Sognare un mondo senza carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 19 aprile 2019 Pensare che esista una redenzione per tutti, anche senza dovere passare una vita dietro alle sbarre, è un modo di vivere. Il “New York Times Magazine” aveva ieri un lungo saggio su Ruth Wilson Gilmore, una donna impegnata da trent’anni all’abolizione della prigione. L’abolizionismo della galera ha una lunga e illustre storia, ignorata dai più, intoccati dal pensiero che le invenzioni umane - il carcere come lo conosciamo è un’invenzione piuttosto recente - non siano immutabili condizioni di natura. Gli Stati Uniti hanno una popolazione carceraria colossale, due milioni e 300 mila persone effettivamente detenute - il record del mondo - in gran maggioranza di colore e povere, e restano attaccati ad abitudini affettuose come la pena di morte e la passione per le armi da fuoco. Il resoconto del giornale comincia dalla discussione improvvisata fra la signora Wilson Gilmore, 68 anni, e un gruppo di ragazzini, che le chiedono aggressivamente come possa pensare a una pazzia come l’abolizione della prigione, con la violenza e i delitti che succedono in giro. Infatti, i ragazzini possiedono già saldamente le idee ricevute, ma sono meno resistenti all’eventualità di metterle in discussione. Sanno immaginare, se ne hanno l’occasione. Non riassumo il saggio, qualcuno, Ristretti Orizzonti o magari Internazionale, avrà voglia di tradurlo. Mi fa piacere segnalarlo oggi, quando ci incontriamo per ricordare Massimo Bordin. Uno degli interpellati, James Forman jr., è un giurista e scrittore che vinse il Pulitzer con un libro su delitto e castigo nell’America nera (2017), uno studio sulla storia della carcerazione di massa negli Usa. Forman dice di essere diventato abolizionista strada facendo: “Quello che mi piace dell’abolizione, ed è questo che intendo quando mi dico abolizionista, è l’idea di immaginare un mondo senza prigioni, e a partire da lì darsi da fare per costruire quel mondo”. Fra i problemi che queste persone militanti sollevano c’è naturalmente la condanna a vita “without parole”, che corrisponde al nostro maledetto ergastolo ostativo, e può valere a sostituire la pena di morte ma finisce per essere una pena di morte protratta senza speranza. La Campagna per una Giustizia intelligente dell’Unione americana per le libertà civili, la più vasta mai lanciata, si propone intanto di dimezzare il numero dei detenuti attraverso riforme che vanno dal livello federale a quello statale a quello locale. Voglio dire che l’abolizione non è un programma massimalista, è un proposito, un modo di pensare, che orienta ogni passo contro il feticcio, la superstizione e la voluttà della galera. Dopo tanti anni di crescita ininterrotta - ecco un campo in cui la crescita è sempre garantita - per la prima volta si è registrata una piccola riduzione, dovuta per il 40 per cento alla sola California, che fu obbligata ad affrontare così il sovraffollamento. Ma “fra il 1982 e il 2000 la California costruì 23 nuove prigioni e nello stesso periodo accrebbe la popolazione detenuta nelle prigioni di stato del 500 per cento”. Chissà se daranno mai un’occhiata, se non alle idee, ai numeri, i nostri costruttori di nuove prigioni - almeno a parole. Cattedrali di carcerieri nell’anima: gerarchi minori. “L’ergastolo ostativo nega il diritto alla speranza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2019 Interrogazione della parlamentare europea Eleonora Forenza. In Italia, al 31 dicembre 2017, gli ergastolani erano 1.735 e dal 2010, sono circa il 4% della popolazione penitenziaria. È legittimo l’ergastolo ostativo? L’ultima interrogazione parlamentare alla commissione europea riguarda proprio il tema carcerario, e sullo specifico la cosiddetta pena perpetua che, di fatto, esiste nel nostro Paese. A farla è la parlamentare europea Eleonora Forenza del gruppo Sinistra Unitaria Europea (Gue/ Ngl). “Il cosiddetto “ergastolo ostativo” - si legge nell’interrogazione di Florenza - è una pena perpetua che esclude il condannato non collaborante con la giustizia da qualsiasi possibilità di rientro nella società libera”. Ricorda che i condannati all’ergastolo in Italia al 31/ 12/ 2017 erano 1.735 e che dal 2010, gli ergastolani sono circa il 4% della popolazione penitenziaria, “una quota nettamente superiore alla mediana europea (1,8%)”, sottolinea sempre la parlamentare europea e aggiunge che “l’ergastolo ostativo interessa oltre il 70% dei condannati alla pena perpetua”. Eleonora Forenza, sempre nell’interrogazione, spiega che “l’ergastolo ostativo è motivato dalla presunzione di pericolosità del condannato, riconducibile all’assenza di progressi verso la rieducazione, che darebbero accesso ai benefici penitenziari ovvero alla liberazione condizionale”. Sottolinea, quindi, come “questo assetto si pone in forte tensione con il principio costituzionale italiano, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’interrogazione, l’europarlamentare, spiega che nel trattato sul funzionamento dell’unione europea esistono ulteriori tensioni esistono con gli art. 1 e 4 “che tutelano la dignità dell’uomo e il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti” e c’è anche un “evidente l’attrito anche con l’art. 3 della Cedu, che sostiene l’idea di “pena perpetua riducibile”“. Conclude quindi con due domande ben precise rivolte alla Commissione: la situazione illustrata non è in tensione con la decisione quadro 2008/ 909/ GAI e con la disciplina degli strumenti di mutuo riconoscimento? Cosa intende fare la Commissione europea per indurre l’Italia a correggere l’ordinamento? Forenza racconta, con un lungo comunicato, come in questi anni di mandato, assieme all’Associazione Yairaiha Onlus, hanno “ispezionato la quasi totalità delle sezioni di Alta Sicurezza 1, raccogliendo testimonianze e documentazione in merito all’impossibilità di accedere ai benefici o ad una revisione della pena nonostante la Corte europea, con la sentenza Vinter, obblighi gli Stati membri al rispetto dell’art. 3 che prevede la possibilità di riesame delle pene perpetue, sancendo così il diritto alla speranza”. Ma ricorda di come siamo “nell’Italia della guerra agli ultimi, del giustizialismo, della vendetta, delle pene esemplari, del securitarismo elevato a sistema che da oltre un quarto di secolo crea crimini, criminali e capri espiatori per nascondere tutto il marcio prodotto dal capitalismo e dal liberismo sfrenato che, particolarmente in Italia, si è tradotto in privatizzazione selvaggia dei servizi e saccheggio delle risorse umane ed ambientali”. Eleonora Forenza non ci sta con la condanna eterna, per questo conclude che vuole “continuare a credere che nessuno è perduto per sempre, ognuno ha diritto ad un’altra possibilità. Ognuno ha il diritto di sperare”. Carceri e patologie: malattie psichiatriche, hiv, diabete ed epatite umbriajournal.com, 19 aprile 2019 Il carcere si conferma un concentratore di patologie: dalle malattie psichiatriche all’HIV, dal diabete all’HCV, senza dimenticare neoplasie e malattie cardiovascolari. Questi primi dati preliminari sembrano indicare una riduzione dei pazienti viremici da sottoporre alle terapie rispetto all’atteso. “Quello che ha colpito maggiormente durante questa fase iniziale di screening è che i detenuti sono maggiormente informati e sono disposti a farsi aiutare in caso di malattia - spiega il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico della Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - La facilità nella somministrazione del test orale per epatite, veloce e non invasivo, è stato ben accolto da tutta la popolazione presente, con risultati sorprendenti. Se prima, infatti, si pensava che fosse di circa il 70% la percentuale dei viremici, i dati finora raccolti parlano “soltanto” di un 30%. E l’HCV è una malattia che produce malattia. Abbiamo trovato una tendenza, e quindi non ancora un dato scientificamente valido, che trova però riscontro anche con altre ricerche in corso. Sembrerebbe che molte persone che vengono a contatto con il virus lo eliminano in maniera spontanea. Questo trend, se venisse confermato dalle successive fasi di screening, abbasserebbe di fatto l’allarme su questa malattia, e quindi renderebbe possibile l’obiettivo previsto per il 2030, anche prima di questa data. Rimangono però da combattere gli altri gruppi maggiormente a rischio: parliamo dei tossicodipendenti, di quelli dediti a tatuaggi e piercing, dei giovani sessualmente attivi con partner multipli”. L’appuntamento con il “viaggio del paziente Hcv” - Se n’è parlato al Senato, presso la Sala Isma di Roma durante l’incontro sullo stato di avanzamento del lavoro del Piano di Eliminazione dell’Epatite C in Italia, alla presenza di tutti gli attori interessati, istituzioni, specialisti, pazienti, economisti, e con i patrocini di Simit, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali, e dell’Istituto Superiore di Sanità. L’obiettivo di questo evento è quello di affrontare diversi temi e scenari di identificare e di capire i bisogni di cura complessivi della popolazione infetta da HCV in Italia ai fini identificare possibili strategie per raggiungere gli obiettivi dell’OMS di eliminazione dell’infezione da HCV entro l’anno 2030. Su iniziativa del Presidente della XII Commissione Sanità Commissione Igiene del Senato Sanità Pierpaolo Sileri, alla presenza dei senatori Paola Binetti e Gaspare Marinello, della Vicepresidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati Rossella Boldi, del mondo istituzionale, con il Prof. Stefano Vella e Annarita Ciccaglione, direttore reparto Epatiti ISS, specialisti, tecnici, farmaco economisti e rappresentanti dell’associazione pazienti EpaC onlus, nonché dei manager delle principali aziende farmaceutiche (Gilead, AbbVie, MSD), impegnate nell’eliminazione del virus attraverso l’utilizzo di nuove terapie efficaci in poche settimane, la tavola rotonda moderata dal giornalista Daniel Della Seta ha permesso di mettere a fuoco le priorità e le necessità di ciascuno per contribuire a questa battaglia culturale. Per arrivare all’obiettivo zero epatite C ci vogliono delle risorse, attualmente da identificare, dedicate oltre ai farmaci innovativi per attività di screening, di linkage to care, di informazione e comunicazione alla popolazione. “Occorre dare l’ultima spallata alla malattia e permettere di completare quest’ultimo miglio contro il virus. Il rischio è di retrocedere come dimostrato dal calo di accesso alle terapie - ha evidenziato Massimiliano Conforti, Vicepresidente EpaC onlus. Ad oggi, l’Italia segna importanti traguardi raggiunti, oltre 176.810 i pazienti sono in cura, e ne restano diverse decine di migliaia che spesso non sanno nemmeno di essere portatori del virus. “A loro e ai medici di famiglia, si rivolge la comunità scientifica di infettivologi e epatologi, e questo network messo in campo deve coinvolgere le stesse famiglie perché possano spingere i loro cari, siano i pazienti ignari o coscienti, alla cura nei centri prescrittori, cura gratuita tramite somministrazione orale efficace e risolutiva della durata di poche settimane. Il criterio mostrato dagli economisti delle coorti suddivise per anno di nascita, i parametri evidenziati per gli scenari di screening graduati e non graduati, e l’importanza degli investimenti che generino un miglioramento della salute, mettono in luce una storia di successo in Italia. Il caso di regioni virtuose come il Veneto, la Campania e la Sicilia, evidenzia il grande lavoro che è stato fatto e quanto resti da fare entro la fine del 2019?, ha concluso il Prof. Salvatore Sciacchitano, capo della segreteria del Sottosegretario alla Salute Bartolazzi. I numeri delle carceri - Secondo le ultime stime, sono 47.257 i nuovi ingressi in carcere nel 2018: il 57,2% sono italiani, di cui 25.097 maschi e 1.915 femmine; il restante 42,8%, invece, è straniero, di questi 18.682 maschi e 1.563 femmine. Ad oggi, in Italia, si contano 190 istituti aperti e 60.611 detenuti presenti, con un sovraffollamento di 10.097 unità rispetto alla capienza massima. Di questa totalità, il 33,7% sono uomini stranieri, mentre le donne straniere sono l’1,6%. Mentre quelli detenuti per droga sono il 34,9%. Secondo i dati 2017, invece, le fasce di età prevalenti sono quelle tra i 30-39 anni (31,1%), tra i 40 e i 49 anni (26,9%), dai 20 ai 29 (19,1%). IL VIRUS - Il virus dell’epatite C (HCV) è una delle principali cause di morbilità e mortalità correlate al fegato in tutto il mondo. Si stima che 71 milioni di persone siano affette da infezione cronica da virus dell’epatite C, di cui un numero significativo progredisce sino a giungere alla cirrosi o al cancro del fegato in assenza di un effettivo trattamento antivirale. Lo sviluppo della terapia antivirale ad azione diretta (DAA) ha rivoluzionato l’approccio al trattamento e ha dato maggior forza alle iniziative di sanità pubblica volte a identificare i pazienti con epatite cronica da HCV. