La politica non usi linguaggio aggressivo e d’odio verso i carcerati di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 1 aprile 2019 Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, nell’annuale relazione al Parlamento, invita a un linguaggio rispettoso della sofferenza. Durante il 2018 aumentato il sovraffollamento delle carceri a causa del mancato uso delle misure alternative. Sui migranti: pochi rimpatri e tempi lunghissimi di trattenimento nei Cpr. Politici, basta linguaggio violento. La bacchettata “a chi ha ruoli istituzionali” arriva alla fine della relazione, ma decisa e motivata: “La sofferenza sia essa la risultante di proprie azioni anche criminose, del proprio desiderio di una vita diversa, merita sempre riconoscimento e rispetto. Merita un linguaggio adeguato, soprattutto da parte di chi ha compiti istituzionali. Ben sapendo che il linguaggio è il costruttore di culture diffuse e l’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio, costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che una volta affermate è ben difficile poi rimuovere”, così ha concluso la propri relazione annuale al Parlamento il “Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale”, Mauro Palma. Vi si possono leggere allusioni a esclamazioni di uomini di governo e che hanno compiti di legislazione, non ultime, ad esempio, quelle del ministro dell’interno Salvini che commentano arresti eccellenti e fatti di cronaca nera nostrani. Una relazione quella del Garante che, comunque, fin dal suo inizio, è stata particolarmente critica nei confronti di un sistema, quello penitenziario, che nonostante l’entrata in vigore di alcune parti della riforma dell’ordinamento, continua a perpetuare negli anni criticità lesive dei diritti fondamentali dei detenuti: dal sovraffollamento delle carceri, alla carenza di misure alternative ad esse; dall’aumento dei suicidi, ai tempi intollerabili di trattenimento dei migranti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr); fino alle situazioni ripetute di privazione della libertà “de facto”, come il trattenimento, anche di minori, a bordo di navi. Il Garante, che ha visitato tra il 2018 e l’inizio del 2019 cento diversi luoghi tra istituti di pena e centri per migranti, ma anche la nave “Diciotti”, e ha monitorato 34 voli di rimpatrio forzato, ha avviato l’analisi partendo dall’affollamento carcerario: se diminuiscono i reati, non diminuiscono i detenuti, anzi “nell’ultimo anno - nota Palma - la popolazione detenuta è cresciuta di 2047 unità, con un andamento progressivo crescente e preoccupante. Parallelamente però il numero di coloro che sono entrati in carcere dalla libertà è diminuito di 887 unità: l’aumento non è quindi ascrivibile a maggiori ingressi, bensì a minore possibilità d’uscita”, in altri termini, si fa uso sempre minore delle misure alternative. Un modello “claustrofilico”, come lo definisce il Garante, “che si riflette spesso sulla tensione interna e troppo spesso sulle difficoltà di chi lavora negli istituti”, che peraltro soffrono un perenne sottodimensionamento di personale. Sul tema dei migranti trattenuti a bordo delle navi, Palma ha ricordato che rientra nei propri doveri il controllo nei casi “in cui per prolungati periodi la possibilità di scendere a terra in situazione di sicurezza non sia consentita a persone soccorse in mare in acque italiane, o quando, in acque internazionali, siano state tratte a bordo di navi italiane. L’esercizio di tale potere di analisi della situazione ed eventuale segnalazione alla Procura della Repubblica competente è svolto sul principio che nel territorio italiano deve essere possibile a chiunque di godere effettivamente dei diritti”, compreso quello di richiedere asilo. La relazione ha toccato poi anche il tema dei rimpatri, notando come “delle poco più delle quattromila persone transitate nei Centri per il Rimpatrio soltanto il 43% sia stato effettivamente rimpatriato: un valore questo che è rimasto su scala analoga nel corso degli anni, mentre la durata massima del trattenimento oscillava tra i 30 giorni e i 18 mesi. Prova questa della mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità”. In pratica, i Centri rischiano di fungere da carcere “improprio” con scopi “politici”: “Occorre chiedersi - osserva infatti il Garante - quale sia il fondamento etico-politico di tale restrizione e quanto l’estensione della durata non assuma l’incongrua configurazione del messaggio disincentivante da inviare a potenziali partenti. Sarebbe grave tale configurazione perché la libertà di una persona non può mai diventare simbolo e messaggio di una volontà politica, neppure quando questa possa essere condivisa”. Sul tema migranti conclude: “Non è possibile guardare positivamente la riduzione della pressione sul nostro Paese della migrazione verso il continente europeo senza rivolgere lo stesso sguardo al numero di morti in quel mare che un tempo era “nostrum” in quanto condiviso da entrambe sponde e che ora si è tramutato in un muro. E continuando a illuderci di non sapere - noi tutti come Europa - quali siano le condizioni sofferte dalle persone che affrontano il mare nel Paese da cui molti partono, dopo aver compiuto un percorso denso di stenti e di ricatti”. Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere quotidianosanita.it, 1 aprile 2019 Comitato nazionale di Bioetica: “Solo chi ha disturbi minori può restare in detenzione, per tutti gli altri le cure devono essere assicurate fuori dal carcere”. Proposte, inoltre, alcune innovazioni normative: rinvio della pena quando le condizioni di salute psichica risultino incompatibili con lo stato di detenzione; previsione di specifiche misure alternative per i soggetti che manifestano un’infermità psichica in carcere; introduzione di Sezioni Cliniche in carcere a esclusiva gestione sanitaria; limitare il ricovero nelle Rems ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva. Assicurare modalità umane di detenzione, rispettose della dignità delle persone; provvedere a che la cura delle persone affette da grave disturbo mentale e che abbiano compiuto reati avvenga di regola sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive; rafforzare i servizi di salute mentale in carcere, superando la storica “separatezza” ereditata dalla sanità penitenziaria. Queste alcune delle raccomandazioni proposte dal Comitato nazionale per la bioetica all’interno del parere in tema di mentale e assistenza psichiatrica in carcere. Il documento pubblicato muove dal presupposto che, se il carcere per sua natura comprime i diritti individuali, “la salute mentale in particolare è insidiata dalla sofferenza legata allo stato di costrizione e di dipendenza totale del detenuto per qualsiasi necessità della vita quotidiana”. Dall’incompatibilità fra il carcere e la salute mentale discende l’indicazione che la presa in carico delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola al di fuori del carcere, nel territorio. “La cura psichiatrica in carcere dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico. Va inoltre ricordato che la salvaguardia della salute mentale non coincide con l’assistenza psichiatrica, per quanto importante essa sia: l’invito è a predisporre un ambiente sufficientemente adeguato a mantenere l’equilibrio psichico delle persone detenute e a non aggravare lo stato di chi già soffre di disturbi, assicurando in primo luogo condizioni dignitose di detenzione e il rispetto dei diritti umani fondamentali”, si legge nel parere. “Il nodo salute mentale-carcere è complicato da altre questioni, fra cui, a monte, il diverso trattamento penale (il cosiddetto ‘doppio binario’) cui possono essere sottoposti gli autori di reato con problematiche psichiatriche. Alcuni (i cosiddetti ‘folli rei’), giudicati non-imputabili per vizio di mente (totale o parziale) e perciò prosciolti per essere però sottoposti a misura di sicurezza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario - Opg; ciò avveniva prima della legge 81/2014 che ha chiuso gli Opg: oggi invece i prosciolti sono avviati al nuovo articolato sistema di presa in carico territoriale, di cui fanno parte le Residenze per la Esecuzione della Misura di Sicurezza-Rems. Altri, i cosiddetti “rei folli”, giudicati imputabili e condannati al carcere, quando sviluppavano un disturbo psichiatrico grave o andavano incontro a un aggravamento di una precedente patologia, erano trasferiti in Opg. Oggi, dopo la sua abolizione, i ‘rei folli’ non godono della tutela cui avrebbero diritto, poiché manca una normativa chiara per stabilire la loro incompatibilità col carcere e indirizzarle a misure alternative a fine terapeutico”, prosegue il documento. “L’eredità dell’Opg è ancora viva sia sul piano concreto, per la sorte tuttora incerta delle varie tipologie di malati psichiatrici che affollavano questi istituti; sia soprattutto sul piano culturale, nel persistere della vecchia visione del malato psichiatrico quale soggetto di per sé pericoloso, e dunque da contenere più che da curare. Tale concezione è alimentata anche dall’eccessivo ricorso al ‘binario’ di non imputabilità e di proscioglimento per “vizio di mente”, con corrispondente ampio utilizzo delle misure di sicurezza. Da qui la resistenza all’utilizzo di strumenti normativi che possano favorire la cura non in stato di detenzione, sia dei ‘rei folli’, sia dei “folli rei”, nonché i ritardi ad adeguamenti normativi in tale direzione”. Muovendo da queste considerazioni, il Cnb raccomanda di: • assicurare, quale forma basilare di tutela della salute mentale in carcere, modalità umane di detenzione, rispettose della dignità delle persone, offrendo un trattamento con opportunità di formazione e di lavoro nella prospettiva risocializzante; • provvedere a che la cura delle persone affette da grave disturbo mentale e che abbiano compiuto reati avvenga di regola sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive, in ottemperanza al principio della pari tutela della salute di chi è libero e di chi è stato condannato al carcere. • rafforzare i servizi di salute mentale in carcere, superando la storica “separatezza” ereditata dalla sanità penitenziaria: in modo che funzionino come parte integrante di forti Dipartimenti di Salute Mentale, capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi al di fuori dal carcere e di collaborare a tal fine con la magistratura di cognizione e di sorveglianza. Il Cnb inoltre sollecita anche alcuni innovazioni normative per tutelare sia le persone giudicate imputabili e condannate a pene carcerarie, sia le persone dichiarate non imputabili e prosciolte. Nello specifico: • il rinvio della pena quando le condizioni di salute psichica risultino incompatibili con lo stato di detenzione in analogia con quanto previsto dagli art. 146 e 147 per la compromissione della salute fisica; la previsione di specifiche misure alternative per i soggetti che manifestano un’infermità psichica in carcere; l’introduzione di Sezioni Cliniche in carcere a esclusiva gestione sanitaria. • una più incisiva riforma delle misure di sicurezza, per limitare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva. Inoltre, in coerenza con la finalità terapeutica delle Rems, occorre limitare il ricovero nelle Rems ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva. Infine, il Comitato invita a riconsiderare il concetto particolarmente problematico di “pericolosità sociale”, alla base delle misure di sicurezza, e la legislazione speciale di “doppio binario” di imputabilità/non imputabilità per le persone affette da disturbo mentale. Riforma frammentaria. Processo penale, manca visione organica di Claudia Morelli Italia Oggi, 1 aprile 2019 Sulla riforma del processo penale alla quale sta lavorando il ministro guardasigilli Alfonso Bonafede l’Associazione degli studiosi del processo penale avrebbe qualcosa da dire. Troppo frammentario l’intervento proposto, che stressa ancor di più quel che resta del modello del processo accusatorio del 1988. In un documento articolato nei 31 punti della bozza di legge