Era in carcere da sabato scorso quando era stato arrestato con l’accusa di maltrattamenti in famiglia contro la moglie. Lo stesso era stato condannato in passato per aver ucciso la madre nel 2010. La salma si trova presso la sala morgue dell’ospedale Rummo a disposizione del magistrato Patrizia Filomena Rosa che oggi deciderà se procedere o meno all’autopsia. Avellino: il primo “concilia point” in Italia per le detenute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2019 Il progetto partirà nell’istituto di Sant’Angelo dei Lombardi. È uno strumento di sostegno alla ricerca del lavoro per mamme, mogli e sorelle dei carcerati, oltre che per tutte le donne del territorio Un concilia point, il primo in Italia, in un carcere. La casa circondariale è quella di Sant’Angelo dei Lombardi, in Campania. Lo sportello è rivolto a donne detenute, donne compagne di detenuti, sorelle o mamme di detenuti. Il progetto porta il nome di “Liberidi” e si propone di conciliare i tempi lavorativi con quelli familiari, offrendo sostegno ad esempio nelle varie fasi di ricerca di occupazione o anche solo informando i soggetti interessati dei fondi messi a disposizione della Regione come ad esempio corsi di formazione o orientamento. Previsti anche interventi per l’accudimento dei figli per le donne che lavorano. Si tratta di un progetto importante, un accordo con il territorio particolare perché è un’occasione importante per le donne, ma anche per i bambini, in maniera tale di offrire una possibilità alle mogli, ai compagni o ai figli dei detenuti. Lo scopo è quello di far conciliare i tempi lavorativi con quelli familiari, per quante vivono una vita familiare diversa da quella ordinaria. Lo strumento di sostegno alla ricerca del lavoro per mamme, mogli e sorelle dei carcerati, oltre che per tutte le donne del comprensorio altirpino, rappresenta un’autentica novità per una struttura carceraria, che amplia gli orizzonti dell’inclusività e del sostegno alle famiglie dei detenuti, offrendo la possibilità alle donne di un sostegno nelle varie fasi della ricerca di una occupazione: dalla compilazione di un curriculm vitae, fino all’integrazione del settore della formazione, con la valorizzazione delle competenze. Ci sarà, inoltre, una attività di concertazione per far partire due corsi di formazione presso la struttura: uno legato alla stampa, e un altro all’abbigliamento. Aprire un concilia point all’interno di un carcere, è il primo caso in Italia e che ha tra i partner proprio l’istituto penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi, oltre al Consorzio Servizi Sociali Alta Irpinia, il Consorzio Tekform, l’Associazione di volontariato Galea e Confcooperative Campania. Proprio la Presidente del Consiglio regionale Rosa D’Amelio, durante la presentazione del progetto, ha sottolineato il grande risultato raggiunto dalla Casa di Reclusione grazie ad una “politica di continuità” che ha consentito di aggiungere mattoni e sforzi a progetti ideati lontano nel tempo. “Da assessore regionale alle politiche sociali ho sostenuto interessanti progetti di sperimentazione in questa struttura, insieme all’ex Stapa Cepica di Avellino”, ha spiegato. “Questa struttura - ribadisce l’assessore - è una realtà importante per l’intero Mezzogiorno, e oggi inizia una nuova sperimentazione, che aggiunge un altro tassello alla nostra battaglia di civiltà”. Dalla Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi il garante regionale Samuele Ciambriello detta la metrica del ruolo della struttura all’interno della società: “Carcere è l’anagramma di cercare”. Mentre una rete di cooperative, istituzioni, enti di formazione e politica collaborano per proporre la migliore offerta rieducativa e consentire il riassorbimento nella società di quanti scontano la pena, la struttura si apre al territorio e diventa inclusiva. Modena: sovraffollamento delle carceri, a Castelfranco 4 detenuti in una cella tvqui.it, 21 aprile 2019 Al carcere Sant’Anna di Modena c’è il 31% in più di detenuti mentre a Castelfranco convivono in una stanza singola quattro detenuti. Torna drammatico il problema del sovraffollamento nelle carceri modenesi: al Sant’Anna, che per legge dovrebbe ospitare un massimo di 369 detenuti, oggi sono recluse 485 persone con un sovraffollamento del 31%. Non va meglio, anche se per ragioni diverse e con numeri differenti nella casa di reclusione di Castelfranco che dovrebbe ospitare fino a 219 detenuti ma ne accoglie 97 in una minima porzione della struttura, con 4 detenuti per camera, in quanto gran parte del complesso è chiusa ed inutilizzata. Significativo il rapporto italiani stranieri a Sant’Anna: solamente 39 dei 485 reclusi sono italiani, la maggioranza è di origine magrebina, poi un’infinità di nazionalità diverse che vanno a comporre una singolare torre di Babele carceraria. I problemi, come sempre, nascono a monte: oltre al turn over di detenuti che si spostano da una casa circondariale all’altra e che alternano momenti di sovraffollamento a periodi più tranquilli, le difficoltà sono create dalla presenza a tempo pieno solamente di un giudice dell’Ufficio di Sorveglianza e dalla scarsità di educatori, rispetto ai tanti detenuti, che rende più lenta la raccolta di tutti i dati necessari al disbrigo delle pratiche. Senza considerare il fatto, poi, che, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici, Castelfranco è diventato una sorta di succursale pur non essendone attrezzata. Viterbo: Partito Radicale, visita a pasquetta al carcere di Anna Rita frosinonemagazine.it, 21 aprile 2019 All’insegna di una buona tradizione esclusivamente pannelliana, una delegazione del Partito Radicale visiterà nella giornata di Pasquetta il carcere laziale di Viterbo. Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, tutti della Presidenza del Partito Radicale, insieme al giovane militante Giovanni Zezza, varcheranno alle ore 11 di lunedì 22 aprile il portone dell’istituto penitenziario da anni al centro delle cronache, così da essere considerato dai più un carcere “punitivo”. Stando alle cronache, infatti, solo nell’ultimo anno, all’interno del carcere, si sono verificati 2 suicidi (Andrea Di Nino di 36 anni, Hassan Sharaf di 21 anni) e un omicidio di cui è stato vittima il sessantaduenne Giovanni Delfino. Inoltre, proprio Rita Bernardini, aveva dato notizia, attraverso il quotidiano Il Dubbio, della denuncia di un pestaggio reso noto dalla moglie di un altro ospite del carcere, Giuseppe De Felice, pestaggio di cui aveva preso contezza nel corso del consueto colloquio settimanale quando rimase letteralmente scioccata nel vederlo pieno di lividi. “Ho cominciato ad urlare - raccontava la moglie al giornalista Damiano Aliprandi - ma mio marito mi ha detto di smettere, per la paura di subire altre ritorsioni”. Per queste tristi e gravi vicende sono in corso le indagini della magistratura, “la nostra visita di Pasquetta - ha precisato Bernardini - è autorizzata dal Dap ed esclusivamente finalizzata a verificare le condizioni di detenzione dell’istituto che, al 31 marzo, registrava (secondo i dati del Ministero della Giustizia) un sovraffollamento del 142% con 612 detenuti presenti a fronte di 432 posti disponibili e, con una presenza di stranieri superiore al 50%”. Milano: al numero del Centro per l’impiego risponde il detenuto di Opera di Paolo Tani Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2019 “Mi dicono grazie e per me è un riscatto”. Un call center del centro dell’impiego di