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) prevede una sensibile riduzione dell’infezione da HCV entro il 2030 attraverso il raggiungimento degli obiettivi strategici per il settore sanitario globale (GHSS) per l’epatite. Tuttavia, considerando che l’Italia conta un numero di infezioni piuttosto alto di HCV nella popolazione, è necessario identificare possibili strategie per aumentare la diagnosi e il trattamento delle persone infette. “Oggi, nel mondo la maggioranza delle nuove infezioni sono trasmesse ancora attraverso lo scambio di siringa o di oggetti contaminati tra tossicodipendenti- sottolinea il Prof. Massimo Galli, Presidente SIMIT - In quest’ottica è quindi chiaro che un progetto di trattamento con l’obiettivo di eliminare l’infezione debba prevedere interventi mirati volti a curarli”. Va ricordato che il virus ha colpito chi oggi ha un’età compresa tra i 55 e i 65 anni, ovvero coloro che negli anni 60 e 70 sono stati contagiati, per diversi motivi, anche a causa del mancato utilizzo dei materiali monouso, arrivati qualche anno dopo. Ed è su questa ampia fascia di popolazione che sono indirizzate le attenzioni degli specialisti. A incoraggiare una sempre più necessaria e urgente strategia di terapia in questa direzione, il dato dimostrato che le terapie finora somministrate in persone tossicodipendenti attivi siano perfettamente efficaci al pari di tutti gli altri pazienti. “La tossicodipendenza quindi non è un fattore che modifica l’efficacia dei trattamenti -conclude il clinico- E una volta stabilito l’urgenza di prendere in carico queste persone, dobbiamo attuare strategie finalizzate per far emergere il sommerso in queste popolazioni, ossia avviare campagne di screening per individuare con sempre più capillarità i pazienti da trattare e portare a guarigione”. Pagano: “Fare impresa in carcere è difficile, molti vincoli e (senza aiuti) costi troppo alti di Corrado Fontana valori.it, 19 aprile 2019 Il provveditore della Lombardia Luigi Pagano racconta le difficoltà delle imprese carcerarie. Per ora niente e-commerce, ma arriverà presto. Forse con Amazon. Per un’impresa non è facile lavorare in carcere. I detenuti-lavoratori sono sottoposti a limitazioni e obblighi che possono pregiudicare o, se non altro, rendere meno produttiva l’impresa carceraria. o spiega a Valori Luigi Pagano, una lunga carriera nella gestione illuminata delle carceri italiane, oggi direttore del Provveditorato per la Regione Lombardia dell’Amministrazione Penitenziaria. “Un lavoratore in carcere incorre in tutta una serie di situazioni che possono essere pregiudizievoli per l’economia d’impresa - spiega - L’obbligo di fare i periodi d’aria, i colloqui coi magistrati e con gli avvocati, le traduzioni obbligatorie per motivi di giustizia: momenti che creano poco rendimento per l’azienda, anche se importanti per il detenuto”. Avete dati sullo stato di salute economica di queste realtà nelle carceri? “Non abbiamo effettuato alcuno studio, osserviamo nella pratica se le imprese carcerarie resistono. Un’analisi economico-finanziaria potrebbe avere utilità ai fini di un controllo che prevenga il rischio di fallimento di queste imprese, con tutte le conseguenze negative che ne seguirebbero. Va anche detto che di imprese pure nelle carceri italiane non ne abbiamo molte, imprese che riescano a misurarsi con il mercato. Una delle più rappresentative è il ristorante In Galera del carcere di Bollate, che si è creato una nicchia particolare, lavorando sia con la bontà dei cibi che con l’interesse che desta un locale del genere posizionato in prigione. Un caso particolare. Per le altre imprese carcerarie è un po’ più difficile. Si reggono spesso con i contributi che arrivano dalla legge Smuraglia, e con il fatto che le cooperative possono ricevere in comodato gratuito degli spazi, abbattendo le uscite. Altrimenti il costo del lavoro in carcere, con tutte le problematiche che ci sono, può risultare difficilmente sostenibile”. Manca l’e-commerce dei prodotti realizzati dai detenuti… “Abbiamo diversi negozi che commercializzano i prodotti realizzati in carcere. Quello a Milano in via dei Mille, ad esempio, che raccoglie e vende i manufatti delle case di reclusione Lombarde e anche di qualcuna fuori dalla regione. C’è un negozio simile anche in Piemonte. Cominciamo ad avere perciò dei punti vendita nei quali trovare ciò che viene prodotto all’interno delle carceri, soprattutto se si tratta di alimenti, ma non solo. E credo che presto arriveremo anche allo shopping online. C’è una ragazza che ha realizzato dei distributori per la vendita di borse prodotte in carcere all’aeroporto di Bari, ma perché non pensare anche a stabilire dei rapporti con Amazon”. A cosa è dovuta la bassa presenza femminile tra i lavoratori degli istituti di pena? “La minor presenza di donne nell’ambito di queste attività dipende innanzitutto dal fatto che le donne sono in netta minoranza in carcere (sono circa il 10% rispetto alla popolazione maschile). E poi perché molti di questi lavori nascono negli spazi delle sezioni maschili, che consentono di avere disponibilità di maggiore manodopera, come ad esempio è accaduto per i call center. C’è però una sartoria occupata solo da donne, e delle pelletterie. Ed esistono anche situazioni miste in cui lavorano uomini e donne. Va però detto che, dovendo puntare alla massima razionalizzazione del lavoro, queste iniziative nascono più facilmente nelle sezioni maschili”. Iscriviti alla newsletter Si parla soprattutto di cooperative, come mai? “Per tutta una serie di possibilità di accedere a contributi la forma giuridica più semplice e frequentata nell’ambito di queste iniziative è quella della cooperativa. Ci augureremmo che ci fossero più imprese, pensando ad esempio a rami d’azienda, ma le società hanno necessità che costringerebbero ad attrezzare diversamente gli istituti. I quali in molti casi non sono ancora pronti per ospitare aziende con molti lavoratori. Inoltre c’è un problema di spazi, che ci auguriamo terranno in conto i penitenziari del futuro”. Tra istituti per adulti e minorili ci sono differenze sostanziali? “Credo che le dinamiche siano sostanzialmente le stesse, pur essendo due mondi diversi. Il comune denominatore resta sempre lo stesso, ovvero il carcere. Certo per quanto riguarda i minori è necessario che il lavoro abbia una componente anche di formazione”. Il Papa lava i piedi a 12 detenuti: “Non calpestare gli altri, ma servirli” di Salvatore Cernuzio La Stampa, 19 aprile 2019 Francesco nella Casa Circondariale di Velletri per la messa “in Coena Domini”: “Il vescovo non è il più importante, ma deve essere il più servitore”. Nel suo saluto la direttrice denuncia sovraffollamento, mancanza di risorse e carenza di personale. Si commuove uno dei dodici detenuti della Casa circondariale di Velletri, in provincia di Roma, nel vedere il Papa inginocchiarsi, a fatica, per lavargli i piedi. Francesco compie il rito del Giovedì Santo che rammenta il clamoroso gesto di oltre duemila anni fa di Gesù ai discepoli. “Un gesto da schiavi, Lui che era il Signore”, sottolinea Francesco. Per la quinta volta, dopo Casal del Marmo, Rebibbia, Paliano, Regina Coeli, il Pontefice sceglie di vivere tra i reclusi la messa “in coena Domini”, la celebrazione che dà inizio al Triduo pasquale, mantenendo una tradizione iniziata ai tempi dell’episcopato a Buenos Aires. Il Papa si abbassa, lava, asciuga e bacia i piedi a nove detenuti italiani, un brasiliano, un marocchino e un ivoriano. Sono giovani e anziani, bianchi e neri. Piangono, sorridono, stringono la mano al Pontefice che li guarda uno ad uno negli occhi. Francesco - giunto intorno alle 16.30 in questa struttura di media sicurezza, un po’ isolata rispetto alla cittadina dei Castelli romani - dice di sentirsi “unito” a tutti. Anche a coloro che non sono presenti nel salone-teatro adibito a cappella per la celebrazione papale. Delle 577 persone ospitate nella Casa circondariale (50 in stato di reclusione), suddivisa in due sezioni precauzionali, una di ex collaboratori di giustizia (l’unica in Italia) e una di salute mentale, solo 250 vi hanno avuto accesso infatti per motivi di spazio. Francesco si rivolge allora a “coloro che non stanno qui” e, quando lo dice, guarda in alto, forse pensando ai quei “fratelli più fragili che in carcere hanno perso la vita” per i quali un detenuto prega durante la messa. In particolare il Pontefice ringrazia il “gruppo” che, prima del suo arrivo, gli ha inviato una lettera: “Hanno detto tante cose belle, ringrazio per quello che hanno scritto” dice prima della sua omelia, tutta a braccio, che segue le letture. Una di queste è stata letta dalla direttrice Maria Donata Iannantuono che, al termine della messa, pronuncia il suo saluto e denuncia problematiche quali il “sovraffollamento” a fronte dei 411 posti, “le limitate risorse a disposizione” e la “grave carenza di personale di polizia penitenziaria” che rendono difficile, a volte, garantire anche i più basilari diritti umani. Nell’omelia del Papa, tuttavia, non vi è traccia di queste tematiche. Filo conduttore della riflessione del Vescovo di Roma è il “servizio”, quello che Cristo incarna inginocchiandosi ai piedi dei suoi apostoli. “Quello che ha fatto Gesù è interessante”, esordisce Francesco, “Gesù aveva tutto il potere, tutto, e poi incomincia a fare questo gesto di lavare i piedi. È un gesto che facevano gli schiavi. Non c’era l’asfalto e la gente aveva la polvere quando arrivava, ad esempio, in una casa. Allora c’erano gli schiavi che lavavano i piedi”. Gesù si mette al loro stesso livello. “Lui che aveva tutto il potere, che era il Signore”, sottolinea il Papa. A tutti il Messia consiglia di fare lo stesso: “Servite l’uno all’altro. Fratelli nel servizio, non nell’ambizione di chi domina l’altro, chi calpesta l’altro. Hai bisogno di qualcosa? Io lo faccio”. Per questo “la Chiesa vuole che il vescovo faccia questo gesto tutti gli anni, una volta all’anno per imitare il gesto di Gesù e fare bene con l’esempio agli altri e a lui stesso”, dice il Pontefice. “Il vescovo non è il più importante, il vescovo deve essere il più servitore. Ognuno di noi deve essere servitore degli altri. Questa è la regola di Gesù e la regola del servizio: non dominare gli altri, non umiliare gli altri”. Papa Bergoglio ricorda ancora le parole di Gesù nel Vangelo: “State attenti, i capi delle nazioni dominano, fra voi non deve essere così. Il più grande deve servire al più piccolo. Chi si sente più grande deve essere servitore. È vero che nella vita ci sono problemi, litighiamo, ma questo deve essere una cosa passeggera, perché nel cuore nostro deve esserci l’amore di servire l’altro, di essere al servizio dell’altro”. A concelebrare con il Papa ci sono il sostituto della Segreteria di Stato vaticana, Edgar Peña Parra, e il cappellano dell’istituto don Franco Diamante. A Francesco vengono consegnati diversi doni alla fine della celebrazione, tra cui alcuni prodotti realizzati nei cinque ettari di terreno che circondano la struttura, dove, fianco a fianco, lavorano volontari e detenuti. Lui sorride e ringrazia, poi, in mezzo a lunghi applausi, si congeda per far ritorno in auto in Vaticano. Le città del controllo. Come a Genova 2001, tornano le zone rosse di Enzo Scandurra Il Manifesto, 19 aprile 2019 L’”ordine” secondo Salvini. Tutte le piazze pubbliche possono essere profanate, come fu per il G8 di Genova 2001. La città fu sequestrata e ferita a morte. Salvini ora ci ripropone, in tempi di pace, lo stesso scenario. Attraverso tutto lo sviluppo storico delle diverse forme di città, dalla agorà greca (la piazza della polis) fino alla metropoli moderna, la piazza è sempre stato il luogo deputato agli incontri, allo stare insieme, il nucleo e il cuore della città, uno dei suoi simboli più rappresentativi. Il luogo della democrazia, quello dove si eseguivano le condanne pubbliche, ma anche il luogo dove venivano celebrate le feste o le manifestazioni di protesta o di consenso al potere politico. Credo di non sbagliare se affermo che buona parte della attuale produzione di urbanistica e di architettura sia dedicata alla perdita dei luoghi pubblici, in primis, della piazza, ovvero a quel fenomeno di sequestro dello spazio pubblico da parte dell’ideologia neoliberista. Molte delle città di tutto il mondo vantano splendide piazze: piazza Navona a Roma, piazza del Plebiscito a Napoli, piazza dei Miracoli a Pisa, piazza del Campo a Siena. Perfino Bruxelles vanta una splendida piazza e Marrakech è famosa per la sua piazza Djemaa el-Fna, chiamata la piazza dei folli che sorge accanto alla grande Medina. “Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza”, così Canetti racconta lo stupore e l’incanto che lo colgono durante il suo soggiorno a Marrakech nel 1954. La piazza dunque come rappresentazione della scena pubblica, il luogo privilegiato degli incontri, luogo delle diversità, delle ibridazioni, de ri-conoscimento. Racconta Vezio De Lucia (quando era Assessore all’urbanistica a Napoli) che la notte prima di dichiarare pedonale piazza del Plebiscito non riuscì a dormire temendo una sommossa dei napoletani, che, invece, con sua grande sorpresa, accolsero entusiasticamente il progetto, dimostrando di saper apprezzare il bene pubblico e la bellezza della città. Tutte le piazze sono per definizione pubbliche ed è questo loro carattere che le rende accoglienti, belle, piacevoli, soste obbligate di un percorso turistico o di esplorazione di una città. Ma alle volte le piazze possono essere profanate, come dimostrarono i fatti del G8 di Genova del 2001. La città fu allora sequestrata, divisa in zone rosse, zone gialle: reticolati di ferro, container, blindatura dei tombini, dei cassonetti di rifiuti, bulldozer. Primo esempio, dal dopoguerra, in Italia di un sequestro di una intera città da parte della forza militare. Allora quella città fu sconvolta, dissacrata, mutilata, ferita a morte come un corpo squartato nelle viscere, fatto a pezzi e oscenamente esibito all’intero mondo, mostrando a tutti cosa può essere la città della separazione, della solitudine, del terrore, della violenza istituzionale, dell’inospitalità, della barbarie. Tutti abbiamo ancora ricordo di quel tragico evento che segnò una svolta nei metodi di repressione organizzata. Salvini ora ci ripropone, in tempi di pace, uno stesso scenario. Riesumando le zone rosse dell’infamia. Propone, non contento dei Daspo, il commissariamento dei Sindaci “distratti”, benché eletti dal popolo, attraverso i Prefetti, impedendo la sosta nei luoghi pubblici a persone dedite, o anche solo sospettate di attività “illegali” e costituendo fantomatici Comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica che avranno il compito di riferire solo a lui. Quel che è accaduto a Genova diventa dunque ordinaria amministrazione limitando la libertà di movimento e uccidendo il carattere sacro della piazza, come mai nella storia era accaduto. D’ora in avanti, contemplando e attraversando una piazza, bisognerà essere pronti a dimostrare che siamo cittadini che non hanno mai avuto problemi con la legge; per tutti gli altri c’è l’allontanamento, l’ulteriore emarginazione, il confino obbligato. Sorge spontanea la domanda: ma di chi è la città? Da sempre la città, tutte le città, è un’opera collettiva degli uomini, l’opera più grandiosa che sia mai stata realizzata per vivere insieme. Da domani il suo carattere pubblico, o quello che ancora rimane di esso, sarà ulteriormente privatizzato e militarizzato. Tutto questo ad opera del ministro della paura e in nome di una “sicurezza” da lui stesso fomentata e strumentalizzata ai fini elettorali. Foucault avrebbe, oggi, molti nuovi capitoli da aggiungere alla sua opera: sorvegliati e puniti. “Il ministro Bonafede sbaglia. Le assoluzioni creano scalpore” di Francesco Grignetti La Stampa, 19 aprile 2019 Intervista a Gian Domenico Caiazza. Il presidente dei penalisti e il giustizialismo: basta processi mediatici, sulle indagini dovrebbe cadere il silenzio totale. Avvocato Gian Domenico Caiazza, secondo il ministro Alfonso Bonafede in Italia non esiste un problema di garantismo. Voi penalisti, invece, denunciate l’opposto. “Eccome. Noi pensiamo all’esatto contrario che nel Paese stia prendendo piede una cultura per cui qualsiasi indagato è tendenzialmente un colpevole, e che il processo sia quasi un inciampo verso la giustizia. Ma non vedete quanto ogni assoluzione crea scalpore e sconcerto?”