delega che il Ministro ha promesso di portare “in tempi brevissimi in consiglio dei ministri”, rispondendo ad un question time alla Camera lo scorso 13 marzo, l’Associazione degli studiosi del processo penale ha evidenziato quali sono le zone d’ombra che mal si conciliano con l’obiettivo di recuperare efficienza. Considerazioni, quelle dell’Assp, che si inseriscono in un confronto che sembra invece stia andando bene a via Arenula con Unione delle camere penali (che pur ha espresso un caveat sulla politica della giustizia penale del governo giallo-verde) e Associazione nazionale magistrali, insieme con Cnf, Ocf e Aiga. Nella riunione del 23 marzo sono stati molti i punti sui cui si è trovato un accordo. Ora si attendono i testi definitivi per poter valutare ogni aspetto nel quadro di insieme della riforma. I dubbi dei professori - Il primo riguarda “l’evidente carenza di visione organica che perpetua, anziché interrompere, la pratica legislativa dell’approccio frammentario ed estemporaneo, cui è in buona parte da addebitare la perdita di identità del nostro sistema processuale penale quale delineato dal Codice del 1988”. Scendendo nel dettaglio degli istituti, le principali perplessità riguardano il sistema delle notificazioni, i riti premiali, alcuni passaggi in materia di appello e di inappellabilità. Il fil rouge dei timori può essere individuato nel rischio che si comprimano le garanzie difensive dell’imputato o si indulga in scelte vessatorie, senza che ne tragga efficacia l’efficienza del processo. “Pericolosa” è la declaratoria di inammissibilità dell’appello da parte del giudice a quo basata su una presunta oggettività; “vessatoria” è la legittimazione del pm ad appellare sentenze di condanna in condizioni di parità con la parte privata. Quanto ai riti alternativi, che la misura punta a potenziare, l’avviso è di procedere con prudenza nell’assegnare premialità in momenti interni al processo, rispetto al dibattimento. Su un aspetto poi pare sia segnata una divergenza evidente rispetto alle scelte emerse dal Tavolo a via Arenula, e riguarda la valutazione del giudice dell’udienza preliminare sul rinvio a giudizio: piace agli studiosi l’originaria scelta del guardasigilli di prevederla come valutazione prognostica delle probabilità di successo della ipotesi dell’accusa; scelta originaria però rivista dal tavolo con il recupero della regola di giudizio diagnostica e non prognostica. Sempre per il rafforzamento della udienza preliminare, si è deciso di affidare al Gup che disponga il rinvio a giudizio la decisione su diverse questioni preliminari, dalla costituzione di parte civile alle questioni di competenza (quest’ultima equiparata, quanto ad autonoma impugnabilità, al regime previsto per la ricusazione). Le scelte del Tavolo a via Arenula Rafforzamento della funzione di filtro della udienza preliminare, incentivazione dei riti alternativi, ridefinizione del sistema sanzionatorio delle contravvenzioni sono le aree principali di confronto. Un comunicato Ucpi ha dato conto dei progressi. Quanto ai riti alternativi (attesa la necessità della convergenza politica nel Governo), il Tavolo è concorde nella ipotesi di estensione del patteggiamento, via libera alla definizione concordata dei motivi di appello, al rafforzamento dell’abbreviato condizionato, alla modificazione del sistema sanzionatorio delle contravvenzioni, mediante la previsione della preventiva contestazione ed eventuale irrogazione della sanzione amministrativa, con iscrizione della notizia di reato come delitto in caso di mancato pagamento. Riguardo agli altri punti, pare che si stia profilando l’abbandono di ogni ipotesi di limitazione del diritto di impugnazione delle sentenze; della reintroduzione dell’appello incidentale del pubblico ministero; della indiscriminata espansione delle ipotesi di rito immediato. Gli avvocati affilano le armi contro la giustizia spettacolo di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2019 Congresso nazionale forense. Riforma del processo penale, inefficienze del giudizio civile e modifiche al diritto di famiglia (Ddl Pillon) i temi della nuova sessione del 5 e 6 aprile. Riforma del processo penale, rischio giustizialismo e tutela dei diritti saranno al centro del Congresso nazionale forense che si terrà a Roma il 5 e 6 aprile. Si tratta di una sessione aggiuntiva del Congresso che si è svolto a Catania nell’ottobre scorso, chiesta dall’Organismo congressuale forense (Ocf), l’organo di rappresentanza politica degli avvocati, per definire i principi e gli obiettivi da perseguire. Fondato nel 2016, l’Ocf ha infatti il compito di farsi portatore delle decisioni del Congresso forense che deve quindi definire in tutti i tavoli politici. Due i maxi temi trattati: la riforma del processo penale e la salvaguardia del ruolo della giurisdizione, ossia della capacità dello Stato di far in modo che la norma giuridica abbia un’attuazione concreta ed efficace. Ma non mancheranno le questioni relative al diritto civile, a partire dalle ipotesi di modifiche del diritto familiare attualmente all’esame del Parlamento. “A Catania - spiega il coordinatore dell’Ocf, Giovanni Malinconico - non avevamo discusso del processo penale ma solo del civile”. Il Congresso che si riunirà il 4 e 5 aprile rappresenta gli oltre 243mila avvocati italiani. Una professione sempre più femminile (le donne sono oggi il 47,8% contro il 25% del 1995) ma ancora fortemente organizzata su base individuale. Secondo l’ultimo rapporto Censis il 40% degli avvocati lavora da solo, mentre circa il 63% degli studi non conta più di due-tre persone. Il Congresso affronterà il delicato tema della spettacolarizzazione della giustizia e della riduzione delle tutele degli imputati. “Il ruolo di supplenza affidato alla repressione dei reati rispetto all’azione politica e amministrativa -aggiunge Malinconico - e la spettacolarizzazione della repressione penale come risposta alla richiesta di sicurezza, tracciano un quadro retrivo e illiberale, in cui la domanda di sanzioni esemplari fanno da contraltare a una progressiva contrazione delle prerogative difensive dell’imputato”. Tutti sintomi dell’indebolimento del sistema giustizia, sempre meno capace di tutelare i diritti e comporre i conflitti sociali. Netta bocciatura anche per la riforma del diritto di famiglia improntata alla bigenitorialità “perfetta” del Ddl Pillon. Secondo l’Ocf sarebbe un passo indietro nella tutela dei minori e delle donne, che sottrae competenze agli avvocati. In vista ella riforma del processo penale, l’Ocf, nel tavolo di confronto con il ministero, ha già presentato alcune richieste. Innanzitutto l’abbandono delle ipotesi di modifica restrittiva delle impugnazioni (compreso l’appello incidentale del Pm). L’Ocf ha inoltre proposto l’applicazione della pena alternativa dell’affidamento in prova da parte del giudice di merito e il rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare. Intanto, in attesa del verdetto della Corte costituzionale invocato dallo stesso Cnf allo scopo di fare definitiva chiarezza sul divieto di superamento del doppio mandato (si veda Il Sole 24 ore marzo scorso), il neoeletto Consiglio nazionale forense è operativo: la settimana scorsa c’è stato l’insediamento e nelle prossime sedute si comincerà a definire la composizione delle commissioni e ad affidare gli incarichi ai singoli consiglieri. Il detenuto non perde automaticamente la responsabilità genitoriale di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2019 Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, decreto del 18 gennaio 2019. Il detenuto perde la responsabilità genitoriale solo se ha commesso nei confronti dei figli condotte tanto pregiudizievoli da giustificare una decisione così radicale. Nessuna decadenza automatica, dunque, per i reclusi che siano bravi padri, neanche quando la condanna comporta la pena accessoria della sospensione dalla stessa responsabilità genitoriale. A prevalere, infatti, è il diritto del minore alla bigenitorialità. Lo afferma il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta con decreto del 18 gennaio 2019(presidente Porracciolo, relatore Gatto). In bilico, la responsabilità di un padre messa in discussione dal suo stato detentivo ma salvata dai giudici. L’uomo, spiegano, stava scontando una condanna che, pur comportando la pena accessoria della sospensione dal ruolo paterno, gli era stata irrogata per reati che nulla avevano a che fare coi figli. Anzi, durante l’audizione dei bambini era emersa l’esistenza di un forte legame con il padre, occupatosi delle loro esigenze fin dalla nascita e partecipe, compatibilmente con il regime carcerario, delle loro vite. Circostanza confermata dalla madre che, per non sciupare la relazione tra i figli e il padre, li accompagnava periodicamente a fargli visita e ne sollecitava i contatti telefonici. Per i giudici non esistono, quindi, motivi validi per recidere il rapporto prole-genitore. Nel sostenerlo, il Tribunale tiene a marcare come dalla reclusione non derivi automaticamente la decadenza dalla responsabilità genitoriale, anche se già sospesa per interdizione legale. Del resto, l’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue sancisce il diritto del minore a intrattenere regolarmente rapporti personali e diretti con entrambi i genitori (salvo interesse contrario del figlio) e l’articolo 9 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo chiede agli Stati di vigilare affinché il bimbo non sia separato dai genitori contro la loro volontà ove non necessario per il suo bene. Ancora, il Codice civile - che all’articolo 315-bis riconosce il diritto dei figli a essere cresciuti, mantenuti, educati e assistiti moralmente dai genitori - all’articolo 330 consente al giudice di pronunciare la decadenza per chi violi, trascuri i suoi doveri o ne abusi. Seguendo questa rotta, i tribunali hanno privato della responsabilità il genitore violento, minaccioso, incapace di capire i bisogni del figlio, manipolatore, dedito alle droghe o assente. Ma non esistono regole precise: è quindi sempre il giudice, di volta in volta, a valutare la sussistenza di elementi legittimanti la decadenza. Misura che, invece, scatterà in automatico per delitti particolarmente gravi contro la persona, perpetrati approfittando della veste genitoriale o puniti con l’ergastolo. Nella vicenda esaminata dal Tribunale per i minorenni di Caltanissetta non solo il detenuto non era colpevole di reati che comportassero di per sé la perdita della responsabilità, ma era riuscito a coltivare un rapporto significativo con i figli e ad adempiere ai suoi doveri nonostante la restrizione. Atteggiamento - auspicato dallo stesso ordinamento penitenziario teso a favorire la responsabilizzazione dei detenuti agevolandone gli incontri con i figli - che i giudici, considerato l’impegno paterno, premia con il non luogo a provvedere sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale. Tenuità del fatto, serve una verifica del danno di Giovambattista Palumbo Italia Oggi, 1 aprile 2019 Ai fini dell’applicabilità dell’esimente da tenuità del fatto occorre accertare che il fatto illecito non abbia generato un contesto concretamente e significativamente dannoso con riguardo al bene tutelato dalla norma incriminatrice. Così ha stabilito la Corte di cassazione, Sezione penale, con la sentenza n. 7675 del 20/2/2019. Nel caso di specie, la Corte di appello di Potenza, confermando la pronuncia di primo grado, aveva ribadito la condanna emessa nei confronti dell’imputato, ritenendolo responsabile di avere omesso di comunicare variazioni rilevanti del reddito, (segnatamente, la sommatoria tra il reddito del dichiarante e quello della coniuge convivente), a seguito di ammissione al patrocinio a spese dello Stato e rilevando anche la recidiva infra-quinquennale. Veniva quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza, tra le altre, per quanto di interesse, per la mancanza di motivazione in merito al diniego delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante del danno