Milano, gestito dai detenuti direttamente da una sala del carcere di Opera. Realizzato anche grazie alla collaborazione con l’Afol Metropolitana e al Regione Lombardia, è uno dei progetti d’inserimento lavorativo all’interno della casa di reclusione milanese, che in questo modo dà lavoro a 420 persone e ne favorisce il rientro nella società e nella collettività. Il call center dovrà ricevere e smistare le chiamate in ingresso al numero unico 02.77404141 di Afol Metropolitana e fornire informazioni agli utenti sulle modalità di fruizione dei servizi forniti dall’agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro. Un’occupazione che permette di dialogare con chi sta dall’altra parte del telefono e migliorare così le capacità di relazionarsi con gli altri. Le altre attività dei detenuti spaziano dall’assemblaggio alla saldatura, dalla digitalizzazione di archivi documentali al call center, dal giardinaggio alla produzione di prodotti alimentari, fino ad arrivare persino alla realizzazione di violini. Napoli: la scintilla del sapere che fa volare oltre le sbarre di Lorenzo Marone La Repubblica, 21 aprile 2019 Con i detenuti del carcere di Secondigliano: abbiamo parlato di libri e di vita. E del potere dell’immaginazione. Nell’ultimo mese sono stato più volte ospite del carcere di Secondigliano nell’ambito del progetto “Adotta uno scrittore”, voluto dal Salone del libro di Torino e Fondazione con il Sud; tre incontri con diverse classi attorno ai miei libri e alla lettura in generale. Ci ero già stato anni fa, ma stavolta ho avuto più tempo a disposizione, più incontri con i detenuti in aula, insieme con l’insegnante (la brava Antonella Capasso), in una situazione più intima, personale, umana. Talmente intima e personale che sembrava di trovarsi in una terapia di gruppo, ci siamo detti scherzando ma non troppo. Talmente personale che per un po’ quasi ho dimenticato dove mi trovavo, dimenticato i lunghi corridoi pieni di sbarre alle finestre e porte blindate. È stata un’esperienza formativa, per i detenuti, credo, ma anche e soprattutto per il sottoscritto, e non tanto per il senso di soffocamento che ti prende fra quei labirinti o per quello di libertà che ti assale dopo, quando esci e ti sembra di avere tutto il mondo per te. No, è stata un’esperienza importante perché mi ha confermato ciò che penso da sempre, che il confine fra bene e male, anzi fra giusto e sbagliato, fra legale e illegale, è molto labile (e qui a Napoli lo sappiamo bene), più sottile di quelle pareti che ci dividevano dalla vita normale, e basta un soffio di vento a spingerti da un lato o dall’altro. No, in verità se hai una struttura solida a sostenerti, è più difficile sbagliare; se hai fondamenta e sei così fortunato da nascere nel posto giusto, se hai accanto punti di riferimento, modelli, esempi, o anche solo qualcuno che ti spinga ad aprire un libro, allora la scampi. Con i ragazzi abbiamo parlato di libri, certo, di persone più che di personaggi, di vita, di scelte sbagliate, rimpianti e speranza, di come sia possibile cambiare la propria esistenza fino all’ultimo, e di quanto sia importante l’immaginazione, che è sì rifugio, ma anche e soprattutto fiamma che alimenta la curiosità. Perché spesso basta proprio la curiosità a salvare una vita. Ma ti devono insegnare a coltivarla da bambino, altrimenti si fa dura. Io ho avuto la fortuna di nascere in una casa piena di libri, la fortuna di poter scegliere, curiosare, così da formarmi un’identità, un gusto, il mio gusto, che è ciò che più spinge alla ricerca della bellezza. Dietro quelle porte blindate ho incontrato solo uomini meno fortunati, che la ricerca non l’hanno potuta compiere (se non oggi) perché nessuno gli ha spiegato mai che al brutto si può anteporre il bello, e che per scorgerlo però hai bisogno di uno sguardo curioso. Nelle ore fra noi si è instaurata un’energia magica, si è accesa una scintilla, se è vero che qualcuno mi ha rivelato che da quando ha iniziato il percorso formativo, lo studio, la lettura, gli incontri, gli si è aperto un mondo, quello della conoscenza, che porta al libero pensiero. Io non credo nel male, credo esistano condizioni nelle quali il male può nascere e propagarsi. Il compito che abbiamo noi tutti è evitare di favorire la crescita di queste condizioni sfavorevoli, perché se è vero che alcuni dei ragazzi che ho incontrato probabilmente un domani prenderanno strade diverse (lo spero) grazie alla scintilla appiccata oggi (a qualcuno che ogni giorno mostra loro una pagina aperta da riempire), è vero anche che questa fiamma potremmo cercare di diffonderla molto prima, dovremmo e potremmo recuperare tutti i bambini privi di punti di riferimento (e incapaci quindi di scorgere la differenza fra bello e brutto), mostrare loro una stanza accogliente e piena di libri e spingerli a spulciare, così da non fargli varcare inconsapevoli il piccolo confine. Salvarli con una scintilla. E aspettare che si faccia fuoco che arde. Palermo: caro amico che sei al “Malaspina” ti scrivo di Giuseppe Longo gdmed.it, 21 aprile 2019 Lettere per i giovani detenuti dagli studenti del Parlamento della Legalità Multietnico. “Decine e decine di lettere con tanto di disegno che inneggia alla Santa Pasqua sono state realizzate tra i banchi dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Francesco Ferrara” di Palermo, durante l’ora di religione cattolica da studenti di diverse religioni accomunati dalle linee guida del Parlamento della Legalità Internazionale e Multietnico destinate a quanti sono rinchiusi presso il carcere minorile del “Malaspina” del capoluogo palermitano. A proporre l’iniziativa il professore Nicolò Mannino che al “F. Ferrara” è anche referente del progetto culturale “Educazione alla legalità e cittadinanza attiva”. Una iniziativa che ha coinvolto tanti alunni e alunne che non se lo sono fatti dire due volte e che hanno scritto con la penna del cuore e sul foglio dell’amicizia. A consegnare le lettere di Auguri e di “Incoraggiamento” lo stesso prof. Nicolò Mannino che le ha consegnate al “Malaspina” al Commissario Coordinatore Penitenziario Francesco Cerami, Comandante del Reparto dell’IPM Palermo. In calendario prossimamente anche l’incontro tra Nicolò Mannino e i giovani detenuti che aderendo al cammino culturale del Parlamento della Legalità Internazionale faranno parte dell’Ambasciata della Speranza”. Palermo: la detenuta ospitata in chiesa “Il carcere può essere salvezza” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 21 aprile 2019 Loris D’Alessandro è un frate francescano, ma è anche il cappellano del carcere Pagliarelli da tre anni, ma è anche un ragazzo che viene dallo Zen e porta addosso, con il suo saio, la forza del riscatto, ma è anche un innaffiatore di anime: dove passa, cresce qualcosa. Lui si schermisce: “Io sono solo il contenitore. L’acqua non è mia”. Tre anni da recluso con i reclusi e una raccolta di storie di resurrezione che sfatano il mito eternamente tragico del carcere: luogo di pena, sì, non presidio dell’abbandono. “Certo, il carcere può essere salvezza, opportunità, reazione - racconta Loris - specialmente se c’è un’atmosfera di concordia”. Il francescano ha la sua parrocchia in via Altofonte, la chiesetta di San Carlo Borromeo. “La zona è difficile - spiega - ad alta densità mafiosa, ma la comunità è fantastica, risponde. Qui, in parrocchia, vive una ragazza ai domiciliari. La ospitiamo noi, perché a Palermo non ha nessuno. Ogni mese organizziamo una cena con i senzatetto, nel senso che mangiamo con loro a tavola, non ci limitiamo a cucinare; assistono al cineforum sempre volentieri. L’altra volta hanno visto un film bellissimo ‘Il Paradiso per davvero’ e tanti si sono messi a piangere. Ci sono state e ci saranno altre occasioni. Il problema del lavoro è drammatico, per questo i giovani sbagliano, specialmente se stanno in quartieri disagiati”. Il Pagliarelli è attualmente la missione di Fra’ Loris. “Le detenute hanno impastato le ostie che sono servite per le celebrazioni del Giovedì Santo in Cattedrale. Un’esperienza di redenzione, proprio nel senso religioso. Sapessi quante persone, in una cella, scoprono Dio...”