Consulta: la malattia mentale si può curare fuori dal carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2019 La Consulta risolve il dubbio di costituzionalità sollevato dalla cassazione. Il detenuto che ha una patologia mentale sopravvenuta può essere curato fuori dal carcere come quello che ha una patologia fisica. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 99 (relatrice Marta Cartabia) depositata ieri, mette così fine al vuoto legislativo che ha creato la mancata inclusione dell’infermità psichica insieme a quella fisica. In particolare, d’ora in poi, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. Con questa sentenza la Corte costituzionale risolve il dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. Secondo i giudici della Consulta la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Perciò la Corte ha accolto la questione sollevata dalla Cassazione e anche il “rimedio” dalla stessa individuato, vale a dire l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga” (articolo 47 ter, comma 1 ter, dell’Ordinamento penitenziario), anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, che è in grado di soddisfare tutti gli interessi e i valori in gioco. “La sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti - si legge nella sentenza - si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate”. Al giudice spetterà verificare se il detenuto, invece che rimanere in carcere, debba essere trasferito all’esterno, “fermo restando che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti nel singolo caso le esigenze della sicurezza pubblica”. Il tema, dopo l’attuazione della riforma penitenziaria che ha tralasciato la questione del disagio psichico in carcere, era stato sollevato recentemente dall’ultima relazione del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. “La mancata inclusione dell’infermità psichica - si legge nella relazione - insieme a quella fisica tra le cause di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (articolo 147 codice penale) e l’eliminazione della norma che, modificando l’attuale articolo 65 o. p., avrebbe introdotto negli Istituti penitenziari sezioni a gestione sanitaria destinate alle persone che hanno elaborato disturbi di natura psichica durante la detenzione in carcere, hanno privato dei necessari interventi un’area fortemente critica”. È appunto l’area del disagio psichico, “la cui entità si manifesta in una quotidianità segnata da difficoltà relazionali che possono talvolta essere lette alla base dell’elevato numero annuale dei suicidi”. Il Garante nazione sottolinea che “la scelta operata dal governo appare incompleta anche nell’ottica di una visione di politica giudiziaria centrata sulle condizioni all’interno e non proiettata verso il fuori”. Il Garante ne affida, pertanto, la riconsiderazione al Parlamento perché provveda, con “l’urgenza dettata dalla situazione attualmente riscontrabile negli Istituti penitenziari, a definire organicamente la materia del disagio psichico in carcere”. Il Parlamento non si è mosso, ora l’ha fatto la Consulta. Grazie alla Corte costituzionale un passo avanti per il diritto alla salute dei detenuti di Andrea Oleandri, Ufficio Stampa Associazione Antigone “La sentenza depositato oggi della Corte Costituzionale, la n. 99, è importantissima per il diritto alla salute dei detenuti. Finalmente la malattia psichica viene considerata alla stessa stregua della malattia fisica, nel caso in questione ai fini della concessione della detenzione domiciliare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, nel commentare la pronuncia della Corte in merito al dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. “Con questa sentenza - dichiara ancora Gonnella - la Corte rimedia alle timidezze e alle paure del legislatore che aveva avuto l’occasione in sede di riforma dell’ordinamento penitenziario di introdurre questo principio sacrosanto, ma non lo aveva fatto ignorando la scienza ma anche la pratica medica. Una sorta di rimozione del problema del disagio psichico che finalmente viene superata. Ci auguriamo che da questa pronuncia si riproponga al centro dell’agenda politica l’equiparazione totale tra malattia fisica e psichica e dunque anche l’incompatibilità di quest’ultima con lo stato di detenzione arrivando, quando questa si presenta, a prevedere la sospensione o il differimento delle pena”. Nella sua pronuncia la Corte costituzionale ha sottolineato come l’assenza di una alternativa al carcere per chi fosse colpito da una grave malattia mentale, rappresentasse una violazione del diritto alla salute, sostanziandosi in un trattamento inumano e degradante che, provocando grave sofferenza e cumulandosi con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, arrivava a determinare un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. “In carcere - afferma ancora il presidente di Antigone - tutti sanno che c’è un disagio psichico enorme. Il carcere stesso è produttore di sofferenza e di malattia psichica. Non è un caso che fra i farmaci più usati, secondo rilevazioni effettuate dagli stessi medici, vi siano gli psicofarmaci. Dunque ci sono tantissimi detenuti con una malattia psichica certificata che potrebbero finalmente essere curati in modo adeguato, fuori da un ambiente a così alto rischio per la salute psico-fisica”. “Dalla sentenza - conclude Patrizio Gonnella - arriva anche indirettamente un monito a migliorare le condizioni di detenzione e l’intera offerta di salute all’interno delle carceri, essendoci un legame molto stretto fra la qualità della vita negli istituti e l’insorgenza di sofferenza psichica”. I detenuti con gravi patologie mentali si possono curare fuori dal carcere di Valentina Stella Left, 20 aprile 2019 D’ora in poi, se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico: è quanto ha stabilito oggi una importantissima sentenza della Corte Costituzionale (n. 99, relatrice Marta Cartabia), che ha accolto e risolto un dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla Cassazione, con una ordinanza del 22 marzo 2018. È da rilevare che il presidente del Consiglio dei Ministri aveva invece chiesto che la questione fosse dichiarata inammissibile. Con questa decisione, al contrario, la Corte Costituzionale ha stabilito che la malattia psichica venga considerata alla stregua di quella fisica al fine del differimento pena per motivi di salute. I fatti - Un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso contro un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità, perché applicabile solo ai casi di grave infermità fisica. Invece in quel caso, il detenuto risultava affetto da “grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione borderline in fase di scompenso psicopatologico”, accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici. Nel momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni. Per la Cassazione, trattandosi di una patologia grave e radicata nel tempo, la detenzione determinava un trattamento contrario al senso di umanità. Pertanto sollevava dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena”. Inoltre il detenuto non poteva essere allocato in una Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), posto che quest’ultima non può accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti nel corso dell’esecuzione della pena. In sostanza, per queste persone l’ordinamento non offre alternative al carcere. La decisione - Tuttavia, secondo quanto stabilito dalla Consulta, la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Si legge infatti nella sentenza: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela”. Inoltre “la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti - si legge ancora nella sentenza - si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate”. Da oggi, pertanto, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. Il vuoto politico - Per l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, “il provvedimento della Corte risolve finalmente il vuoto legislativo che non prevedeva per la malattia mentale la cura fuori dal carcere prevista dalla norma esclusivamente per quella fisica. Un intervento da tempo atteso che conferma l’importante ruolo della Corte Costituzionale, a cui l’Avvocatura dovrà rivolgersi con sempre maggiore frequenza per arginare l’attuale populismo legislativo sempre più lontano dai principi della nostra Carta”. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “in carcere tutti sanno che c’è un disagio psichico enorme. Il carcere stesso è produttore di sofferenza e di malattia psichica. Non è un caso che fra i farmaci più usati, secondo rilevazioni effettuate dagli stessi medici, vi siano gli psicofarmaci. Dunque ci sono tantissimi detenuti con una malattia psichica certificata che potrebbero finalmente essere curati in modo adeguato, fuori da un ambiente a così alto rischio per la salute psico-fisica”. La Corte Costituzionale ha dunque colmato ancora una volta un vuoto lasciato dalla politica: infatti è doveroso ricordare come la questione dell’equiparazione della malattia psichica con quella fisica era stata già affrontata nel travagliato periodo di discussione della riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe potuto sanare la questione. Ma quel tentativo di riforma si è scontrato prima con la mancata attuazione della delega da parte del precedente del Governo e poi con l’esclusione del tema nel provvedimento approvato dall’attuale esecutivo. Niente più carcere se durante la detenzione insorge una malattia psichiatrica Italia Oggi, 20 aprile 2019 Lo ha stabilito la Corte costituzionale: sicurezza e cura devono essere bilanciate. Se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. Lo afferma la Corte costituzionale che con la sentenza n. 99 di ieri risolve un dubbio di costituzionalità sollevato dalla Cassazione. In particolare, spiega una nota, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell'istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. Secondo la Corte costituzionale, la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l'ordinaria affiittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Perciò