. C’entrano molto i cosiddetti processi mediatici, quelli che si fanno a tamburo battente sui media e prima ancora sui social. Il neopresidente dell’Anm Pasquale Grasso ha espresso su questo giornale il grande allarme dei magistrati. Che ne pensa? “Un allarme che ci accomuna. Noi penalisti abbiamo un punto di vista persino più estremo: sulle indagini dovrebbe cadere il silenzio. Lo dico a tutti, avvocati compresi. Anche a noi, sa, capita di sbagliare. La pericolosità di una valutazione pubblica, in una fase così delicata dovrebbe consigliare il silenzio. Al tempo dei social, poi, abbiamo visto i guasti che può creare un giudizio gridato prima ancora di conoscere i provvedimenti. Lo dico anche ai giornalisti: attenzione alla falsa rappresentazione del diritto di cronaca. In una certa fase non è proprio possibile una divulgazione corretta”. Perché c’è chi si ritrova con lo stigma del colpevole e poi non c’è più nulla da fare? “Prendiamo la storia dell’ascensore alla Circumvesuviana di Napoli. Come si ricorderà, nei confronti dei tre presunti colpevoli di stupro ci fu una tale tempesta mediatica, che poi, quando la storia ha iniziato a prendere un’altra piega, fu giocoforza tirare fuori i particolari più sensibili sullo stato di salute psichica dell’altra protagonista per riequilibrare l’informazione, violando in maniera terribile la sua privacy”. Sul tema della separazione delle carriere, invece, siete in totale rotta con la magistratura. Perché? “Mi spiace, ma ancora una volta, anche il presidente Grasso usa un argomento polemico che nella nostra proposta non c’è. Si dice: voi volete sottoporre la magistratura inquirente al potere politico. Nossignore. Basta leggere il nostro testo per vedere che noi proponiamo di separare le carriere, prevedendo un Csm per la magistratura inquirente e un altro Csm per la magistratura giudicante, ma ribadendo che le due carriere sono nell’insieme la magistratura italiana, indipendente da ogni altro potere”. Anche voi, dunque, così come i magistrati, pensate che non sia proprio il caso di portare l’ufficio del pubblico ministero sotto la guida dell’esecutivo? “Premesso che non sarebbe un crimine, perché è così che accade nelle più grandi democrazie occidentali, sì, in effetti anche al nostro interno c’è stato un dibattito sul punto e abbiamo deciso che per l’Italia è meglio di no. Diciamo che forse la nostra democrazia politica non è ancora sufficientemente matura per questa delicatezza. Quindi sì, anche noi pensiamo che non è il caso di portare il pm sotto il potere politico”. Presunzione d’innocenza? Non è aria: Anche il destino di Siri pare già scritto di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 19 aprile 2019 Temiamo finirà comunque male la vicenda che, dopo l’attacco giudiziario che ha travolto la Regione Umbria e le conseguenti dimissioni della presidente Catiuscia Marini, colpisce al cuore la Lega di Salvini con l’apertura di una indagine per corruzione nei confronti del sottosegretario Armando Siri. Finirà male prima di tutto per motivi elettoralistici: nessuno, neanche il trionfatore dei sondaggi Matteo Salvini, può permettersi il lusso di arrivare al 26 maggio con un tale fardello addosso. Siri non è Berlusconi e la Lega non è Forza Italia, non basta quindi che il leader esprima massima fiducia nel suo sottosegretario indagato. Ma ci sono anche motivi politici impellenti: tutto il Movimento 5 stelle sta schiumando la sua rabbia contro un “socio contrattuale” mai amato, e resuscita così un’era in cui bastava la parola “indagato” per alzare le forche sull’albero più alto, quando ancora i sindaci Raggi e Nogarin erano vergini sul piano giudiziario. Ma il colpo più forte a Siri non l’ha sferrato il magistrato, casomai il suo ministro, quel Danilo Toninelli che dalla sua cattedra può dare lezioni a chicchessia e che lesto lesto ha tolto le deleghe al suo sottosegretario ai Trasporti. Via le deleghe, è facile levare anche la scrivania. Ci si domanda quindi se Armando Siri sia stato beccato con il sorcio in bocca, come dicono a Roma. Se è stato corrotto, guardiamogli le tasche, per vedere se contengono la mazzetta, oppure consultiamo il suo album fotografico per vedere se, come Formigoni, abbia goduto di qualche “utilità” come vacanze o giri in barca. Ci tocca andare a vedere le sbobinature delle intercettazioni, per capirci qualcosa. E qui bisogna aprire una parentesi, perché da qualche anno i magistrati italiani (sia pubblici ministeri che gip) hanno l’abitudine di abbinare a decreti di perquisizione piuttosto che a ordinanze di custodia cautelare un bel fascicolo di intercettazioni. Che sono poi, ovvio, a disposizione delle parti. I giornalisti non sono soggetti processuali, però hanno nelle mani da subito l’intero incartamento e fingono che sia stato l’avvocato difensore della persona inquisita, cioè quello meno interessato a diffondere le accuse contro il proprio assistito, a depositare gli atti in edicola, invece che in cancelleria. Così comincia l’assalto mediatico alla persona. E molti cominciano a dire “io sono garantista però…”. Si delega alla magistratura quella piccola cosa che la Costituzione definisce “presunzione di non colpevolezza” e che comporta l’attesa di una sentenza definitiva dopo qualche anno, e si prende la decisione politica da subito. Ecco perché Catiuscia Marini è stata costretta dal suo partito alle dimissioni, ben sapendo che l’Umbria non eleggerà più, almeno nei prossimi anni, un uomo o una donna del Pd. Perché dalle intercettazioni si palesa un sistema (non solo umbro, se vogliamo dire la verità) di clientele e raccomandazioni che al cittadino danno disgusto, soprattutto se rappresentato più sul piano morale che politico o giudiziario. Ma rimane una domanda. Quando la magistratura ritiene di avere elementi sufficienti per portare una persona a processo, ha tutti gli strumenti, ben più repressivi che una semplice apertura di indagine, di un’informazione di garanzia, per farlo. Non è il caso dell’ex presidente Marini (che non è stata arrestata) né di Armando Siri. Il quale sarebbe responsabile di aver cercato di presentare emendamenti a favore del sistema “mini- eolico” in cambio della “promessa e/ o dazione di 30.000 euro”. Pare che il fatto emerga, in termini molto ambigui, da conversazioni intercettate tra padre e figlio, Paolo e Francesco Arata, i quali sarebbero in contatto (ma questo Siri non lo sa, scrivono i magistrati) con l’imprenditore siciliano Vito Nicastri, il re dell’eolico di cui si sospettano legami addirittura con il latitante mafioso Matteo Messina Denaro. È tutto un pare, un forse. Ma se c’è di mezzo addirittura la mafia… ce ne è abbastanza per dar fuoco alle polveri. Di Maio e Di Battista paiono entusiasti, come se non aspettassero altro. Non sappiamo se ci sarà resistenza da parte della Lega. Ma a noi pare che la testa di Armando Siri sia già sul ceppo. Il giustizialismo ipocrita dei 5 Stelle di Palazzo di Augusto Minzolini Il Giornale, 19 aprile 2019 Chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. L’iperbole è tutt’altro che bizzarra. Sarà l’epoca del governo del cambiamento, ma di fatto non è mutato niente. Sicuramente non sono diverse le campagne elettorali segnate da inchieste, avvisi di garanzia, arresti e intercettazioni. Un andazzo che va avanti ormai da un quarto di secolo. Con un rigurgito di giustizialismo, proprio della cultura gialloverde, che alla fine si dimostra un’arma a doppio taglio. Per tutti: due giorni fa Matteo Salvini ha preteso e ottenuto le dimissioni della governatrice piddina dell’Umbria, Catiuscia Marini, finita nei guai per l’inchiesta sui “concorsi truccati”; ieri mattina è stato Giggino Di Maio a chiedere le dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri, raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione; e infine, nel pomeriggio, la ministra del Carroccio Erika Stefani, insieme a tutti i leghisti che siedono in Campidoglio, ha evocato la ghigliottina politica per Virginia Raggi per le intercettazioni in cui avrebbe suggerito all’ex ad dell’Ama, Lorenzo Bagnacani, di truccare il bilancio per portarlo in rosso. E per la prima volta il complesso equilibrio del governo gialloverde che in questi mesi ha superato le differenze profonde che dividono grillini e leghisti nella politica economica, estera o delle infrastrutture, ha cominciato a vacillare davvero. Come per tutti i governi della Seconda Repubblica, da Prodi a Berlusconi, il capitolo giudiziario rischia di essere letale. Un paradosso per chi è arrivato nella stanza dei bottoni strillando “onestà, onestà”. Così ieri il vicepremier Salvini ha fatto recapitare dallo stesso premier, Giuseppe Conte, un messaggio a Di Maio, colpevole di aver chiesto la testa di Siri d’emblée. “Fai sapere a Luigi - è stata la minaccia - che dopo le elezioni europee faremo i conti”. E nelle stesse ore il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha telefonato a Silvio Berlusconi per avvertirlo che il livello di guardia è stato superato: “Siamo a un passo che crolli tutto”. Forse, anche questa volta, il grattacielo del governo oscillerà paurosamente, ma non verrà giù. Sicuramente, però, per andare avanti, le due anime della maggioranza dovranno trovare, da qui alle elezioni europee, un’intesa sul terreno più impervio per i grillini: la giustizia e il suo uso politico. Il motivo è semplice: in queste ore Salvini ha toccato con mano quella che è davvero la sua debolezza, il suo fianco scoperto. Spiega senza peli sulla lingua, Giuseppe Basini, un garantista convinto, eletto a Roma nelle file del Carroccio: “Il Pd ha i suoi magistrati interventisti, i grillini si sono trovati i loro, e noi, invece, siamo nudi, inermi, alla loro mercè. E ora che i sondaggi ci danno in crescita, siamo diventati un obiettivo per entrambi”. Un ragionamento che non fa una piega e che spiega perché lo stato maggiore leghista abbia preso male le sortite grilline contro Siri. Non solo la richiesta di dimissioni di Di Maio, ma anche l’immediata decisione di Toninelli di togliere le deleghe al sottosegretario leghista e la sortita di primo mattino del presidente della commissione Antimafia, il grillino Nicola Morra, che per primo ha messo in relazione il presunto corruttore di Siri con il boss mafioso Messina Denaro. Un colpo sotto la cintura che ha mandato su tutte le furie Salvini. “Stupisce - è la bordata che la ministra leghista, Giulia Bongiorno, ha rivolto ai pentastellati - il loro giustizialismo a intermittenza, a seconda della vicenda giudiziaria”. E la decisione del vertice leghista di tenere Siri al suo posto, rispondendo per ora picche a Di Maio, è un avvertimento per l’oggi, ma, soprattutto, una precauzione per il domani: se le incursioni delle procure continueranno nelle prossime settimane, il Carroccio non può accettare che la sua campagna elettorale verso le europee, da marcia trionfale si trasformi in una via crucis. Ieri nel cortile di Montecitorio, il viceministro alle Infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, congetturava sulle possibili mosse per reagire all’aggressione grillina. “Intanto - spiegava - Toninelli si prenderà l’intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c’è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro”. Ma, soprattutto, Rixi ha fatto venire a galla le due paure dello stato maggiore leghista: è possibile che i grillini per sferrare un attacco simile, sappiano qualcosa di più sull’inchiesta? Ed ancora, chi può escludere che siano stati loro ad alzare la palla ai magistrati? Interrogativi che mettono in controluce, appunto, il timore che i 5stelle possano contare su una quinta colonna nelle procure. Anche perché se questa intuizione fosse fondata, i leghisti si troverebbero in una morsa, visto che l’ostilità della magistratura di sinistra la danno per scontata. Ieri nelle file del Pd non erano pochi quelli che soffiavano sul fuoco. “Ora Salvini si goda i grillini”, diceva un Dario Franceschini tranchant. Mentre l’ex guardasigilli Andrea Orlando si dilettava con l’ironia. “È singolare - spiegava - la tesi di Salvini: l’emendamento dall’industriale non c’è nel Def. E con ciò? Questo significa solo che Siri potrebbe aver fregato pure l’industriale, non altro”. E il rischio di essere attenzionati da tutta la magistratura militante, non può non far paura. “Qui - si lamenta il leader dei giovani leghisti, Andrea Crippa - se qualcuno ti convince della bontà di un emendamento, non puoi far niente, perché puoi finire incriminato per traffico di influenze. Nei fatti non puoi più far politica. Io ho paura, per cui sto in Parlamento solo per schiacciare il bottone nelle votazioni”. Non parliamo poi delle elezioni. “Debbo fare il pitbull - confessa il commissario della Lega in Campania, Gianluca Cantalamessa - perché con la folla di gente che si vuole candidare con noi e con l’aria che tira, per fare le liste in posti come Castel Volturno o Casal del Principe debbo avere quattro occhi, non due”. Questi timori non spiegano, però, perché Salvini abbia accettato di andare al governo con un movimento che ha il giustizialismo nel Dna. È lì, il peccato originale. Ora può sperare solo in una metamorfosi dei 5stelle, almeno dell’ala più filo governativa. Qualche segnale sotto sotto c’è: se i leghisti hanno paura delle procure, i grillini hanno il terrore delle urne. “Alla fine - confida il senatore Elio Lannutti - non si romperà. Ma il clima è avvelenato. Morra che tira in ballo i mafiosi e Toninelli che non ci pensa un istante a ritirare le deleghe a Siri, ma come si fa? Lo dice un ex giustizialista”. Mentre il presidente grillino della commissione Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri, si lascia andare ad una mezza sentenza: “Nasciamo tutti comunisti o fascisti, ma alla fine moriamo tutti democristiani”. Appunto, il giustizialismo non va a braccetto con il governo e, tantomeno, con la poltrona. Legittima l’assenza di soglie per il reato di false fatture di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2019 Corte costituzionale - Sentenza 18 aprile 2019 n. 95. La mancata previsione di una soglia penalmente rilevante nel delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di falsi documenti fiscali, a differenza dell’altro reato di dichiarazione fraudolenta con altri artifici, non viola il principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza in quanto la particolare capacità probatoria delle fatture e dei documenti analoghi, legittima una differente disciplina. A fornire questa importante interpretazione è la Corte costituzionale con la sentenza n. 95 depositata ieri La pronuncia trae origine dalla decisione del Tribunale di Palermo di sollevare questione di legittimità costituzionale del disposto dell’articolo 2 del Dlgs 74/2000, che disciplina il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, per disparità e quindi violazione al principio di uguaglianza e ragionevolezza, rispetto all’altro reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3). Mentre infatti la prima fattispecie, in presenza di indicazione in dichiarazione di un falsa fattura, non prevede alcuna soglia di punibilità, la seconda subordina la rilevanza penale a due distinte soglie: l’ammontare dell’imposta evasa (superiore a 30mila euro) e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti a imposizione (superiore a 1,5 milioni), ovvero dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta (superiore a 30mila euro). Secondo il Tribunale tale disparità sarebbe arbitraria, perché riguarderebbe fattispecie sostanzialmente identiche e speculari di frode fiscale: una attuata con l’utilizzo di false fatture, l’altra con altri artifici (operazioni simulate, documenti falsi ecc.). La Corte costituzionale non ha condiviso le tesi del tribunale ed ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale. Secondo la Consulta, si tratta di una strategia legislativa che non può ritenersi manifestamente irragionevole o arbitraria, tenuto conto del particolare ruolo che la fattura assolve sul piano probatorio e della conseguente capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici che comporta questa violazione. La fattura ha un ruolo fondamentale sia nell’Iva, perché garantisce l’attuazione del principio della neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi, sia ai fini delle imposte dirette, costituendo lo strumento tipico attraverso cui il contribuente attesta il diritto alla deduzione di costi. Nel delineato contesto, non può considerarsi arbitraria, secondo il giudice delle leggi, la scelta legislativa di riservare alla dichiarazione fraudolenta con false fatture un trattamento più severo - non sul piano non della sanzione, ma delle soglie di punibilità - rispetto a quello previsto per gli artifici (operazioni simulate, altri documenti falsi e mezzi fraudolenti) a supporto dell’altro delitto di dichiarazione mendace di cui all’articolo 3 del Dlgs 74/2000. Omessi versamenti, decidono i giudici della sede di verifica di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 aprile 2019 n. 17060. Per i reati di omesso versamento è competente il giudice del luogo dove è stata accertata la violazione e non quello della sede dell’impresa. A fornire questo principio, che contraddice precedenti orientamenti di legittimità, è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 17060 depositata ieri. La vicenda riguardava un omesso versamento Iva, oltre la soglia penale, da parte di una società per il quale veniva condannato il legale rappresentante. Fin dal primo grado, l’imputato eccepiva l’errata individuazione del giudice territorialmente competente poiché la sede della società era stata trasferita in altro comune prima della consumazione del reato. L’eccezione veniva disattesa dai giudici di merito e l’imputato ricorreva in Cassazione. La Suprema corte, confermando la decisione di appello, ha fornito un importante principio sull’individuazione della competenza territoriale nei reati di omesso versamento. Innanzitutto, il delitto di omesso versamento è istantaneo e pertanto la competenza dovrebbe essere determinata nel luogo in cui il reato è consumato. Trattandosi di condotta omissiva, tale luogo coincide con quello in cui si sarebbe dovuta compiere l’azione (versamento all’erario) che di regola coincide con la sede operativa del contribuente. Tuttavia, da qualche anno le imposte devono essere pagate in via telematica utilizzando esclusivamente il modello F24 attraverso gli intermediari abilitati o attivando un proprio canale. Le regole fiscali hanno di fatto, rileva la Corte, dematerializzato il pagamento e pertanto non è possibile individuare con certezza il luogo di consumazione dell’eventuale condotta omissiva. L’articolo 18 del decreto legislativo 74/2000, in tema di reati tributari, individua nel giudice del luogo di accertamento del reato la competenza per territorio in tutti i casi di impossibilità di determinazione della medesima competenza secondo le regole generali previste dal codice penale all’articolo 8 (luogo di consumazione dell’illecito). Nella specie, non potendosi individuare il luogo di consumazione dell’omesso versamento Iva, deve essere applicato, secondo la Corte, solo il criterio sussidiario con individuazione della competenza del giudice territoriale dove ha avuto luogo l’accertamento del delitto. La decisione è importante poiché modifica un pregresso orientamento che di regola attribuiva la competenza al Tribunale dove è ubicata la sede del contribuente, nel presupposto che in quel luogo dovesse essere effettuato il versamento delle imposte. Effettivamente, come rilevato dai giudici di legittimità, con l’introduzione dei pagamenti telematici non esiste più alcuna regola, ma stante il contrastante orientamento giurisprudenziale in seno alla medesima sezione sarebbe a questo punto auspicabile un intervento delle sezioni unite. Tra l’altro, in molti casi, gli omessi versamenti vengono accertati in modo automatizzato a livello centrale o delocalizzato (liquidazione delle dichiarazioni), con la conseguenza che potrebbe essere spesso invocata la competenza soltanto di quei Tribunale dove l’Agenzia delle Entrate svolge materialmente tale attività. Autoriciclaggio per bonifici all’estero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2019 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 18 aprile 2019 n. 16908. Bonifici a una società estera con saldo corrente pari a zero non possono essere liquidati in maniera sommaria dall’autorità giudiziaria, negando l’applicazione della custodia cautelare per auto-riciclaggio. Neppure mettendo l’accento sulla tracciabilità dei versamenti. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16908 della Seconda sezione penale, ha così accolto il ricorso presentato dalla pubblica accusa contro la decisione del tribunale della libertà che aveva negato la detenzione preventiva per il reato di autoriciclaggio e usura. La condotta “sospetta” posta in essere dall’indagato era consistita in una serie di bonifici effettuata a società estere e a successivi traferimenti delle somme di denaro a soggetti fisici o giuridici sempre riconducibili all’uomo. Ora la Cassazione, dopo avere ricostruito la fisionomia del reato con un’insistenza particolare per l’idoneità della condotta a ostacolare in concreto l’identificazione della provenienza criminale dei beni, sottolinea come la procura, nel suo ricorso, ha ricostruito in maniera puntuale i passaggi di denaro, valorizzando alcuni aspetti come la natura estera delle società (tunisine) e il fatto che il conto corrente di una di queste fosse del tutto privo di liquidità prima del trasferimento, indizio evidente di non operatività. Per questo alla Cassazione appare almeno azzardato ritenere, come fatto dal Riesame, che si possa essere in presenza di una tranquilla attività imprenditoriale. Oltretutto il trasferimento delle somme era avvenuto non tanto a favore di una sola persona, fisica o giuridica, ma vantaggio di una vera e propria costellazione di società distinte che, a loro volta, effettuavano nuove operazioni di trasferimento. La stessa tracciabilità delle operazioni, che rappresenta comunque una conseguenza delle indagini avviate, non può determinare una conclusione di inidoneità della condotta a porre in essere l’auto-riciclaggio. Per la Cassazione, il rinvio al Riesame è obbligato, e l’ordinanza deve essere annullata. Il tribunale delle indagini preliminari dovrà così fornire una nuova valutazione sulla effettiva capacità dissimulatoria delle operazioni realizzate, con una finestra di particolare attenzione per la natura estera delle società coinvolte. Tempio Pausania (Ss): reati prescritti e niente carcere nella capitale dei crimini impuniti di Nicola Pinna La Stampa, 19 aprile 2019 Solo due giudici e 1.300 sentenze dimenticate. Il presidente del tribunale: il ministero se ne frega. Quelle che si devono rassegnare sono le famiglie che si sono ritrovate la casa a soqquadro dopo un blitz notturno dei ladri. C’era una banda specializzata che per mesi ha preso di mira il Nord Sardegna: professionisti dello scasso che arrivavano a Olbia in traghetto ogni venerdì sera e che la domenica ripartivano alla volta di Civitavecchia con un bottino sempre ricco. Duecento colpi messi a segno nel giro di poco tempo: un’inchiesta della procura e dei carabinieri aveva smascherato tutto già nel 2008, ma il processo non si farà mai. “Non c’è più tempo”, ha ammesso il giudice nel corso dell’ultima udienza: sui reati ora incombe la mannaia della prescrizione. I ladri l’hanno fatta franca, le vittime dei furti non avranno né giustizia né risarcimento. I buchi nell’organico Nel palazzo del tribunale di Tempio Pausania il caso non è isolato: centinaia di fascicoli sono fermi da anni, accatastati a prendere polvere, perché i magistrati sono pochi e i processi non si possono celebrare. Qui i delinquenti riescono spesso a scamparsela, perché il sistema giudiziario ha il motore in panne. Nel settore penale sono rimasti soltanto due giudici ed è così che si arriva a raggiungere quel 60 per cento di reati prescritti in primo grado che di fatto rappresenta il record italiano. Per chi è sotto accusa è una facilissima scappatoia, per le vittime è scontato gridare allo scandalo. “Molti condannati, anche per reati molto gravi come la violenza sessuale, non sono mai andati in carcere - denuncia il presidente del Tribunale, Giuseppe Magliulo - Ogni giorno tanti cittadini vengono nei nostri uffici per chiedere che vengano riconosciuti i loro diritti e io, pur vergognandomi profondamente, devo ammettere che non possiamo dare risposte. Qui il rischio è che la gente decida di usare altri metodi per far valere le proprie ragioni”. Il pool di ispettori Giuseppe Magliulo è uno che in passato ha fatto parte del pool che monitorava l’attività degli altri magistrati e in Sardegna si ritrova con l’arduo compito di rimettere in moto il sistema. Da quando si è insediato a Tempio, un ufficio giudiziario sconvolto anche dalle inchieste che hanno coinvolto diversi magistrati, ha chiesto più volte l’intervento del ministero della Giustizia. Ma l’unico risultato ottenuto finora è stato l’arrivo di un team di ispettori che ha messo nero su bianco quello che qui tutti sapevano. “Questo disastro non interessa a nessuno - denuncia il presidente - Dal ministero non ho mai ricevuto una risposta”. Nel pantano sono finiti anche molti altri casi. Uno è quello dei finti poveri che chiedevano di essere inseriti nei cantieri comunali di La Maddalena: 11 persone indagate con l’accusa aver presentato false certificazioni per ottenere uno dei posti di lavoro destinati ai meno abbienti. Ancora più clamorosamente è finita la storia di un grosso giro d’usura scoperto nel 2008 nella zona di Tempio. Le udienze sono state rinviate continuamente e mentre il tribunale non è riuscito a chiarire le responsabilità, qualcuno ha fatto giustizia da sé e così uno degli indagati è stato ucciso barbaramente insieme alla moglie e al figlio piccolo. Di rinvio in rinvio è andata all’aria anche l’inchiesta sulla famosa cricca degli appalti pubblici. Il caso era quello delle opere per il G8 di La Maddalena: opere costruite malissimo, maxi sprechi, bonifiche non fatte e materiali inquinanti sparsi in mare. Tutto prescritto, reati rimasti senza colpevole. E nel frattempo a La Maddalena restano gli scheletri inutilizzati. E una fetta di mare inquinato, proprio di fronte alla bellezze del parco nazionale. I fascicoli in attesa di una sentenza, cioè quelli pendenti, sono più di 12.900, solo nel settore penale. Dall’ispezione, poi, si scoprono 300 fascicoli rimasti sul tavolo del Gup anche per 10 anni, tanti casi di rinvii a giudizio con processi mai celebrati, ma anche 1300 sentenze dimenticate e che non sono mai state eseguite. Nel caos generale più di 5 mila cartoline non sono mai state inserite nei fascicoli e una marea di “corpi di reato” sono spariti. “Non abbiamo neanche il personale per cercarli”, ammette il presidente. Per ora l’unica cosa che si può fare è mandare al macero un bel malloppo di fascicoli rimasti fermi. Velletri (Rm): obiettivo reinserimento di Gianluca Biccini L’Osservatore Romano, 19 aprile 2019 “Porta Sancta” recita la scritta in latino sopra l’ingresso della cappella: ed è qui che i detenuti della Casa circondariale di Velletri hanno celebrato il loro giubileo raccogliendo gli auspici di Papa Francesco per l’Anno santo della misericordia. Ora invece sarà il Pontefice a recarsi nel penitenziario in provincia di Roma per lavare i piedi a dodici carcerati durante la messa nella Cena del Signore del Giovedì santo. Per Bergoglio si tratta della quinta volta in un istituto di pena, dopo i precedenti del 2013 nel riformatorio minorile di Casal del Marmo, del 2015 a Rebibbia, del 2017 nel carcere di Paliano e dello scorso anno a Regina Coeli. La notizia dell’arrivo di Papa Bergoglio ha suscitato grande emozione nella numerosa comunità dei reclusi a Velletri. Del resto è dal 2016 che essi attendono questa visita. E sebbene in quella circostanza non fu possibile, Francesco volle comunque farsi presente con un gesto, scrivendo una lettera di incoraggiamento incentrata sul tema della speranza. Da allora “lui è ospite fisso nelle nostre preghiere e adesso si avvera il desiderio di averlo tra noi”, commenta don Franco Diamante, il cappellano. Per il sacerdote “il carcere è il luogo più adatto per far risuonare la parola di Dio: i testi scritturistici quando sono proclamati qui dentro stanno a casa loro; parlare di vita nuova, di speranza, che sono la sostanza del Vangelo, qui dentro è facile”. E aggiunge: “Nella domenica delle Palme quando si legge la Passione tutti restano in piedi in silenzio. La scena sembra la descrizione del cuore di un detenuto e c’è molta solidarietà con Gesù Cristo”. Composta da due padiglioni in mezzo alla campagna - uno più datato, aperto alla fine del 1991, e uno più recente, completamente automatizzato, che è stato attivato nel