di particolare tenuità, anche considerato l’onorario di euro 600,00 percepito dal difensore. La censura, secondo la Corte di cassazione, era fondata. Evidenziano infatti i giudici di legittimità che l’art. 131-bis cod. pen. esclude la punibilità del reato, in presenza di determinati limiti edittali, laddove ricorra la particolare tenuità del fatto, riconoscibile, in concreto, quando le modalità della condotta, l’esiguità del danno e del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 cod. pen., primo comma, e l’offesa arrecata, siano valutabili, da parte dell’interprete, in termini, appunto, di particolare tenuità. Sottolinea a tal proposito la Cassazione come il giudizio sulla tenuità del fatto richiede comunque una valutazione complessa, in relazione alle modalità della condotta e all’esiguità del danno, o del pericolo, essendo a tal fi ne indispensabile una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità del caso concreto, oggetto del giudizio. L’istanza di applicazione della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, evidenzia infine la Suprema Corte, può essere inoltre dedotta anche per la prima volta con l’atto di appello. Confische, competente giudice dell’esecuzione di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 1 aprile 2019 Nel caso di esecuzione di un provvedimento di confisca ad esser competente è sempre il giudice dell’esecuzione. La Corte di cassazione con la sentenza n. 10628/2019, individua il principio per il quale compete al solo giudice dell’ esecuzione, l’opposizione l’esame delle eventuali questioni, insorte nel corso dell’applicazione di un provvedimento di confisca per equivalente. Il tribunale, rigettava la richiesta della curatela fallimentare avente ad oggetto la revoca di un provvedimento di confisca, emesso a seguito del reato di omesso versamento dell’imposta Iva, da parte del legale rappresentante della persona giuridica. Deduceva, il legale, con appositi motivi di ricorso l’evidente illegittimità della decisione di merito, rappresentando, in particolare nella propria tesi difensiva, come parte dei beni oggetto della confisca non poteva essere considerata profitto del reato posto, che essa era stato acquistato antecedentemente alla commissione del reato, non solo ma ulteriori profili di illegittimità della decisione venivano rilevati dalla qualità di terzo estraneo della curatela fallimentare. Gli ermellini risolvono la questione qualificando il ricorso per Cassazione come opposizione e conseguentemente trasmettendolo al giudice ritenuto effettivamente competente. La motivazione parte dall’esame della normativa, prevista da parte del codice di procedura penale. In particolare l’art. 676 del cpp prevede che le questioni relativa all’esecuzione di un provvedimento debbano essere risolte con apposita ordinanza emessa anche senza formalità, la normativa prosegue con l’art 677 del cpp quarto comma il quale prevede che l’eventuale gravame nei confronti del precedente provvedimento, debba essere proposto ricorso nei confronti dello stesso giudice che ha provveduto alla sua emissione. La soluzione della questione al caso concreto, si basa pertanto sulle predette norme. I giudici qualificano il ricorso come atto d’opposizione, e in virtù del principio di conservazione dei mezzi d’impugnazione provvedono alla trasmissione ad altro giudice. Accesso abusivo a un sistema informatico l’ingresso del finanziere per motivi privati di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2019 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 27 febbraio 2019 n. 8541. Integra il reato previsto dall’articolo 615-ter, comma 2, numero 1, del codice penale la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita (cfr. sezioni Unite, 18 maggio 2017, Savarese). Lo stabilisce la Cassazione con la sentenza 8541/2019. E poiché lo scopo della norma è quello di inibire “ingressi abusivi” nel sistema informatico, non assume rilievo ciò che l’agente ebbe a carpire indebitamente (se notizie riservate o altrimenti recuperabili), ma l’ingresso stesso, non sorretto da ragioni collegate al servizio (pubblico o privato) svolto: trattasi, infatti, di un reato di pericolo, che si concretizza ogniqualvolta l’ingresso abusivo riguardi un sistema informatico in cui sono contenute notizie riservate (nella specie, il reato è stato ravvisato nei confronti di un appartenente alla Guardia di finanza che abusivamente risultava essersi introdotto nel sistema Serpico, allo scopo di trarne elementi utili per una causa civile in cui era interessato). Dopo le puntualizzazioni rese dalle sezioni Unite, con la sentenza 18 maggio 2017, Savarese, è principio consolidato quello in forza del quale integra la fattispecie criminosa aggravata di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico protetto, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni “ontologicamente” estranee o diverse rispetto a quelle per le quali, soltanto, la facoltà di accesso gli è attribuita (di recente, sezione VI, 6 dicembre 2017, Di Bella e altro). Si è anzi puntualizzato che, in tema di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico protetto, i principi espressi, per il pubblico funzionario, dalla citata sentenza delle sezioni Unite, possono essere trasfusi anche al settore privato, nella parte in cui vengono in rilievo i doveri di fedeltà e lealtà del dipendente che connotano indubbiamente anche il rapporto di lavoro privatistico. Pertanto è illecito e abusivo qualsiasi comportamento del dipendente che si ponga in contrasto con i suddetti doveri (sezione V, 29 novembre 2018, Landi di Chiavenna: per l’effetto il reato è stato ravvisato nei confronti di un dipendente di una banca che aveva ricevuto e girato sul proprio indirizzo di posta personale alcune mail contenenti informazioni bancarie riservate). Esigenze cautelari: adeguatezza e proporzionalità della misura. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2019 Misure cautelari - Personali - Applicazione - Adeguatezza - Proporzionalità - Funzione residuale della custodia in carcere. In materia di misure cautelari personali, a fronte della tipizzazione legislativa di un “ventaglio” di misure di crescente gravità, il principio del minor sacrificio necessario, ribadito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 231 del 2011, impone al giudice di applicare i criteri di adeguatezza e di proporzionalità di cui all’art. 275, comma 1, c.p.p., scegliendo la misura meno afflittiva fra tutte quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso di specie. Pertanto dal provvedimento restrittivo devono risultare le concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze cautelari non possono essere soddisfatte con misure diverse dal carcere, prescrizione quest’ultima che si coordina con il disposto del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. che sottolinea la funzione residuale della carcerazione preventiva. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 20 marzo 2019 n. 12425. Misure cautelari personali - Esigenze cautelari - Delitti aggravati ex art. 7, D.l. n. 152 del 1991 - Custodia cautelare in carcere - Sentenza della Corte costituzionale n. 57, del 2013 - Presunzione relativa di adeguatezza - Superamento - Criteri. In tema di misure cautelari, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 57 del 2013, la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 3, per i delitti aggravati ex Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7, conv. in L. n. 203 del 1991, può essere superata quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 25 luglio 2018 n. 35483. Misure cautelari - Personali - Braccialetto elettronico - Indisponibilità - Conseguenze - Giudizio sulla scelta della misura. In tema di misure cautelari personali, il giudice, sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare (ex articolo 291 del c.p.p.) sia nel caso di sostituzione della misura (ex articolo 299 del c.p.p.), ove ritenga applicabile quella degli arresti domiciliari con il cosiddetto “braccialetto elettronico”, deve verificarne la disponibilità e, in caso negativo, escluso ogni automatismo nella scelta di applicare la misura della custodia in carcere ovvero quella degli arresti domiciliari semplici, deve applicare quella ritenuta idonea, adeguata e proporzionata in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. In altri termini, l’accertata mancata reperibilità del dispositivo, impone al giudice una rivalutazione della fattispecie concreta, alla luce dei principi di adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 19 maggio 2016 n. 20769. Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Scelta delle misure (criteri) - Applicazione della custodia cautelare in carcere - Motivazione del provvedimento - Analitica indicazione delle ragioni di inadeguatezza di ogni altra misura - Necessità - Esclusione. In tema di scelta e adeguatezza delle misure cautelari, ai fini della motivazione del provvedimento di custodia in carcere non è necessaria un’analitica dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, ma è sufficiente che il giudice indichi, con argomenti logico-giuridici tratti dalla natura e dalle modalità di commissione dei reati nonché dalla personalità dell’indagato, gli elementi specifici che inducono ragionevolmente a ritenere la custodia in carcere come la misura più adeguata al fine di impedire la prosecuzione dell’attività criminosa, rimanendo in tal modo assorbita l’ulteriore dimostrazione dell’inidoneità delle altre misure coercitive. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 5 maggio 2011 n. 17313. Trani (Bat): morte detenuto, assolto l’ex direttore sanitario del carcere di Giovanni Di Benedetto La Repubblica, 1 aprile 2019 Francesco Monterisi era accusato per la morte di un detenuto. Ribaltata la sentenza di primo grado: “Il fatto non sussiste”. La Corte di Appello di Bari ha assolto “perché il fatto non sussiste” l’ex direttore sanitario del carcere di Trani, Francesco Monterisi, difeso dagli avvocati Michele La Forgia e Carmine Di Paola, imputato per la morte di Gregorio Durante, il detenuto 33enne di Nardò morto in cella il 31 dicembre 2012. Ribaltata dunque la sentenza di primo grado del novembre del 2014 che aveva visto il medico, al termine di un processo con rito abbreviato, condannato alla pena di 4 mesi di reclusione per omicidio colposo. Nello stesso processo a Trani erano già stati assolti gli altri quattro medici coinvolti nella vicenda, in Appello è stata confermata la decisione per Michele De Pinto e Gioacchino Soldano, rientrati nel processo dopo l’impugnazione della sentenza. La procura di Trani, lo ricordiamo, contestava al personale sanitario del carcere di non aver disposto il ricovero in ospedale del detenuto, nonostante le gravi condizioni di salute di Durante. Dunque nessun paragone con il caso di Stefano Cucchi, il detenuto morto nel 2009 nel carcere di Regina Coeli a Roma, come sospettavano i familiari di Gregorio. L’uomo era figlio di Pippi, il boss accusato di aver ucciso il 1 aprile del 1984 l’assessore della pubblica istruzione del comune di Nardò Renata Fonte, soffriva di crisi epilettiche associate a crisi psicomotorie a causa di una encefalite contratta nel 1995, quando aveva 17 anni. Stava scontando una condanna a 6 anni di reclusione per uno schiaffo che, pur essendo in regime di sorveglianza, aveva dato a un ragazzo, nel corso di un diverbio avuto perché il giovane stava per fare cadere per le scale, con uno sgambetto, la compagna di Durante, Virginia, all’epoca incinta. Gregorio, ricordano le cronache, quando era detenuto nel carcere di Trani fu inizialmente ricoverato in ospedale a Bisceglie e poi dimesso il 13 dicembre. Due giorni dopo i suoi legali depositarono un’istanza di sospensione dell’esecuzione della pena, che sarebbe terminata nel 2015, o in alternativa di detenzione domiciliare per gravissimi motivi di salute ed incompatibilità con il regime carcerario. Grosseto: carcere verso la chiusura, eppure era stato riqualificato da poco La Nazione, 1 aprile 2019 