la Corte ha accolto la questione sollevata dalla Cassazione e anche il “rimedio” dalla stessa individuato, vale a dire l'applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga” (articolo 47-ter, comma 1-ter, dell'Ordinamento penitenziario), che è in grado di soddisfare tutti gli interessi e i valori in gioco. Per dare un senso nuovo al tempo vissuto “dentro” di Gianluca Biccini L'Osservatore Romano, 20 aprile 2019 “La tua presenza ci aiuterà a dare un senso nuovo al tempo vissuto all’interno di queste mura”. Tutta la gratitudine dei detenuti della Casa circondariale di Velletri verso Papa Francesco è racchiusa in un biglietto consegnatogli al termine della messa “in coena Domini”. Il Pontefice aveva appena impartito la benedizione conclusiva, dopo aver lavato i piedi a dodici carcerati, quando sull’altare allestito nel salone teatrale del penitenziario è iniziata una piccola processione di uomini con in mano alcuni doni, frutti del loro lavoro: un cesto con i prodotti dell’azienda agricola interna, una croce di legno, un presepe artigianale, un ramillete espiritual, ovvero un libricino di preghiere latinoamericane, una rosa gialla, e la toccante frase di ringraziamento scritta a mano e incorniciata nella paglia. Il quadruccio accompagnava un cofanetto contenente una grossa chiave dorata: è la riproduzione in scala reale di quelle che vengono usate per aprire e chiudere le celle: la sua forma ricorda quelle dipinte dal Perugino nel noto affresco della Cappella Sistina in cui Gesù consegna le chiavi a Pietro. Un simbolo particolarmente eloquente dunque nel richiamare la forza del gesto di Papa Bergoglio, che come successore del Principe degli Apostoli anche quest’anno ha voluto trascorrere il Giovedì santo in un luogo di grande sofferenza umana, rinnovando il rito della lavanda dei piedi dietro le sbarre di un carcere immerso nel verde della campagna dei Castelli romani. Francesco vi è giunto verso le 16.20 e all’esterno delle possenti mura di cemento armato che delimitano il perimetro ha trovato ad accoglierlo un gruppo di bambini. Che sventolavano bandierine giallo-bianche, i colori del Vaticano, in segno di festa. Il Papa ha fatto rallentare l’utilitaria blu con cui era partito da Casa Santa Marta e abbassando il finestrino ha risposto ai saluti. Poi la vettura si è diretta verso i pesanti portoni blindati che separano l’istituto di pena dal mondo esterno e quando si sono richiusi alle sue spalle con il caratteristico clangore metallico, è sceso per ricevere il benvenuto da tre donne e da un sacerdote. Infatti in questa struttura in cui la popolazione carceraria è esclusivamente maschile, al vertice dei ruoli di responsabilità ci sono figure femminili: la direttrice, Maria Donata Iannantuono; la vicedirettrice, Pia Palmieri; e, in alta uniforme, il comandante della polizia penitenziaria, Maria Luisa Abossida. Con loro il cappellano, don Franco Diamante, che ha indicato al Papa l’edificio di tre piani con l’intonaco grigio scrostato e le finestre sbarrate, dalle cui celle provenivano applausi e grida di gioia. Francesco ha rivolto lo sguardo verso l’alto e ha ricambiato il saluto con la mano, poi varcata la soglia del carcere ha incontrato il personale civile e amministrativo, con medici e sanitari in camice bianco, e gli agenti di custodia in divisa d’ordinanza. Accompagnato dall’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, da monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa pontificia, e dall’aiutante di camera Sandro Mariotti, il Papa ha quindi incontrato due gruppi distinti di persone in regime di detenzione protetta. Uno di essi ha donato una statuina mariana intarsiata nel legno, altri hanno consegnato disegni o lettere, oppure hanno mostrato fotografie di persone care. Francesco ha ricambiato con gesti di incoraggiamento e parole di speranza, e su qualche volto indurito dalle prove della vita sono scese lacrime di consolazione. Nella cappellina dell’istituto che per l’occasione è stata adibita a sagrestia il Papa ha quindi indossato i paramenti e impugnando un pastorale ligneo ha guidato la processione fino al teatro dove si è svolta la messa, diretta dal maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie Guido Marini, coadiuvato dal cerimoniere Ján Dubina. Coordinati dall’agostiniano Paolo Benedik, della Sagrestia pontificia, hanno svolto il servizio liturgico alcuni detenuti “la maggior parte dei quali senza alcuna esperienza”, ha confidato il cappellano, che ha concelebrato insieme con il sostituto. E siccome Francesco è venuto proprio per i detenuti, ad altri ospiti della Casa circondariale è stata affidata anche l’animazione dei canti: si tratta del “Coro “ristretto” Santa Cecilia di Velletri”. Sull’altare addobbato con i fiori coltivati nelle serre del penitenziario, dopo le letture da parte della direttrice (Esodo 12, 1-8. 11-14), della comandante degli agenti di custodia (Salmo 115, “il tuo calice, Signore, è dono di salvezza”) e di un detenuto (1 Corinzi 11, 23-26) e la proclamazione del Vangelo (Giovanni 13, 1-15), il Papa ha improvvisato a braccio l’omelia. Una riflessione breve, di appena cinque minuti, ma profondamente significativa sull’importanza del servizio. Parole che hanno trovato concretezza nel gesto compiuto subito dopo, quando cinto il grembiule su cui era ricamato l’interrogativo petrino “Tu lavi i piedi a me?”, ha rinnovato l’umile gesto compiuto da Gesù con gli apostoli, inchinandosi a lavare e a baciare i piedi di dodici uomini: nove italiani, tra cui uno di origini slave, un marocchino, un brasiliano e un ivoriano. Il più giovane non ha ancora vent’anni; il più grande ne ha poco più di cinquanta. Alcuni saranno liberi a breve, per altri c’è da attendere almeno un lustro. Alla preghiera dei fedeli sono state elevate tra le altre un’intenzione per la Chiesa, affinché sia sempre più ricca di misericordia nel sostenere i fratelli più piccoli, più poveri, più fragili — i migranti, i carcerati e le minoranze — e una in spagnolo per chi cerca migliori condizioni di vita in Italia. Alla fine del rito, durante il quale il Pontefice ha distribuito la comunione, la direttrice Iannantuono ha presentato la realtà della struttura di Velletri, rimarcando che “il carcere è un luogo di sofferenza, ma anche di riscatto e cambiamento”, “fucina di legalità attraverso percorsi di rieducazione e reinserimento”; aggiungendo che compito di chi ci lavora è puntare “al recupero della centralità della persona detenuta”, anche attraverso la possibilità di far acquisire “professionalità da spendere all’esterno”. Non ha mancato di sottolineare le difficoltà provocate dalla “grave carenza di personale” che si somma al “sovraffollamento quotidiano”, visto che nonostante una capienza di poco più di 400 posti, ospita ben 570 persone. Da qui l’auspicio conclusivo che la visita del Papa “sensibilizzi le istituzioni per restituire condizioni di lavoro più dignitose per il personale” e che “l’opera di risocializzazione non sia vanificata dall’indifferenza e dall’egoismo”; con un pensiero anche per “le famiglie di coloro che scontata la pena devono essere riammessi nella comunità”, ha detto. Al termine della visita, protrattasi per circa due ore, il Pontefice è tornato in automobile in Vaticano. Nel cortile, ancora un saluto ai figli delle guardie carcerarie e uno ai detenuti che dalle celle gridavano: “Grazie Papa Francesco, torna presto a trovarci”. La rottura sulla giustizia? Ecco perché non arriverà di Errico Novi Il Dubbio, 20 aprile 2019 Sul tema, più convergenze che conflitti. Nel merito, il partito di Salvini non fa obiezioni. Neppure sul penale. La materia favorisce le proposte-bandiera ma l’intesa rimane. Un terreno di scontro? Poteva esserlo. Ma in realtà la giustizia ha rappresentato un’opzione ad alto tasso di “produttività”, per il governo gialloverde. Almeno finora. Neppure il vertice saltato due giorni fa per la diserzione della Lega pare un segnale di rottura. Piuttosto, un atto dimostrativo per ottenere più collaborazione su altri fronti, come la chiusura dei porti. Non a caso ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha ribadito il proprio ottimismo. Interpellato al congresso Legacoop, il guardasigilli ha di nuovo assicurato che la riforma del processo, sia penale che civile, “sarà presentata al primo Consiglio dei ministri utile”. Il fatto che non se ne sia parlato alla riunione di ieri, tenuta a Reggio Calabria, pare irrilevante: il governo ha viaggiato senza la scorta dei “tecnici”, i capi di gabinetto al seguito dei ministri erano pochissimi; e in condizioni simili sarebbe stato impossibile definire dei testi. Se ne parlerà dunque dopo Pasqua. Ma è improbabile che la Lega si metta di traverso. Anche perché, come ha ricordato sempre Bonafede, la delega sul processo è “il frutto del lavoro svolto ai tavoli con avvocatura e magistratura”. Le norme sono state condivise da istituzioni e rappresentanze forensi come dall’Anm. Sarebbe davvero difficile, per la Lega, trovare elementi di merito sui quali avanzare perplessità. E va pure ricordato che non si tratterà “di una delega in bianco”, seppur “nel pieno rispetto del Parlamento”, come dichiarato dal ministro nell’intervista di ieri alla Stampa: “I decreto attuativi saranno molto ridotti”. E infatti, la bozza di delega sulla procedura sia civile che penale contiene indicazioni dettagliatissime, articolo per articolo, non generiche proposizioni. Il punto è un altro. La giustizia è un terreno sul quale si può incontrare il consenso senza devastare i conti dello Stato. Anche se Bonafede ha ricordato di aver fatto “un investimento senza precedenti sulla pianta organica dei magistrati”. Stanziamenti tutti previsti nell’ultima legge di Bilancio. Anche qui dunque condivisione piena. Ma certo, quel “rapporto costi- benefici” relativamente favorevole assicurato dalla giustizia crea un rischio. E cioè che proprio tale accessibilità invogli le due forze di governo a spingere per provvedimenti- bandiera anche indigesti all’alleato. La questione si porrà a breve con la proposta sulla castrazione chimica, che la ministra