Carceri: una bomba ad orologeria di Valter Vecellio lindro.it, 18 aprile 2019 Al ministero della Giustizia sanno perfettamente qual è la situazione: oltre 60mila detenuti; una capienza inferiore a 47mila posti. I conti sono presto fatti: la differenza è: 13mila. Se poi si vuole fare entrare sessantamila in 47mila, è evidente che si sfidano le leggi della fisica. Nel caso delle carceri italiane, è una situazione più volte sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; e altre volte accadrà, inevitabilmente. L’aspetto più vistoso di questa situazione è l’aumento esponenziale dei suicidi in cella: nel 2018 sono stati 64. Nessuno sembra preoccuparsene più di tanto. Accade. È già accaduto; tutto fa pensare che continuerà ad accadere. Non solo il ministero della Giustizia, che dovrebbe preoccuparsene istituzionalmente. Non fanno una piega l’intero Governo, ma più in generale la classe politica: appartengano, i suoi esponenti, alla maggioranza o all’opposizione. La Giustizia in generale, la situazione esplosiva delle carceri nello specifico, non fanno parte dell’agenda politica di nessuno. Ciclicamente si promette la costruzione di nuove carceri. A parte i tempi, che non sono esattamente rapidi, nuovi istituti di pena sarebbero i classici pannicelli caldi, un’aspirina quando si è ammalati di polmonite. Sempre ciclicamente si parla di misure alternative da far scontare a quanti sono condannati a pene minori. Lo capisce anche un bambino che è sbagliato far convivere un assassino o un affiliato a qualche organizzazione criminale a un piccolo truffatore. Si doveva sanare la piaga sanguinante da sempre dei processi interminabili: assicurare una giustizia rapida risolve in parte il problema dei detenuti in attesa di giudizio, che poi - in almeno la metà dei casi - sono dichiarati innocenti. Niente. Si è fatto cenno ai suicidi in carcere: nel 2018 sono stati 64; altri 1.200 ci hanno provato. Si ammetta pure che la metà ha voluto solo fare il ‘gesto’: rimangono gli altri seicento, salvati dagli agenti della polizia penitenziaria, che anche loro vivono da detenuti: in condizioni, cioè, di perenne tensione ed esaurimento. Una storia è quanto mai emblematica, quella di un ventenne egiziano Hassan S.; gli mancano appena 47 giorni, poi esce. Un mese e mezzo e poi avrebbe saldato per intero il suo conto con la giustizia. Li conta quei giorni: nella cella del carcere di Viterbo dove è rinchiuso, ha inciso una data: 9 settembre 2018, il giorno della liberazione. Qualcosa si rompe prima, nella testa di Hassan. Il 23 luglio viene rinchiuso in isolamento per una perquisizione a cui si è opposto. Due ore dopo Hassan sfila i lacci dalle scarpe, li legati alla grata d’areazione del bagno, forma un cappio, ci infila il suo collo. È troppo chiedersi come mai Hassan non ha voluto aspettare 47 giorni? Il suo, è rubricato come il suicidio numero 29 del 2018; il secondo in pochi mesi a Viterbo. 64 suicidi. Era dal 2011 che non si registrava una cifra così alta. Spie, sintomi, di qualcosa che non funziona. Ai 64 dossier dei suicidi del 2018 se ne devono aggiungere altri dieci, relativi a questi primi quattro mesi del 2019: una media di più di uno la settimana: Pier Carlo A., 48 anni, suicida il 24 marzo 2019, Milano San Vittore; Michele S., 78 anni, suicida il 17 febbraio 2019, Taranto; Adelaja A., 40 armi, suicida il 7 febbraio 2019, Verona; Andrea D.N., 36 anni, suicida il 21 maggio 2018, Viterbo… Nell’ultima relazione del Garante dei diritti dei detenuti presentata al Parlamento, cifre che raggelano: oltre ai suicidi, e ai tentati suicidi (1.197 nel 2018); gli atti di autolesionismo sono cresciuti esponenzialmente, passando dai 6.889 del 2014 ai 10.368 dello scorso anno. Il tasso di suicidi tra i detenuti che è 20 volte superiore a quello della popolazione libera; tra i paesi europei è il rapporto più sbilanciato: in Francia è 12,6 volte superiore rispetto all’esterno; in Svezia 9,3; in Spagna appena il 4,7. È Napoli Poggioreale a detenere il record di decessi (cinque), seguito dalla casa