Preoccupazione dai sindacati: “Manca solo la firma del Ministero”. “Il carcere di Grosseto chiuderà molto presto, manca solo a firma del Ministro della Giustizia”. A dare l’allarme è Francesco Sansone coordinatore provinciale della Polizia penitenziaria Uil, che afferma: “L’informativa indirizzata al capo del Dipartimento Francesco Basentini (nota del 7 marzo scorso), firmata dal provveditore Toscana-Umbria dell’amministrazione penitenziaria, Fullone, non lascia spazio a diverse interpretazioni”. Certo è che tutto avviene dopo poco tempo che sono stati ultimati i lavori dell’impianto di videosorveglianza, armeria, portineria, cosa questa che ancora di più ci lascia esterrefatti rispetto a spese che potevano a questo punto essere evitate. Sulla base di queste poche indiscrezioni, l’organizzazione sindacale Uil-PA Polizia Penitenziaria critica tale scelta affermando “No alla chiusura della Casa circondariale di Grosseto, se non prima di provvedere a realizzare un nuovo carcere nella città di Grosseto”. “Da contatti avuti immediatamente dopo aver appreso la notizia con il sindaco, ci risulta la piena disponibilità da parte del comune alla cessione di una ex struttura militare, affinché si possa pensare di realizzare il nuovo carcere - prosegue la Uil. Questa soluzione sembrerebbe non essere stata minimamente percorsa dall’amministrazione penitenziaria, ferma nel proprio intendo di chiusura. Sembrerebbe quindi che l’amministrazione penitenziaria, abbia solo posto la propria attenzione all’aspetto puramente economico, non tenendo conto altresì di quanti lavorano quotidianamente nella struttura, sia esso personale della Polizia penitenziaria che delle funzioni centrali oltre al comparto sanità e del disagio che potrebbe derivarne. Pertanto in virtù di quanto detto chiediamo un urgente incontro sulla questione”. “L’inserimento di questo istituto penitenziario nel piano di chiusura è determinato, così come si legge nel documento, dalle criticità: legate alla carenza di personale: “previste in organico 37 unità ma in forza 26 unità, di cui 5 unità sono assegnata al nucleo traduzioni interprovinciale, e 2 usciti a seguito delle revoche dei trasferimenti disposti ai sensi della L. n. 104/1992”. Alla capienza massima: inferiore a 50 unità detentive; strutturali: gli spazi sono “augusti ed inadeguati rispetto alle esigenze penitenziarie: la mensa di servizi è ricavata in una stanza angusta all’interno di un edifici”. Teramo: ambulatori medici chiusi a Castrogno, sindacati scrivono alla Regione cityrumors.it, 1 aprile 2019 Le sigle sindacati Sappe, Uil-pa, Cisl, Cgil, Usppe e Osapp hanno scritto una missiva al consigliere regionale Toni Di Gianvittorio ed al direttore generale della Asl di Teramo, Roberto Fagnano, per rappresentare la situazione degli ambulatori medici nel carcere di Castrogno. “Da diversi mesi l’Amministrazione penitenziaria ha allestito ambulatori medici presso ogni piano detentivo dell’istituto per coniugare le esigenze di celerità ed efficienza nel servizio delle terapie ai detenuti e la sicurezza dell’istituto, spendendo la modica cifra di circa 60mila euro - dicono - Ciononostante, ad oggi, non sono stati ancora presi in carico e aperti agli utenti”. Per questo i sindacati, “chiedono un Suo autorevole intervento presso la Asl di Teramo e la invitano a visitare l’Istituto e il presidio sanitario Asl all’interno della struttura”. Latina: sopralluogo di Antigone “forse è il peggior carcere in Italia” di Laura Alteri ilcaffe.tv, 1 aprile 2019 Nessun uomo libero capisce fino in fondo cosa significa vedersi chiudere la porta di una cella carceraria alle spalle e guardare il mondo da dietro le sbarre. Che sia una condanna di pochi mesi, di qualche anno o di tutta la vita, la limitazione della propria libertà personale destabilizza la natura umana. Sovraffollamento delle celle, strutture carcerarie vecchie e danneggiate, mancanza di sostegno psicologico adeguato e carenza di personale penitenziario vanno ad aggravare la già difficile vita in carcere, sia per chi vi lavora che per chi vi vive. L’associazione Antigone questo lo sa bene e da anni si occupa di giustizia, di diritti umani e di carceri, mettendo in campo azioni pratiche e sopralluoghi nelle carceri di tutta Italia. Lo scorso 12 marzo tre volontarie dell’associazione hanno effettuato un sopralluogo nel carcere di Velletri riscontrando alcune criticità. La questione sovraffollamento non è certo una novità: a febbraio 2019 nei 14 istituti detentivi del Lazio, di una capienza regolamentare di 5.258 unità, sono presenti 6.583 unità (+1.325 unità). A Velletri i detenuti in più rispetto alla norma sono 169, a Latina 65. “Nel corso della visita del 12 marzo, abbiamo rilevato un’importante situazione di sovraffollamento a Velletri. A fronte dei 411 posti previsti, erano presenti 580 detenuti. Di questi, 79 sono con certificato di tossicodipendenza e 202 sono gli stranieri. La cosa incredibile è l’assenza completa di mediatori culturali o linguistici” - spiega la volontaria di Antigone Carolina Antonucci. “Sotto organico anche gli educatori: di 7 previsti ce ne sono solo 3. A livello strutturale la casa circondariale di Velletri ha attuato alcune migliorie nel 2017, ristrutturando il vecchio padiglione e l’area isolamento. Purtroppo però, a causa del sovraffollamento e della carenza di spazi, questa zona ospita anche detenuti che non hanno bisogno dell’isolamento”. “La mancanza di fondi adeguati ha costretto la direzione del carcere ad avviare turni di rotazione dei lavoratori (circa 100) per consentire a tutti i detenuti di lavorare e guadagnare. “Inoltre la carenza di agenti di polizia penitenziaria e di responsabili del trattamento penitenziario per la riabilitazione rende difficile capire di cosa hanno bisogno i detenuti. La mancanza di personale si ripercuote anche sui trasferimenti verso le visite mediche specialistiche negli ospedali”. A inizio marzo una delegazione della Fns Cisl Lazio ha effettuato un sopralluogo al carcere di via Aspromonte: presenti il segretario generale aggiunto Fns Cisl Lazio Massimo Costantino, il segretario generale Fns Cisl Latina Salvatore Polverino e il segretario generale aggiunto Gianni Tramentozzi. “Lo scopo della visita era verificare lo stato dei luoghi di lavoro dell’istituto. Latina potrebbe essere il peggiore carcere, con un sovraffollamento che raggiunge il 184%, la percentuale più alta d’Italia. La struttura, ferma ai primi del ‘900, infatti presenta infiltrazioni di acqua e umidità, sistemi di areazione inesistenti e polvere in varie zone. I cancelli vengono ancora in parte aperti manualmente”, spiega Costantino “Preoccupante che non esista ad oggi un reparto disponibile per il ricovero dei detenuti. Si fa il possibile con i soldi a disposizione, ma è evidente che la struttura è carente”, conclude il segr. gen. Fns Cisl Lazio. Nella struttura del capoluogo mancano 23 unità di polizia penitenziaria: a fronte di una pianta organica che prevede 132 unità, ne risultano infatti solamente 109. Diversi, ma non più positivi i dati di Velletri, dove il personale previsto è di 277 unità, ma ne mancano 52. “La carenza di agenti di polizia, ispettori e sovraintendenti rende sempre più difficile la convivenza tra lavoratori e detenuti e la gestione delle necessità di questi ultimi”, spiegano dalla Fns Cisl. “Il 2018 ha visto crescere il numero di suicidi dietro le sbarre, scrivono dall’ass. Antigone. 64 suicidi in un anno, uno ogni 900 detenuti. Per prevenire questi tragici gesti occorre migliorare la qualità della vita in carcere, limitare la solitudine e incentivare i legami esterni, la formazione professionale, scolastica e il lavoro. Il carcere deve riprodurre il più possibile la vita normale. Bisogna investire nelle misure alternative alla detenzione Sono circa un terzo le persone che potrebbero scontare la pena in una comunità”, afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Bari: i detenuti per la cura di giardini e di spiagge, accordo con il Ministero di Samantha Dell’Edera borderline24.com, 1 aprile 2019 A Bari per la cura del verde o la pulizia delle spiagge ci potranno essere anche i detenuti. Lo ha stabilito un protocollo di intesa, approvato in giunta, e che sarà firmato tra il Ministero della Giustizia, il Provveditorato regionale e il Comune di Bari. Saranno quindi attivate forme di collaborazione finalizzate a sviluppare percorsi di reintegrazione sociale e lavorativa in favore di soggetti destinatari di condanna penale definitiva, attraverso piccoli interventi di: manutenzione del verde; di pulizia degli arenili; interventi di manutenzione stradale che potrebbero riguardare il rifacimento della segnaletica orizzontale, la pulizia di caditoie, la sistemazione di sedi stradali a basso scorrimento. Le attività saranno volontarie e gratuite, tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative. L’obiettivo è di “promuovere - si legge nel testo del protocollo - ogni iniziativa tesa allo sviluppo delle attività lavorative della popolazione detenuta, al fine di ridurre il rischio di recidiva e recuperare alla comunità i condannati, individuando - in sinergia con la Magistratura di Sorveglianza e con gli Enti territoriali - percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale in favore di soggetti in espiazione di pena, ponendo attenzione anche alla dimensione della riparazione del danno conseguente alla commissione del reato”. Milano: Cascina Bollate, l’inclusione socio-lavorativa coltivata a partire dalla terra di Evelyn Baleani ehabitat.it, 1 aprile 2019 I benefici del contatto con la natura sono innumerevoli e possono incidere positivamente su diverse sfere della nostra quotidianità, dalla salute fisica al benessere psichico. Un esempio emblematico è riscontrabile nel territorio milanese, per l’esattezza a Bollate. Qui, da diversi anni, la Cooperativa Cascina Bollate ha avviato un progetto orientato all’inclusione socio-lavorativa dei detenuti che trova nella natura un supporto essenziale. Un’iniziativa che fa parte del più vasto programma sviluppato dalla rete Agricoltura Sociale Lombardia. Conosciamo entrambi i progetti. La rete Agricoltura Sociale Lombardia è una realtà che promuove iniziative coniuganti l’aspetto imprenditoriale dell’agricoltura con un programma mirato all’inclusione sociale e lavorativa di soggetti con diversa tipologia di svantaggio. Parliamo di adulti e giovani con fragilità, con disabilità fisica o mentale, con problematiche di tipo psichiatrico e disagi legati alle dipendenze, detenuti ed ex detenuti, immigrati, donne in stato di difficoltà. Scopo della rete è di prevenire il rischio di emarginazione legato alla situazione di svantaggio, costruendo opportunità concrete di riscatto attraverso percorsi inclusivi, capaci di valorizzare la persona e le sue competenze. Aderiscono all’iniziativa tutte le 12 province lombarde, per un totale di 139 realtà mappate e con quasi 2mila persone con svantaggi, che grazie a questa rete regionale hanno trovato un’opportunità di riscatto. Trait d’union dei vari progetti è l’economia sostenibile e responsabile che abbraccia capisaldi quali la filiera corta, la vendita di prodotti a chilometro zero, il consumo critico, la produzione biologica, l’alimentazione sana e il rispetto per l’ambiente. I percorsi di Cascina Bollate: inclusione socio-lavorativa all’insegna della biodiversità - Approdando sul territorio milanese brilla una testimonianza di questo connubio tra inclusione lavorativa e tutela ambientale. Parliamo dell’esperienza di Cascina Bollate, cooperativa nata nel 2007 all’interno della Casa di Reclusione di Milano - Bollate, fortemente attiva sul fronte inclusivo, attraverso lo sviluppo di opportunità lavorative per persone detenute che imparano un mestiere affascinante e allo stesso tempo impegnativo: quello in ambito florovivaistico. Il vivaio rappresenta, infatti, il cuore pulsante della cooperativa. Comprende due grandi serre da 900 mq l’una, oltre a un ettaro di terreno. Al suo interno lavorano giardinieri liberi affiancati da giardinieri