Giulia Bongiorno intende presentare nonostante lo stop alla Camera, durante l’esame del “codice rosso”. Eppure il conflitto sembra destinato a casi marginali. Fila piuttosto liscia, al Senato, la proposta della Lega sull’ingiunzione veloce. E pare destinato a un percorso privilegiato pure il ddl governativo, a prima firma del premier Conte, che alza il tiro nei confronti dei violenti da stadio, da poco incardinata a Montecitorio. Piena convergenza sul ddl costituzionale che riconosce la funzione dell’avvocato, depositato congiuntamente dai capigruppo di M5s e Lega a Palazzo Madama. Qualche sorpresa potrebbe arrivare dalla separazione delle carriere: ieri Bonafede si è occupato anche di questo, ha chiarito di essere “da sempre contrario” (diversamente dalla Lega), ma anche che “non ci si può sottrarre al dibattito, di fronte alla proposta fatta dagli avvocati” e a una “raccolta firme così importante”. Il riferimento è allo straordinario impegno messo in campo, per la legge d’iniziativa popolare sulle carriere dei magistrati, dall’Unione Camere penali. E una riconoscimento simile, proprio perché fatto da chi come Bonafede non tifa per la riforma, è particolarmente significativo. In teoria potrebbero esserci problemi se la riforma del penale non fosse già approvata quando entrerà in vigore una norma molto sgradita, invece, ai penalisti, la “nuova” prescrizione. Ma i tempi brevi assicurati da Bonafede anche sui decreti attuativi rendono l’ipotesi residuale. Sulla giustizia, dunque, se la maggioranza vorrà litigare, dovrà proprio essere determinata a farlo. Italia, Paese del giustizialismo che non se ne va di Paolo Pillitteri L'Opinione, 20 aprile 2019 Intendiamoci: parlare come fa qualcuno di giustizialismo che ritorna, non è esatto. Il giustizialismo non è ritornato perché non se n’è mai andato. È sempre in azione, all’opera, indefesso e proprio nel Paese che si crede(va) la culla del diritto. Già il nostro giornale che del garantismo ha fatto la sua più vera e unica bandiera, ha narrato nei giorni scorsi casi in sé non eclatanti ma sempre e comunque esemplari, nelle soluzioni giudiziarie, dello stato delle cose in Italia. Siccome il semplicismo, anche e soprattutto mediatico, è subentrato alla dialettica che è la ragion d’essere della democrazia, andrebbero evitate le critiche cosiddette en passant ad una sistema giudiziario che nel suo day-by-day non appare sempre e comunque ispirato alla grande madre di quel garantismo che è oggettivamente indispensabile. Ma che proprio dalla stessa politica - premiata dal voto elettorale e salita a Palazzo Chigi - è spesso e volentieri cestinato perché ispirata alla sua negazione, stabilendo una sorta di santa alleanza con i non pochi Palazzacci e suoi occupanti, più o meno. Del resto, è noto che il giustizialismo d’antan leghista non è mai stato messo in cantina, a cominciare da quel leggendario grido “Mani pulite” inventato soprattutto dai mass media, forse gli stessi che vent’anni dopo hanno dato vita ad un’altra imprecazione, non meno mitica: “La Casta”. Le due grida, invero poco manzoniane, hanno dato una grossa mano, la prima ai successi della Lega (e di Forza Italia prima maniera) con l’annientamento dei partiti della Prima Repubblica, la seconda ai trionfi di un grillismo, prima di lotta ed ora di governo, in nome e per conto del nuovo che avanza. In sostanza, e grazie alle assenze riformatrici degne di questo nome anche da parte di un Cavaliere premiato dai consensi, qualsiasi “riforma della giustizia” e delle sue garanzie per i cittadini non è mai decollata. Questa premessa, sia pure sommaria, serve anche a mettere a fuoco degli esempi che scorrono davanti ai nostri occhi e che si portano con sé il pesante bagaglio di un giustizialismo che non tramonta mai, anche nel silenzio o quasi di un coro massmediatico che sembra poco interessato e propenso ad un’analisi degli episodi e delle persone coinvolte, siano conosciute, sconosciute. Finite nel tritatutto del carcere e delle manette. Il caso della preside di Imperia, Anna Rita Zappulla, è a suo modo emblematico se è vero come è vero che le manette e l’arresto conseguente sono stati inflitti per aver utilizzato l’auto di scuola per un viaggio, anche in Francia, cioè per i fatti suoi. La Zappulla, poi scarcerata, è una signora ultrasessantenne, incensurata, stimata e ha dichiarato di aver fatto quel viaggio in ragione del recupero di fondi europei, purtroppo andati perduti. Dura lex sed lex, si dice in questi casi, ma il proverbio ha spesso il sapore di una sorta giustificazione, ma a posteriori, di provvedimenti che in ben altri casi e ben più gravi non vengono presi. Gli esempi sono tanti e quotidiani e li risparmiamo. Soffermiamoci invece sul caso di Emilio Fede che è scampato ad arresti comunque “minacciati”, ma poi trasformati in “domiciliari”. Francamente è difficile se non impossibile immaginare un famoso giornalista come Fede, ultraottantenne, a rischio di arresto giudiziario per le cosiddette vicende di Arcore sulla cui gravità qualsiasi dibattito, anche il più antiberlusconiano, non potrebbe non concludersi con una risata collettiva, non fosse altro che per scongiurare se non irridere a fronte di una galera alle viste. Ma di dibattiti, nemmeno l’ombra. Dura lex sed lex, appunto. Infine, un cenno di nuovo alla vicenda di un Roberto Formigoni, da qualche tempo associato alle carceri di Bollate, vicino Milano. Anche nel suo caso l’inflessibilità del giudizio è della stessa dura e ferrea materia delle manette. E nessuno può oggettivamente mettere in ombra colpe e responsabilità dell’ex presidente lombardo. Il punto è un altro. Anzi, il fatto. Ed è che Formigoni ha superato i settant’anni e la stessa Costituzione italiana è abbastanza chiara in proposito a condanne in carcere ad una certa età. Dignitosamente, Roberto Formigoni ha voluto e saputo affrontare questa prova con dignità e pacatezza. Ma il fatto, cioè la galera, rimane. Il cappio sventola sul nuovo che avanza. Limiti al rito abbreviato in vigore da oggi Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2019 Entra in vigore oggi la legge che prevede l'inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l'ergastolo (n°33/2019), pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n° 93 del 19 aprile. Le nuove regole, che si applicano solo ai delitti commessi “successivamente all'entrata in vigore” - escludendo quindi i processi e le indagini preliminari già in corso - prevedono comunque la riproponibilità della richiesta di abbreviato fino al termine della discussione (nel caso di intervenuta dichiarazione di inammissibilità superata dagli eventi), ma anche la revoca dell'ordinanza di giudizio abbreviato nel caso di aggravamento dell'imputazione durante l'udienza preliminare. Coerentemente, se la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell'udienza preliminare era stata dichiarata inammissibile, il giudice, se all'esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione della pena, reintroducendo in sostanza lo sconto da rito (un terzo dell'ammontare della pena concretamente da infliggere per i delitti, la metà per le contravvenzioni penali). Abrogate pertanto le disposizioni del codice che prevedevano la sostituzione dell'ergastolo con la reclusione di anni trenta, e la sostituzione dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, con l'ergastolo. “Cosa Nostra è debole, oggi comanda la 'ndrangheta” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 20 aprile 2019 Procuratore capo a Messina, per otto anni sostituto alla Procura nazionale antimafia delegato a seguire Palermo e Caltanissetta, prima ancora pm a Palermo impegnato in inchieste sui rapporti tra mafia e colletti bianchi, Maurizio De Lucia è magistrato esperto e conoscitore delle vicende di Cosa nostra. Anche in Sicilia si spara poco. Cosa nostra ha cambiato pelle? L'analisi del procuratore De Lucia segue l'intervista al procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Procuratore De Lucia, è vero che Cosa nostra acquista la cocaina dalla 'ndrangheta per lo spaccio in Sicilia? “È proprio così, confermo le affermazioni del procuratore Gratteri. Cosa nostra si approvvigiona dagli 'ndranghetisti e, a livello personale, anche da qualche esponente della camorra. La mafia siciliana non è più in grado di organizzare una rete di traffico internazionale di droga, limitandosi a controllare lo spaccio sul territorio”. Anche la mafia siciliana oggi spara poco. Significa che è diventata un'organizzazione silenziosa, che fa più affari senza più frizioni interne? “No, dalle nostre conoscenze non è così. Significa invece che la mafia corleonese, potente tra gli anni 70 e 90 del secolo scorso, è oggettivamente in grande difficoltà”. Perché? “Trent'anni di pressione repressiva dello Stato, che dopo le stragi si è concentrato sulla mafia siciliana con un enorme sforzo investigativo, hanno provocato questo ridimensionamento. Quella stagione di sangue ha segnato l'inizio del crollo di Cosa nostra con tutti i suoi capi”. Non ci sono più capi pericolosi in libertà, in grado di ricostituire una pericolosa struttura mafiosa? “Tranne Matteo Messina Denaro, tutti i componenti della commissione storica di Cosa nostra sono ormai in carcere. Qualcuno è anche morto negli anni della sua detenzione, come Totò Riina e Bernardo Provenzano, altri sono in carcere al regime del 41-bis con condanne durissime da scontare”. Non ci sono successori della stessa pericolosità? “I gregari del passato, che aspiravano ad occupare ruoli di primo piano e a ricostituire la commissione provinciale di Cosa nostra, sono stati subito individuati, arrestati, processati e condannati”. La commissione provinciale dunque è davvero scomparsa? “Due volte sono stati individuati dei tentativi di ricostituirla. L'ultima lo scorso anno, ma le indagini hanno subito stroncato il progetto”. Che tipo di mafia è oggi Cosa nostra? “Un'organizzazione che cerca di sopravvivere attraverso le attività criminali tradizionali, come le estorsioni, il controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse, lo spaccio di droga sul territorio. E si può ora dire che è