. Tre anni e quelle cronache incredibili della speranza. Loris ne enumera alcune: “Ho conosciuto un ragazzo che, durante la detenzione, non faceva altro che leggere e studiare. Ha preso coscienza del suo errore, adesso è fuori. Non so dove sia di preciso, ma gli auguro un felice cammino. Una donna mi ha detto: ‘padre, qui dentro ho perso la libertà del corpo, ma ho ritrovato la libertà del cuorè. Ce n’è un’altra che ha una biografia tragica. Ha perso il marito e il papà. Era una ragazza molto tormentata che, piano piano, ha costruito la sua esistenza e quando prega, le compagne lo sanno, non vuole essere disturbata. In questi giorni è in permesso con la mamma, l’ho sentita e mi ha trasmesso una felicità incredibile. C’è un uomo che ha potuto incontrare Papa Francesco, durante la visita del pontefice a Palermo, da Biagio Conte. Posso affermare che quell’incontro è stato l’inizio di una resurrezione”. Fra’ Loris stesso è protagonista di una storia che profuma di coraggio. Rimasto orfano di padre, molto presto, è andato a lavorare, si è impegnato, fino alla vocazione sacerdotale, sempre, orgogliosamente, rivendicando: “Sono un figlio dello Zen”. È stato pure in Africa, in anni lontani, con i malati, con i pigmei, con i lebbrosi, ha messo su una scuola materna in Congo e ha aiutato un villaggio a costruire un sistema per approvvigionarsi alla sorgente e non morire di sete. L’acqua che benedice, che salva, quando l’innaffiatore funziona. Verona: “Ne la città dolente”, in carcere l’Inferno di Dante di Marco Menini veronanetwork.it, 21 aprile 2019 L’inferno di Dante entra in carcere con lo spettacolo teatrale “Ne la città dolente” di Alessandro Anderloni e con la partecipazione della compagnia di detenuti “Teatro del Montorio”. Si parte il 29 aprile con l’anteprima; poi giovedì 2, venerdì 3 e sabato 4 maggio. Si scenderà nell’abisso della pena eterna e della reclusione carceraria, assieme a chi in quella “città dolente”, ci deve convivere. Al carcere di Montorio per quattro date, a partire dal 29 di aprile, va in scena lo spettacolo teatrale “Ne la città dolente” di Alessandro Anderloni, interpretato dalla compagnia di detenuti “Teatro del Montorio”. Quella di “Ne la città dolente” si inserisce all’interno del Festival Biblico di Verona ed è la prima tappa di un progetto triennale che proseguirà fino all’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, nel 2021. Gli attori del gruppo teatrale del Carcere di Verona (12 detenuti e una detenuta provenienti da tutte le sezioni) affrontano la prima cantica della Divina Commedia; il Purgatorio e il Paradiso saranno i capitoli successivi, nel 2020 e nel 2021. L’idea è del regista Alessandro Anderloni che lavora in carcere dal 2014 con un progetto organizzato dalla Direzione del Carcere di Verona con l’associazione culturale Le Falìe e sostenuto dalla Fondazione San Zeno Onlus. Ad affiancarlo nel condurre il laboratorio teatrale, iniziato a novembre del 2018, sono l’autrice e attrice Isabella Dilavello e l’attore e danzatore Paolo Ottoboni. Alla rappresentazione prenderanno parte come co-protagonisti anche una decina di studenti delle scuole secondarie veronesi che hanno aderito all’invito a lavorare insieme coi detenuti e con loro andranno in scena. “Parlare di inferno in carcere è vedere le parole di Dante incarnarsi nei corpi delle persone che vivono l’esperienza della reclusione”, spiega il regista Alessandro Anderloni. Dante l’esiliato, il rifugiato, il condannato ingiustamente e la sua Commedia hanno coinvolto subito i protagonisti del “Teatro del Montorio”. “Per coloro che hanno avuto la sventura di entrare in carcere, il monito ineluttabile e perentorio lasciate ogne speranza voi ch’intrate sembra essere impresso indelebilmente sul cancello che si apre e chiude dietro di sé. Non c’è altro luogo come un carcere dove si penetri nel profondo della propria esperienza personale il significato di parole come peccato, pena, dannazione. I detenuti hanno affrontato la Commedia con abnegazione e coraggio frastornanti”, sottolinea. “Interpreteranno il giudice del doloroso regno Minosse, loro che sanno come nessun altro cosa significhi essere giudicati. Diranno piangendo, come Francesca. Si faranno tutt’uno con Cavalcante dei Cavalcanti, che si dispera nel credere morto il figlio di cui non sa nulla, loro che provano ogni giorno il non avere notizie dei figli che hanno lasciato fuori. In nessun luogo come in carcere le parole di Ulisse risuonano come il richiamo al folle volo che può decidere di compiere ognuno di noi - prosegue -. In carcere il rumore della chiave che chiude la cella del Conte Ugolino per farlo morire di fame con i propri figli è familiare. E toccato il fondo, dove Dante condanna gli infami, si tocca il fondo della nostra coscienza. Si è a tu per tu con il mistero del Male”. Regista e protagonisti del “Teatro del Montorio” inviteranno gli spettatori, a gruppi di cento, a camminare negli spazi della reclusione. Lo spettacolo si svolgerà in forma itinerante percorrendo corridoi, aule rieducative, aree trattamentali, passeggi per l’ora d’aria. Luoghi che non sarà difficile identificare con i gironi, i cerchi, le bolge infernali. Qui il pubblico incontrerà la parola di Dante senza nessuna rielaborazione del testo, né traduzione o attualizzazione. Il linguaggio della Divina Commedia, vivissimo e attuale, sferzante e lancinante, sarà detto da attori che lo intoneranno con le cadenze del mondo intero, rispondendo all’appello del Sommo Poeta che prende in causa ognuno dei suoi lettori. “Con questo progetto vogliamo aprire le porte del carcere alla città, perché non sia visto come un’isola, ma come luogo che dialoga con l’ambiente in cui è inserito”, commenta la direttrice della Casa circondariale di Verona, Mariagrazia Bregoli. “Il laboratorio di teatro è uno dei tanti progetti educativi, lavorativi, sportivi e culturali proposti. Particolarmente significativa è - conclude - l’adesione delle scuole veronesi i cui studenti non sono stati invitati, per una volta tanto, a visitare gli spazi carcerari come osservatori. Partecipano in prima persona, insieme coi detenuti, all’attività teatrale: questo è uno degli aspetti più innovativi e preziosi del progetto”. Cagliari: teatro-carcere, per la prima volta in Sardegna la Compagnia della Fortezza ansa.it, 21 aprile 2019 Sbarca per la prima volta in Sardegna la Compagnia della Fortezza. Sotto i riflettori gli attori-detenuti diretti da Armando Punzo con “Beatitudo”, in scena dal 24 al 28 aprile al Teatro Massimo di Cagliari per La Grande Prosa del Cedac. “È uno spettacolo sulla ricerca della felicità”, spiega Punzo, regista e drammaturgo della compagnia nata nel 1988 nella casa di reclusione di Volterra. Un felice esempio di teatro sociale confermato da importanti riconoscimenti tra cui diversi premi Ubu. “È liberamente