detenuti. L’esperienza coinvolge ogni volta circa sei persone sottoposte a reclusione che diventano giardinieri professionisti, imparando un mestiere concretamente spendibile dopo il periodo di detenzione e impegnandosi in una produzione di qualità, contraddistinta da colture inconsuete. Nel vivaio vengono infatti coltivate piante insolite come le erbacee perenni, per un totale di circa 50.000 esemplari di 400 specie diverse. Il 50% di esse è auto-prodotto da semi o talea. Cifre significative che rendono Cascina Bollate uno dei fiori all’occhiello della rete regionale lombarda, in termini di valorizzazione della biodiversità. Numeri che raccontano anche un attento lavoro quotidiano, coordinato dall’esperta Susanna Magistretti, che nel 2017 ha ottenuto il prestigioso premio “Terre de Femmes” di Yves Rocher, grazie al progetto “Cascina Bollate - La Natura entra in Carcere”. La natura nel progetto Cascina Bollate - Ma qual è il ruolo occupato dalla natura in questi percorsi? Come ci racconta la stessa responsabile: “Il progetto è nato dalla volontà di creare una relazione rispettosa tra uomo e la natura, una relazione in cui la natura non sia finalizzata al consumo dell’uomo”. I primi grandi benefici che le persone detenute traggono dalla realtà del vivaio sono “la libertà degli spazi, la possibilità di modellare un ruolo, l’opportunità di uscire dal modello di ‘abitarè caratteristico dei luoghi di reclusione”, spiega la Magistretti. Si tratta quindi di cammini che scardinano diversi luoghi comuni relativi all’ambito della detenzione, introducendo elementi come la volontà di imparare, l’essere coinvolti in un progetto e la cura della biodiversità, con i suoi cicli, i suoi ritmi, la sua infinita bellezza. L’ingresso in vivaio - Il vivaio di Cascina Bollate è generalmente aperto al pubblico il mercoledì e il venerdì dalle 15:00 alle 18:00. Trovandosi all’interno di una casa di reclusione, per l’ingresso ci sono delle semplici ma fondamentali regole da rispettare. Nella struttura si entra per esempio ogni ora, al preciso scoccare delle 15:00, delle 16:00 e delle 17:00. È perciò importante essere puntuali. In alcuni periodi dell’anno, le visite sono solo su appuntamento. Lecco: provare l’esperienza del carcere, una mostra per riflettere di Andrea Brivio lecconotizie.com, 1 aprile 2019 Sovraffollamento e condizione dei detenuti, c’è un’alternativa? Al Palazzo Comunale visitabile “Extrema Ratio”, promossa dalla Caritas. Vivere l’esperienza del carcerazione, solo per pochi minuti, quanto basta per riflettere sulla condizione di detenuti: è l’installazione “Extrema Ratio” allestita al Comune di Lecco su iniziativa della Caritas e che sarà visitabile fino al 6 aprile. Dall’ingresso al carcere alla consegna dei propri effetti personali, la foto segnaletica e la registrazione delle impronte digitali, poi l’accesso alla cella, una stanza di 8 metri da dividere con altre sei persone nel poco spazio lasciato dalla presenza dei letti. Un’esperienza per riflettere e la mostra apre nel giorno in cui si è riaccesa l’attenzione sul sovraffollamento delle carceri italiane, oltre il 129% secondo la relazione pronunciata mercoledì in Parlamento dal Garante per le Persone Detenute, Mauro Palma. Istituti penitenziari sovraffollati, misure alternative al carcere sempre meno utilizzate e suicidi in crescita, cinque ogni mese nelle carceri italiane. Don Marco Tenderini: “La giustizia deve essere per tutti” - “A Lecco per 10 giorni parleremo di giustizia, metteremo la giustizia al centro dell’attenzione di tutti in un tempo in cui, purtroppo, la mentalità corrente chiede più carcerazioni ed una giustizia fai-da-te, se pensiamo alla legge sulla legittima difesa. Ma se si vuole una giustizia che sia per tutti, bisogna percorrere altre strade” spiega don Marco Tenderini, sacerdote e referente della Cartas, in passato cappellano del carcere di Monza e oggi parroco di Bonacina. È stato proprio don Marco, reduce da una visita alla realtà della Apac brasiliane, le strutture carcerarie autogestite, a proporre la mostra alla comunità lecchese, raccogliendo il favore di diverse associazioni diventate partner del progetto e dell’amministrazione comunale di Lecco. Una mostra che vuole fare “provare concretamente, alle persone che verranno a visitarla - spiega il sacerdote - l’esperienza dell’ingresso in carcere, essere rinchiusi in una cella in condizioni di sovraffollamento e all’uscita conoscere un percorso alternativo”. L’assessore Piazza: “Pena deve essere riabilitazione” - “Dieci giorni per parlare di giustizia, ma quale giustizia? Quella che vorremmo venisse promossa è una giustizia che lavori sulla pena come forma di riabilitazione e reinserimento del soggetto, di riparazione del danno, di una giustizia che si prenda cura di tutte le parti, delle vittime e degli autori del reato - ha sottolineato l’assessore comunale alla Cultura, Simona Piazza - dobbiamo riaffermare la centralità della persona”. La mostra, ha ricordato l’assessore, trova spazio nella corte interna del municipio, “nel cuore del Palazzo Comunale” e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 13.30 alle 17.30. “La giustizia è un tema che chiede costantemente di essere interrogato, importanti non sono le risposte, ma le domande: è possibile immaginare una giustizia che coinvolga tutte le parti, che non lasci sole le vittime e che permetta agli autori di reati di riconoscere il danno fatto, che possa ascoltarli?”. Ha spiegato Bruna Dighiera, psicologa giurista intervenuta alla presentazione dell’iniziativa insieme a Marina Lo Russo, fotografa che ha immortalato nei suoi scatti la realtà delle carceri brasiliane, all’avvocato Daniela Sacchi e Laura Corti, docente dell’istituto Bertacchi i cui studenti collaborano al progetto come forma di alternanza scuola-lavoro. Al carcere di Pescarenico - Sono intervenute alla presentazione anche Stefania Scarpinato, direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna e Antonina D’Onofrio, direttrice del carcere di Pescarenico. La casa circondariale di Lecco, come altre carceri italiane ha vissuto da vicino il problema del sovraffollamento, denunciato attraverso il sindacato dagli stessi operatori di polizia che vi lavorano e in ultimo, lo scorso anno, dai Radicali nel loro report sulle carceri italiane. Oggi, spiega la direttrice, la struttura lecchese è nei limiti della tolleranza: attualmente sono 78 i detenuti presenti, per una struttura che dovrebbe ospitarne in misura ottimale solo 53, il limite massimo tollerabile è di 88 detenuti. Sono invece 400 le misure alternative al carcere applicate nel lecchese. Eboli (Sa): il teatro arriva in carcere, rassegna nel penitenziario salernonotizie.it, 1 aprile 2019 L’iniziativa nasce su proposta dell’Associazione di Promozione Sociale “Mi girano le ruote”, nella persona del Presidente Vitina Maioriello e dei volontari, impegnati in diverse collaborazioni sinergiche con l’istituto penitenziario eburino. Lo scopo della rassegna è quello di raccogliere fondi necessari per avviare un corso di formazione teatrale, curato da un attore e regista professionista, rivolto agli ospiti dell’I.C.A.T.T. (Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze) che culminerà in uno saggio finale aperto al pubblico. Obiettivo del progetto è quello di riconfigurare la struttura detentiva attraverso la cultura e la bellezza. All’interno di un’istituzione “totale” come il carcere, dove le mura e i cancelli delineano perfettamente i confini e le barriere, il teatro assume una caratteristica di assoluta libertà essendo una forma d’arte che ha un enorme potere trasformativo su ogni essere umano. Gli spettacoli in cartellone affrontano temi e utilizzano linguaggi che si sposano con la visione di una società inclusiva che vuole contribuire ad abbattere distanza e pregiudizio, che sono spesso causa di recidività, per costruire un ponte di comunicazione fra il dentro e il fuori. “‘Na Storia Antica” dell’attore e regista valdianese Enzo D’Arco è lo spettacolo che venerdì 12 aprile alle ore 19.30 andrà in scena all’interno dell’I.C.A.T.T. di Eboli e che inaugurerà la rassegna teatrale. Seguirà venerdì 3 maggio lo spettacolo di Domenico Monaco “Contastorie” di Trentinara. La terza ed ultima commedia teatrale, che chiuderà la rassegna, vedrà in scena proprio alcuni ragazzi detenuti all’ICATT con un loro spettacolo dal titolo “Il Nuovo Aggiunto”. Tre appuntamenti da non perdere per trascorrere delle ore ricche di emozioni - dichiara Maioriello - che guida da quasi cinque anni il sodalizio e da tre dirige il mensile d’informazione sociale “Diversamente liberi” la cui redazione è proprio all’interno del Castello Colonna, sede del carcere. Con i proventi ricavati da questa iniziativa desideriamo investire in un progetto teatrale di qualità destinato ai ragazzi ospiti dell’I.C.A.T.T. - conclude la Presidente - in quanto riteniamo che il teatro sia un potente strumento di espressione, condivisione e comunicazione e che soprattutto possa essere un’occasione concreta di trasmettere all’esterno il valore, la creatività e tutto ciò che di prezioso e raro si può riscontrare all’interno di un carcere. Per assistere agli spettacoli e contribuire al progetto è obbligatorio prenotarsi nel più breve tempo possibile per avviare la procedura di registrazione che consentirà di accedere nell’istituto di custodia. Un ringraziamento va alla neo direttrice dell’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti, dott.ssa Concetta Felaco, la quale da subito ha accettato la nostra proposta. Un grazie va alla Comandante della struttura penitenziaria, dott.ssa Carla Arancio, che insieme a tutto il corpo della Polizia Penitenziaria guida con diligenza e impegno l’istituto. E poi ci sono loro, i ragazzi al momento ospiti della struttura, che rappresentano davvero una ricchezza per tutti noi. Sembrerà strano - continua la Maioriello - ma loro ci regalano tanto ogni volta che collaborano con noi. Si cresce e ci si arricchisce a vicenda. Roma: al carcere di Rebibbia riparte “La Cometa che suona” notizieinunclick.it, 1 aprile 2019 Quattro incontri spiegati e raccontati da Paolo De Matthaeis per e con i detenuti del noto carcere romano. Incursioni musicali assecondando il repertorio classico senza perdere di vista la “missione” e il tragitto della Cometa che carica di luce ed energia attraversa i secoli testimoniando una produzione musicale tra le idee dei grandi musicisti. Un viaggio “particolare” voluto dalla Direzione e dall’Area Educativa dello stesso Istituto che porta al pubblico detenuto lavori di Bach, Mozart, Schubert, Haendel, Vivaldi e tanti altri non dimenticando che il genio apparteneva ad uomini semplici e che nelle condizioni di difficoltà hanno sempre cercato soluzioni per sopravvivere. La Musica diventa espressione non solo dell’anima ma strumento intelligente per comunicare. Arte necessaria all’individuo per tentare di riappropriarsi degli spazi, spesso negati dalle vicissitudini e da circostanze critiche. Quest’anno la Cappella Musicale Costantina ruoterà i suoi solisti che formeranno un piccolo gruppo musicale pronto ad accompagnare un cantante protagonista. La soprano Yuri Yoshikawa aprirà la stagione accompagnata da l’oboe di Andrea Whitcomb, il violino di Nayla Obeid, la viola di Asaki Kurihara e dal violoncello di Derya Davulcu. Paolo De Matthaeis coordinerà lo spettacolo invitando sul palco il neonato coro “Gesualdo” dei detenuti del Carcere di Rebibbia che vanta il patrocinio di Roma Capitale nella figura dell’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità solidale. Presente, come sempre, la religiosa Suor Rita Del Grosso che commenterà con brevi riflessioni i periodi tematici dell’anno liturgico. Il primo concerto comprenderà brani di Mozart, Haendel, Pachelbel, Vangelis, Morricone, Gounod. Teatro del casa di detenzione “Rebibbia” alle ore 10.30. L’ingresso è riservato ai detenuti, al personale dell’Istituto e a giornalisti accreditati dal carcere. Papa Francesco e i migranti: “Chi costruisce muri finirà prigioniero” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 