stata proprio la struttura organizzativa della mafia siciliana a diventare il suo elemento di debolezza”. In che senso? “A differenza della camorra, la mafia ha avuto sempre una struttura organizzativa piramidale, con una cupola e dei capi. Quando sono stati individuati e colpiti i vertici e le menti, tutta la struttura è entrata in crisi. Questo è più difficile con la camorra, organizzazione criminale più frammentaria e divisa”. Neanche al nord non esistono gruppi di Cosa nostra in grado di controllare affari e traffici criminali? “Anche al nord, è stata la 'ndrangheta a prendere il sopravvento. In alcune regioni settentrionali, sono presenti pure alcuni gruppi della camorra”. Dove è finito il grande flusso di denaro guadagnato da Cosa nostra negli anni 80 del secolo scorso? “Questo è un filone investigativo su cui si lavora, per individuare chi e come ha reso possibile investimenti e riciclaggi che hanno arricchito soprattutto i vertici mafiosi. Esiste un'area grigia, non così consistente come nel passato, che ha sicuramente agevolato l'impiego di questo denaro. E il flusso degli investimenti sporchi resta sempre oggetto di indagini”. La borghesia mafiosa si è mimetizzata? “Esiste una tradizione storica di rapporto della borghesia con i mafiosi. I tentativi di relazionarsi sono continui, ma in questo periodo gli interlocutori mafiosi sono più deboli e contano meno del passato”. E un'altra conseguenza dei tanti arresti? “Sì. La vera svolta c'è stata negli anni tra il 2006 e il 2010, dopo l'arresto di Provenzano. Un pizzino trovato in quell'occasione, firmato da Matteo Messina Denaro, diceva qui hanno arrestato anche le sedie. Sintetizzava bene quello che stava accadendo”. Neanche all'estero Cosa nostra riesce a conservare il suo potere criminale? “Le strutture mafiose negli Stati Uniti e in Canada si sono staccate dalla casa madre. Non è più come in passato, quando i killer partivano da Palermo per uccidere gli avversari che si erano trasferiti negli Stati Uniti. In Canada, poi, sempre la 'ndrangheta ha eliminato i siciliani”. Insomma, Cosa nostra non spara solo perché è più debole? “Stavolta, non è la mafia ad avere imposto una sua strategia, ma la repressione. L'unitarietà, la unicità, l'impunità, l'omertà, caratteristiche di Cosa nostra, sono venute meno per la forte azione dello Stato negli ultimi 30 anni. Qualcosa magari si muoverà sotto traccia, ma non è di certo più l'attività della potente Cosa nostra di ieri”. Marche: il Garante dei detenuti: “serve dirigenza del Prap solo per la nostra regione” cronachefermane.it, 20 aprile 2019 Attivato dal Garante regionale il nuovo ciclo di visite negli istituti penitenziari marchigiani. “Chiesto - spiegano dalla Regione - un intervento concreto che veda il pieno coinvolgimento delle istituzioni dell’amministrazione penitenziaria. Le criticità riportate anche nella relazione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale presentata nelle scorse settimane alla Camera, presenti le massime autorità dello Stato. “È ripartito da Montacuto di Ancona il secondo ciclo annuale di visite negli istituti penitenziari marchigiani, attivato dal garante Andrea Nobili nell’ambito della prevista azione di monitoraggio. I problemi che, come già verificato nella prima fase, tendono ad acuirsi, portano lo stesso Nobili a ribadire la necessità di un intervento concreto che veda anche il pieno coinvolgimento delle istituzioni dell’amministrazione penitenziaria ai diversi livelli. “Il sistema penitenziario marchigiano - sottolinea Nobili - è sempre più marginalizzato nel panorama nazionale. A livello locale non esiste da tempo un punto di riferimento certo ed ogni azione rischia di essere vanificata. È indispensabile ripristinare un’adeguata presenza del Prap, con uffici in loco ed un dirigente che pensi esclusivamente alle esigenze del territorio regionale”. “Il Garante - aggiungono dalla Regione - ricorda le numerose segnalazioni fatte pervenire alle autorità competenti nel corso dell’ultimo anno, che hanno riguardato soprattutto la presenza di sovraffollamento, la vivibilità degli ambienti detentivi, le problematiche strutturali e l’attivazione delle attività trattamentali. Come non manca di evidenziare le carenze negli organici sia sul fronte della polizia penitenziaria, sia su quello delle altre figure chiamate a garantire gli adeguati percorsi di sicurezza, trattamento, reinserimento dei detenuti, di mediazione culturale e di assistenza sanitaria. Da ultimo, ma non per importanza, fa riferimento ai quasi quattrocento colloqui avuti con i detenuti degli istituti penitenziari marchigiani, che hanno affrontato, in larga parte, le tematiche riguardanti l’avvicinamento familiare, l’accesso all’attività lavorativa, la sanità ed ancora la vivibilità all’interno delle strutture. Una vasta azione di monitoraggio che in questi anni Nobili ha ritenuto opportuno condividere, attraverso appositi sopralluoghi, con consiglieri regionali e parlamentari delle Marche ed i cui risultati sono anche contenuti nella relazione che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato nelle scorse settimane alla Camera, presenti le massime autorità dello Stato”. Benevento: 48enne si impicca in cella, era in carcere da pochi giorni Il Mattino, 20 aprile 2019 Un detenuto nel carcere di Benevento si è suicidato impiccandosi all'interno della propria cella. La vittima è G.B., 48 anni della provincia di Benevento, da qualche giorno rinchiuso nella casa circondariale del capoluogo sannita. A nulla sono valsi i tentativi da parte degli agenti della Polizia Penitenziaria di salvare la vita all'uomo. Dell'accaduto è stata informata la Procura della Repubblica mentre la salma è stata trasferita all'obitorio dell'ospedale Rummo per gli accertamenti medico legali. Per togliersi la vita il recluso, originario della zona del Fortore, ha usato una corda creata con alcuni indumenti. Non sono ancora certe le ragioni alla base del gesto. Quel che è certo è che l'uomo di trovava in carcere da sabato scorso quando era stato arrestato con l'accusa di maltrattamenti in famiglia contro la moglie. La salma si trova presso la sala morgue dell'ospedale Rummo a disposizione del magistrato Patrizia Filomena Rosa che dovrà stabilire se dare il nullaosta per l'interro o procedere con l'autopsia. “Non si può morire di carcere e in carcere”, ha detto il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. Il detenuto, secondo il racconto di Ciambriello, ha atteso che il suo compagno di cella fosse a colloquio per togliersi la vita. Per il garante “va rafforzato il sistema di prevenzione varato dal ministero nel 2016 e bisogna agire con maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria e l'area educativa per prevenire ed intuire il disagio che porta al suicidio”. Sono numerosi, osserva infine Ciambriello, i casi di suicidio sventati in Campania, negli ultimi due anni, dagli operatori delle carceri. Trento: due suicidi in carcere nel 2018, arriva un piano di prevenzione trentotoday.it, 20 aprile 2019 L’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria ha incaricato il Gruppo di lavoro interistituzionale che ha competenza sul carcere di Spini a Trento, di redigere un piano provinciale di prevenzione dei suicidi. Ne dà notizia la Giunta provinciale che ha approvato le linee d’indirizzo predisposte dal Gruppo di lavoro sulla base delle quali verrà poi elaborato il piano di prevenzione del rischio suicidario. Il suicidio è la causa più comune di morte nelle carceri, con una percentuale tra 15 e 18 volte più frequente nella popolazione detenuta rispetto a quella generale. Nel corso del 2017 i casi di suicidio registrati all’interno delle prigioni italiane sono stati 48, a fronte dei 39 segnalati nell’anno precedente. Negli anni dal 2011 al 2018 nella casa circondariale di Trento si sono verificati 7 casi di suicidio, di cui due nel 2018. Saranno inclusi nel Piano gli enti, istituzioni e associazioni, che hanno la finalità generale di migliorare la salute, il benessere e il clima generale e di contrastare le pratiche “deresponsabilizzanti e infantilizzanti che possono indurre a una sensazione di impotenza e umiliazione nelle persone detenute e rappresentare un fattore di rischio non solo per comportamenti autolesivi ma anche per la radicalizzazione islamista”, come si legge nella nota. Saranno dunque incentivate tutte quelle misure che permettono al detenuto di mantenere rapporti familiari ed amicali “per incrementare i contatti con il mondo esterno”. Saranno incluse azioni per sostenere il tentativo di smettere di fumare, per praticare sufficiente attività fisica e di alimentarsi in maniera sana. Saranno oggetto di particolare attenzione le situazioni “potenzialmente stressanti”: l'ingresso in carcere, i trasferimenti, i colloqui, i processi, e più in generale la vita all'interno della sezione. Pozzuoli (Na): la denuncia di Antigone “anche 12 detenute in una cella” giustizianews24.it, 20 aprile 2019 Quasi tutte le celle del carcere di Pozzuoli, uno dei pochi istituti esclusivamente femminili d’Italia, ospitano 9, 10 o addirittura 12 detenute. A rilevarlo è Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, nel corso di una recente visita nel penitenziario in provincia di Napoli. Attualmente nel carcere sono detenute 181 persone, a fronte di una capienza di 109 posti, con un tasso di affollamento del 166%. Le celle “fortunatamente sono aperte per più di otto ore al giorno - afferma Antigone - ma non tutte”. In particolare, non è aperto per 8 ore giornaliere lo stanzone in cui da circa un anno vivono in media “10 detenute protette, categoria che comprende chi ha commesso reati considerati riprovevoli dal resto della popolazione ristretta”. In passato, secondo quanto denuncia l’associazione, queste detenute venivano trasferite entro un paio di giorni in un altro istituto della Campania, quello di Benevento, dove c’è una sezione apposita. Ma da un anno questo non avviene più e le persone ristrette restano, quindi, in una cella chiusa di un reparto aperto, partecipando alle attività comuni in orari disagiati, solo dalle 18 alle 21. A fronte di queste