novembre 2011 - la Casa circondariale ha una capienza regolamentare di circa quattrocento posti e una “tollerabile” di 650, compresi i sedici dell’isolamento e i quattordici del transito. Ma attualmente ospita quasi seicento uomini, molti dei quali di nazionalità straniera, soprattutto romeni, marocchini, albanesi, tunisini e nigeriani. Diversi sono i tipi di crimini che hanno commesso, così come differenti le condanne da scontare, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di sentenze definitive per reati comuni. Sotto la direzione di una donna, Maria Donata Iannantuono, completano questa comunità circa duecento agenti di custodia, anch’essi comandati da una donna, Maria Luisa Abossida, e una ventina di unità appartenenti al personale con mansioni amministrative e contabili - tra cui una centralinista non vedente e persino un agronomo - nonché giuridiche e pedagogiche. Collaborano all’attività di osservazione e trattamento anche tre psicologhe. È al piano terra, dove ci sono tutti i servizi generali, che si svolge la vita quotidiana: i colloqui, il casellario, la cappella per la preghiera, il teatro, le palestre, la lavanderia, la cucina e le aule scolastiche. Infatti nel penitenziario sono attivi corsi di alfabetizzazione primaria per gli stranieri e di scuola media inferiore e superiore, quest’ultima grazie alle lezioni tenute dal locale istituto agrario Cesare Battisti, con sette reclusi diplomatisi nel 2018. Otto di essi, invece, sono iscritti all’università di Roma Tre. In collaborazione con le associazioni “Vo.la.re.”, “Un mondo nuovo”, la comunità “Il pettirosso”, il distretto “Rotaract 2080”, l’Us Acli di Latina, la Casa circondariale promuove un giornalino, iniziative di formazione professionale, culturali, ricreative e sportive. In particolare l’attività fisica è possibile per la presenza di tre palestre, in cui si pratica anche yoga, di un campo di calcio - il campionato viene arbitrato da detenuti, che ora si stanno avvicinando anche al rugby, e a dicembre qui si è giocata “la partita con papà” promossa dall’associazione “Bambini senza sbarre” - e di uno di bocce, che è stato valorizzato con murales opera degli studenti del liceo artistico di Velletri, nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. Completano il quadro una fornita biblioteca, laboratori teatrali, ben tre, e artigianali i cui manufatti sono venduti all’esterno, cineforum, corsi di filatelia e di eno-gastronomia e il progetto pilota di pet therapy “cani qui... dentro?”. Mentre per comunicare con l’esterno è attivo il servizio di posta elettronica “mai dire mail”. Un’area verde consente i colloqui con i figli minori di dieci anni e ora si sta ultimando per loro una ludoteca. Nella consapevolezza che il lavoro assume un ruolo fondamentale nel processo di rieducazione e del reinserimento dei condannati, alcuni di essi si occupano del rifacimento degli intonaci e della tinteggiatura di alcune sezioni, come del risanamento e della ristrutturazione di altre; una lavanderia impiega otto detenuti, mentre la maggior parte di essi - un centinaio - svolgono mansioni domestiche o di assistenza alla persona. Sette sono quelli impiegati nell’azienda agricola del carcere, che produce olio, vino e derrate ortofrutticole. “Abbiamo due serre, è stata rimessa in funzione la fungaia e sono stati piantati alberi da frutta e ortaggi; infine è in fase di sperimentazione l’apicultura”, spiega la direttrice. Infine il diritto alla salute è assicurato dall’Azienda sanitaria locale Roma 6 con assistenza medica e infermieristica, oltre che psichiatrica e psicologica. Tra l’altro “dal maggio scorso - riferisce Iannantuono - vige il protocollo d’intesa per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario. E da febbraio è stata attivata una piccola sezione di articolazione per la tutela della salute mentale, che consente di fornire cure sanitarie e terapeutiche a soggetti con particolari disturbi di natura psichiatrica”. Bari: la “Masseria San Vittore” apre ai detenuti gnewsonline.it, 19 aprile 2019 Nell’ambito del progetto diocesano Senza Sbarre, sono stati inaugurati la Masseria “San Vittore” e il Pastificio “A mano libera” gestito dall’Associazione Amici di San Vittore ONLUS in collaborazione con la Caritas e la Diocesi di Andria. “Il Progetto Senza Sbarre - hanno dichiarato in una nota don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione - sta andando avanti con molta tenacia e, come era prevedibile, con mille difficoltà ma noi non demordiamo. Vogliamo creare ponti tra carcere e mondo, tra chi è dentro e chi è fuori, tra “buoni” e “cattivi”, anche se la distinzione è molto sottile”. Il progetto di inclusione sociale prosegue ora con la realizzazione di una rete di accoglienza residenziale e semiresidenziale, contestualmente all’inserimento in attività lavorativa, di soggetti in esecuzione penale esterna seguiti dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Bari. La Grande Masseria San Vittore, che sorge nella Contrada che le dà il nome ed è formata da 8 ettari di terreno da sistemare e coltivare, consentirà la lavorazione di prodotti esclusivi a marchio “Senza Sbarre”. Alla manifestazione, prevista per il 4 maggio 2019, interverranno, oltre a mons. Luigi Mansi, vescovo di Andria e don Riccardo Agresti, anche Riccardo Fuzio, procuratore generale della Cassazione, Giuseppina D’Addetta, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bari, Antonio De Luce, presidente del Tribunale di Trani, Carmelo Cantone, provveditore degli Istituti penitenziari di Puglia e Basilicata e Pietro Guastamacchia, direttore dell’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna di Bari. Roma: i detenuti dell’Isola Solidale cucinano i pasti per i senzatetto di San Pietro romasociale.com, 19 aprile 2019 Oggi, 19 aprile 2019, in occasione del Venerdì Santo, alle ore 21, in via della Conciliazione, i detenuti dell’Isola Solidale insieme ai volontari dell’Opera Divin Redentore distribuiranno i pasti alle numerose persone senza fissa dimora che vivono nelle vicinanze della basilica di San Pietro. L’Isola Solidale è una struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000. Saranno serviti 40 pasti che prevedono riso con verdura e diverse varietà di frutta. Tutto fatto in casa dai detenuti dell’Isola Solidale che si sono mobilitati per questa nuova esperienza. Due di loro hanno avuto un permesso speciale dal magistrato e saranno in via della Conciliazione per distribuire i pasti insieme agli altri volontari, mentre gli altri detenuti si occuperanno della cucina, dello sporzionamento dei pasti e del loro confezionamento. Questa nuova iniziativa segue quella dello scorso 23 gennaio 2019, che aveva visto protagonisti sempre gli ospiti dell’Isola Solidale che decisero di offrire l’accoglienza notturna ad almeno due persone senza tetto della Capitale, soprattutto della zona dell’Ardeatina. “Un gesto - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - di solidarietà e speranza che assume un alto significato in occasione del Venerdì Santo. I nostri ospiti mi sorprendono ogni volta perché non si tirano mai indietro quando c’è da mettersi in gioco per chi è solo o in difficoltà. Penso che questo sia un segnale bello e commovente in vista della santa Pasqua”. Siena: Caffè Batani omaggia i detenuti di Santo Spirito radiosienatv.it, 19 aprile 2019 Regalate numerose confezioni di caffè macinato e spiegato il meccanismo di produzione. Per le festività pasquali l’azienda Caffè Batani s.r.l., storico marchio di torrefazione senese, ha voluto omaggiare i detenuti della Casa circondariale di Siena con numerose confezioni di caffè macinato. A consegnare il graditissimo regalo è stata la titolare, Belinda Batani, che questo pomeriggio si è recata personalmente presso la casa circondariale per incontrare i detenuti. In occasione della donazione Belinda Batani ha anche illustrato le varie fasi della lavorazione del caffè, dalla tostatura alla miscelazione, fornendo dettagli sui metodi e sulle tecnologie adoperate per la torrefazione ed il confezionamento. L’azienda Batani, tempo fa, si era già fatta sostenitrice della campagna del “caffè sospeso” che, grazie alla Confesercenti di Siena e con il patrocinio del Comune, ha consentito ai detenuti di beneficiare di notevoli quantità di caffè in omaggio. sul finire dello scorso anno l’iniziativa è poi sfociata in un progetto di economia circolare con la stipula di un protocollo d’intesa tra la direzione della casa circondariale e la cooperativa sociale “La Proposta Onlus” finalizzato al riutilizzo, come fertilizzante naturale, dei fondi del caffè consumato dai detenuti. L’esclusivo concime naturale concorre oggi alla produzione di ortaggi nei terreni della cooperativa che restituisce una parte del raccolto ai detenuti del carcere. Ad impreziosire il progetto, l’attività di ricerca promossa dal dipartimento di biotecnologia, chimica e farmacia dell’Università degli Studi di Siena sulle proprietà antiossidanti e nutraceutiche del caffè. Radio Radicale. Lacrime per Bordin, rabbia contro Crimi di Valentina Stella Il Dubbio, 19 aprile 2019 “Crimi-nale chiudere Radio Radicale” : un gioco di parole su una locandina del salone del Partito Radicale a condannare sarcasticamente l’insistenza del sottosegretario pentastellato Vito Crimi, che da giorni va ripetendo che la sua posizione e quella del Governo è di non voler rinnovare la convenzione a Radio Radicale. A tale illiberale e antidemocratica decisione, la risposta è “una Pasqua di impegno per la vita di Radio Radicale”: lo ha annunciato ieri Alessio Falconio, direttore della storica emittente, durante una conferenza stampa convocata dal Partito di Marco Pannella. La manifestazione per la vita dell’emittente fondata nel 1976 si terrà domenica a Roma a piazza Madonna di Loreto (Lato sinistro dell’Altare della Patria) dalle 11 alle 13. Una vera e propria maratona oratoria durante la quale si alterneranno sul palco giornalisti, parlamentari, esponenti del mondo della cultura, militanti radicali e tante altre centinaia di persone per scongiurare la chiusura della Radio, che proprio due giorni fa ha perso la voce di Massimo Bordin. Oggi per lui l’ultimo saluto alle 10: 30 presso la Facoltà Valdese, in via Pietro Cossa 40. Ieri al Partito Radicale i volti erano segnati dalle lacrime e della profonda tristezza per la scomparsa, per molti inattesa, dell’amico e del giornalista. “La perdita di Massimo Bordin lascerà un vuoto incolmabile - ha aggiunto Falconio - Da domani (oggi, ndr) inizierà una staffetta delle migliori firme del giornalismo che andranno a condurre Stampa e Regime”. Ha cominciato stamattina l’editorialista di Repubblica Francesco Merlo, che curerà la rassegna per tutta la prossima settimana. Molto provato anche Maurizio Turco, coordinatore della Presidenza del Partito Radicale: “La perdita di Bordin per la Radio è pari a quella di Pannella per il Partito. Massimo era un attivatore di neuroni, che denunciava la realtà del regime in questo Paese. Questo Governo ha deciso di chiudere Radio Radicale, giustificandosi anche con profonde falsità. Per fortuna vi è stata una reazione corale del Parlamento, compresi alcuni esponenti del M5S, a difesa del servizio pubblico che svolge la Radio”. Dopo ha preso la parola il radicale storico Maurizio Bolognetti, in sciopero della fame dal 27 febbraio proprio per evitare il bavaglio alla radio: “È in atto un tentativo violento di colpire Radio Radicale, che potremmo pensare come una Treccani audiovisiva, e di colpire ciò che essa ha garantito in questi 43 anni”. Le lacrime segnavano il volto di Rita Bernardini, anch’ella in sciopero della fame da una settimana insieme a Maria Antonietta Farina Coscioni e Irene Testa. L’esponente della presidenza del Partito ha stigmatizzato le dichiarazioni del Ministro Bonafede: “Il Guardasigilli ha detto che la convenzione non verrà rinnovata perché a suo dire il servizio pubblico già c’è ed è della Rai. Eppure nel nostro ultimo incontro ci aveva detto che il dossier non lo gestiva lui. Ma quello che mi preoccupa è che questo Ministro non abbia assolutamente consapevolezza del servizio garantito da Radio Radicale e di quello non garantito invece dalla Rai, nonostante il canone che paghiamo. È ignorante della realtà”. Bernardini ha poi annunciato che al digiuno di dialogo si sono aggiunte altre 50 persone, tra cui Sabina Guzzanti. Irene Testa ha chiesto invece un intervento del Presidente della Repubblica: “Credo che Mattarella debba intervenire a favore dell’archivio della Radio e di tutto quello che rappresenta oggi per le istituzioni e per il diritto alla conoscenza dei cittadini”. Per Paolo Chiarelli, amministratore dell’emittente, le strade da percorrere sono poche: “Ottenere un sostegno da Fondazioni e Associazioni non è facile; gli incontri con la Rai avvengono con lentezza. L’unica possibilità concreta, qualora il Governo non facesse marcia indietro, sarebbe quella di una proroga della convenzione per qualche mese, durante i quali potremmo consolidare la trattativa con la Rai”. Se non dovesse cambiare nulla, il 21 maggio i microfoni di Radio Radicale potrebbero spegnersi e mandare a casa oltre cento lavoratori tra giornalisti, collaboratori e tecnici. “Avevamo chiesto per questo un incontro al Ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ma non ci ha mai risposto”, ha dichiarato Lorena D’Urso, conduttrice di Osservatorio Giustizia, ieri pomeriggio durante un’altra conferenza stampa convocata dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana per fare il punto sull’emittente ma anche sugli innumerevoli tagli all’editoria voluti dal Governo. Per il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, i tagli altro non sono che “bavagli. Proprio oggi (ieri, ndr) il rapporto sulla libertà di stampa di Reporters Sans Frontières ci colloca alla 43esima posizione. Se Radio Radicale chiuderà, e con essa altre testate, l’anno prossimo potremmo sprofondare all’ 86esimo posto”. E auspica che “gli appelli che si stanno moltiplicando in queste ore, anche da esponenti del mondo politico, si trasformino in atti parlamentari” per far continuare a vivere Radio Radicale. Sempre ieri, alle numerose manifestazioni di solidarietà a favore di Radio Radicale, si è aggiunta quella della Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione nazionale magistrati che, esprimendo “cordoglio per la morte di Massimo Bordin”, si augura “che prosegua senza difficoltà la meritoria opera di informazione dell’emittente, veicolo di trasparenza dei lavori del Csm oltre che della Anm, che è un valore da preservare”. Il