circondariale di Cagliari (quattro) e da quelle di Civitavecchia e Verona (tre in entrambe). Un dato che dovrebbe far pensare, e che i più “fragili” non sono coloro che hanno davanti l’ergastolo o condanne lunghissime: un terzo dei casi (20 su 64) riguarda chi era sul punto di uscire: a 17 detenuti mancavano meno di due anni, addirittura per tre di loro era questione di mesi. L’età media è intorno ai 37 anni. S’è fatto cenno alle condizioni di vita degli agenti della polizia penitenziaria anche per loro la vita è dura. In media, ogni anno si tolgono la vita sette agenti: “Siamo lasciati da soli, senza paravento né tutele”, dice Donato Capece, segretario del sindacato Sappe. “Siamo 41.250 agenti, ma in servizio effettivo 35mila, e ciò implica negare al personale i riposi, le ferie, la dignità del posto di lavoro”. È la sindrome da burnout: colpisce le “professioni dell’aiuto”, come i poliziotti, vigili del fuoco, medici, insegnanti, infermieri. Esplode quando non si riescono ad ottenere risultati proporzionati allo stress patito. Quando passi la tua vita in carcere, e non vedi migliorare niente. 41bis, colloqui consentiti anche ai Garanti locali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2019 Lo ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Perugia. L’ordinanza fa riferimento al comma 2 dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario che “ha inteso estenderla senza limitazioni di alcun tipo, come consentito ai difensori”. La riforma dell’Ordinamento penitenziario permetterebbe ai detenuti al 41bis di effettuare i colloqui riservati e senza vetri divisori anche con i garanti dei detenuti territoriali e non solo esclusivamente con quello nazionale. L’ultima parola, sempre se il Dap non faccia nuovamente ricorso, è del tribunale di sorveglianza di Perugia che ha deciso in sede di rinvio dopo l’annullamento della Corte di Cassazione. Quest’ultima, infatti, a luglio dell’anno scorso, aveva annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia che ha consentito al Garante regionale dei detenuti di Lazio e Umbria, l’ex presidente di Antigone Stefano Anastasìa, di effettuare un colloquio riservato con un detenuto, all’epoca detenuto al 41bis a Spoleto e ora ristretto al carcere di Viterbo. L’istituto di Spoleto aveva negato al Garante di Lazio e Umbria il permesso di incontro riservato. Contro la decisione, nell’interesse del detenuto, era stato fatto ricorso al magistrato di sorveglianza di Spoleto che gli dato ragione. Il Dap, ritenendolo un pericoloso precedente, ha proposto appello al tribunale di sorveglianza di Perugia che ha confermato il provvedimento del giudice spoletino. Di diverso avviso la Cassazione che ha annullato l’ordinanza, sottolineando che le forme incondizionate di interlocuzione con i detenuti al 41bis siano appannaggio esclusivamente del Garante Nazionale. Ma il tribunale di sorveglianza ha riesaminato il caso ribadendo la sua posizione. Ma con un’aggiunta interessante. A seguito dell’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento penitenziario, il collegio ha ritenuto di dove confermare il provvedimento riguardo al profilo della esclusione dell’autorizzazione, del controllo uditivo e del vetro divisorio per i colloqui effettuati dai garanti anche locali dei detenuti. Infatti, la recente modifica del comma 2 dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che “i detenuti e gli internati hanno diritto a conferire con il difensore… sin dall’inizio della esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto ad avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti”. In tal modo - come si legge nell’ordinanza del tribunale di sorveglianza - “il legislatore ha inteso estendere a tutti i garanti la possibilità di svolgere colloqui con i detenuti senza limitazioni di alcun tipo, come consentito ai difensori”. Il tribunale ha quindi preso atto di quanto evidenziato e ha confermato l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Spoleto. Ora sembra messa la parola fine alla lunga diatriba dove da una parte