criticità “che è necessario risolvere”, l’associazione afferma anche di aver trovato a Pozzuoli “un buon clima detentivo”. Antigone aveva visitato la struttura già due anni fa ma il tasso di sovraffollamento, allora, era più esiguo, pari al 144% con 157 detenute a fronte di 109 posti. È bene ricordare che, nel corso del sopralluogo che Antigone fece a Pozzuoli nel 2017, l’associazione trovò delle “condizioni strutturali accettabili”, in particolare perché le 157 donne ristrette svolgevano varie attività lavorative, dalla lavorazione del caffè alla fabbricazione di borse fino alla manutenzione di un’area verde che è stata adibita a orto, ma anche culturali e ludiche come corsi di danza, musica, teatro e fotografia. Palermo: carcere Pagliarelli, ore di attesa per i colloqui coi detenuti di Carolina Varchi palermo.meridionews.it, 20 aprile 2019 “Da diversi mesi nella Casa circondariale Lorusso di Pagliarelli si registrano problemi nella gestione dei colloqui tra i difensori ed i propri detenuti, costringendo gli avvocati fino a tre-quattro ore di attesa, per svolgere il colloquio che rientra nell’esercizio pieno del diritto di difesa, così come la Costituzione garantisce. Una situazione che mortifica gli avvocati nell’esercizio della professione, costringendoli a trascorrere molte ore in attesa, sottraendoli così ad altre attività e al contempo costringe gli agenti di polizia penitenziaria a operare in condizioni di difficoltà”. Lo scrive la deputata nazionale di Fratelli d’Italia Carolina Varchi in una interrogazione a risposta in commissione al ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede. Secondo Carolina Varchi, penalista e capogruppo Fdi in commissione giustizia, che si è fatta appunto portavoce degli avvocati palermitani “i ritardi sembrerebbero dovuti a causa del numero esiguo di sale che non consente lo svolgimento di diversi colloqui in contemporanea e dalla carenza di personale. Da tempo ormai il personale della polizia penitenziaria è sotto organico anche in conseguenza della legge Madia che ne ha ridotto la pianta organica complessiva di circa quattromila unità”. Interrogato da Carolina Varchi in commissione, nei giorni scorsi, il capo del Dap Francesco Basentini nell’esprimere rincrescimento per i disagi creati agli avvocati ha garantito immediate verifiche e soluzioni. Nel frattempo, anche il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Palermo, con delibera del 18 aprile 2019, è intervenuto sui gravi problemi di gestione dei colloqui tra difensori e detenuti loro assistiti, che si sono registrati nella casa circondariale Pagliarelli-Lorusso. Il Consiglio, rappresentando la grave situazione in palese violazione del fondamentale esercizio del diritto di difesa, ha chiesto al ministro della Giustizia ed al direttore della casa circondariale Pagliarelli di intervenire urgentemente con ogni strumento possibile, nel pieno rispetto della legge e dei diritti di ogni detenuto. Reggio Calabria: la sede dell’UEPE nel palazzo sequestrato alla ‘ndrangheta gnewsonline.it, 20 aprile 2019 Per la prima volta un bene confiscato alla mafia è stato consegnato a un Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe), del Ministero della Giustizia. È avvenuto il primo aprile quando all’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Reggio Calabria-Dgmc del Ministero sono state destinate tre delle cinque unità immobiliari provenienti dai beni confiscati a Rocco Musolino. Il potente boss della ‘ndrangheta, scomparso nel giugno del 2015, era titolare di un patrimonio stimato attorno a 150 milioni di euro. La sentenza della Cassazione il 30 marzo 2018 ha reso definitivo il procedimento a suo carico e ora una sua ex proprietà diventa sede dell’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Reggio Calabria. Il passaggio, a cui ha partecipato anche l’Agenzia del demanio, è avvenuto presso il locale ufficio dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. La consegna alla collettività di un bene confiscato alla mafia rappresenta lo sforzo che lo Stato compie nel restituire alla società beni che la criminalità organizzata aveva realizzato attraverso attività illecite. Destinare un bene di questo tipo a strutture che hanno il compito di occuparsi del recupero dei detenuti e del loro reinserimento nella società rappresenta un collegamento con il principio contenuto nel comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione nel passaggio che recita: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Libri. Non basta la matematica per evadere dal carcere minorile di Antonella Lattanzi La Stampa, 20 aprile 2019 Un romanzo d'amore e di sofferenza. Con un interrogativo: la prigione può salvare?. Elisabetta insegna ai giovani detenuti, Almarina è appena arrivata. La prof non ha figli, l'allieva non ha genitori, e le sbarre sono dure. Uno scrittore è una persona che fa una domanda. Che racconta una storia, un pezzo piccolissimo di mondo che può raccontare tutto il mondo, e dentro ogni parola di un romanzo sembra chiederti: e tu? Tu che ne pensi, tu cosa senti, tu cosa ricordi. Uno scrittore è una persona che ti chiede: parlami di te. Valeria Parrella è una scrittrice. Non ha mai avuto paura di fare le domande, anche le più difficili, e in ogni suo romanzo c'è una perdita, una paura, una speranza, un coraggio, e soprattutto c'è la vita. La vita com'è, com'è ogni giorno. Ma lei sa raccontarla in modo che, mentre leggiamo, pensiamo: io questo non l'avevo visto. Eppure era proprio qui. Questo, secondo me, fa un grande scrittore. In Almarina, vediamo da vicino il carcere minorile di Nisida, una ragazza romena violentata da suo padre che poi è finita qui, una donna cinquantenne che ha visto il corpo morto di suo marito, freddo, in obitorio e che qui insegna matematica, un comandante che rimane umano anche nelle mura fredde di un'istituzione. E vediamo le contraddizioni dello stare fuori - la solitudine, la rabbia, il corpo che invecchia, i ricordi e il dolore, ma anche lo splendore di una città, Napoli, che ribolle di vitalità - e dello stare dentro - rinchiusi, i ragazzi non delinquono, non si fanno uccidere, è vero, ma cosa pèrdono, cosa saranno fuori, e in che modo la reclusione li violenta? E soprattutto, di chi è la colpa se questi ragazzi sono qui? Elisabetta è la professoressa. Almarina è la ragazza romena, sua alunna. L'amore cosa fa? È una costruzione lenta, subliminale, fatta di passetti, o è un'illuminazione, un fuoco, che prima non c'era e adesso è così grande che quell'amore, a dirla tutta, sei tu? Elisabetta e Almarina s'incontrano tra le mura del carcere, e se Elisabetta non ha figli, Almarina non ha genitori. Hanno pochi momenti per vedersi, per conoscersi, i momenti sfuggenti di un carcere - una lezione, una partita di pallavolo - ma non hanno bisogno di molto di più per riconoscersi. Un amore richiede coraggio. Essere genitori richiede coraggio. Essere figli richiede coraggio. Un amore richiede coraggio, sempre: ma ne richiede ancora di più se di mezzo c'è la legge, ci sono le sbarre, gli assistenti sociali, i giudici, i direttori, i tuoi parenti e i tuoi colleghi a dirti che è tutto troppo difficile, è meglio lasciar perdere. Ma uno scrittore è uno che non lascia perdere. E Parrella, in tutti i suoi libri, non ha mai lasciato perdere. Almarina è un romanzo politico, perché ci chiede sfacciatamente di chi è la colpa se un minore è in carcere, e se il carcere può salvare o meno. È un romanzo d'amore, perché stiamo tutti chiusi dentro la testa di Elisabetta, che ha perso l'uomo che amava e forse in Almarina ha finalmente trovato una ragione. E un romanzo che dice “noi” e “voi” e interroga sia quelli che giudicano sia quelli che sono giudicati. Non vuole farci nessuna morale, Parrella: semplicemente ci vuole raccontare un mondo che forse, da qui, da qui dentro, non vedevamo. Un mondo che una volta visto non può lasciarci indifferenti, non possiamo chiudere questo romanzo e fare come niente fosse. E forse, in un momento come questo, in cui la paura del diverso si traduce in aberranti professioni d'odio e di violenza, ci insegna a non aver paura. Insegna non è la parola giusta: Parrella non vuole insegnare niente a nessuno, perché è una vera scrittrice, e gli scrittori non insegnano, raccontano. Ma in questo racconto ci siamo pure noi, noi come figli, noi come madri e padri, noi come società, noi come sistema giudiziario, noi con i nostri preconcetti, noi che pensiamo di essere aperti, illuminati, e non ci accorgiamo di guardare con sospetto, di dividere il mondo in “noi” e “loro”: e “loro” sono quelli che non sono come noi. Guardate alla scrittura di questo romanzo, che vi si tatua addosso. Guardate ai personaggi, che abitano in voi. Guardate a questo grandissimo romanzo, a questa vera, potentissima scrittrice. Poi spalancate i cancelli del carcere e uscite per Napoli, finalmente liberi davvero. Valeria Parrella. “Almarina”, Einaudi, pp. 136, € 17. Televisione. Lunedì su Rai3 “Prima dell'Alba” in carcere a Lecce Gazzetta del Mezzogiorno, 20 aprile 2019 Lunedì 22 aprile in seconda serata su Rai3 va in onda “Una notte in carcere”, una puntata speciale di “Prima dell'Alba” dedicata all'universo concentrazionario: Salvo Sottile entra nel carcere di Lecce e trascorre un'intera giornata con i detenuti, per scoprire come si vive in un luogo dove è sempre notte, tra solitudine, silenzio e mancanza di libertà. Per la prima volta il viaggio di Sottile inizia all'alba, attraversando l'enorme porta di metallo dell'Istituto con l'ispettore capo della polizia penitenziaria Maurizio Migliaccio, nell'arma da 27 anni. Insieme passano dal cellario, dove i detenuti vengono privati dei loro beni personali, fino alla sala dove vengono schedati, ripercorrendo un iter di passaggi burocratici che assumono anche un forte significato simbolico, scandendo per i detenuti il distacco dalla libertà e l'ingresso nella lunga “notte” della vita carceraria. Nel cortile dove i detenuti trascorrono l'ora d'aria, Salvo Sottile rincontra Luigi, un detenuto conosciuto durante una precedente visita, che gli racconta come riesce ad andare avanti grazie