vice premier Matteo Salvini invece ha ripetuto che “io, e lo proporrò anche agli amici Cinque Stelle, preferirei che chi di dovere tagliasse i mega stipendi in Rai prima di chiudere voci che informano”. Bordin è stato un intellettuale originale nell’Italia preda del fanfaronismo di Massimo Teodori Il Foglio, 19 aprile 2019 Vanno tenuti a bada i ricordi di quarant’anni ni di incontri ravvicinati, di vivaci discussioni, di ritiri estivi nel mio paesello, Force, dove arrivava da un lungo giro autostradale che gli permetteva di sfogare la guida spericolata al volante della Volvo cabriolet, l’auto del gentleman d’antan quale è sempre stato. E non vanno neppure evocate le cene settimanali quando, dopo una buona bottiglia di vino da lui scelta con la competenza del gourmet, Massimo si faceva due grappini prima di precipitarsi fuori per sguainare il sigaro dal fodero metallico. Anche quando scompare il più caro amico devi lasciare da parte l’onda dei ricordi personali che può sviarti. Voglio solo ricordare le commissioni d’inchiesta parlamentare degli anni ottanta (Sindona, P2, antimafia) nelle quali l’intero mio patrimonio di conoscenze fu dovuto al lavoro documentale e all’intelligenza interpretativa di Massimo, allora collaboratore del novello deputato radicale quale mi trovai a essere per alcune legislature. Quel generoso impegno a scavare e decrittare centinaia di migliaia di carte sul sottobosco del secondo Dopoguerra, è forse stato uno dei tanti nutrimenti che hanno sedimentato la sconfinata esperienza della realtà italiana illuminata dalla chiarezza concettuale che hanno fatto di Massimo qualcosa di più e di diverso dal bravo giornalista. L’amico che ci ha lasciati è stato, prima ancora dell’inventore della originalissima rassegna stampa di Radio Radicale, un autentico intellettuale politico tra i più solidi del nostro tempo. Intellettuale cresciuto non nella boriosa accademia, non tra le fumisterie dogmatiche e gli ideologismi manichei, non nell’obbedienza “organica” a vincoli partitici, ma ancorato all’esame puntuale e disincantato del mondo italiano e internazionale sempre attento ai distinguo e alle sfumature che sono percepiti solo da chi padroneggia una cultura scevra da pregiudizi. Il richiamo alle sue giovanili origini trotskiste è solo un simpatico vezzo: le sue conoscenze storico-politiche e le sue idealità hanno abbracciato molto presto uno spettro molto più ampio dei classici della sinistra rivoluzionaria avendo assorbito senza rigidità il patrimonio storico-critico laico e liberaldemocratico. Non è perciò un caso che sia divenuto il riferimento indispensabile per il mondo della giustizia di cui ha saputo cogliere tutte le sfumature e le declinazioni individuali e procedurali senza timore di essere accomunato alla cultura para-mafiosa dal gruppo che oggi gli ha reso l’onore della armi, accusa che era stata già rivolta a Leonardo Sciascia. Il culmine di quel coraggioso itinerario si è avuto quando ha definito un “colossale imbroglio” il processo di Palermo sulla trattativa tra stato e mafia analizzato in ogni risvolto nel libro Complotto! del 2014. Massimo, dunque, è stato un intellettuale politico originale nell’Italia che scivolava nella grossolanità e nel fanfaronismo ammantato di pseudo-ideologie a destra come a sinistra, ed è stato percepito da una larghissimo strato di opinione pubblica qualificata come un’ancora prestigiosa non esibita e non strumentalizzata. Così la sua vita si tingeva sempre più dei colori del gentiluomo aristocratico animato da passione civile ed equilibrio politico, come hanno saputo ben cogliere Giuliano Ferrara e Adriano Sofri. Senza quel tratto personale non ci sarebbe stata neppure la rassegna stampa che tutti aspettavamo alle 7,35, magari dopo una notte insonne in attesa della parola chiara e non compiacente. Senza quell’aria scanzonata che, ad esempio, rimpiangeva la chiusura dell’ultimo negozio di abbigliamento “inglese” di Roma, Viganò, presso la Galleria Minghetti, anche i suoi rinvii storico-culturali non sarebbero stati coronati da senso di eleganza che il suo corpo e la sua andatura emanavano. La parola appropriata, la cultura dilatata, la politica mai faziosa, la riga scritta precisa e tagliente, i vestiti apparentemente trasandati facevano parte di un tutt’uno che si chiama “stile”. Uno stile opposto a quello delle “riviste di stile”. Uno stile che non gli fece mai “mettere a frutto” la sua crescente popolarità e stima professionale che più volte gli diedero la possibilità di brillanti carriere che sempre rifiutò in nome di un’idea civile e rigorosa dell’esistenza. “Quando vado in pensione mi voglio ritirare in una isola siciliana in mezzo al mare e al sole perché non ho bisogno di altro che del mio computer”. Ero spaventato da quella minaccia che mi avrebbe lasciato più solo, ma fortunatamente l’intenzione rientrò da quando gli accadde di innamorarsi di Daniela, un altro passo affrontato con quel passo sicuro che mai lo abbandonava. Anche la sua lunga avventura senza riserve con i radicali merita una riflessione. Leale al partito e al suo leader Pannella, Massimo tuttavia non perse mai l’autonomia e l’indipendenza di giudizio che gli erano proprie, nonostante le abili pressioni del Grande Manipolatore che tutte le domeniche voleva piegarlo ai suoi vezzi sempre più sproloquianti pur se fascinosi nel tentativo di rendere vero quel che vero non era, e far apparire reale quel che non lo era affatto. Bordin sapeva rettificare, ricordare, correggere e contestare: perciò non è stato in nulla “l’alter ego di Pannella”, anzi lo si dovrebbe quasi considerare come l’alternativa laica, liberale e riformista ai deragliamenti del leader. Un’alternativa, però, che mai fu espressa in sede politica ma solo attraverso la forza delle parole. Quando necessario, Massimo ha saputo affrontare con l’eleganza del silenzio il rapporto con Marco che cinicamente ha sempre impedito che il politico più intelligente della galassia radicale varcasse la soglia dell’emiciclo parlamentare dove sarebbe stato un naturale e autorevole protagonista, come richiesto da tanti amici e nemici che ne conoscevano il valore. Non a caso il più eloquente commentatore politico italiano non ha mai messo piede in transatlantico. L’Fnsi: “Fermate la crociata che uccide Radio Radicale” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 aprile 2019 Stampa e regime. La Federazione nazionale della stampa si mobilita contro lo stop alla convenzione e i tagli all’editoria che cancellano pure il manifesto. “I parlamentari trasformino in atti concreti le lacrime per la perdita di Massimo Bordin”. “La Federazione nazionale della Stampa auspica che gli appelli che in queste ore arrivano da ogni parte politica e le lacrime per la perdita di un grande giornalista come Massimo Bordin diventino presto atti parlamentari. E che il fronte politico trasversale che c’è in Parlamento riesca a costruire un emendamento per salvare Radio Radicale”. Arriva subito al sodo, Raffaele Lorusso, segretario generale dell’Fnsi, aprendo la conferenza stampa organizzata ieri nella sede di Corso Emanuele II per coordinare gli interventi in favore della storica emittente radiofonica, a rischio chiusura da fine maggio, quando scadrà la convenzione con il Mise per il servizio parlamentare fornito ininterrottamente da 43 anni e che il sottosegretario pentastellato Vito Crimi non intende rinnovare. “Una scelta meramente ideologica”, la definisce Lorusso, che fa pendant con il taglio ai fondi dell’editoria che uccide il manifesto, l’Avvenire e una sfilza di quotidiani cooperativi, diocesani e locali, soprattutto nel sud Italia. “Tagli e bavagli”, una clava da agitare in campagna elettorale, tanto propagandistica da aver fatto reagire perfino il vicepremier Matteo Salvini che anche ieri ha ripetuto che preferirebbe si “tagliassero piuttosto i mega stipendi Rai”. Con i volti segnati dal dolore e dalla fatica, Alessio Falconio (direttore), Lorena D’Urso e Giovanna Reanda (cdr), Roberto Spagnoli e gli altri “umili cronisti” dell’”organo della lista Marco Pannella” non possono che cominciare la conferenza stampa con il ricordo del “più importante giornalista della storia di Radio Radicale”. “Un maestro di equidistanza se pur sempre fedele alle proprie convinzioni politiche”, un cultore del “confronto franco condotto senza mai denigrare o affossare l’altro”. Un uomo la cui perdita “è incolmabile”. Ma se c’è un modo per onorare una persona che “aveva il gusto della diversità e della differenza”, fa notare Giuseppe Giulietti, è trasformare la commozione in azioni concrete: “Se temete che ci siano strumentalizzazioni da parte dell’Fnsi, dei giornalisti “sciacalli”, dei Radicali e dei cattolici diocesani “parassiti”, e dei perfidi comunisti del manifesto - ha affermato il presidente dell’Fnsi riprendendo gli epiteti cari al populismo grillino - allora scrivete voi della maggioranza l’emendamento al decreto crescita o il provvedimento che possa salvare Radio Radicale”. E con essa, con il suo archivio dal valore inestimabile, il suo modo di fornire un servizio pubblico che ha fatto scuola ma è ancora pur sempre inimitabile, la sua capacità di produrre alto pensiero politico pur rimanendo fuori dalle competizioni elettorali, il suo essere “in una voce tutte le voci”, bisogna salvare anche - e forse soprattutto - il lavoro di 130 persone, tra dipendenti e collaboratori. Ma questa “impresa in attivo che produce cultura va salvata nella sua interezza e non sfogliata come un carciofo”, ha sottolineato Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa romana, riferendosi alle notizie dei giorni scorsi che vorrebbero la Rai in procinto di acquistare le teche e l’immenso archivio di RR (nei giorni scorsi l’assemblea dei cdr e dei fiduciari Rai che si è tenuta ad Assisi ha espresso solidarietà ai lavoratori dell’emittente radicale e ha chiesto di prorogare di almeno altri sei mesi la convenzione con il Mise). “Il 16 marzo scorso e in seguito per altre tre volte abbiamo chiesto un incontro urgente con il ministro del Lavoro Di Maio ma siamo stati totalmente ignorati. Nessuna risposta”, riferisce Lorena D’Urso. “Ci vogliono chiudere e farci anche passare per parassiti, giornalisti che lucrano, che tolgono i soldi al “popolo”, protesta Giovanna Reanda. Eppure, fa notare il direttore Alessio Falconio, “il M5S e la Lega non sono un monolite, come ha evidenziato nei giorni scorsi il senatore pentastellato Primo di Nicola. E mentre due giorni fa in conferenza dei capigruppo, al Senato, leghisti e 5S hanno votato contro una mozione in nostro favore, oggi (ieri, ndr) il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, a maggioranza leghista, ne ha approvata una per salvare Radio Radicale”. Falconio ha invitato tutti a partecipare alla maratona oratoria che si terrà domenica di Pasqua dalle 11 alle 13 in piazza Madonna di Loreto, a Roma, contro i “tagli-bavagli”. “L’impostazione di questo governo è prima cancelliamo la pluralità di voci e poi cominciamo a discutere. Ma l’Fnsi non intende accettare gli Stati generali dell’informazione appena aperti come qualcosa di già scritto”, assicura Lorusso. E Giulietti avverte: “Attenzione, perché prima chiudono Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali di cooperativa e diocesani, poi passeranno alle agenzie (vedi Askanews), poi le emittenti locali e così via. E alla fine, dal 43° posto al mondo nella classifica sulla libertà di stampa di Reporters Sans Frontières arriveremo al fondo della lista”. “Ma perché questa “crociata” contro voi di RR e noi del manifesto, due testate che secondo Emma Bonino non danno alcun fastidio?”, si domanda il direttore editoriale del manifesto Matteo Bartocci, intervenuto anche a nome di Culturmedia Legacoop. “Non solo per quello che fate e facciamo, ma per quello che siete e siamo. Radio Radicale capace di alleanze impensabili e di rotture clamorose ma rimanendo sempre se stessa. E il manifesto cooperativa autogestita di una testata importante e ingombrante”. Che ha mantenuto la definizione di “quotidiano comunista”. Da Casellati ai leghisti, spiragli per Radio Radicale di Giovanna Casadio La Repubblica, 19 aprile 2019 L’appello di Bonino a Conte in Senato: “Sui fondi ripensateci, fate una gara”. Nei giorni dell’addio alla sua voce storica, a Massimo Bordin, Radio Radicale che il governo vuole chiudere - si scopre circondata da amici. All’appello di Repubblica si uniscono in tanti. Parte la staffetta di giornalisti per non spegnere la rassegna stampa che alle 7 e 35 da circa trent’anni Massimo puntuale teneva, esempio di quella regola per cui la libertà di informare e il diritto di sapere sono l’essenza della democrazia. Sarà Francesco Merlo a prenderne il testimone per la prima settimana. Ma il tempo stringe e si tratta di passare dalle parole ai fatti. Tra un mese, il 20 maggio, la convenzione scade e Radio Radicale sarà zittita. La presidente del Senato Elisabetta Casellati rinnova l’appello: “Bisogna scongiurare la paventata chiusura di Radio Radicale salvaguardando il pluralismo dell’informazione. E questo - dice a Repubblica e al Tg5 - è anche il miglior modo per onorare la memoria di Bordin”. In questo senso, anche una proroga di sei mesi della convenzione sarebbe ben vista dalla presidente. L’appello a Conte - Mercoledì sul nostro giornale l’appello al premier firmato da Francesco Merlo - ieri ripreso da Michele Serra - per evitare la chiusura di Radio Radicale, giunto quota 62 adesioni (ultima Sabina Guzzanti), non bastano. Emma Bonino ieri sera nell’aula del Senato si rivolge al premier Giuseppe Conte che ha appena svolto l’informativa sulla Libia. Lo invita a cambiare idea. “Presidente, io la prego di ripensare alla decisione che avete preso: fate una gara... lo dico anche al sottosegretario Crimi. Questa sessione non sarà in diretta su Radio radicale perché per un giorno o forse per due ha deciso di dedicare tutto lo spazio programmato in ricordo di Massimo Bordin. Però sarà dovutamente registrata, archiviata in questo gioiello che è l’archivio di Radio Radicale e potrà essere ascoltata nei prossimi giorni o anni”. Cambiare idea è segno di forza e non di debolezza: ricorda. Dal governo però nessun segnale. A smarcarsi, lasciando aperto uno spiraglio di speranza, è Matteo Salvini, che ne è un ascoltatore fedele: “Io, e lo proporrò anche agli amici 5Stelle, preferirei che chi di dovere tagliasse i mega stipendi in Rai. Ci sono decine e centinaia di persone pagate da tempo per fare poco o niente. Prima di chiudere voci che informano, io andrei a guardare laddove ci sono sprechi di denaro