c’è, appunto, la battaglia intrapresa dal Garante regionale Stefano Anastasìa il quale parla dell’importanza dei colloqui riservati, perché un detenuto al 41bis dovrebbe avere la possibilità di denunciare eventuali abusi senza che i comandanti di reparto o direttore penitenziari lo sappiano immediatamente; dall’altra, invece, c’è chi si oppone perché un garante potrebbe diventare - anche inconsapevolmente - un veicolo di messaggi mafiosi per l’esterno. Va specificato che, dopo l’adesione dell’Italia alla Convenzione Onu del 2002, la quale prevede che ogni Stato abbia una figura istituzionale che possa effettuare colloqui riservati con i detenuti, nel 2014 il nostro Parlamento ha previsto l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale con l’emanazione di un apposito regolamento, dove è riconosciuta questa prerogativa: quella di poter parlare in via riservata anche con i detenuti al 41bis. Compito che, appunto, spetterebbe al Garante nazionale. La riforma dell’ordinamento penitenziario ha allargato la possibilità a tutti i garanti, dando così la possibilità al detenuto di sentirsi libero di esprimere le proprie doglianze senza subire condizionamenti di alcun genere. Dai biscotti alle cene di gala: il valore aggiunto del lavoro dietro le sbarre di Corrado Fontana valori.it, 18 aprile 2019 Decine di imprese nelle carceri italiane. Migliaia di lavoratori che traggono reddito (e dignità). Il lavoro e le misure alternative riducono la recidiva. Un biscotto può essere buono non solo per il suo sapore al palato. Ma anche per il valore sociale che cela. Se a realizzarlo sono i detenuti o ex detenuti (minori o adulti) che lavorano in una delle molti carceri italiane. L’economia carceraria è ricca di potenziale e di “biodiversità”. Produce biscotti, ma anche capi d’abbigliamento, oggetti d’arte per la casa. Di cui non contano solo fattura e stile. Ma il valore sociale prodotto dal lavoro di chi sta scontando una pena. Sono decine le imprese nate in prigione e migliaia i lavoratori che ogni giorno da queste imprese traggono reddito, crescita professionale, opportunità di reinserimento e dignità. Su circa 60mila detenuti in Italia (numero esorbitante che è valso da poco all’Italia una condanna del Consiglio d’Europa), ben 17.600 lavorano. Stando poi ai dati dell’ultimo osservatorio pubblicato dall’associazione Antigone sulle condizioni negli istituti di pena, “il numero dei detenuti che lavorano per soggetti diversi dall’Amministrazione penitenziaria è aumentato, seppur di poco, passando dall’11,81% del 1991 al 13,48% del 2017) […] Tra i lavoranti (2.480), a fine 2017 vi erano 766 semiliberi, 765 detenuti in art.21, 246 detenuti alle dipendenze di imprese (di cui 195 al Nord) e 703 di cooperative (di cui 195 al Nord)”. Un arcipelago di iniziative imprenditoriali difficile da fotografare. Anche se lo stesso ministero della Giustizia propone, sul suo sito internet, una sorta di censimento ragionato - ad oggi incompleto - in cui vengono catalogati centinaia di prodotti. Una vetrina che individua ogni istituto di pena e suddivide le realizzazioni disponibili in 19 categorie merceologiche. A farla da padrone sono le 103 occorrenze dell’ambito alimentare. Ma si trovano arredamento, abbigliamento, cosmetici, giocattoli, piante, presepi, strumenti musicali. Di ogni prodotto è stilata una scheda informativa piuttosto dettagliata e corredata di immagini. Consentendo così di conoscere caratteristiche tecniche, destinazione d’uso e sede carceraria di fabbricazione, nonché qualche contatto utile a raggiungere chi quel prodotto realizza ed eventualmente commercializza. Purtroppo però ancora non esiste la parte di shopping online. E se, come indicano alcune ricerche recenti, il lavoro e le misure alternative riduce significativamente i tassi di recidiva, cresce anche l’interesse per le iniziative che formano una vera economia carceraria. Già ospitata in eventi come Fa’ la cosa giusta! e recentemente oggetto di un festival dedicato o un progetto come Re(IN)clusi di Semi di libertà e ItaliaCamp