alla famiglia e alla fidanzata, conosciuta quando era già in carcere e che aspetta la sua uscita. Il desiderio di uscire si respira ovunque nel carcere, anche nei laboratori didattici di cucina, tessitura e falegnameria dove i detenuti hanno la possibilità di imparare un mestiere che potrebbe servirgli una volta “fuori”; o nei corsi di scrittura e lettura del collettivo “La Rosa dei Venti” che offre ai detenuti una sorta di “evasione” metaforica che culmina in uno spettacolo teatrale annuale. Giornalisti assediati dai regimi autoritari. Pressioni anche in Italia di Valerio Sofia Il Dubbio, 20 aprile 2019 Il rapporto di “RSF” sulla libertà di stampa. L’Italia migliora e supera gli Stati Uniti nella classifica, ma la situazione complessiva non è certamente ottimale. Almeno secondo il rapporto sul 2018 di Reporters Sans Frontières, che inoltre evidenzia come la libertà di stampa nel mondo sia complessivamente in arretramento. Secondo RSf infatti “il numero dei Paesi considerati sicuri, dove un giornalista può lavorare senza temere per la propria vita diminuisce ancora, mentre i regimi autoritari continuano ad aumentare il controllo sui media”. Si salvano solo i paesi nordici (prima la Norvegia, seguita da Finlandia e Svezia), la Costa Rica, la Giamaica e la Nuova Zelanda: in questi porti franchi, un giornalista non rischia di finire nel mirino delle autorità e la categoria non è considerata in pericolo in quanto può esercitare il suo mestiere in modo corretto. Cosa che invece appare impossibile soprattutto in alcuni Paesi, quelli retti da regimi autoritari dove la censura è spietata e opera anche direttamente sulle sui giornalisti, anche a livello fisico. Tra questi c’è da segnalare che quest’anno il Turkmenistan ha rimpiazzato la Corea del Nord all’ultimo posto della graduatoria, mentre Pyongyang resta comunque al penultimo posto. Male anche la Cina che conferma la scarsa libertà di espressione di cui godono i suoi media. C’è poi da registrare la situazione africana, che a quanto emerge dal rapporto subisce un deciso peggioramento complessivo. Dopo i tentativi di conciliazione portati avanti anche con la visita del Papa, la situazione nella Repubblica Centrafricana è tornata a deteriorarsi e secondo l’ong è questo il Paese che nel 2018 ha subito i più gravi peggioramenti, arretrando in classifica di ben 33 punti. Venticinque li ha persi invece la Tanzania, 24 il Nicaragua (in America Centrale) e 22 la Mauritania. Anche in Europa si sono registrati passi indietro, in particolare Serbia, Montenegro, Ungheria, Malta e Slovacchia. Per queste ultime due pesano gli omicidi di Daphne Caruana Galizia, giornalista investigativa che si era occupata anche dei Panama Papers, a Malta, e di Jac Kuciak, che stava indagando su alcuni finanziamenti europei gestiti da cittadini italiani con presunti legami con la 'ndrangheta, in Slovacchia. La situazione italiana non è tanto brillante. Il nostro Paese guadagna 3 punti e conquista la 43esima posizione in classifica su 180, ma non si tratta certo di un piazzamento lusinghiero. Pesa il fatto che diversi giornalisti debbano vive sotto scorta per le minace soprattutto della criminalità organizzata, anche se - riconosce l’organizzazione - continuano a svolgere il loro lavoro “con coraggio”. A proposito di scorta viene citato il fatto che il ministro Salvini ha minacciato di toglierla a Roberto Saviano, mentre sempre in relazione alla politica il rapporto cita il Movimento 5 Stelle e le uscite dei suoi membri piuttosto forti contro i giornali e i giornalisti. “Salviamo Radio Radicale”, l'appello di Repubblica. Ma Bonafede difende la linea di Crimi La Repubblica, 20 aprile 2019 Repubblica si schiera con Radio Radicale con un appello al premier Giuseppe Conte per salvarla dalla chiusura. ll 21 maggio finisce, infatti, la convenzione con il governo per la trasmissione delle attività istituzionali. Finora sembrava stesse ancora in piedi la possibilità di una proroga da parte del Mise, ma le parole pronunciate lunedì da Vito Crimi, sottosegretario cinquestelle all'Editoria, sembrano vanificare questa ipotesi. L'altra eventualità in campo era la fusione con la Rai, un'intesa tra servizi pubblici. “Salviamo Radio Radicale. Mi unisco all'appello di Francesco Merlo e vorrei che alla mia voce di donna che fin qui ha rappresentato un'istituzione europea, si sommassero ancora una volta tutte e tutti quelli che dalle istituzioni italiane hanno avuto modo di raccontare, senza filtri e senza limitazioni il loro impegno “dentro”, ma come dice la pubblicità della Radio “fuori dal Palazzo”. Dai “Palazzi”, dice Beatrice Covassi, già Capo Rappresentanza della Commissione Ue in Italia e candidata Pd-Siamo Europei per le elezioni del 26 maggio. “Le dichiarazioni di Crimi chiudono 25 anni di informazione libera, democratica e soprattutto senza filtri - conclude - alziamo la nostra voce, dentro e fuori dai Palazzi, o resterà lo streaming... soltanto di quello che ci vorranno far sentire”. “L'idea che Radio Radicale, che accompagna la politica italiana da decenni in nome della trasparenza e dell'informazione, debba chiudere per colpa di un Vito Crimi qualsiasi dimostra quanto sia meschino il Governo del cambiamento. Solidarietà ai giornalisti di Radio Radicale”, scrive invece Matteo Renzi nella enews. Sulla linea della difesa anche il vice presidente del Csm David Ermini che, nel corso del plenum di questa mattina, ha espresso un ringraziamento per la storica emittente: “Vorrei ringraziare Radio Radicale che svolge un servizio pubblico volto a garantire la conoscibilità e, soprattutto, la trasparenza delle attività, sia del plenum sia dei procedimenti disciplinari, di un organo di rilievo costituzionale quale è il Csm”. Presente al plenum anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che invece si schiera con Crimi: “Non ho niente da aggiungere rispetto alle dichiarazioni del sottosegretario Crimi: non è in discussione il servizio fondamentale di trasparenza dell'attività degli organi istituzionali”. E aggiunge: “Ricordo che abbiamo un servizio pubblico finalizzato a garantire la conoscenza da parte dei cittadini dei lavori delle istituzioni, un servizio pubblico rispetto al quale, lo ricordo, i cittadini pagano un canone”. La voce di Bordin, il suono dell’anima di uno straordinario monologo civile di Vincenzo Vita Il Manifesto, 20 aprile 2019 Stampa e regime. Per la vita di Radio radicale e delle altre testate, al governo basterebbe un emendamento. Fatelo almeno per Massimo Bordin. Se avete un’anima. “Buongiorno agli ascoltatori, ed eccoci all’appuntamento con Stampa e regime”: l’attacco celeberrimo della rassegna stampa di Radio radicale, curata per anni da Massimo Bordin. Grazie a Bordin la rassegna stampa è diventata un vero e proprio format, con un’identificazione immediata data dall’attacco e dalla voce. Rispetto alle pur numerose e spesso serie esperienze omologhe, quella radicale è riuscita a rendere il racconto delle notizie fresche di stampa una sequenza di uno spettacolo mediatico: allusioni ironiche mai volgari, memoria storica, messa in scena teatrale del teatro della politica. Una pièce, uno straordinario monologo civile condotto talvolta con punte esagerate o non condivisibili ma con l’efficacia del prim’attore. Le intemerate contro Marco Travaglio, ad esempio, erano assai gustose, come ha riconosciuto il Fatto dopo la notizia della scomparsa di Bordin. Pareva di vederli - l’uno e l’altro - impegnati in una lotta tra duellanti che alla fine si stringono la mano mentre il pubblico applaude. Una rassegna talvolta aspra e tuttavia educata, permeata di una cifra frutto di uno stile di vita. Come ha ricordato Paolo Mieli, il Corriere della sera si interessò a Bordin nel 2010, quando quest’ultimo si dimise dalla direzione della radio per dissapori con Pannella. Cortese ma fermo il rifiuto di un “salto” che pure avrebbe sensibilmente migliorato le condizioni economiche di un giornalista innanzitutto militante radicale. Chapeau. L’utilizzo delle pause, dei toni, dei volumi è ciò che connota la voce. E la radio è soprattutto la voce. Ciò che nella sorella televisiva si incrocia con l’immagine fino a diventarne una componente, nella radio è tutto. Chi ascolta può diventare severissimo verso cantilene, bisticci di parole, inutili prolissità. La voce attribuisce carattere e ritmo al palinsesto, regolandolo in modo preciso quando è appropriata. Possono esserci raucedini o persino colpi di tosse, dentro - però - un flusso riconoscibile e autorevole. Suoni dell’anima, come recita un felice volume dedicato all’essenza nascosta della voce (Vismara e Pierobon, 2009). “La voce è l’es, la parte femminile inconscia, l’emozione”, così scrive l’introduzione. Massimo Bordin è riuscito a forgiare una miscela pressoché perfetta: testi, contesti, suoni, riferimenti all’enorme antologia politica che padroneggiava. Lo ha giustamente sottolineato Filippo Ceccarelli, a sua volta detentore di un analogo tesoro. Insomma, se Radio radicale ha assunto il ruolo importante che tuttora ha, molto si deve alla capacità rabdomantica del suo senior, che ormai ci guarderà da lassù in una ritrovata sintonia con Marco Pannella con il quale svolgeva ogni domenica pomeriggio un siparietto indimenticabile, degno di una strana coppia. Il ricordo rischia di rimanere una appassionata retorica se non si coniuga alla doverosa lotta per la sopravvivenza di un’esperienza unica nel genere. L’attuale direttore Alessio Falconio e l’intera comunità della più famosa radio di talk non possono vedersi “rubare” un’attività che, come il noto settimanale, vanta tanti tentativi di imitazione. Vani. Per la vita della radio e delle testate colpite ugualmente dal governo basta, del resto, un emendamento. Fatelo almeno per Massimo Bordin. Se avete un’anima. Vita finta (e nevrastenia di massa) al tempo dei social di Franco Arminio Corriere della Sera, 20 aprile 2019 Era il tempo in cui si potevano trovare le persone immobili almeno in alcune ore della giornata, oggi se non ci succede niente andiamo in crisi. È la bulimia emotiva. “Domenica saremo insieme, cinque, sei ore, troppo poche per