pubblico”, afferma il vicepremier. Tuttavia i leghisti che hanno aderito alla raccolta di firme per la Radio, avviata da Giuseppe &asini, si fermano a 24. Il Guardasigilli grillino Bonafede fa una minima apertura: “C’è sempre spazio per il confronto, ma non mi occupo io personalmente di questa cosa”. E se davvero, sull’onda della commozione per la perdita di Massimo (di cui si terranno stamani a Roma i funerali all’università valdese) il sostegno a Radio Radicale si allargherà, ebbene la prova può essere in Parlamento un emendamento al decreto crescita che proroghi la convenzione per altri sei mesi. Una ipotesi che Paolo Chiarelli, l’amministratore delegato, e Alessio Falconio, il direttore, rilanciano con la Fusi. Radio Radicale. Staffetta di firme per la rassegna di Bordin La Repubblica, 19 aprile 2019 “Comincerà Francesco Merlo di Repubblica, autore dell’appello al premier Conte per scongiurarne la chiusura. Il vicepremier leghista la difende attaccando però la tv pubblica. Una staffetta di firme del giornalismo italiano in memoria di Massimo Bordin, scomparso ieri, per continuare la storica rassegna stampa dal titolo “Stampa e Regime” che l’ex direttore di Radio Radicale faceva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì. Ad annunciarla è stato l’attuale direttore Alessio Falconio, nel corso della conferenza stampa che si è tenuta stamattina per fare il punto sulla difficile situazione dell’emittente. Comincerà per primo l’editorialista di Repubblica Francesco Merlo, che curerà la rassegna domani e per tutta la prossima settimana. Merlo è anche l’autore dell’appello lanciato ieri dalle pagine di Repubblica al premier Giuseppe Conte per salvare la Radio, al quale ha aderito anche il Pd tra le forze politiche. ll 21 maggio finisce, infatti, la convenzione con il governo per la trasmissione delle attività istituzionali. Finora sembrava stesse ancora in piedi la possibilità di una proroga da parte del Mise, ma le parole pronunciate lunedì da Vito Crimi, sottosegretario Cinque Stelle all’Editoria, sembrano vanificare questa ipotesi. E, mentre il Partito Radicale annuncia una manifestazione per la sopravvivenza della Radio (domenica 21 aprile in alle 11 piazza Madonna di Loreto a Roma), si susseguono gli appelli perché l’emittente, fondata nel 1976, non venga chiusa. L’ultimo in ordine di tempo è quello di Amnesty International: “Per chi ha a cuore i diritti umani oltre che l’informazione libera ed indipendente, è un dolore. Radio Radicale è stata non solo per me personalmente ma per tutta Amnesty International una compagna di viaggio in tantissime occasioni, conferenze ed eventi. C’è un archivio di questa radio sui diritti che dovrebbe essere un patrimonio dell’umanità italiana, mentre viene cancellata per motivi direi discutibili è veramente un rammarico”, ha detto il portavoce Riccardo Noury. Anche l’associazione ambientalista Italia Nostra ribadisce che “Radio Radicale non deve essere spenta”. Il vicepremier Matteo Salvini si schiera a favore della radio anche se tramuta la sua difesa in un attacco alla Rai: “Io, e lo proporrò anche agli amici Cinquestelle, preferirei che chi di dovere tagliasse i mega stipendi in Rai”. E aggiunge: “Ci sono stipendi milionari in Rai, ci sono decine e centinaia di persone pagate da tempo per fare poco o niente. Quindi, prima di chiudere voci che informano, io andrei a guardare laddove ci sono sprechi di denaro pubblico”. Quindi Salvini ha rivolto un pensiero a Bordin “che ascoltavo spesso se non sempre”. Da parte sua il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che si era detto d’accordo con la posizione di Crimi, oggi ha ribadito: “Considero il lavoro che Radio Radicale porta avanti da tanti anni preziosissimo. Ieri ho sottolineato che il punto non è togliere il lavoro di trasparenza dei lavori parlamentari”, ha detto il ministro. E a chi gli ha obiettato che così l’emittente chiuderà, ha replicato: “Non mi occupo personalmente della cosa”. Salvini: “Terroristi pronti a partire verso l’Italia”. Conte: “Flussi migratori non imminenti” di Alessandra Ziniti Corriere della Sera, 19 aprile 2019 Il premier relaziona in Senato sulla crisi libica, il ministro dell’Interno ribadisce la linea dei porti chiusi. Il portavoce di Al Serraji: “Il numero di 800.000 profughi è una stima di quello che potrebbe accadere ma al momento controlliamo le frontiere”. Il premier Conte e il ministro dell’Interno rilanciano l’allarme terrorismo e i timori che dalla Libia possano arrivare in Italia centinaia di foreign fighters di ritorno. Conte lo ha fatto oggi riferendo in Senato sulla situazione libica: “ Gli ultimi sviluppi in Libia continuano ad essere motivo di forte preoccupazione. Gli scontri hanno spinto 18 mila persone a lasciare le proprie abitazioni, e la stima delle vittime non può essere affidabile per il difficile reperimento delle informazioni. Anche l’Onu conferma che la situazione potrebbe aggravarsi”. E tuttavia Conte non ritiene che la spinta verso un massiccio flusso migratorio sia imminente. “Ad oggi non emerge un quadro di imminente pericolo per i flussi di immigrazione, al netto delle cifre circolate anche a scopo propagandistico. C’è un rischio di recrudescenza del fenomeno terroristico, teniamo alta l’attenzione anche attraverso i servizi di intelligence”. E sul rischio terrorismo insiste il ministro dell’Interno Salvini per ribadire ulteriormente la sua politica dei porti chiusi al fenomeno migratorio. “E’ chiaro - ha sottolineato il ministro - che ci sono dei potenziali terroristi, anzi dei sicuri terroristi, pronti a partire in direzione dell’Italia, quindi a maggior ragione chi dice ‘porti aperti’ in un momento come questo fa il male dell’Italia e dell’Europa”. Prova a gettare acqua sul fuoco il portavoce del premier libico Al Serraji: “ L’Italia è il più importante partner del governo libico nella battaglia diplomatica per far riconoscere all’Onu e alla comunità internazionale i crimini di guerra di Khalifa Haftar, mettere fine alle ostilità e all’invasione ordinata dal maresciallo, che ha pugnalato alle spalle Tripoli e le Nazioni Unite -dice Mohanned Younis - Il numero di 800.000 profughi è solo una stima di quello che potrebbe accadere con il proseguimento della guerra. Non c’è una minaccia imminente, controlliamo saldamente le frontiere, ma se la guerra continua si potrebbe scatenare il caos e arrivare anche a quelle cifre di persone in fuga verso l’Europa”. Migranti. Mediterranea ha reso pubbliche registrazioni con i libici “che incastrano l’Italia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 aprile 2019 Rese pubbliche le conversazioni tra il centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma e i referenti libici. Intervista ad Alessandra Sciurba, coordinatrice del team legale. Mediterranea ha reso pubbliche le conversazioni tra il centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma e i referenti a Tripoli acquisite durante le indagini difensive nel procedimento che riguarda Luca Casarini, capo della missione, e Pietro Marrone, comandante della Mare Jonio Cosa avete denunciato? Queste conversazioni presentano dei profili inquietanti. Dalla centrale operativa libica non meglio definita risponde un signore che non parla inglese, non ha idea di cosa sta chiedendo il centro di coordinamento italiano e mentre la gente rischia la vita in mare riesce solo a dare il numero di un tale Moustapha. Chi è? Non si capisce bene ma diventa il protagonista della storia perché è il personaggio che da Roma cercano disperatamente. Tutta la conversazione avviene a bordo della nave militare Carpi, facente parte della missione Naures. Ufficialmente dovrebbe fornire solo supporto logistico, ma è da lì che rispondono al telefono. Poi che succede? Dal centro di coordinamento di Roma cercano insistentemente un libico. Dopo molto tempo arriva questo Moustapha, praticamente solo quando c’è da firmare il documento trasmesso successivamente alla Mare Jonio. Da alcune affermazioni come “ho messo la data 18 marzo 2019” sembra potersi desumere che almeno in parte non sia stato compilato dai libici, nonostante lo abbiano firmato loro. Peraltro a noi è stato inoltrato per nome e per conto della guardia costiera libica dall’Italia. Quelle telefonate fanno capire come è stato scritto e questo apre tante domande. Per esempio? Per esempio sul ruolo ambiguo svolto dalle autorità italiane e su quello assolutamente insufficiente dei libici. Noi abbiamo depositato le registrazioni alla Procura di Agrigento affinché vengano fatti degli approfondimenti. Potrebbero profilarsi responsabilità gravissime. In che senso? Se negli ultimi tempi le cose sono state gestite in questo modo potrebbero venire a galla responsabilità strutturali nei casi di stragi in mare in cui non sono stati effettuati soccorsi. Questa storia la conosciamo attraverso le indagini che ci riguardano, ma viene il dubbio che potrebbero esistere altre segnalazioni a cui dalla Libia viene risposto senza la capacità di comprenderle o a cui magari non segue alcun tipo di azione. Se poi il ruolo dell’Italia fosse così centrale, nei casi in cui delle persone sono morte o sono state riportate in Libia, e per questo costrette a subire trattamenti inumani e degradanti o torture, si profilerebbero dei crimini contro l’umanità che secondo lo Statuto di Roma devono essere trattati dalla corte internazionale dell’Aja. Per ora sono indizi, ma andranno valutati. Ieri è arrivata a bordo la direttiva “ad navem” firmata dal ministro Salvini. La missione Mediterranea continuerà? Certamente. Non abbiamo paura delle indagini che ci riguardano, anzi. Nonostante noi non godiamo di alcuna immunità, abbiamo un atteggiamento collaborativo e vogliamo venga fatta luce su ciò che accade. Ci preoccupa di più il tentativo del governo italiano di cambiare i trattati internazionali svelato dall’inchiesta pubblicata ieri da il manifesto. Pare che siccome le Ong rispettano il diritto internazionale, adesso vogliono cambiarlo. In ogni caso in Libia c’è un conflitto militare e una crisi umanitaria di cui nessun governo si sta occupando. Davanti al rischio di migliaia di morti non si può rimanere fermi. Bisogna stare nel Mediterraneo anche perché lì si gioca una partita epocale rispetto alla tenuta dello stato di diritto, al valore dei diritti fondamentali e al rispetto dei principi costituzionali. Una partita che non riguarda solo “i migranti”, “gli altri”, ma tutti noi, le nostre istituzioni e la nostra società. Nostro malgrado le navi della società civile si sono ritrovate protagoniste di questo scontro. Non ci si può tirare indietro adesso. Libia. Onu: “Migliaia di migranti rischiano la vita, bloccati nei centri di detenzione” di Paolo Lambruschi Avvenire, 19 aprile 2019 Almeno 3.000 sono ancora nelle strutture nelle zone interessate dal conflitto intorno a Tripoli. E la situazione è sempre più confusa. Nuovo allarme umanitario per i migranti bloccati nei centri di detenzione a Tripoli, sulla linea del fronte. Lo hanno rilanciato l’Onu, l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e le Ong impegnate su terreno. In particolare l’italiana Intersos, che opera con personale italiano e libico in un centro per minori con un progetto finanziato dall’Unicef. L’Alto commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha ribadito che il conflitto provocherà nuove partenze perché i centri sono stati abbandonati dai miliziani andati a combattere e i profughi in cella hanno bisogno di tutti i servizi essenziali. Federico Prelati è il capo missione in Libia di Intersos. Con altri due connazionali espatriati è stato evacuato dalla Farnesina a Tunisi, quando le truppe di Haftar hanno attaccato la capitale libica e da lì sta seguendo il lavoro dell’equipe composta da 12 cittadini libici per rispondere alla crisi umanitaria generata dal conflitto con due team mobili. Da domenica scorsa cercano di raggiungere e supportare le famiglie e i bambini che cercano rifugio nei ripari di emergenza che, spontaneamente, si stanno creando nelle scuole, nelle moschee e nelle municipalità. “Una parte dei centri nella zona dei combattimenti è stata evacuata e ricollocata in altre prigioni. La fascia più a rischio è costituita dai migranti, perché sono i più poveri. La popolazione locale ha maggiori risorse e può contare su parenti e amici. Noi comunque stiamo rispondendo alle esigenze degli sfollati dalle zone di conflitto con due centri mobili”. Intersos sta inoltre collaborando a un progetto per aiutare i bambini vulnerabili e le loro famiglie. “Abbiamo chiuso il centro, ma cerchiamo di distribuire i generi di prima necessità e tenere corsi di educazione non formale di lingua e matematica a circa 600 ragazzi subsahariani. Parlano poco l’arabo, sono francofoni e quindi a rischio integrazione”. Sono arrivati in Libia al massimo da tre mesi, spesso gli adulti che li accompagnano e che dichiarano di essere i genitori non lo sono. Le famiglie li affidano a conoscenti in partenza per portarli in Libia a lavorare e mandare soldi a casa. Ma ora l’Europa è di nuovo la méta, vista la situazione impraticabile. Secondo il portavoce dell’Oim per il Mediterraneo, Flavio Di Giacomo, “ci sono al momento meno di 3mila migranti nei centri di detenzione vicini ai luoghi sotto attacco e siamo chiaramente preoccupati. Sarebbe necessario farli uscire dai centri affinché possano essere messi sotto protezione”. Nonostante gli scontri armati, l’Oim è riuscita a far uscire rispettivamente 188 e 136 persone con il programma di Ritorno volontario umanitario. Nel contesto attuale si tratta di un’evacuazione di fatto che ha permesso di mettere in sicurezza persone in pericolo nell’area di Tripoli. Tutti i migranti erano originari dell’Africa occidentale. Lunedì l’Acnur ha ricollocato altri 150 rifugiati detenuti ad Abu Selim, a sud di Tripoli, perlopiù donne e bambini portati nella struttura di accoglienza dell’organizzazione, che si trova nel centro della capitale libica, al riparo dalle ostilità. È stata la seconda operazione di trasferimento in due settimane. La settimana scorsa altre 150 persone erano state spostate dalla galera di Ain Zara al Gdf, che al momento ospita oltre 400 persone ed è pieno. I team medici di Msf stanno anche fornendo kit per l’igiene in diversi rifugi per le famiglie libiche sfollate e hanno donato kit per feriti di guerra a due ospedali, uno a Tripoli e uno a sud della città. L’Ong è preoccupata per un gruppo di oltre 80 pazienti trasferiti due mesi fa in un centro di detenzione a Sirte, molti dei quali in gravi condizioni mediche, perché non è più possibile fornire loro visite e