1 aprile 2019 “Non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà, vedere affogare le persone nel Mediterraneo. La paura è la predica usuale dei populismi e l’inizio delle dittature”. Il volo da Rabat è già sul Mediterraneo quando il Papa raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito nel viaggio in Marocco. Gli chiedono di Salvini a Verona e lui dice: “Io di politica italiana non capisco. Non so cosa sia, davvero. Ho letto la lettera del cardinale Parolin (nella quale ha spiegato agli organizzatori perché non sarebbe andato ndr) e sono d’accordo, una lettera pastorale, di buona educazione. Ma di politica italiana non domandarmi, perché non capisco”. Per il resto, si sofferma in particolare sulla crisi delle migrazioni. Dice che “coloro che costruiscono i muri finiranno prigionieri dei muri che hanno costruito”. Che “la paura è la predica usuale dei populismi e l’inizio delle dittature”. Sospira:”Non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà, vedere affogare persone nel Mediterraneo, non entra, mettiamo un ponte ai porti”. Ci sono stati momenti molto forti, questa visita è stata un avvenimento eccezionale, storico per il popolo marocchino. Quali le conseguenze di questa visita per il futuro, per la pace nel mondo, per la coesistenza nel dialogo tra culture? “Io dirò che adesso ci sono i fiori, i frutti verranno dopo. Ma i fiori sono promettenti. Sono contento, perché in questi due viaggi ho potuto parlare di questo che mi tocca tanto nel cuore, tanto: la pace, l’unità, la fraternità. Con i fratelli musulmani e musulmane abbiamo sigillato questa fraternità nel documento di Abu Dhabi e qui in Marocco tutti abbiamo visto una libertà, una fraternità, un’accoglienza di tutti i fratelli con un rispetto tanto grande. Questo è un bel fiore di coesistenza promette di dare frutti. Non dobbiamo mollare! È vero che ci saranno ancora difficoltà, tante difficoltà perché purtroppo ci sono gruppi intransigenti. Ma questo vorrei dirlo chiaramente: in ogni religione c’è sempre un gruppo integralista che non vuole andare avanti e vive dei ricordi amari, delle lotte del passato, cerca di più la guerra e anche semina la paura. Noi abbiamo visto che è più bello seminare la speranza, andare per mano sempre avanti. Abbiamo visto, anche nel dialogo con voi qui in Marocco, che ci vogliono dei ponti e sentiamo dolore quando vediamo le persone che preferiscono costruire dei muri. Perché abbiamo dolore? Perché coloro che costruiscono i muri finiranno prigionieri dei muri che hanno costruito. Invece quelli che costruiscono ponti, andranno tanto avanti. Costruire ponti per me è una cosa che va quasi oltre l’umano, ci vuole uno sforzo molto grande. Mi ha sempre toccato tanto una frase del romanzo di Ivo Andrich, “Il ponte sul Drina”: lui dice che il ponte è fatto da Dio con le ali degli angeli perché gli uomini comunichino… perché gli uomini possano comunicare. Il ponte è per la comunicazione umana. E questo è bellissimo e l’ho visto qui in Marocco. Invece i muri sono contro la comunicazione, sono per l’isolamento e quelli che li costruiscono diventeranno prigionieri. I frutti non si vedono ma si vedono tanti fiori che daranno dei frutti”. Avete firmato un patto per Gerusalemme, cosa pensa? “Sempre quando c’è un dialogo fraterno c’è un rapporto a vari livelli. Permettetemi un’immagine: il dialogo non può essere di laboratorio, deve esser umano, e se è umano è con la mente, il cuore e le mani e così si firmano dei patti. Per esempio il comune appello su Gerusalemme è stato un passo avanti fatto non da un’autorità del Marrocco e da un’autorità del Vaticano, ma da fratelli credenti che soffrono vedendo questa città della speranza ancora non essere così universale come tutti vogliamo: ebrei, musulmani e cristiani. Tutti vogliamo questo. E per questo abbiamo firmato questo desiderio: è un desiderio, una chiamata alla fraternità religiosa che è simbolizzata in questa città che è tutta nostra. Tutti siamo cittadini di Gerusalemme, tutti credenti”. Ieri il re del Marocco ha detto che proteggerà gli ebrei marocchini e i cristiani di altri Paesi che vivono in Marocco. Cosa pensa dei musulmani che si convertono al cristianesimo? È preoccupato di questi uomini e donne che rischiano la prigione o la morte in alcuni Paesi musulmani? “Io posso dire che in Marocco c’è libertà di culto, c’è libertà religiosa, c’è libertà di appartenenza religiosa. La libertà sempre si sviluppa, cresce. Pensa a noi cristiani trecento anni fa, se c’era questa libertà che abbiamo oggi. La fede cresce nella consapevolezza, nella capacità di capire se stessa. Oggi noi abbiamo tolto dal Catechismo della Chiesa cattolica la pena di morte, trecento anni fa bruciavano vivi gli eretici perché la Chiesa si è accresciuta nella coscienza morale, il rispetto della persona… Anche noi dobbiamo continuare a crescere. Ci sono cattolici che non accettano quello che il Vaticano II ha detto sulla libertà di culto, la libertà di coscienza. Anche noi abbiamo questo problema. E anche i fratelli musulmani crescono nella coscienza, anche se alcuni paesi non capiscono bene o non crescono così come altri. In Marocco c’è questa crescita. Quanto al problema della conversione, in alcuni paesi la pratica è vietata; altri come il Marocco non fanno problema, sono più aperti e rispettosi e cercano un certo modo di procedere con discrezione; altri paesi con i quali ho parlato dicono: noi non abbiamo problema, ma preferiamo che il battesimo lo facciano fuori dal paese e tornino cristiani. Ma sono modi di progredire nella libertà di coscienza e la libertà di culto. A me preoccupa un’altra cosa: la retrocessione di noi cristiani quando togliamo la libertà di coscienza. Pensa ai medici e alle istituzioni ospedaliere cristiane che non hanno il diritto della obiezione di coscienza per esempio per l’eutanasia. Come? La Chiesa è andata avanti e voi Paesi cristiani andate indietro? Pensate questo perché è una verità. Oggi noi cristiani abbiamo il pericolo che alcuni governi ci tolgano la libertà di coscienza, che è il primo passo per la libertà di culto. Non è facile la risposta, ma non accusiamo i musulmani, accusiamo anche noi in questi Paesi dove succede questo. C’è da vergognarsi”. I consigli della diocesi di Lione hanno vitato quasi all’unanimità che il cardinale Barbarin si dimetta. “Lui, uomo di Chiesa, ha dato le dimissioni, ma io non posso moralmente accettarle perché giuridicamente, anche nella giurisprudenza classica, c’è la presunzione di innocenza durante il tempo che la causa è aperta. Lui ha fatto ricorso e la causa è aperta. Poi quando il secondo tribunale dà la sentenza vediamo cosa succede. Ma sempre bisogna avere la presunzione di innocenza. Questo è importante perché va contro la superficiale condanna mediatica. Cosa dice la giurisprudenza mondiale? Che se una causa è aperta c’è la presunzione di innocenza. Forse non è innocente, ma c’è la presunzione. Una volta ho parlato in un caso in Spagna, di come la condanna mediatica ha rovinato la vita di sacerdoti che poi sono stati riconosciuti innocenti. Prima di fare la condanna mediatica, pensarci due volte. E Barbarin ha preferito, onestamente, dire: io mi ritiro, prendo un congedo volontario e lascio al vicario generale gestire l’arcidiocesi finché il tribunale dia la sentenza finale”. Ieri ha detto che il fenomeno migratorio non si risolve con le barriere fisiche, ma in Marocco la Spagna ha costruito due barriere con lame per ferire chi le vuole superare. Trump in questi giorni ha detto che vuole chiudere completamente le frontiere. Cosa vuol dire a questi governanti, a questi politici che difendono ancora queste decisioni? “Come ho detto, i costruttori di muri diventeranno prigionieri dei muri che fanno, siano di lame tagliate con coltelli o di mattoni. Ho visto un pezzo di quella barriera, il filo spinato con i coltelli. Sono rimasto commosso e poi ho pianto. Ho pianto perché non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà. Non entra nella mia testa e nel mio cuore vedere affogare persone nel Mediterraneo, non entra, mettiamo un ponte ai porti. Questo non è il modo di risolvere il grave problema dell’immigrazione. Io capisco: un governo ha la patata bollente nelle mani, ma deve risolverlo altrimenti. Umanamente. quando ho visto quel filo spinato coi coltelli, sembrava di non poterci credere. Una volta ho avuto la possibilità di vedere un filmato nel carcere dei rifugiati che tornano, che sono mandati indietro (in Libia, ndr.). Carceri non ufficiali, carceri di trafficanti. Fanno soffrire. Le donne e i bambini li vendono, rimangono gli uomini e li torturano. Si vedono filmati da non credere. Ecco, io non lascio entrare. È vero, perché non ho posto, ma ci sono altri Paesi, c’è l’umanità dell’Unione Europea. Deve parlare l’Unione Europea intera. E invece succede che non lascio entrare, o li lascio affogare lì o li mando via sapendo che tanti di loro cadranno nelle mani di questi trafficanti che venderanno le donne e i bambini, uccideranno o tortureranno per fare schiavi gli uomini. Una volta ho parlato con un governante, un uomo che io rispetto, Alexis Tsipras, e parlando di questo e degli accordi di non lasciare entrare, lui mi ha spiegato le difficoltà, ma alla fine mi ha parlato col cuore e ha detto: “I diritti umani vengono prima degli accordi”. Questa frase merita il premio Nobel”. Lei combatte da molti anni per proteggere e aiutare i migranti, come ha fatto negli ultimi giorni in Marocco. La politica europa va esattamente nella direzione opposta. L’Europa diventa come un bastone contro i migranti. Questa politica rispecchia l’opinione degli elettori. La maggioranza di questi elettori sono cristiani cattolici. Lei come si sente? “Vedo che tanta gente di buona volontà, non solo cattolici, ma gente buona, è un po’ presa dalla paura che è la predica usuale dei populismi. La paura. Si semina paura e poi si prendono delle decisioni. La paura è l’inizio delle dittature. Andiamo al secolo scorso, alla caduta della Repubblica di Weimer. Con promesse e paure è andato avanti Hitler e conosciamo il risultato. Impariamo dalla storia, questo non è nuovo: seminare paura è fare una raccolta di crudeltà, di chiusure e anche di sterilità. Pensate all’inverno demografico dell’Europa. Anche noi che abitiamo in Italia: sotto zero. Pensate alla mancanza di memoria storica: l’Europa è stata fatta da migrazioni e questa è la sua ricchezza. Pesiamo alla generosità di tanti paesi che oggi bussano alla porta dell’Europa. Ai migranti europei nei due dopoguerra, in massa, America del Bord, America centrale, America del Sud. Mio papà è andato lì nel dopoguerra. Un po’ di gratitudine … È vero, per essere comprensivi, che il primo lavoro che dobbiamo fare è cercare che le persone che migrano per la guerra o per la fame non abbiano questa necessità. Se l’Europa, così generosa, vende le armi allo Yemen per ammazzare dei bambini, come fa l’Europa a essere coerente? Questo è un esempio, ma l’Europa vende delle armi. Poi c’è il problema della fame, della sete. L’Europa, se vuole essere la madre Europa e non la nonna Europa deve investire, deve cercare intelligentemente di aiutare ad alzare con l’educazione, con gli investimenti. E questo è mio, lo ha detto la cancelliera Merkel. È una cosa che lei porta avanti abbastanza: impedire l’emigrazione non con la forza ma con la generosità, gli investimenti educativi, economici eccetera, e questo è molto importante. È vero che un Paese non può ricevere tutti, ma c’è tutta l’Europa per distribuire i migranti, c’è tutta l’Europa. Perché l’accoglienza deve essere con il cuore aperto, poi accompagnare, promuovere e integrare. Se un Paese non può integrare deve pensare subito di parlare con altri paesi: tu quanto puoi integrare, per dare una vita degna alla gente”. Lei denuncia spesso l’azione del diavolo, lo ha fatto anche nel recente summit. Ultimamente si è dato molto da fare. Cosa fare per contrastarlo, soprattutto in merito agli scandali della pedofilia? “Un giornale, dopo il mio discorso alla