parlare, abbastanza per tacere, per tenerci per mano, per guardarci negli occhi”. Così scriveva Franz Kafka in una delle sue lettere a Milena. Era il tempo in cui il tempo poteva trovare le persone immobili almeno in alcune ore della loro vita. E così le persone prendevano una loro forma. Era il tempo dell’attenzione e della solennità, della grazia e della disgrazia. Era il tempo in cui di ogni persona non circolavano repliche, rappresentazioni. Tutto era in qualche modo memorabile perché accadeva una volta sola e prima di essere un animale che comunica l’uomo era una creatura scrigno, un deposito della storia del suo luogo e della sua famiglia. Adesso, come diceva Elias Canetti, si tratta solo di capire per chi ci scambiano. Siamo continuamente costretti a ribadire quello che non abbiamo mai detto, mai fatto. Ognuno diventa il surrogato di se stesso, la perenne manifestazione della sua assenza. Fra qualche mese cominciano le feste estive e in molti paesi, specialmente a Sud, arriveranno le cover band. Non potendo avere Jovanotti il paese chiama sul palco il suo sosia e così pure quello che canta come Vasco Rossi o come Rino Gaetano. È un fenomeno noto, forse si può azzardare che il fenomeno riguarda anche la politica e il giornalismo e la cultura. Gli imitatori sono sempre esistiti, ma una volta non esistevano le tribune per palesarsi. Oggi in Rete se tu scrivi qualcosa puoi sempre trovare qualcuno che ti fa notare una tua magagna, come se fosse la cover band di un personaggio famoso. E chi fa lo strafottente contro i neri è qualcosa di più che un fan di Salvini ma un suo sosia, uno che mette in scena in piccolo lo spettacolo che il capo fa in grande. È accaduto anche per Grillo. Molti elettori Cinque Stelle non erano militanti, ma imitatori di Grillo, il loro era un vaffa circoscritto rispetto a quello plateale del capo, ma la postura era la stessa, magari si rivolgeva alla casta locale. Perfino a me accade di avere qualche accenno di cover band. Ogni tanto scovo qualche profilo su Facebook dove compaiono versi e foto che hanno un poco l’aria delle cose che faccio io. È che ognuno è chiamato a fare spettacolo e si arrangia come può. Bisogna farlo per il pubblico, ma anche per se stessi. Se non ci succede niente dopo un paio d’ore andiamo in crisi. L’emozione di ieri non ha un’eco nella giornata di oggi, oggi dobbiamo procurarcene un’altra. Anche nell’amore non è più questione di sentimenti, ma di spettacolo. E di conferme continue. È vero, oggi pomeriggio siamo stati a letto per due ore, ma ora è sera e da due ore non ti fai sentire. Un amore ha bisogno degli integratori digitali di Messenger e WhatsApp. Gli amanti devono fare spettacolo, altrimenti vanno in crisi, bisogna trovare un’altra storia, ma non perché quella che abbiamo sia finita, bisogna trovarla perché non sopportiamo le giornate calme. Negli anni Ottanta mi capitò di scrivere questo distico: la calma in certe ore/ binario morto in mezzo al cuore. Non l’ho mai messo in nessun libro, ma adesso mi sembrano versi attuali, adesso mi pare che siamo in questo circolo vizioso. Si parte dalla scontentezza e dal tentativo di porre riparo. Il tentativo fallisce e siamo ancora più scontenti e diventa sempre maggiore il bisogno di qualcosa che ci ecciti. Il cuore della depressione italiana nasce da qui, da questa nevrastenia di massa: quelle che una volta erano patologie di persone che potevano permettersi il lusso di indugiare sul proprio mondo interno, oggi sono diventante patologie in bella vista sulla Rete. Una volta bastava essere vivi per essere al mondo, adesso non basta essere al mondo per essere vivi. Devi intensificarlo il mondo, non ti basta mangiare un gelato, deve essere un gelato con gusti speciali. Non ti basta farti una passeggiata, ci deve aggiungere una telefonata. La bulimia emotiva colpisce gran parte della popolazione. Ed è una bulimia che di fatto produce una competizione continua, una terza guerra mondiale dove la trincea diventa il divano. Stiamo male perché è in corso un tradimento di massa della nostra natura profonda. Abbiamo dato le spalle agli altri. E non sappiamo a chi e a cosa essere fedeli. Forse di noi diranno che fu finta perfino la vita più convinta. Il Papa prega per poveri, migranti e bambini sfruttati: “Sono i nuovi crocifissi” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 20 aprile 2019 Nelle meditazioni affidate a suor Eugenia Bonetti, missionaria in Kenya e poi salvatrice di giovani prostitute soprattutto straniere, un punto di vista femminile sul calvario delle madri e delle ragazzine vittime della tratta, ridotte in schiavitù. “A tutti, ma soprattutto a noi donne, è richiesta la sfida del coraggio”. Decine di migliaia di lumi rischiarano la notte romana del Venerdì Santo, intorno all’Anfiteatro Flavio si susseguono le stazioni che riassumono il dolore del presente, Francesco assiste assorto dal Colle Palatino. Non è la prima volta che i testi della Via Crucis vengono affidati dal Papa ad una donna ma mai come stavolta, nelle meditazioni di suor Eugenia Bonetti, il punto di vista è stato così femminile, attento in particolare a raccontare il calvario delle madri e delle ragazzine migranti vittime della tratta, ridotte in schiavitù, gettate sulla strada e costrette a prostituirsi, e a denunciare l’ipocrisia dei maschi: “Pensiamo ai bambini usati e sfruttati sulle nostre strade da molti, cristiani compresi, che hanno perso il senso della propria e altrui sacralità. Come una minorenne dal corpicino gracile, incontrata una notte a Roma, che uomini a bordo di auto lussuose facevano la fila per sfruttare. Eppure poteva avere l’età delle loro figlie”. La preghiera di Francesco - Francesco prende la paola alla fine, “Gesù, aiutaci a vedere nella Tua Croce tutte le croci del mondo”, una lunga preghiera che parla tra l’altro delle persone sole, degli anziani, delle famiglie spezzate, dell’ambiente e “la casa comune che appassisce”, dei “migranti che trovano le porte chiuse a causa della paura e dei cuori blindati dai calcoli politici” ma anche dei problemi che lui stesso si trova ad affrontare: “La croce dei piccoli feriti nella loro innocenza e purezza”, un accenno ai crimini pedofili, e “la croce della Chiesa, tua sposa” che “fatica a portare il Tuo amore perfino tra gli stessi battezzati” e “si sente assalita continuamente dall’interno e dall’esterno”. “Poveri ed esclusi sono i nuovi crocifissi” - La Via Crucis prega per “illuminare le coscienze dei cittadini, della Chiesa, dei legislatori”, accusa “l’indifferenza generata da politiche esclusive ed egoiste”, esorta i governanti perché “ascoltino il giro dei poveri, gli esclusi della società, i nuovi crocifissi” e si incentra sulla tragedia delle migrazioni, “il deserto e i mari diventati i nuovi cimiteri di oggi”, l’orrore della tratta dei bambini “sfruttati nelle miniere, nei campi, nella pesca, venduti e comperati da trafficanti di carne umana per trapianti di organi”. Sul Calvario, solo Maria e le altre donne rimasero a testimoniare fino alla fine: “Il loro esempio ci ispiri a impegnarci a non far sentire la solitudine a quanti agonizzano oggi nei troppi calvari sparsi per il mondo, tra cui i campi di raccolta simili a lager nei Paesi di transito, le navi a cui viene rifiutato un porto sicuro, le lunghe trattative burocratiche per la destinazione finale, i centri di permanenza, gli hot spot, i campi per lavoratori stagionali”. “Grazie a chi rischia la vita nel Mediterraneo per salvarli” - Suor Bonetti ha 80 anni, ne ha passati 24 da missionaria in Kenya, combatte la tratta di esseri umani e ha fondato l’associazione Slaves no More, “Mai più schiave”. Al Corriere racconta: “Prima c’erano i tavoli di coordinamento con le istituzioni ma oggi non abbiamo più interlocutori con questo governo. Eppure l’articolo 18 della legge Bossi-Fini era all’avanguardia, alle donne che fuggivano da trafficanti e “madame” offriva l’opportunità di liberarsi dalla strada, collaborare con la giustizia e reinserirsi con un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ma quell’articolo non viene più applicato, e questo è grave: ne abbiamo salvate migliaia, ragazzine quindicenni sulla Salaria costrette a dire di essere maggiorenni”. L’ostilità verso i migranti cresce come il giro di affari e di clienti, ecco l’ipocrisia: “È come per i migranti pagati due euro all’ora nei campi: finché mi fa comodo un essere umano lo tengo, poi lo posso buttare”. Troppi “si fanno ricchi divorando la carne e il sangue dei poveri”. Intorno al Colosseo si ricordano le 26 giovani nigeriane affogate nel 2017, “solo cinque sono state identificate”. Risuonano le meditazioni: “È troppo facile condannare esseri umani e situazioni di disagio, ma non è altrettanto facile assumerci le nostre responsabilità come singoli, governi e anche come comunità cristiane”. E si elogia chi va controcorrente: “Mentre nel mondo si vanno alzando muri e barriere, vogliamo ricordare e ringraziare coloro che con ruoli diversi, in questi ultimi mesi, hanno rischiato la loro stessa vita, particolarmente nel Mar Mediterraneo, per salvare quella di tante famiglie in cerca di sicurezza e di opportunità”. Mattarella: superare Dublino sulle migrazioni, e difesa dell’Ue contro il sovranismo di Riccardo Chiari Il Manifesto, 20 aprile 2019 Intervista a Politique Internationale. Il capo dello Stato chiama la prossima legislatura continentale “all’apertura di vie regolari di accesso” ai migranti, con il superamento del regolamento di Dublino, e difende a spada tratta l'Ue di fronte agli euroscettici. Con 100 milioni di elettori ancora indecisi a un mese dalle elezioni continentali, Sergio Mattarella è stato intervistato dall’autorevole periodico francese Politique Internationale. E il presidente della Repubblica ha affrontato i temi più caldi dell’attuale fase politica, in primis la questione migratoria. Con, a seguire, la difesa dell’Ue “contro il vento del sovranismo”. Nel guardare alle migrazioni, Mattarella ha assunto una posizione non equivoca: la questione “chiama in causa la coscienza europea. Che la solidarietà sia mancata, è un fatto di cui non si può che prendere