ispirato all’opera di Jorge Luis Borges - aggiunge Punzo- un autore che costantemente battaglia con la realtà, svelando come questa sia solo una delle possibilità, accanto alla fantasia e all’illusione”. Una pièce visionaria in cui le parole dello scrittore argentino s’intrecciano alla colonna sonora di Andrea Salvadori in un’atmosfera onirica suggerita dalle scenografie di Alessandro Marzetti e dello stesso Punzo e dai costumi di Emanuela Dall’Aglio. Sfondo su cui appaiono, come evocati, i personaggi emblematici di romanzi e racconti. “Il teatro è luogo di libertà”, sottolinea Punzo nel ripercorrere i trent’anni e più della Compagnia. Un progetto scaturito, quasi per caso, da un incontro: “Venivo dal Gruppo L’Avventura che aveva lavorato con Grotowski e non trovavo più nessuna seduzione nel modo di far teatro tradizionale o di ricerca, volevo lavorare con non attori, cercavo corpi e voci che non avevo incontrato in scena - racconta Punzo - e poi mi piaceva l’idea del carcere come metafora del nostro essere imprigionati come esseri umani pur credendoci liberi”. Cronaca di una utopia realizzata oltre paura e pregiudizi. “Il teatro a Volterra ha cambiato il carcere, ha offerto l’opportunità di confrontarsi e riflettere, un luogo dell’avvilimento e della distruzione dell’uomo diventa un luogo della creazione dell’uomo. La potenza della cultura e dell’arte cambia la geografia del carcere e lo spazio interiore delle persone: si inizia a immaginare. Come scriveva Borges, voglio sognare un uomo e imporlo alla realtà”. La mafia, senza ambiguità di Luigi Manconi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019 “La mafia. Centosessant’anni di storia” (Ed. Donzelli), di Salvatore Lupo. Un’analisi del fenomeno, tra epoche e continenti, contro ogni tentativo di legittimarlo come espressione di arcaicità, tradizione, valori quali onore o famiglia. Raccontare cos’è la mafia, definirla, proporne un’interpretazione, senza mai dimenticare l’opera di “confondimento” - termine medico che bene si adatta a questa sorta di patologia sociale - messa in atto da chi ne è parte: “La mafia. Centosessant’anni di storia” (edito da Donzelli), di Salvatore Lupo, persegue questi primi obiettivi. Ultimo tassello di una ricerca durata decenni, il volume ha tra le sue materie l’analisi di quel confondimento che mira a legittimare la mafia come manifestazione di arcaicità, tradizione e infine espressione di valori: famiglia, amicizia, onore e religione. La mafia, insomma, con la sua ideologia identitaria, utile per spiegarsi a sé stessa e acquisire consenso presso gli altri. Il libro di Lupo è un lungo viaggio tra epoche e continenti, un attraversamento continuo tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Si documentano connessioni tra dinastie e sistemi di potere, tra lotte per il comando e accumulazione di fortune economiche e racconti minuziosi si intrecciano a dense questioni politiche e storiche. E la storia è anche storia dei termini utilizzati per descrivere i fenomeni. La parola “maffia” appare per la prima volta in un documento governativo nel 1880 e undici anni dopo qualcuno già la definisce - insieme a brigantaggio e camorra - “una delle più gravi manifestazioni della questione sociale italiana”. Troviamo così le radici dell’idea di una “cultura antistatale”, grazie alla quale già nell’Ottocento i capimafia si promuovevano tutori di un ordine che nessun altro riusciva a garantire, gli unici a poter mediare tra ricchi proprietari terrieri e mascalzoni e criminali. Quell’ambiguità, da sempre presente, che tenta di enfatizzare l’elemento di protezione per nascondere il più possibile la realtà dell’estorsione. Ecco allora che l’autore ripropone la definizione di mafia utilizzata da Leopoldo Franchetti a seguito della sua indagine in Sicilia: “il sistema di voler curare il male col male”. Il fatto che certe decisioni politiche e alcuni provvedimenti repressivi ebbero l’effetto di agevolare o, viceversa, di contrastare Cosa Nostra è fuori discussione. Nel primo caso, lampanti sono state le conseguenze delle misure di proibizione degli alcolici negli Stati Uniti. Un’ampia fetta di mercato rimaneva non soddisfatta e gli stessi cittadini facevano fatica a riconoscere come illegale un comportamento che fino al giorno prima non lo era. Al Capone, all’epoca, semplicemente sentenziò: “tutto quello che faccio è accontentare la domanda del pubblico”. Per altro verso, quando si parla della repressione durante il periodo fascista, non si può tacere il motivo dell’apparente efficacia di quell’operazione, riuscita appunto perché si procedé con metodi e strumenti che non tenevano in alcuna considerazione diritti civili e garanzie individuali. Incontriamo poi la storia di Lucky Luciano, più modestamente nato Salvatore Lucania, le cui gesta criminali assumono un rilievo tanto intensamente epico da riproporre la leggenda, ancora dura a morire, di un suo intervento nello sbarco degli americani in Sicilia durante la Seconda guerra mondiale, come evocato da Tano Badalamenti nel corso del maxi processo degli anni 90. Una mafia, insomma, portatrice di libertà e capace di ristabilire l’ordine. Ruolo effettivamente attribuitogli nella vicenda della cattura di Salvatore Giuliano (autore della strage di Portella della Ginestra) - questa volta una vera trattativa Stato-mafia - in cui Cosa Nostra fu legittimata e utilizzata come strumento di stabilità, chissà a quale prezzo. Come dicevamo, all’interno di questo libro sono molte le storie, i racconti minuti, gli alberi genealogici e le mappe dei luoghi chiave, tanto in Sicilia quanto negli Usa. E c’è un personaggio che accompagna questo saggio, con il suo rigore intransigente e le sue sferzate puntuali, quel Leonardo Sciascia che viene definito da Lupo la “voce più autorevole del garantismo”. Nel racconto Filologia, Sciascia mette in scena un dialogo tra un giovane e un anziano, in una sorta di rappresentazione del conflitto tra la “nuova” e la “vecchia” mafia. Quest’ultima, prodiga di consigli, spiega alla nuova leva come l’origine del termine possa essere utilizzata a proprio vantaggio allo scopo di confondere l’interlocutore, ma mette anche in guardia sui pericoli della strategia terroristica. Strategia che rischia di rivelare la vera natura di Cosa nostra e di impedirle così di nascondersi all’interno di dinamiche di potere consolidate. Al giovane, con rammarico, resta solo da rispondere: “eh ma funzionava, la dinamite, funzionava!”