per misurare e valorizzare l’impatto socio-economico positivo del lavoro. Delle potenzialità e del dinamismo dell’economia carceraria ci si accorge andando a scoprire una giovane cooperativa (Rigenerazioni Onlus) che opera da soli tre anni con il carcere minorile Malaspina di Palermo. Si chiama Cotti in Fragranza e inizia la sua attività dal laboratorio di prodotti da forno attivo all’interno dell’istituto penale. Ma senza trascurare uno studio di fattibilità e un business plan, come farebbe qualsiasi startup. Impiegando i minori detenuti e assumendoli una volta usciti come responsabili, sviluppando anche attività d’inclusione sociale per migranti. E così, dopo i primi passi compiuti nella distribuzione locale delle piccole botteghe biologiche e solidali i suoi frollini - grazie al sostegno di Lega Coop - raggiungono gli scaffali della grande distribuzione. Avvia collaborazioni fruttuose, come il progetto di co-marketing in abbinamento allo zibibbo di Tenute Orestiadi o la joint venture col turismo etico di Addio Pizzo Travel, ed entra nel negozio Freedhome di Torino, che vende tutte le eccellenze prodotte all’interno delle carceri italiane. E poi a Bologna e Genova nelle gelaterie di È Buono, primo franchising sociale d’Italia. Collabora con diversi Gruppi di acquisto solidale e oggi distribuisce i suoi prodotti in poco meno di 100 punti vendita italiani. Ma anche presso sette rivenditori situati in Belgio, cinque nella capitale Bruxelles. Nel cuore dell’Europa. Cotti in Fragranza mostra insomma un’intraprendenza notevole, animata innanzitutto dalla tenacia sorridente di due donne, Lucia Lauro e Nadia Lodato, nonché dalla sapienza dello chef Francesco Gambino. Tanto che la cooperativa ha appena fatto la scommessa più coraggiosa creando un nucleo operativo fuori dal carcere, dove ha trasferito attività di packaging, l’organizzazione dei catering, la realizzazione di una linea di fresco e cibi da asporto. Un nucleo situato nella Casa San Francesco, palazzo storico del ‘600 deputato all’accoglienza di persone a rischio di vulnerabilità sociale, nel pieno centro storico turistico di Palermo. E i numeri sembrano dare ragione alla volontà. Nel 2018, in circa un anno di attività, sono stati oltre 30mila i pacchi di biscotti venduti, per un totale di circa 9 tonnellate di prodotto. E nel 2019 il trend sembra confermarsi, con una crescita dei servizi di produzione del fresco su ordinazione, che valgono già una fetta superiore al 15% del bilancio annuale. Come Cotti in Fragranza ci sono altre realtà imprenditoriali coraggiose. Capaci di dare un senso a formule come “economia solidale e alternativa” o “rieducazione carceraria”, pur senza lesinare sulla qualità. Esperienze di punta come il ristorante In Galera nel carcere per adulti di Bollate, alle porte di Milano, nato dal lavoro di Abc catering, cooperativa sociale di cuochi professionisti. E da direzioni penitenziarie illuminate. Capaci di dar vita a un’impresa di ristorazione che nel 2018, dopo un picco di 12.151 dell’anno precedente, ha saputo registrare oltre 101mila presenze tra pranzi e cene. Un calo fisiologico, dopo il boom di notorietà mediatica seguito al lancio di questo caso unico, ma che impone ora una chiamata alla massima attenzione possibile. Come testimonia Silvia Polleri, fautrice e organizzatrice dell’impresa: “Nel business plan che avevamo stilato era previsto che, con Cassa delle Ammende, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) pagasse la cucina (costo totale circa 140mila euro + Iva). Purtroppo, solo pochi giorni prima dell’apertura ci è stato comunicato che per ragioni amministrativo-burocratiche non sarebbe stato fatto fronte all’impegno preso. E per noi, cooperativa formata prevalentemente di detenuti, è stata una bella botta. Essendo stati il primo caso al mondo, abbiamo destato molta attenzione, perché il messaggio di recupero della persona, abbinato ai dati di recidiva nei fuoriusciti dal Carcere di Bollate (17% contro il 70% su territorio nazionale) è forte e chiaro”. Insomma, mancano 