atto”. La maggior parte dei governi, ha ricordato il capo dello Stato italiano, “ha reagito in funzione di preoccupazioni elettorali interne”. Così, dopo aver elogiato il coraggio della cancelliera Merkel (“anche sul piano elettorale”), mentre “altri si sono rifiutati di fare checchessia”, Mattarella ha ribadito la necessità di una risposta collettiva: “Dobbiamo lavorare, con rapidità ed energicamente, a soluzioni veramente europee: canali di migrazione legali; misure per combattere i trafficanti di esseri umani; mezzi per migliorare le condizioni di vita nei paesi di provenienza”. Su quest’ultimo punto, il presidente della Repubblica è stato chiaro: “Al momento, quanto messo in campo dagli Stati membri dell’Ue è ancora insufficiente, e quello che abbiamo fatto per l’Africa è del tutto inadeguato”. Per poi ricordare un dato di fatto: “Le migrazioni non si dirigono mai verso un solo paese, ma verso l’Europa nel suo complesso. E soltanto una soluzione europea può consentirci di padroneggiare il fenomeno. Questo sarà uno dei temi principali della prossima legislatura”. Una legislatura che per Mattarella dovrà essere basata, lo ripete, “sull’apertura di vie regolari di accesso”, con il superamento del regolamento di Dublino. Perché c’è una scomoda verità da affrontare: “L’Europa si interessa abbastanza al Mediterraneo? La risposta è no. E altrettanto si potrebbe dire dell’Alleanza Atlantica. L’Ue deve esercitare appieno il suo peso politico per creare le condizioni per la pace e la stabilità, lo sviluppo e il rispetto dei diritti umani. E il Mediterraneo non deve tornare ad essere il teatro delle rivalità fra potenze regionali o globali, soprattutto se queste sono paesi europei”. Infine, da un interrogativo retorico (“Quali valori vogliamo proteggere? La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani, il primato del diritto, in breve, valori che riguardano le persone e i popoli, e non certo la conservazione di ipotetici spazi vitali, né gli interessi nazionalistici o l’antagonismo fra comunità. Guardiamoci da coloro che vorrebbero ribaltare questo approccio”), Mattarella fa discendere una difesa a spada tratta della Ue di fronte agli euroscettici: “C’è un gran numero di paesi in situazioni senza precedenti. Ma non credo che questi cambiamenti possano avere conseguenze sul funzionamento dell’Ue. La gente si interessa sempre più a ciò che accade negli altri paesi, ed è consapevole di condividere un destino comune. E, paradossalmente, all’origine di questo rinnovato interesse vi sono i movimenti euroscettici. A forza di denigrare le istituzioni e le politiche europee, sono riusciti a mobilitare nuovamente gran parte della popolazione”. Libia. Usa e Russia bloccano la risoluzione dell'Onu contro Haftar di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 aprile 2019 In bilico il supporto a Serraj. La Casa bianca rende nota telefonata tra Haftar e Trump. A un tratto cambia il vento in Libia, un vento politico - in questo caso - che ha iniziato a soffiare l’altra notte da New York, dal Consiglio di sicurezza Onu riunito a porte chiuse sul crogiolo di guerra innescato a Tripoli. Nessuna risoluzione è stata presa. Il testo proposto dall’ambasciatrice britannica al Palazzo di Vetro Karen Pierce è stato bloccato da un’inedita e temporanea alleanza tra Russia e Stati Uniti. La Russia, come già in precedenza, si è opposta ad una presa di posizione contro l’avanzata del generale cirenaico Kalifa Belqasim Haftar, motivata a fini di “anti-terrorismo”. Gli Usa hanno chiesto tempo per valutare meglio le prospettive in campo. Pierce non ha potuto far altro che rimandare il voto alla prossima settimana. Ma l’intervento, in videoconferenza da Tripoli, dell’inviato speciale Ghassam Salamè pare sia stato decisivo: ha evidenziato i pericoli che potenze estere si intromettano in Libia inviando uomini e armi, ha chiesto di rafforzare l’embargo sugli armamenti già operante dal 2011, come poi ha ribadito con la Cnn. Da alcune ricostruzioni pare che Salamé durante il briefing abbia anche raccontato che mentre il generale Haftar è libero in Cirenaica, il premier di Tripoli Fayez Serraj è sempre controllato dalle milizie. Quasi un ostaggio o un uomo di paglia. La missione dell’Onu in Libia (Unsmil) ha smentito il retroscena come “invenzione”. Resta il fatto che proprio ieri la Casa bianca ha fatto trapelare i dettagli di una telefonata intercorsa lunedì tra il presidente Donald Trump e lo stesso generale Haftar, nella quale Trump ha riconosciuto gli sforzi del feldmaresciallo di Bengasi per combattere i terroristi. A Roma nel pomeriggio il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha ricevuto la visita dell’omologo francese Jean-Ives Le Drian. I due in una conferenza stampa congiunta hanno sancito la fine delle frizioni sulla Libia riguardo al sostegno francese all’offensiva di Haftar. L’inviato Salamè è tornato ieri a far visita a Serraj ma solo per parlargli della situazione umanitaria,. E inoltre per ricordargli che anche colpire infrastrutture civili - come la clinica medica di Qasr Ben Ghashir ndr - costituisce una violazione del diritto internazionale. “Il popolo libico ha l’impressione che il mondo lo abbia abbandonato”, ha detto Serraj alla Bbc, rammaricandosi della “rigidità” del Consiglio di sicurezza e del silenzio dei suoi alleati contro Haftar, “si corre il rischio di tornare al 2011”. E la caduta del suo governo a Tripoli potrebbe “far tornare l’Isis come prima del 2016”. Haftar e il suo portavoce Ahmed Mismari promettono una rapida fine degli scontri, prima del Ramadan, e un ritorno al tavolo del negoziato. È da segnalare che anche la famiglia Gheddafi interviene per la prima volta sull’assedio della capitale. In un lungo post ufficiale, i parenti - e i sodali - del Colonnello esortano “tutte le figure nazionali, i dignitari, i capi tribù e i capi dei loro consigli sociali a prendere tutte le misure disponibili per fermare gli scontri tra i figli della nazione e accelerare la convocazione di una conferenza nazionale per far uscire il Paese da questo tunnel buio”. Dunque il clan Gheddafi dopo aver rimarcato come fu “l’intervento diretto della Nato nel 2011 il fattore chiave per il completo collasso del sistema statale a tutti i livelli”, si schiera a favore della riconvocazione di una conferenza nazionale libica, tipo quella convocata a Ghadames e sabotata dai combattimenti a Tripoli. Nel comunicato si invita la missione Unsmil “a rimuovere gli ostacoli che potrebbero impedire lo svolgimento di questo forum libico”, quale - s’intende - l’esclusione dei gheddafiani. Sul campo le truppe di Haftar - dopo un’altra notte di bombardamenti coadiuvati da “forze amiche”, per ammissione di Mismari - sono sempre nei sobborghi sud-ovest, ripresi l’aeroporto e la base di Tamanhint vicino Sebha, nel Fezzan, dall’ex capo delle Guardie petrolifere Jadharan alla testa di “miliziani dell’Isis” e rinforzate le difese intorno ai terminal petroliferi di Ras Lanuf e Sidra, in rotta a Gharyan, sotto il fuoco di Misurata. Iran. Ancora arresti e una condanna per le proteste delle donne contro il velo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 aprile 2019 Continua in Iran la persecuzione giudiziaria nei confronti delle donne che protestano contro l’obbligo d’indossare il velo nei luoghi pubblici. Il 10 aprile la difensora dei diritti umani Yasmin Aryani è stata arrestata nell’abitazione di famiglia a Teheran e trasferita in una località sconosciuta. Sua madre, Monireh Arabshahi, è stata arrestata il giorno dopo, quando si è recata al centro di detenzione Vozara di Teheran per chiedere notizie della figlia. Madre e figlia sono state arrestate in relazione a un video fatto circolare in occasione della Giornata internazionale delle donne in cui Yasmin, Monireh e altre donne apparivano senza velo mentre distribuivano fiori alle passeggere della metropolitana di Teheran discutendo con loro sul futuro delle donne in Iran. Nel video per cui sono state accusate, Monireh afferma: “Verrà il giorno in cui le donne non saranno costrette a lottare” per i loro diritti; Yasmin porge un fiore a una donna che indossa il velo e dichiara di sperare che un giorno entrambe cammineranno fianco a fianco in strada “io senza il velo e tu col velo”. A causa di questo video, Yasmin e Monireh rischiano di essere accusate di “propaganda contro il sistema” e “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”. A Yasmin è stato permesso di fare una telefonata a casa, ma le autorità non hanno ancora reso noto dove si trovi, limitandosi a comunicare che è detenuta in un centro di detenzione “di sicurezza”. Monireh è invece detenuta nel carcere di Shahr-e Rey (conosciuto anche come Gharchak) insieme a diverse centinaia di altre donne, in condizioni anti-igieniche e di sovraffollamento, senza accesso all’acqua potabile, a forniture adeguare di cibo e medicinali e a fonti d’aria naturale. Vida Movahedi è stata condannata il 14 aprile a un anno di carcere. Vida è nota come la prima “ragazza di via della Rivoluzione” per aver, nel dicembre 2017, protestato nella nota strada di Teheran togliendosi il velo, appendendolo a un bastone e sventolandolo. All’epoca era stata arrestata e poi rilasciata su cauzione. Il suo pacifico atto di resistenza ha ispirato molte donne a protestare nello stesso modo in luoghi pubblici di tutto l’Iran. Quando ci ha riprovato, il 29 ottobre scorso, sempre in via della Rivoluzione, un luogo centrale di Teheran, agitando i palloncini che aveva in mano, è stata arrestata. Secondo la sua avvocata, Vida ha diritto a ottenere la libertà con la condizionale. Fa parte di un gruppo di prigionieri cui, a febbraio, la Guida suprema ha concesso la grazia in occasione del 40° anniversario della rivoluzione del 1989 ma il suo caso non è stato ancora preso in esame. I servizi segreti e le forze di sicurezza dell’Iran hanno rivolto minacce telefoniche ad altre difensore dei diritti umani, ammonendole che saranno arrestate se non desisteranno dal portare avanti la campagna contro l’obbligo del velo. Alcune di loro sono state convocate per interrogatori e temono un imminente arresto.