. Che la dinamite abbia fatto strage di uomini e di istituzioni è indubbio, che la strategia si sia rivelata vincente solleva qualche ragionevole perplessità. Qui sta il punto, forse tra i più controversi della storia recente della mafia e dell’antimafia. La contrapposizione, cioè, tra chi pensa che Cosa nostra abbia vinto e chi, come Lupo, è di opposta opinione. Lo storico avverte del pericolo di accreditare la mafia come potere invincibile e onnipotente, perché si rischia di compiere, pur senza volerlo, un’apologia del fenomeno che si intende combattere. Appare ancora più importante, allora, procedere secondo le indicazioni fornite, suo malgrado, da Francesco Inzerillo che, ignorando di essere intercettato, disse: “cosa più brutta della confisca dei beni non c’è”. Chissà se avrebbe giovato agli attuali Governo e Parlamento leggere questo libro prima di proporre e votare l’articolo contenuto all’interno della legge sicurezza e immigrazione, grazie al quale i beni confiscati possono adesso essere venduti al miglior offerente. Se ne consiglia a ogni modo la lettura anche ora: nel caso si volesse procedere a tardivo ravvedimento vi si trovano spunti assai utili. Infine, il libro di Lupo è un antidoto efficacissimo contro le fantasie sempre ricorrenti di complotti mirabolanti e di macchinose cospirazioni che, nella pretesa di tutto collegare e di tutto attribuire a un’unica mente criminale, finiscono col non spiegare alcunché e, soprattutto, col deresponsabilizzare gli autori concreti e comprovati di ciascun misfatto. Qui si vede la mano raffinata di Salvatore Lupo che, insieme al giurista Giovanni Fiandaca, è autore di un libro irrinunciabile come La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa (Laterza, 2014), dove una serratissima indagine smantella non solo ricostruzioni approssimative e congetture cervellotiche, ma il nucleo fondativo di una mitologia della mafia che può risultare estremamente vantaggioso per la stessa mafia. Donne, ragazzi, migranti: l’umanità in rivolta di Roberto Saviano L’Espresso, 21 aprile 2019 La dignità del lavoro. Il rifiuto del paternalismo. Il diritto alla felicità. Nel libro di Aboubakar Soumahoro c’è tutto il cammino del nostro tempo. Ho sentito parlare molte volte Aboubakar Soumahoro e la prima volta che ho ascoltato un suo discorso non ho pensato “guarda come parla bene in italiano questo straniero”, ma “guarda quante cose giuste dice quest’uomo”. E non ho nemmeno pensato “ma perché questi discorsi non li fanno i politici?”, perché questi discorsi dovremmo farli tutti e ascoltarli tutti più spesso, magari sempre. Ma non è facile parlare chiaro come fa Aboubakar Soumahoro. Per parlare chiaro bisogna avere le idee chiare e per avere le idee chiare bisogna conoscere ciò di cui si parla. Ho letto “Umanità in rivolta”, il preziosissimo libro di Soumahoro pubblicato da Feltrinelli. Preziosissimo perché tocca in maniera precisa temi che riguardano tutti, di cui si sa poco anche se chiunque si sente ormai legittimato a parlarne. Sul lavoro (soprattutto sulla sua assenza) e sull’immigrazione (trattandola come invasione) sono anni che i principali partiti politici fanno campagna elettorale criminalizzando lo straniero raccontato come una minaccia. Ogni giorno la politica produce un numero folle di post e tweet su lavoro e immigrazione che hanno il solo scopo di fare ammuina e legittimare chiunque voglia esprimere la propria opinione anche senza sapere nulla, come se bastasse guardare le tendenze su Twitter per capire come gira il mondo. Nelle prime pagine di “Umanità in rivolta” ho letto queste parole : “Abbiamo dovuto lavorare molto per riuscire a prendere la parola in prima persona nei luoghi e negli spazi politici. Per molto tempo, tanti in buona fede hanno ritenuto doveroso prendere la parola al nostro posto. Mi viene da dire che il pensiero di deriva paternalista a volte contamina involontariamente chi è impegnato in difesa dei migranti, che vengono ritenuti incapaci di generare, esprimere e declinare un pensiero politico e una forma di lotta”. Sostituite la parola “migranti” con “donne”, “adolescenti”, “bambini”, “meridionali” e capirete di cosa parla il libro di Aboubakar Soumahoro, e capirete perché è importante che lo leggiate e lo consigliate a chi vi è vicino, ai ragazzi e alle ragazze che conoscete e che meritano di fare una riflessione approfondita e ragionata sulla costruzione di categorie di persone disegnate per essere marginali, alle quali si possono applicare regole diverse, leggi diverse e che possono essere beneficiari di diritti minori, con la d minuscola. Diritti intesi come concessione. Per le donne come è andata e come ancora va? E per chi racconta il sud Italia? E per i ragazzi, i non ancora maggiorenni e quindi non ancora votanti? Per loro come vanno le cose? Per le Greta e per i Simone che osano prendere la parola sul loro presente e sul loro futuro? Quanti sono disposti a credere nella genuinità delle loro lotte? Quanti preferirebbero farle loro quelle battaglie perché ritengono di poterle maneggiare in maniera più incisiva, perché ritengono di essere più titolati? “Ogni parola è un percorso. Ognuno porta nel palmo delle mani le chiavi che aprono le porte a grandi destini”. Anticipiamo in queste pagine un capitolo de “Umanità in rivolta” in libreria per Feltrinelli Non sto perdendo il punto, non sto dimenticando che Aboubakar Soumahoro è arrivato in Italia dalla Costa d’Avorio, non sto dimenticando i lavori duri e senza retribuzione che ha fatto, non sto dimenticando che ha rischiato di farsi molto male lavorando in un cantiere, non sto dimenticando le condizioni disumane nelle quali ha visto vivere e morire molte persone con cui ha condiviso una parte del suo cammino. Non lo dimentico, ma lui, con le sue parole, mostra di non voler parlare di sé e dei “suoi” ma di tutti noi insieme, di tutti noi che siamo in rivolta senza voler fare rivoluzioni, noi che crediamo che rivoluzione coincida con conoscenza. Ho letto “Umanità in rivolta” sentendomi fratello di Aboubakar, fratello perché mi sono accorto che lui era esattamente dove ero io quando avevo bisogno di conforto. Lui come me, lui insieme a me, anche se non sapevamo di essere insieme, frequentava le pagine di Albert Camus e di Max Frisch, lui si interrogava su come fosse possibile aver dimenticato la lezione di umanità e giustizia di Giuseppe Di Vittorio. E soprattutto, ciò che ha reso le parole di Aboubakar tanto familiari per me è che ha iniziato a scrivere questo libro per dimostrare che se il lavoro è tutto, che se il lavoro è alla base di ogni vita che possa dirsi dignitosa, ci sono dei corollari che ne discendono che non possono essere considerati secondari. Primo: “uguale lavoro, uguale salario” per tutti, uomini e donne, qualunque sia la loro provenienza. Secondo: ogni uomo ha un diritto che è inalienabile ed è il diritto a essere felice. E se la felicità può provare a raggiungerla solo spostandosi dal proprio Paese, è un suo diritto poterlo fare e non c’è nessuno che possa impedirglielo. Libia. Bombarda Tripoli, troverai il petrolio di Francesca Mannocchi L’Espresso, 21 aprile 2019 Il generale Haftar controlla i pozzi, ma per gestire gli introiti deve prendere la capitale. Lo scorso 4 aprile le forze fedeli al generale Khalifa Haftar (Lna) hanno iniziato una marcia verso la capitale Tripoli. L’offensiva ha già provocato oltre 50 vittime, 200 feriti, 4000 sfollati dai quartieri coinvolti dagli scontri e la chiusura dell’unico aeroporto funzionante in città, Mitiga, colpito da un attacco aereo da parte delle forze dell’uomo forte della Cirenaica. Nelle aree più colpite dai combattimenti, Tariq Al-Matar, Wadi Al-Gharbi, Ain Zara e Qasr Ben Gashir, mancano acqua ed elettricità, le strade sono interrotte: chi può cerca di scappare, qualcuno resiste in casa per paura di saccheggi e razzie da parte delle truppe. L’attacco su Tripoli sembra far tramontare definitivamente le speranze di una negoziazione in cui molti speravano: la conferenza nazionale di Ghadames prevista per il 14 e 16 aprile è stata annullata in un comunicato dell’inviato speciale dell’Onu Ghassam Salame. Le speranze di riconciliazione tra i due principali attori del paese - il Gna (il governo di Fayez al Sarraj sostenuto dalla comunità internazionale) e Haftar, federmaresciallo del governo esiliato di Tobruk - e di una road map in vista di possibili elezioni il prossimo autunno, appaiono ormai illusorie. Di fronte alla tracotante azione militare di Haftar, il governo di Tripoli ha