cure mediche. A causa del conflitto, infatti, tutti i trasferimenti medici gestiti da Medici senza frontiere dai centri di Khoms, Zliten, Misurata, Beni Walid e Sirte verso gli ospedali di Tripoli non sono più possibili. Restano circa 2.700 rifugiati e migranti nei centri dell’area dei combattimenti a rischio della vita. Oltre a quelli rimasti ad Abu Selim, le altre prigioni sulla linea del fuoco, in situazione di pericolo, sono Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tagiura. L’Acnur ha tentato di trasferire tutti i 728 detenuti di Qasr Bin Ghasheer nel più sicuro centro di Zintan. Ma i rifugiati eritrei detenuti da tempo hanno chiesto aiuto e inscenato una protesta per venire trasferiti fuori dalla Libia. “È una corsa contro il tempo - ha dichiarato l’assistente del capo missione in Libia, Lucie Gagne -. Abbiamo bisogno urgentemente di soluzioni per le persone intrappolate in Libia. Servono soprattutto i corridoi umanitari per trasferirli in sicurezza fuori dal Paese”. I torti, le debolezze e l’ambigua tregua in Libia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 19 aprile 2019 La crisi conferma che il sostegno dell’Onu conta poco. In ogni caso meno dell’appoggio ad Haftar di Egitto, Arabia Saudita, Emirati, Francia e sullo sfondo la Russia. La parola “tregua” sembra essere la più adatta ad affrontare momenti di tensione come quelli prodottisi con l’attacco a Tripoli del generale Haftar iniziato nella notte tra il 3 e il 4 aprile. Ma è solo apparenza. In realtà il termine “tregua” contiene qualcosa di ambiguo, ambiguità che indebolisce la prospettiva di una pur momentanea pacificazione. Prima di tutto perché accantona la distinzione tra aggressori (Khalifa Haftar) e aggrediti (Fayez Al Sarraj). Poi perché trascura il fatto che Sarraj, alla guida di un “governo di salvezza nazionale” riconosciuto dalle Nazioni Unite, può vantare titoli di legittimità del tutto sconosciuti ad Haftar. Infine perché la richiesta di un “cessate il fuoco” sorvola sulla circostanza che quindici giorni fa le truppe dell’Esercito nazionale libico hanno percorso mille e cinquecento chilometri per portarsi alla periferia di Tripoli da dove hanno iniziato a cannoneggiare la capitale. Sicché queste milizie hanno occupato un’area assai vasta del Paese, area che - lo sappiamo fin d’ora - in caso di sospensione delle ostilità, non verrebbe certo restituita, o comunque non del tutto, al regime aggredito. L’attuale crisi libica conferma poi che il sostegno delle Nazioni Unite conta assai poco. In ogni caso meno dell’appoggio dato ad Haftar da Egitto, Arabia Saudita, Emirati, Francia e sullo sfondo la Russia di Putin. Ancora una volta si ha la prova del fatto che le decisioni prese nel palazzo di vetro valgono solo nel caso in cui, sotto le bandiere dell’Onu, siano disponibili a mobilitarsi le truppe americane. Qualora invece gli Stati Uniti rinuncino a costituirsi in braccio armato delle Nazioni Unite, l’organizzazione preposta alla difesa della pace mondiale è del tutto ininfluente. Anzi dannosa dal momento che è proprio in frangenti come questo che si scopre quanto sia incosciente che le Nazioni Unite abbiano incoraggiato regimi come quello di Sarraj a compiere passi arditi nella rassicurante ma ingannevole prospettiva che, in caso di bisogno, qualcuno si sarebbe mosso in loro soccorso. E quanto le stesse Nazioni Unite abbiano offerto a Paesi come il nostro l’altrettanto erronea sensazione che sotto le bandiere della legittimità internazionale fosse possibile aiutare qualche leader arabo a costruire uno stabile futuro. Avessimo saputo che questo futuro si sarebbe risolto in una lunga e defatigante trattativa con Haftar e che al termine di questa trattativa avremmo dovuto assistere impotenti ad un’aggressione al governo legittimo, forse non ci saremmo imbarcati nell’”avventura di pace” che ha avuto inizio con l’apertura della prima ambasciata a Tripoli. Inutile aggiungere che anche l’ Europa è alle solite: l’indisponibilità a muoversi sul terreno militare in ragione dei veto più o meno espliciti di qualche Paese (in questo caso, la Francia) dà prova dell’inesistenza politica del nostro continente a fronte di una qualche crisi. Al cospetto di tali difficoltà avrebbe valore solo la parola di potenze che al momento opportuno siano in grado di disporre della forza sullo scacchiere che sta per essere travolto. Chi invece può al massimo offrire una propria città come sede per i colloqui di pace dà soltanto prova della propria ininfluenza. Patetica ininfluenza: le proposte di chi è costretto ad essere equidistante tra i contendenti - in questo caso l’asse sunnita tra Haftar, al Sisi, re Salman da una parte e dall’altra Sarraj con il turco Erdogan e l’emiro del Qatar Hamad Al-Thani - di chi non è capace di prendere iniziative anche in situazioni come questa in cui è evidente da quale parte siano le ragioni e da quale i torti, può solo produrre iniziative che valgono meno di niente. E le soluzioni che prima o poi verranno trovate - ammesso che ci si riesca - saranno per loro natura instabili e portatrici di nuovi squilibri. Tanto più se - come in questo caso - i vari soggetti europei nelle prime ore, anzi nei primi giorni dell’aggressione sono rimaste a guardare dando l’impressione di volersi regolare in un modo o nell’altro a seconda che il colpo di mano dell’uomo della Cirenaica avesse o meno avuto successo. Se la legge internazionale era (come era) dalla parte di Sarraj, avremmo dovuto stare al suo fianco anche nel caso fosse stato sconfitto. Può essere, infine, esagerata la cifra quantificata dal vicepresidente del Consiglio di Tripoli Ahmed Maitig e dallo stesso Sarraj di ottocentomila profughi che - in conseguenza del conflitto - da un momento all’altro potrebbero imbarcarsi dalle coste libiche alla volta dell’Italia. Ma fossero anche soltanto una minima parte dei ventiquattromila sfollati di questi giorni o dei quattrocento prigionieri dell’Isis detenuti nelle carceri di Tripoli e Misurata ai quali il caos potrebbe offrire qualche opportunità di evasione, avremmo ampiamente di che preoccuparci. E non sarà certo l’inadeguato dibattito sulla chiusura dei porti italiani a offrirci motivi di rassicurazione. A Tripoli il fronte che blocca Haftar “Il generale ci ha tradito ma perderà” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 aprile 2019 Il capitano Mujrab guida la resistenza di Sarraj all’attacco contro la capitale. A venti minuti dal centro gli ultimi posti di blocco volanti della polizia assieme ai giovani miliziani in mimetica. Da soldato semplice della rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a comandante di una delle più importanti milizie che combattono le truppe di Khalifa Haftar nelle periferie della capitale. La biografia del 46enne capitano Khaled Mohammad Mujrab è anche il ritratto di tanti dei volontari che oggi stanno dalla parte del governo di Fayez Sarraj in questa guerriglia, che per molti versi ricorda le dinamiche di otto anni fa. “Anche oggi ci sono lotte interne, crescono gravi divisioni tra libici e di cui approfittano potenze straniere. Un elemento che ci fa paura però adesso è il grido di vendetta che arriva dai nostri nemici. Tra loro ci sono tanti ex combattenti che sostenevano Gheddafi e ora vorrebbero vendicarsi contro di noi a Tripoli”, ci spiega nell’ufficio della sua base delle Forze Speciali di Sostegno: oltre 800 uomini ben addestrati per coadiuvare le altre milizie originarie della capitale. “Nel marzo 2011 ero ancora un ingegnere civile. La passione per la libertà mi prese come una fede, capii che potevamo finalmente ribellarci contro il regime dittatoriale. Mi unii alle milizie che si erano create tra berberi e arabi sulle montagne di Nafusa e nella zona di Zintan”, racconta. Dopo la fine dei combattimenti lui non smobilita. “Mi chiesero di restare. C’era bisogno di uomini per garantire la sicurezza delle prime elezioni democratiche nel 2012. Accettai. Poi ho partecipato ai primi tentativi nel 2014 di creare un comando unificato delle varie forze militari nella regione della capitale, ho visto crescere le tensioni con le milizie di estremisti islamici scappati dalla Cirenaica. Ho combattuto due mesi nel 2016 con le milizie di Misurata contro Isis a Sirte”. Oggi l’ormai comandante veterano Mujrab accusa Haftar di aver tradito. “Due settimane prima della sua decisione di lanciare il suo attacco militare Haftar mandava i suoi ufficiali a coordinarsi con noi. Miravamo a creare un comando unico tra Tripolitania e Cirenaica. Invece ci ha pugnalato alle spalle. Ma sarà lui a perdere. Credeva di poter prendere Tripoli in poche ore e si sta dissanguando”. È lui ad accompagnarci con la sua vettura sul fronte. Sono sufficienti venti minuti di viaggio dal centro di Tripoli per raggiungere gli ultimi posti di blocco volanti della polizia assieme ai giovani miliziani in mimetica. Siamo nel quartiere conteso di Ain Zara, da qui in poi sono tre chilometri chiusi al traffico civile per giungere sulla prima linea. Ogni trecento-quattrocento metri la strada è bloccata da sbarramenti di terriccio alti un paio di metri. “Garantiscono avanzate e ritirate flessibili”, spiega Mujrab. Gli abitanti sono tutti evacuati,non c’è edificio che non sia danneggiato. Si vedono tracce per lo più di proiettili di piccolo calibro. Ogni tanto però il selciato e le zone attorno sono devastati anche da crateri di colpi di carri armati e bombe aeree. Si vedono uomini accovacciati nelle stradine laterali, bivacchi improvvisati, cecchini sui tetti, rottami d’auto pronti per erigere barricate volanti. Quando arriviamo sulla linea estrema del fronte i miliziani stanno sdraiati con i Kalashnikov al fianco. Da alcuni garage aperti spuntano le torrette di un paio di vecchi tank. “Noi siamo stati in grado di resistere”, esclama il capitano. Yemen, il colera dilaga: 2.500 contagi al giorno di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 aprile 2019 Si aggrava l’emergenza colera in Yemen dove a marzo,si sono registrati 2.500 contagi al giorno, un aumento esponenziale rispetto ai 1000 contagi giornalieri registrati in media a febbraio. Ai ritmi attuali entro l’anno sarà superato il picco del 2017, il più grave mai registrato al mondo. Intanto è lotta contro il tempo per salvare 40.000 persone intrappolate in aree sempre più difficili da raggiungere, a causa degli scontri e delle restrizioni imposte dalle parti in conflitto. Di qui l’appello urgente alla comunità internazionale per la creazione di canali umanitari. A denunciarlo è Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale. “Il nuovo picco di colera potrebbe peggiorare ancora, con l’imminente arrivo della stagione delle piogge - ha denunciato Paolo Pezzati policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - nuove inondazioni andrebbero a contaminare ulteriormente le poche fonti d’acqua disponibili, accelerando la diffusione della malattia. Al momento stiamo assistendo ad un numero di nuovi casi di colera e relativi decessi, 10 volte superiore a quello registrato nello stesso periodo del 2018”. Dall’inizio dell’epidemia di colera nel 2016, più di 3.000 persone sono morte e oltre 1,3 milioni sono state contagiate. Il picco dell’epidemia è stato raggiunto nel giugno del 2017, con una media di circa 7.000 nuovi casi sospetti identificati al giorno. Una catastrofe di tale proporzioni da portare a fine del 2017 l’OMS a definirla “la più grave della storia”. Una tragedia che adesso rischia di ripetersi. Oxfam ha infatti calcolato che se i nuovi casi sospetti continueranno a crescere ai ritmi attuali per il resto dell’anno, sarà sicuramente superato il picco epidemico del 2017. “In oltre quattro anni di guerra il popolo yemenita ha già subito la più grave epidemia di colera di sempre e il crollo dell’economia del Paese - ha proseguito ancora Pezzati -. Permettere a questa malattia di diffondersi di nuovo, causando altre vittime innocenti ed evitabili, sarebbe una nuova, vergognosa macchia sulla nostra coscienza. La comunità internazionale deve intervenire al più presto per garantire che gli aiuti umanitari e le organizzazioni sul campo, come Oxfam, possano raggiungere tutte le persone che hanno bisogno di cure e lavorare per prevenire il contagio tra le comunità più vulnerabili”. Al momento oltre 38.000 persone - tra le 195.000 sospettate di aver contratto la malattia nelle ultime settimane - si trovano in aree sempre difficili da raggiungere per le organizzazioni umanitarie. All’inizio di aprile Oxfam è stata costretta a spostare il proprio ufficio a Shafer, nel governatorato settentrionale di Hajjah, mentre i combattimenti raggiungevano la periferia della città. Da qui, nonostante l’intensificarsi del conflitto, sta continuando a fornire acqua pulita e cibo a oltre mezzo milione di persone nei distretti vicini. Nell’ultimo periodo i combattimenti si sono intensificati su vari fronti in tutto il Paese, compresi i distretti di Hudaydah, Taizz e Hajjah, dove sono stati registrati la maggior parte dei decessi per il colera. Il conflitto in corso via terra, i raid aerei e le restrizioni per la distribuzione degli aiuti stanno lasciando 14 milioni di persone sole ad affrontare la carestia. In tutto il paese, al momento, quasi la metà di tutti i bambini tra i sei mesi e cinque anni è cronicamente malnutrita. “Acqua pulita e servizi igienici adeguati sono essenziali per prevenire il colera - ha rilevato ancora Pezzati -, ma al momento 17,8 milioni di persone, secondo le stime delle Nazioni Unite, non hanno accesso ad acqua sicura, perché i sistemi idrici e fognari sono distrutti o danneggiati. A questo si aggiunge che, con solo poco più della metà delle strutture sanitarie e degli ospedali in funzione, in tantissimi non hanno accesso alle cure o non possono permettersi il costo del trattamento. In un Paese dove i servizi pubblici non esistono quasi più, il lavoro delle organizzazioni per portare acqua potabile, cibo e assistenza medica alla popolazione, è oggi più cruciale che mai. I ritardi imposti alla distribuzione degli aiuti stanno mettendo a rischio la vita di un milione di yemeniti, già stremati da oltre quattro anni di guerra”. In questo momento Oxfam e i suoi partner locali sono impegnati nel contenere la diffusione del colera nei governatorati di Amran, Taiz e Al Dale’e, attraverso l’istallazione di sistemi sanitari e la distribuzione alla popolazione di acqua pulita, sapone, detersivo, bacinelle e taniche. Oxfam sta anche aiutando le autorità sanitarie locali a diffondere informazioni su come il colera viene trasmesso, i suoi sintomi e su come è possibile prevenirlo.