fine del summit dei presidenti, ha detto: il Papa è stato furbo, prima ha detto che la pedofilia è problema mondiale, poi ha detto qualcosa sulla Chiesa, alla fine se ne è lavato le mani e ha dato la colpa al diavolo. Un po’ semplicistico, no? Un filosofo francese, negli anni Settanta, aveva fatto una distinzione che a me ha dato una luce ermeneutica. Diceva: per capire una situazione bisogna dare tutte le spiegazioni e poi cercare le significazioni. Cosa significa socialmente? Cosa significa personalmente o religiosamente? Io cerco di darle tutte e anche le misure delle spiegazioni. Ma c’è un punto che non si capisce senza il mistero del male. Pensate alla pedopornografica virtuale. Ci sono stati due incontri, pesanti, a Roma e Abu Dhabi. Mi domando: come mai è diventata una cosa nel quotidiano? Io mi domando, i responsabili non possono fare nulla? Noi nella Chiesa faremo di tutto per finirla con questa piaga, faremo di tutto. Io in quel discorso ho dato misure concrete. Già erano, prima del summit, quando i presidenti delle conferenze mi hanno dato quell’elenco che ho dato a tutti. E i responsabili di queste sporcizie, sono innocenti? Quelli che guadagnano con questo? Il pericolo della Chiesa oggi di diventare donatista facendo prescrizioni umane, dimenticando le altre dimensioni. La preghiera, la penitenza che non siamo abituati a fare. Non è ‘lavarsi le mani’, dire ‘il diavolo lo fa’, no. Anche noi dobbiamo lottare col diavolo, con le cose umane. La Chiesa non è congregazionalista, è cattolica. Vi sarei grato se studiaste ambedue le cose: la parte umana e la parte spirituale”. Migranti. L’ultimo viaggio di Tamimou di Matteo Fraschini Koffi Avvenire, 1 aprile 2019 Il corpo del giovane morto di freddo sulle Alpi è tornato in Togo. Sono le 2:07 di giovedì mattina all’aeroporto internazionale Gnassingbé Eyadema di Lomé. L’aereo della Royal Air Maroc è appena atterrato. All’interno c’è la bara di Tamimou Derman, il migrante togolese morto assiderato tra le Alpi mentre cercava di attraversare a piedi il confine dall’Italia verso la Francia. Da oltre tre ore, un gruppo formato da una decina di familiari e amici attende paziente ai bordi della strada. Le guardie dell’aeroporto gli hanno detto di aspettare fuori dalla struttura. Sono solo uomini: padre, fratelli, cugini, zii e qualche amico d’infanzia. Hanno percorso tre ore di strada da Madjaton, il villaggio dove è cresciuto Tamimou. Il furgone bianco noleggiato per il viaggio avrà il compito di riportare indietro il corpo del ragazzo morto a 29 anni. Dopo essersi seduti al tavolo dell’unico bar ancora aperto, il gruppo spiega cosa è successo in queste settimane. “Un nostro cugino che vive in Italia ci ha dato la notizia settimana scorsa”, racconta ad Avvenire Samoudine Derman, il fratello maggiore. “Ha raccolto i soldi per rimpatriare Tamimou. Siamo molto contenti - continua Samoudine - finalmente potremo seppellirlo”. Il migrante togolese era ancora vivo quando è stato trovato da un camionista lo scorso 7 febbraio sul ciglio della strada statale 94 del Colle del Monginevro. Come altri suoi compagni, Tamimou ha rischiato la vita per raggiungere clandestinamente la Francia dall’Italia. L’ambulanza l’ha trasportato nell’ospedale di Briançon dove il giovane ha però esalato il suo ultimo respiro. “Ringraziamo molto la stampa italiana per aver parlato di Tamimou - afferma Sadate Boutcho, un amico d’infanzia -. Dopo aver recuperato la bara torneremo subito al villaggio per il funerale”. La cerimonia è stata annunciata su una radio locale. “Siamo musulmani, abituati a interrare il corpo il prima possibile e a ricevere per giorni le persone che vogliono dare l’ultimo saluto - afferma con un tiepido sorriso Isak, un altro amico e coetaneo della vittima. Nel caso di Tamimou abbiamo però aspettato quasi due mesi”. Il 19 febbraio Avvenire aveva pubblicato la storia del migrante intitolata “Il sogno spezzato di mio figlio”. Lo stesso articolo è stato ripubblicato sul giornale togolese L’Alternative il 22 febbraio. “È preoccupante che a parlare della morte di un nostro fratello sia stata prima la stampa italiana rispetto a quella togolese”, ha ammesso Ferdinand Mensah Ayite, direttore della rivista. Nei giorni seguenti, per volere della famiglia Derman, due buste con dentro entrambi gli articoli e una lettera di richiesta di aiuto per il rimpatrio del cadavere sono state consegnate alla presidenza e al ministero degli Affari esteri togolesi. Nel mentre, Ganiou, il cugino di Tamimou residente in Italia, si è occupato delle formalità in Francia. “Abbiamo raccolto almeno 3.500 euro per le spese del trasporto - spiega Ganiou, arrivato a Lomé in anticipo per assicurarsi che tutto andasse a buon fine. Ho ricevuto sostegno da un’organizzazione francese di cui preferisco non rivelare il nome”. Il bar chiude e ci ritroviamo in strada. Ganiou è andato a seguire le ultime formalità. Il tempo continua a passare. Nessuno sa cosa stia succedendo con esattezza. Alle 4 e mezza di mattina, il padre di Tamimou, Inoussa Derman, si siede sul marciapiede vicino a un parente. Samoudine e gli altri si addormentano. Solo verso le 10 di mattina viene spedito ad Avvenire un messaggio con la foto della bara nel furgone. “Finalmente abbiamo recuperato il corpo - scrive Sadate - il funerale è stato spostato quindi alle 3 del pomeriggio”. La folla osserva la bara mentre viene calata in una buca scavata nella terra rossa di Madjaton. Il villaggio sprofonda nel silenzio. Potrà la morte di Tamimou arrestare la migrazione dei togolesi verso l’Europa? “Qui non c’è lavoro - aveva spiegato Isak durante l’attesa fuori dall’aeroporto -. Ho studiato da meccanico e, nonostante la drammatica fine di Tamimou, sono pronto a partire verso l’Italia o la Francia”. Le paure degli europei. Preoccupa più il lavoro dell’arrivo dei migranti di Mark Leonard* La Stampa, 1 aprile 2019 Le elezioni europee vengono presentate come una battaglia nel cuore dell’Europa. Viktor Orban, Matteo Salvini e Steve Bannon credono che si tratterà di un referendum sull’immigrazione. Pensano che la crisi migratoria abbia sconvolto la politica del continente, costringendo i partiti tradizionali a un atteggiamento difensivo, colpendo nel profondo l’insicurezza europea verso la propria identità. Non ci riusciranno. I risultati del sondaggio dell’European Council on Foreign Relations, mostrano che i problemi politici del 2019 sono completamente diversi da quelli del 2015. Questa volta la campagna per la “fortezza Europa” non sarà una strategia vincente per tre motivi. In primo luogo, il nostro sondaggio mostra che l’Ungheria è l’unico Paese in cui l’immigrazione è ancora vista come la minaccia numero uno per FUe: non c’è da stupirsi, dato l’infinito flusso di propaganda che il primo ministro ungherese, Viktor Orban ha diffuso attraverso i media controllati dallo stato. Negli altri Paesi che abbiamo analizzato, abbiamo trovato almeno altri 5 temi altrettanto, se non più importanti, per la popolazione. Gli elettori, in sostanza, non vedono le elezioni europee come un referendum su una singola questione. Piuttosto, il voto di maggio si deciderà sulla base di sei grandi temi europei, e la sfida sull’immigrazione non è nemmeno la più importante. Il sondaggio (che i giornali del gruppo Europa pubblicano in esclusiva, ndr) mostra che la più importante minaccia percepita in tutta Europa è il radicalismo islamico - con punte molto elevate in Francia, Germania e Paesi Bassi. Un’altra questione importante è la paura del ritorno del nazionalismo nell’Ue, che è considerato più importante - o almeno uguale - all’immigrazione in Austria, Finlandia, Danimarca, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Polonia e Spagna. Gli effetti della crisi economica rimangono un enorme problema in Italia, Romania, Grecia e Slovacchia. La seconda ragione per cui è improbabile che l’immigrazione mobiliti gli elettori è il fatto che anche coloro che la considerano una questione di alto livello danno risposte e ricette diverse sul tema. Quello che abbiamo notato è una spaccatura tra i cittadini europei che si preoccupano prevalentemente dell’immigrazione nei loro Paesi e quelli che si preoccupano dell’emigrazione che porta alla scomparsa dei loro paesi dalla mappa. Mentre nell’Europa nord-occidentale si teme ancora per l’afflusso di stranieri, Italia, Spagna, Ungheria, Polonia e Romania sono molto più preoccupate per la partenza dei propri cittadini. La terza conclusione è forse la più importante. È improbabile che l’immigrazione spinga gli europei ad andare alle urne. I nostri sondaggi dimostrano che il timore per la rinascita del nazionalismo europeo è un fattore molto più decisivo. Questo è il risultato di alcuni cambiamenti rispetto al 2015. La più ovvia è il crollo del numero di arrivi: i nostri schermi televisivi ora sono più probabilmente occupati dal caos della Brexit che dai confini varcati dai profughi. È anche un riflesso del fatto che i partiti tradizionali ora stanno tutti sostenendo controlli di frontiera più forti - e non c’è un solo partito principale che difende le frontiere aperte. *Direttore dell’European Council on Foreign Relations Una risposta alle vittime dell’Isis di Nadia Murad* La Repubblica, 1 aprile 2019 Il dibattito sul ritorno nei Paesi occidentali di persone che si sono unite volontariamente all’Isis è sconcertante. I membri di questa organizzazione hanno sostenuto un’ideologia che ha cercato di sterminare una popolazione intera, il popolo yazida. Avendo avuto 18 parenti assassinati dall’Isis ed essendo stata tenuta prigioniera e costretta a fare da schiava sessuale, insieme alle mie sorelle e a diverse nipoti e amiche, trovo questo dibattito inammissibile. In questo momento si dedica più attenzione al desiderio di una manciata di combattenti dell’Isis che vogliono dimenticare i loro crimini e vivere nei Paesi occidentali che alla notizia della scoperta dei resti decapitati di 50 donne yazide, probabilmente giustiziate proprio dall’Isis. I combattenti dello Stato islamico in questo momento sono detenuti in Iraq e in Siria. Il problema con cui deve fare i conti la comunità globale è come gestire i foreign fighters. Molti Governi non vogliono che ritornino a casa, ma la questione che bisogna affrontare è che cosa succederà: i combattenti dell’Isis saranno semplicemente lasciati liberi? Quale Governo ha la responsabilità di punirli? Dal punto di vista legale, probabilmente è vero che i membri dell’Isis hanno il diritto di ritornare nei loro Paesi d’origine, e alla fine potrebbe essere la soluzione migliore, soprattutto per i bambini innocenti. Tuttavia, la comunità internazionale deve prendere in considerazione il lato umano dell’equazione: consentendo ai miliziani dello Stato islamico di tornare nei Paesi occidentali, stiamo offrendo loro la possibilità di una vita migliore dei sopravvissuti? Le persone che vogliono tornare nei Paesi occidentali sono, nella migliore delle ipotesi, responsabili di associazione a delinquere per la perpetrazione di omicidi, riduzioni in schiavitù, violenze sessuali e torture. Né più né meno. Sì, probabilmente sconteranno delle pene detentive, ma una condanna inferiore all’ergastolo è inaccettabile. Secondo il rapporto Space I - 2015, le statistiche penali annuali compilate dal Consiglio d’Europa che includono dati di 47 Stati membri, la somma media giornaliera spesa per la detenzione di una persona nel 2015 era leggermente superiore a 102 euro, quella massima di circa 480 euro. Non dovremmo spendere somme simili per i sopravvissuti, per guarire le loro ferite e risanare le comunità, per dare loro la libertà di tornare a vivere? I sopravvissuti vengono spesso ignorati perché non rappresentano una minaccia. C’è più volontà di riabilitare i terroristi che di aiutare i sopravvissuti. Le sfide con cui deve misurarsi la comunità yazida sono le stesse di tutte le aree post-conflitto. Nel 2016 c’erano circa 6,9 milioni di sfollati a causa di conflitti, secondo il Centro di monitoraggio dei profughi interni. Quando si prenderà la decisione di dare