raccolto tutte le forze a difesa della capitale, sostenuto anche dalle truppe della città-stato Misurata, e ha stanziato due miliardi di dinari libici per sostenere la guerra. Haftar ha ordinato alle sue truppe di marciare su Tripoli per “liberare la capitale dai terroristi e dagli estremisti”. Parole d’ordine che aveva già usato nelle lunghe e sanguinose campagne a Bengasi e Derna. Ma dietro i proclami si nascondono gli interessi contrapposti degli alleati del generale che si muovono nello scacchiere internazionale (Russia, Stati Uniti, Francia) e gli interessi regionali di Egitto, Emirati, e Arabia Saudita. Il controllo su Tripoli significa il controllo sulle risorse strategiche: gli scali aerei e marittimi, il controllo della Banca centrale libica, e altre istituzioni statali di cruciale importanza. Secondo Tim Eaton, ricercatore esperto di Libia per l’istituto di affari internazionali Chatam House, è difficile immaginare una conclusione a breve termine dei combattimenti: “politicamente per Haftar è difficile ritirarsi, perciò temo che il conflitto si protrarrà a lungo. Ed è fondamentale considerare gli impatti economici di questa ennesima guerra”. L’economia della Cirenaica dipende in parte da Tripoli, per gli stipendi dell’Lna e soprattutto perché, benché Haftar controlli la maggioranza dei giacimenti, non è in grado di monetizzare il petrolio, visto che gli introiti delle vendite internazionali passano da Tripoli, che controlla un bilancio annuale di 40 miliardi di dinari (29 miliardi di dollari). “Se il Gna smettesse domani di pagare i salari nella parte orientale del paese”, continua Eaton, “Haftar potrebbe ostacolare la produzione delle infrastrutture petrolifere che controlla, e che sono la maggioranza. Se Haftar avesse la possibilità di gestire le vendite internazionali del petrolio saremmo di fronte davvero a una trasformazione del conflitto, ma al momento nessuno può permettersi di bloccare né le infrastrutture né la vendita del petrolio”. Nel giugno 2018 le spedizioni di greggio dalla Libia sono state sospese per settimane dopo che Haftar aveva conquistato due terminal di esportazione sotto il controllo del Noc (National oil corporation) basato a Tripoli, trasferendoli all’autorità petrolifera rivale. Nei disordini la Libia ha perso un miliardo di dollari di introiti, prima che i terminali fossero restituiti all’autorià di competenza. Dall’inizio di quest’anno, la coalizione di Haftar controlla la maggior parte del sud-ovest del paese, una distesa desertica ricca di petrolio, tra cui il giacimento più grande della Libia, quello di Sharara. A oggi gli scontri armati sono circoscritti all’area della capitale, quindi le zone petrolifere sono risparmiate, ma se le forze di Haftar saranno spinte indietro e indotte a una ritirata, i giacimenti petroliferi da lui controllati potrebbero essere oggetto di nuovo di attacchi che danneggerebbero l’intera economia. Quello che è certo è che ora i rischi maggiori sono le conseguenze sulle istituzioni statali tripoline: se la capitale diventasse un campo di battaglia saremmo di fronte all’indebolimento delle istituzioni centrali che coordinano e gestiscono le risorse economiche e gli introiti petroliferi. Non è chiaro inoltre quanto siano sostenibili le finanze interne del generale. Secondo Reuters il governo di Tobruk ha venduto obbligazioni per 23 miliardi di dollari per finanziare i suoi salari, scavalcando la Banca centrale di Tripoli e creando un potenziale buco economico che andrebbe ad allargare il debito già accumulato dal 2014, da quando il paese si è diviso in due amministrazioni. Il ministero delle finanze di Tobruk avrebbe venduto il debito a una banca centrale parallela basata in Cirenaica e con il ricavato delle vendite starebbe pagando i dipendenti statali, con dinari paralleli stampati in Russia. “I sostenitori di Haftar non lo ammetteranno mai ma l’economia della Libia orientale dipende da Tripoli in una misura che viene spesso sottovalutata”, dice Jalel Harchaoui, ricercatore per il Conflict research unit del Clingendael institute, “i 10 miliardi di dinari sotto forma di banconote stampate in Russia lo dimostrano. La Banca Centrale di Tripoli non ha mai autorizzato questa operazione, ma l’ha tollerata. Questo significa che le banconote libiche orientali sono di fatto sostenute dalle riserve in valuta forte di Tripoli. Questa guerra si inserisce in un percorso che negli ultimi due anni e mezzo aveva visto progressi apprezzabili sul fronte economico, la Libia è passata da una grave crisi nel 2016 a una situazione accettabile nel 2018. La produzione di petrolio è aumentata e la crisi monetaria contenuta. Tutto questo è stato raggiunto attraverso un lavoro diplomatico che rischia di essere vanificato da questa ennesima campagna militare”. Mettere a repentaglio la ripresa significa che il dinaro potrebbe ricominciare a perdere valore rispetto al dollaro, l’inflazione a salire di nuovo. E l’insicurezza e l’instabilità tornare protagoniste della vita quotidiana dei libici. Ed è esattamente sfruttando la percezione dell’instabilità che Haftar si è presentato in questi anni come il solo uomo in grado di riportare e mantenere la sicurezza nel paese. Su queste premesse è cresciuto nel tempo il supporto internazionale. E la spregiudicatezza con cui il generale sta gestendo la sua campagna militare lascia pensare che si senta supportato se non incoraggiato dai suoi alleati. Il regime di Gheddafi - tollerato per decenni - operava mantenendo stabilità e miscelando forza, ideologia e distribuzione delle entrate petrolifere e il suo regime aveva reso la Libia il paese più ricco di qualsiasi altro in Africa. Il vuoto di potere post rivoluzionario che ha destabilizzato il paese ha contribuito a dare alla luce un nuovo leader “forte” che è tanto più cresciuto tanto meno erano credibili le forze sostenute dalla comunità internazionale; leader forte che ha iniziato un’espansione a sud e mira a Tripoli perché la presa di Tripoli prima di essere una conquista geografica è una conquista economica. Prendere Tripoli significa prendere definitivamente la ricchezza generata dal petrolio. Il rischio certo è un altro Egitto. Il ritorno di un regime militare sostenuto dall’esterno a protezione degli interessi energetici e di una presunta sicurezza. Libia. Le fake news della direttiva Salvini e l’esigenza di corridoi umanitari di Luciano Griso* Il Manifesto, 21 aprile 2019 È l’unica soluzione per venire incontro alle sofferenze di persone rimaste intrappolate. Senza scomodare Shakespeare (“c’è della logica in questa follia”dice di Otello), bisogna convincersi che niente, nella propaganda del “Ministro della Paura”, non una sua dichiarazione, né un atteggiamento, né un abbigliamento per quanto grottesco sia, è usato a caso. Vale anche per la Direttiva che ha emanato proprio nel momento in cui la guerra civile in Libia sta causando centinaia di morti e migliaia di sfollati e la nave “Mare Jonio” sta per prendere il largo. Lo scopo è approfittare delle dichiarazioni ricattatorie del cosiddetto “governo libico” - la fake news di 800 mila migranti e terroristi pronti a salpare verso l’Italia in modo da convincere il nostro paese ad una presenza più attiva nel conflitto- per continuare a diffondere paura e utilizzarla come rendita di posizione nella sua campagna elettorale permanente. È importante allora informare e informarsi di quanto siano falsi e fuorvianti i contenuti della Direttiva emanata dal Ministero degli Interni e di quale sia la realtà. Non viene data la minima rilevanza al fatto che non solo la Libia non è non mai stato un porto sicuro (affermazione ripetuta più volte dalla stessa Onu), ma che tanto meno lo è adesso con una guerra in corso. La Libia viene considerata alla stregua di un qualsiasi paese europeo (quindi sicuro) e la sua Guardia Costiera (formata, come risaputo, da milizie) in grado di eseguire tranquillamente salvataggi e di riportare indietro (dove?) i migranti. Non si accenna ovviamente al fatto che i profughi da una guerra vanno considerati non semplici migranti ma rifugiati e che pertanto per essi sono valide le Convenzioni Internazionali (a partire da quella di Ginevra del 1951) di cui l’Italia è firmataria, secondo cui Il nostro Paese ha l’obbligo di accoglierli a prescindere dalla modalità con cui giungono sul nostro suolo e ad esaminare la loro richiesta di asilo. Nella Direttiva ritroviamo la prassi ormai consolidata (inaugurata - bisogna dirlo per amor di verità - nel 2017 da Di Maio e realizzata dal ministro Minniti) di considerare le Ong impegnate nel salvataggio di migranti in mare alla stregua di “spalloni” dei trafficanti di uomini (“taxi del mare” le aveva chiamate Di Maio), quando non più esplicitamente “trafficanti in proprio”. È una menzogna che si perpetua, inventata per infangare il lavoro e l’impegno di centinaia di uomini e donne. Danno molto fastidio ai governi perché con la loro presenza sul campo sono testimoni delle conseguenze reali della chiusura delle frontiere praticata dall’Europa intera. Davanti ai nostri occhi che, temo, corrono il rischio di assuefarsi, nel 2018 sono morti nel Mediterraneo oltre 2.100 persone (che, al di là del freddo numero, bisogna pensare come bambini, donne, giovani uomini in carne ed ossa), 35.000 dal 2005. È una vera e propria guerra che l’Europa ha dichiarato ai migranti, asimmetrica però, perché i morti sono solo da una parte. Non dobbiamo stancarci di ripetere, in ogni istanza ed in ogni occasione, che solo la creazione di corridoi umanitari dalla Libia all’Europa può venire incontro alle sofferenze di migliaia di persone rimaste intrappolate in quel paese. Lo stanno chiedendo - prendendo spunto dalla positiva esperienza tuttora in corso dei Corridoi Umanitari per profughi siriani in Libano promossi dalle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di S. Egidio - la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia ed Organizzazioni Cattoliche: “Corridoio Umanitario per 50 mila persone dalla Libia in Europa”. È ora che anche le forze politiche più sensibili facciano sentire forte la propria voce. Il prossimo appuntamento elettorale può essere l’occasione per spiegare e rilanciare la proposta, e porla al centro del dibattito politico. *Mediterranean Hope Libia. Tripoli interrompe i soccorsi in mare e usa le navi italiane per la guerra di Nello Scavo Avvenire, 21 aprile 2019 Tripoli e Roma minimizzano ma c’è chi ammette: le navi sono impegnate nella guerra libica. E ora l’Italia rischia un richiamo dell’Onu per non avere rispettato l’embargo sulla fornitura di armi. Aveva ragione l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) a esprimere “preoccupazione per la situazione in Libia”. Seppure da Tripoli si rifiutano di ufficializzarlo, l’area di ricerca e soccorso libica da giorni non è più interamente operativa. Non bastasse, si paventa il rischio di una violazione dell’embargo Onu sulle armi da guerra a causa delle motovedette fornite dall’Italia e “modificate” dai militari della Tripolitania. Da ieri vengono fatte circolare immagini di mitragliatori pesanti, fissati sulle torrette delle navi. Prima della consegna, però, i cantieri navali della Penisola a cui era stato affidato il rinnovamento, avevano completamente eliminato ogni arma dagli scafi, conformemente all’embargo stabilito dall’Onu e prorogato nel luglio 2018 per altri dodici mesi. Gli scatti vengono fatti circolare da quanti, proprio a Tripoli, vogliono smentire che la Guardia costiera non sia operativa. Un boomerang, perché secondo gli accordi le navi di fabbricazione italiana avrebbero dovuto essere usate solo per il pattugliamento marittimo e non per operazioni militari. Una conferma indiretta arriva da Roma. “La prosecuzione del conflitto potrebbe distogliere la Guardia costiera libica - spiega un portavoce del ministero delle Infrastrutture - dalle attività di pattugliamento e intervento nella loro area Sar, per orientarsi su un altro genere di operazioni”. A cosa si riferiscano lo spiegano proprio i post pubblicati in rete attraverso profili vicini all’esercito del presidente Serraj: militari in tenuta da combattimento sul ponte delle navi che mostrano mitragliatori fissati sulle torrette. In passato i guardacoste libici avevano usato sistemi analoghi, il 26 maggio 2017 addirittura sparando “per errore” contro una motovedetta italiana. Subito dopo i cannoncini furono rimossi e mai più visti a bordo, dove di tanto in tanto apparivano militari con mitragliatori a spalla. “Non abbiamo notizie ufficiali circa una riduzione delle capacità Sar della Guardia costiera libica”, spiegano dal ministero guidato da Danilo Toninelli dopo avere approfondito la questione anche con il Coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso (Mrcc) di Roma. La Libia, dunque, non ha ufficializzato all’Italia alcun abbandono della propria Sar. Farlo, del resto, avrebbe comportato l’immediata cancellazione della registrazione della competenza libica, costringendo l’Italia e l’Europa a decidere se tornare a coprire, come avveniva in passato, quel tratto di Mediterraneo. Oppure abbandonare nel nulla i migranti che continuano a partire. Le autorità italiane, però, sembrano non fidarsi affatto dei colleghi tripolini, la cui operatività “è quella che sappiamo tutti”, aggiungono dalle Infrastrutture. Perciò “la nostra attenzione sulla Sar libica è alta”. Nel corso di alcune interviste era stato anche il ministro dell’Interno libico a confermare che “la Guardia costiera è focalizzata sulla protezione della popolazione e della Tripolitania e ha dovuto interrompere le operazioni di intercettazione degli immigrati”. Ci sono però anche difficoltà tecniche. “Negli ultimi giorni - spiega un operatore umanitario di un’agenzia internazionale - scarseggia il carburante e le navi della Guardia costiera sono a secco”. Testimonianza confermata anche da alcuni addetti alla sicurezza di aziende italiane presenti nel porto di Tripoli. Libia. Centri di detenzione sotto tiro: primi trasferimenti verso il Niger di Fabrizio Floris Il Manifesto, 21 aprile 2019 Migranti in trappola. Con l’intensificarsi dei combattimenti intorno a Tripoli l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) è riuscita a trasferire 163 rifugiati dalla Libia al Niger. Si tratta del primo volo di questo tipo da quando, due settimane fa, è iniziata la battaglia a sud della capitale libica. L’operazione è stata coordinato da Unhcr con il ministero degli Interni libico e le autorità del Niger. Impresa non facile, che ha comportato prima il rilascio dei rifugiati dai centri di detenzione, poi il trasferimento nel punto di raccolta dell’Unhcr nel centro di Tripoli e quindi il trasferimento in Niger. Tutti gli sfollati, tra cui dozzine di donne e bambini risiedevano nei due centri di Abu Selim, sobborgo di Tripoli colpito nei giorni scorsi da missili Grad che hanno causato la morte di 7 civili e almeno 35 feriti, e Ain Zara, anch’esso sotto intensi bombardamenti e al centro