risposta ai bisogni di sopravvissuti innocenti nello stesso modo in cui si dà risposta ai bisogni di individui detenuti? Quando si deciderà la comunità internazionale a dare la priorità ai bisogni dei sopravvissuti, invece di continuare ad angariare le vittime? La comunità internazionale deve affrontare le necessità di 350.000 yazidi che vivono in campi profughi interni nel Nord dell’Iraq da più di quattro anni, senza accesso ai bisogni e ai servizi di base, con lo stesso zelo con cui sta valutando il potenziale ricollocamento dei combattenti dell’Isis. Non possiamo dimenticarci che ci sono ancora più di tremila donne e ragazze yazide di cui non si sa nulla. Per gli yazidi, il genocidio è in corso. La comunità internazionale proclama di essere riuscita a “sconfiggere” l’Isis, ma quante risorse vengono impiegate per mettere fine al genocidio del popolo yazida? Finché il Sinjar non sarà ricostruito, finché la disputa amministrativa fra Bagdad ed Erbil (la capitale del Kurdistan iracheno) non sarà risolta e finché la comunità yazida non potrà tornare senza correre pericoli nella sue terre ancestrali, il genocidio perpetrato dall’Isis proseguirà. Se ai profughi interni fosse offerta la scelta di rimanere nel campo o scontare una pena detentiva in Occidente, dove sarebbero loro garantiti sicurezza, cibo, vestiti e istruzione, alcuni sceglierebbero una detenzione temporanea a fronte di vivere continuamente in un inferno in terra. La mia più grande paura è che se il mondo continuerà a non agire, la mia comunità - la comunità yazida - cesserà di esistere. E se il mio popolo - il popolo yazida - cesserà di esistere, a chi toccherà poi? Alla vostra comunità, alla vostra famiglia? Non esiste una punizione appropriata. L’unica azione appropriata è aiutare i sopravvissuti. *Attivista dei diritti umani, premio Nobel per la pace 2018 Siria. Dopo la caduta di Baghouz resta un mistero: dove sono i prigionieri dell’Isis? di Riccardo Cristiano globalist.it, 1 aprile 2019 Molti si ritiene siano finiti nelle numerose fosse comuni che emergono dai luoghi controllati dal califfato dell’orrore. Ma gli ultimi sembrano essersi volatilizzati e nessuno indaga. C’è una domanda che, molto stranamente, nessuno pone: ora che l’Isis non avrebbe più controllo di alcun territorio dove sono 20mila siriani che ha catturato nel corso del tempo? Le stime più attendibili indicano proprio in questo non inverosimile numero il totale di coloro che dal 2013 ad oggi sono stati catturati, arrestati, sequestrati dall’Isis. Di tutti costoro molti saranno finiti nelle numerose fosse comuni che emergono dai luoghi controllati dal califfato dell’orrore, ma altri erano notoriamente trattenuti a Baghouz. E ora? Ora non risulta aperta nessuna seria indagine sulle tante fosse comuni scoperte nei territori che sono stati controllati dall’Isis e molti parenti di detenuti o sequestrati dall’Isis affermano di aver visto i loro cari uscire da Baghouz, in quell’esodo di massa che ha preceduto l’attacco finale, quando si disse che i prigionieri dell’Isis vennero fatti uscire insieme ai familiari dei miliziani: ma di loro si sono perse le tracce. Nessuna famiglia è riuscita fino ad oggi a riabbracciare un sequestrato dell’Isis: di loro non si sa neanche se siano vivi. Un’ipotesi è che siano stati portati nel campo profughi di al Hawl. Ma perché? I curdi e le forze americane non possono investigare su di loro e nel caso procedere al loro rilascio e alla riconsegna alla famiglia. E le fosse comuni? Possibile che da quando è stata liberata Raqqa, ormai tanto tempo fa, nessuna indagine sia stata possibile per dare una notizia certa sulle vittime? Certo, tra i morti ci saranno combattenti della stessa Isis e vittime civili dei bombardamenti curdo-alleati, ma questo non dovrebbe impedire un’inchiesta seria su quei corpi, gettati come avanzi in una fossa comune e ancora senza un nome. Sono migliaia di persone. Solo in una fossa comune recentemente scoperta si sospettano 3.500 corpi. E dunque? Eppure la Croce Rossa Internazionale prevede che i gruppi armati e gli stati hanno il dovere di condurre queste indagini, non è consentito lasciare tante persone senza un’onesta sepoltura, senza un accertamento di morte e possibile una certezza della causa. In assenza di un’indagine legale sui corpi riesumati da queste fosse dell’orrore si porrà termine alla ricerca della verità per migliaia e migliaia di persone? E perché? Un timore molto fondato, purtroppo, è che ognuno deve esibire i propri martiri, ma non deve fare altrettanto con quelli degli altri. I martiri arabi della lotta all’Isis non interessano a nessuno? Non interessano ai curdi, non interessano agli americani? Ma non ci sono soltanto i martiri, ci sono anche i vivi. Da quando all’inizio di febbraio il piccolo villaggio di Baghouz ha cominciato ad aprire le sue viscere migliaia di persone ne sono uscite. Infinite testimonianze hanno riconosciuto, con nome e cognome, persone catturate dall’Isis, tra i disperati che negli ultimi mesi hanno lasciato Baghouz. Possibile che fino ad oggi non sia stato possibile essere certi che almeno uno di loro fosse un prigioniero e non un combattente. Esistono tanti nomi, tante fotografie, messe su internet dai familiari, che spiegano quando e perché il loro caro è stato catturato dall’Isis. Possibile che neanche un caso abbia potuto essere accertato e il detenuto liberato? Qualcuno sospetta i martiri vivi facciano più paura dei martiri morti. Ma questo sarebbe terribile, un destino inammissibile. Così ad oggi la domanda più concreta è questa: dei 90 milioni di dollari stanziati per stabilizzare il nord est della Siria dagli Stati Uniti, quanti ne sono stati spesi per trovare gli scomparsi, le prime vittime dell’Isis? La risposta non la sappiamo, sappiamo però che mentre i morti e i detenuti dell’Isis non escono, escono molti ex miliziani, magari con importanti coperture tribali, come Abdul Rahman Faysal Abu Faysal, ex emiro di Raqqa, capo del versante orientale della città negli anni dell’Isis, ora comodamente a casa sua, dopo un breve arresto tempo fa. Forse in un sistema diverso le famiglie delle vittime dell’Isis avrebbero meritato un aiuto dai liberatori, un aiuto morale, un aiuto umano, un aiuto finanziario. Non è andata così, ma che dovessero finire in un incubo del tutto simile a quello precedente sarebbe troppo. Dove sono i detenuti e le vittime dell’Isis? Come mai di loro non si parla? Perché il loro destino non interessa a nessuno? Romania. Incriminata la giudice candidata a vertice Procura europea di Gianluigi Lombardi gnewsonline.it, 1 aprile 2019 Laura Codruta Kovesi, la giudice romena candidata al nuovo ruolo di Procuratore generale dell’Unione europea, è stata incriminata per corruzione, abuso d’ufficio e falsa testimonianza. “È evidente che si tratta di una campagna di intimidazione e di persecuzione contro di me e contro chiunque lotti contro la corruzione, cancro di società ed economia, una campagna che viola leggi e Costituzione”. Ha dichiarato la Kovesi nell’apprendere del provvedimento che la riguarda. Secondo alcune fonti rumene, alla diretta interessata è stato proibito di recarsi all’estero e di esercitare la propria professione. Due limitazioni che potrebbero compromettere proprio la sua candidatura. La Commissione europea a Bruxelles ha subito espresso estrema preoccupazione e deplorazione per il colpo contro la giudice, chiedendo formalmente alle autorità romene di tornare sui loro passi. Iran. L’Onu, l’aguzzino e Nasrin Sotoudeh di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 1 aprile 2019 Oramai è calato un silenzio agghiacciante sulla sorte di Nasrin Sotoudeh, avvocato e militante dei diritti civili perseguitata in Iran. Ma ora allo sgomento si aggiunge il grottesco, e anche un po’ il disgustoso: il magistrato che ha inflitto alla Sotoudeh, colpevole di aver assistito nel tribunale-farsa di Teheran la donna coraggiosa che si è tolta in pubblico il velo dell’oppressione, la pena di trentotto anni di prigione e di centoquarantotto frustate, questo rappresentante del più fosco e feroce oscurantismo è stato nominato all’Onu in una commissione che si deve occupare della questione femminile. Un sicario del regime che condanna una donna alle frustate a causa della sua indipendenza viene considerato meritevole di una tribuna di un organismo oramai screditato come le Nazioni Unite. Ma la vicenda sta a significare due cose. La prima è la definitiva prova dell’inutilità dell’Onu, un organismo internazionale nato per la difesa dei diritti umani e che invece è diventato nel tempo il piedistallo, o forse è meglio dire lo zerbino, dei regimi che dei diritti umani fanno strage continua. La seconda lezione è che l’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale (con la lodevole eccezione di Amnesty International), il silenzio delle cancellerie che si inchinano a un regime oppressivo come l’Iran (dove sono i paladini per un solo giorno dei diritti umani conculcati in Cina?), l’ipocrisia delle democrazie occidentali, l’inesistenza politica dell’Europa che si vuole rappresentare come portabandiera di valori universali ma che invece questi valori non è capace di difenderli quando è difficile farlo, tutto questo ha creato una condizione di arroganza, di impunità tra gli integralisti fanatizzati di Teheran. Ora l’Iran, con il sostegno dell’Onu, può farsi beffe della silente opinione pubblica internazionale non solo continuando a segregare Nasrin Sotoudeh, ma facendo nominare il suo aguzzino in una commissione che si dovrebbe occupare della condizione della donna. Non di come un regime sottopone le donne al rito tribale delle frustate, argomento su cui il magistrato-sicario potrebbe avere una sua competenza, ma della condizione della donna in generale. Una provocazione losca. Ma anche in questo caso non ci saranno proteste, mentre Nasrin Sotoudeh è in carcere, in attesa delle frustate. Da sola, senza nessuna solidarietà. Stati Uniti. Rilasciati dopo 42 anni di carcere per un omicidio mai commesso di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 1 aprile 2019 La storia di Clifford Williams Jr. e di suo nipote Hubert Nathan Myers, in carcere dal 1976 per l’omicidio di una donna e il tentato omicidio di un’altra. Dopo 42 anni sono tornati liberi. Si sono messi a piangere, hanno baciato il terreno. Dopo quarantadue anni sono tornati liberi. Quarantadue anni trascorsi in carcere per un omicidio mai commesso. La storia è quella di Clifford Williams Jr. e di suo nipote Hubert Nathan Myers. Avevano rispettivamente 34 e 18 anni nel maggio del 1976, erano a una festa a Jacksonville, in Florida. In un appartamento vicino, una donna viene uccisa, un’altra ferita gravemente. Passano poche ore e i due vengono arrestati: è Nina Mashall, sopravvissuta alla sparatoria, a identificarli come coloro che hanno aperto il fuoco contro di lei e la sua amica, Jeanette Williams, che invece muore quella notte. I due si difendono, raccontano appunto di essere stati a una festa, ma nessuno conferma il loro alibi. Al processo vengono condannati all’ergastolo: avrebbero ucciso per motivi legati a dei debiti di droga. La sentenza: carcere a vita per entrambi. Un verdetto che si basava solo sulla testimonianza dell’unica sopravvissuta, visto che nessuna traccia riconduceva effettivamente con certezza i due uomini al delitto. Nel 2001, mentre loro erano in carcere, lei muore. I due, tramite i loro avvocati, si rivolgono alla Conviction Integrity Review Unit, uno speciale ufficio della procura che si occupa di analizzare i possibili errori giudiziari. “Non crediamo nella correttezza di questa condanne” ha detto il procuratore Melissa W. Nelson dopo aver analizzato il caso. E così, dopo 42 anni passati in prigione, Clifford e suo nipote, che oggi hanno 76 e 61 anni, sono stati rilasciati. Secondo quanto prevede la legge della Florida in questi casi coloro che vengono ingiustamente incarcerati hanno diritto a un risarcimento da 50mila dollari l’anno fino a due milioni, se come nel caso di entrambi non ci sono precedenti penali.