del fronte. Data la situazione non c’è stata alternativa all’evacuazione, come ha spiegato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi: “Le evacuazioni umanitarie rappresentano una linea di difesa della vita per i rifugiati la cui esistenza in Libia è in grave pericolo”. Apprezzata e positiva “la solidarietà del Niger nel ricevere i rifugiati, ma - prosegue Grandi - il Niger non può farlo da solo. Ci deve essere una responsabilità condivisa e abbiamo bisogno che altri Paesi si facciano avanti per dare una mano e aiutare a portare in salvo i rifugiati più vulnerabili”. Prosegue nel contempo il trasferimento dai centri di detenzione più prossimi al fronte ad altri in zone della Libia più sicure, 539 persone sono state spostate negli ultimi dieci giorni. Tuttavia resta forte la preoccupazione per più di 3.000 rifugiati e migranti che restano intrappolati in centri prossimi alle zone di guerra, in particolare nei centri di detenzione di Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tajoura. Ne consegue un misto di preoccupazione e un appello urgente ad altri Paesi della comunità internazionale perché seguano l’esempio del Niger. Tunisia. Chamseddine Marzoug, l’uomo che seppellisce i migranti di Paola Del Vecchio Avvenire, 21 aprile 2019 È tunisino e da 10 anni salva, raccoglie e dà dignità ai corpi rilasciati dal mare. “Un giorno ho recuperato un bimbo con una donna. Li ho sepolti vicini, come fossero madre e figlio”. “Sono un cittadino, un volontario e un militante contro il razzismo. Con i vivi e soprattutto con i morti, che sotterro”. A parlare è Chamseddine Marzoug, tunisino. È lui l’uomo che salva, raccoglie e dà dignità ai migranti annegati nel Mediterraneo. A 56 anni, da almeno un decennio e con scarso aiuto istituzionale, il pescatore e volontario della Mezzaluna Rossa si incarica personalmente di dare sepoltura ai cadaveri che il Mare Nostrum restituisce alle spiagge tunisine. Fino al 2000 i cadaveri sospinti dalla corrente verso le coste tunisine erano interrati in cimiteri musulmani. Poi, per mancanza di spazio, nel 2006 le autorità individuarono il terreno a Zarzis, località a sud di Tunisi, tra Djerba e la frontiera con la Libia. Qui i corpi finivano in fosse comuni. Nel 2011, dopo la primavera araba tunisina, questo pescatore si fece carico del “cimitero degli ignoti” chiedendo allo Stato di poter dare sepoltura individuale alle vittime. Si tratta di quattrocento cumuli di terra scavati a mano sul promontorio della discarica: oggi è un santuario postmoderno, un luogo della memoria che interpella la coscienza d’Europa. Chamseddine seppellisce i tanti annegati con i propri sogni, i cui corpi non sono reclamati dai familiari. L’unica lapide con un nome è quella di Rose-Marie, una nigeriana di 28 anni, che salpò dalla Libia su una barcaccia con 126 persone a bordo, tutte sopravvissute al naufragio, tranne lei. Il resto dei tumuli è anonimo, alcuni di essi sono semplicemente segnati con la data in cui è stato recuperato il corpo in mare. Su uno più piccolo, una macchinina giocattolo. “Aveva cinque anni - ricorda Chamseddine. Fu recuperato in mare con una donna e ho pensato fosse sua madre. Per questo li ho sepolti vicini, la testa l’una accanto all’altra...”. I cadaveri ritrovati al largo o sulla spiaggia sono lavati dal volontario, ricomposti come vuole la tradizione tunisina, e portati in ospedale, per individuarne sesso ed età, quando è possibile dalla dentatura. Poi, in sacche identificate da un numero e la data di ritrovamento, sono presi in carico da Marzoug per la sepoltura. Ma il cimitero, su due livelli, è ormai saturo. Per ampliarlo, con il Comitato regionale della Mezzaluna Rossa guidata da Mongi Slim, Chamseddine ha lanciato un anno fa una petizione online, su www.cofundy.com, d’intesa con le autorità locali, per raccogliere 30mila euro e acquistare un terreno di 2.500 metri quadrati. È quello del vecchio stadio di calcio, a circa un chilometro di distanza, dove vorrebbe costruire la nuova necropoli dei senza nome. “La vita li ha rifiutati. Noi non possiamo farlo. Dobbiamo dar loro una sepoltura dignitosa” insiste. Vite stroncate, odissee ricorrenti di migranti-schiavi di Paesi sub-sahariani, vittime di traffico ed estorsioni, che preferiscono la morte piuttosto che tornare nei centri di detenzione in Libia. Chamseddine Marzoug è il protagonista del reportage intitolato “I morti che mi abitano”, pubblicato sulla rivista 5W, vincitore del Premio “Ortega y Gasset” di Giornalismo 2019. Firmata dal regista di Barcellona, Agustín Morales, e dal fotografo Eduardo Ponces, la cronaca “riunisce tutte le qualità del buon giornalismo e colpisce l’emozione del lettore con un focus diverso”, ha sottolineato la giuria del premio. Nel loro lungo lavoro, Morales e Ponces ricordano che quelli interrati da Marzoug sono una parte minima delle vittime. “Nel 2014, ben 3.283 persone sparirono nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, secondo i dati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. In Afghanistan, il primo grande conflitto del XXI secolo, morirono 3.699 civili, secondo i dati della missione Onu nel Paese” annota il direttore di 5W. E scandisce anno dopo anno la strage, ancora più crudele da quando l’operazione Mare Nostrum è stata sostituita dalle altre missioni Ue, che hanno per principale obiettivo la vigilanza e protezione delle frontiere, e non salvare vite. Da gennaio, sulla rotta iberica mediterranea, sono state 407 le persone annegate. Giovani, donne, bambini che non avranno tutti la fortuna di ricevere almeno un sepolcro a Zarzis. Già un anno fa il volontario tunisino approdò al Parlamento Ue di Strasburgo per denunciare che non c’è più spazio per le sepolture. “Per affrontare un tema fondamentale nei nostri tempi come le migrazioni - ha spiegato Augustín Morales - c’è bisogno di tempo e sensibilità, di un racconto più umano e reale”. Stati Uniti. Strage di Columbine, 20 anni e sulle armi niente è cambiato di Marina Catucci Il Manifesto, 21 aprile 2019 Sono passati 20 anni dalla sparatoria nella scuola superiore di Columbine, in Colorado, quando 2 studenti uccisero 12 ragazzi e un professore. In questi 20 anni ci sono state molte altre stragi nelle scuole ma quella di Columbine è rimasta nell’immaginario collettivo, forse perché è l’unica di cui si hanno le immagini dei 2 assassini in azione; una generazione è cresciuta facendo esercitazioni a scuola su cosa fare in caso di mass shooting, ha imparato, dalla strage nella scuola elementare di Sandy Hook in New Jersey, che neanche i bambini vengono risparmiati. La sparatoria di Columbine ha ispirato due film, Bowling for Columbine di Michael Moore ed Elephant di Gus Van Sant; la madre di uno dei killer, Sue Klebold, ha scritto un libro, Mio figlio, dove si chiede, senza trovare risposta, come sia possibile che un bambino normale, cresciuto in una famiglia che non possiede armi, possa evolversi in uno stragista. Nei suoi 8 anni di mandato Obama ha più volte provato a varare un piano per un controllo della circolazione e vendita di armi ma poco e niente è stato fatto grazie alla coriacea opposizione dei repubblicani e della lobby delle armi, la Nra. Lo scorso anno, l’ennesima sparatoria avvenuta in una scuola superiore di Parkland, in Florida, per la prima volta ha provocato una reazione diversa, e gli studenti sopravvissuti hanno dato vita al movimento Never Again che si batte per portare al potere politici che abbiano come priorità il controllo delle armi.