58mila euro da raccogliere entro il 2022 per difendere un’impresa tanto innovativa da risultare un valore aggiunto per tutto il sistema penitenziario italiano. Per chi ha fame di “cose buone” l’appello a partecipare è lanciato. Giustizia, annullato il vertice. Bonafede: “Ma io vado avanti” di Errico Novi Il Dubbio, 18 aprile 2019 La riforma c’è. Anzi ce ne sono due. Una per il processo penale, l’altra sul civile. Pronte. Perché “sono il frutto del lavoro svolto ai tavoli con avvocatura e magistratura”, come dice il guardasigilli Alfonso Bonafede. Eppure non c’è ancora il conclave che dovrebbe dare l’ok preventivo, in modo che i due ddl delega passino in Consiglio dei ministri solo per il formale via libera. Salta dunque in extremis il vertice sulla giustizia tra lo stesso Bonafede, Giulia Bongiorno e il premier Giuseppe Conte. Motivo: la Lega non si presenta all’incontro. Declina l’appuntamento la ministra della Pubblica amministrazione, plenipotenziaria del Carroccio sulle riforme della giustizia. Non c’è neppure il vicepremier Matteo Salvini, “trattenuto da altri impegni”. Ma dal punto di vista di Bonafede, che ha incontrato comunque Conte, il risultato non cambia: “Presenterò i due disegni di legge al primo Consiglio dei ministri utile”, assicura il ministro mentre lascia Palazzo Chigi. Sorpreso per la scelta dell’alleato ma convinto ad “andare avanti”. Di fatto lo slittamento non dovrebbe esserci. I testi non saranno discussi nel Consiglio che oggi si riunirà a Reggio Calabria ma subito dopo Pasqua. La Lega si opporrà? Non ci sono elementi per dirlo. Anche perché, come fa notare una fonte parlamentare della maggioranza, “non ci sono contrasti sul merito delle proposte messe a punto da Bonafede”. Da escludere anche un irrigidimento della ministra Bongiorno sulla richiesta di una norma di collegamento che vincoli l’entrata in vigore della “nuova” prescrizione all’approvazione definitiva della riforma penale: sul punto “l’interesse della Lega tenderebbe casomai a una corsia preferenziale per l’esame del ddl Bonafede, non a rallentarlo”, fa notare la stessa fonte. Qual è allora l’ostacolo? Riguarda le tensioni emerse nelle ultime ore fra Salvini e Luigi Di Maio, in particolare sui migranti. La Lega si aspetterebbe una maggiore convergenza dei Cinque Stelle sulla linea del Viminale, prima di dare l’ok alla riforma della giustizia. “Io vado avanti”, dice dunque Bonafede. E a chi gli chiede se il proposito vada letto come una sfida all’alleato, risponde: “Nessuna nota polemica: semplicemente, ho il dovere di portare avanti la riforma nell’interesse dei cittadini, che non possono trovarsi costretti a tutelare i loro diritti in procedimenti che durano anni”. Nessun passo indietro sull’obiettivo di fondo della doppia legge delega: “Abbreviare i processi”. E in effetti i testi messi a punto a via Arenula contengono diverse ipotesi utili a velocizzare sia il processo penale che il civile. Anche in quest’ultimo dossier il punto di approdo raggiunto al tavolo con avvocati e magistrati sembra aver soddisfatto tutti. Nel caso dell’istituzione e delle associazioni forensi (Cnf, Ocf, Unione Camere civili e Aiga), si è dato atto al ministro della Giustizia di aver accantonato alcune proposte iniziali ritenute inaccettabili per l’avvocatura. In particolare sono scomparse le ipotesi di introdurre preclusioni e decadenze istruttorie. È sopravvissuta, nella bozza finale, l’idea cara fin dall’inizio a Bonafede di fare dell’atto introduttivo sempre un ricorso. Un consenso generalizzato ha ottenuto la scelta di introdurre un’istruttoria stragiudiziale all’articolo 281 quinques del codice di rito. Una formula che dovrebbe consentire un alleggerimento del carico per ciascun singolo giudice. Gli avvocati potranno rendere prove testimoniali e svolgere interrogatori prima del giudizio, secondo un modulo di negoziazione assistita che sarà definito dal Consiglio nazionale forense. Soddisfacente, per l’avvocatura, anche la scelta di sopprimere il filtro in appello previsto agli articoli 348 bis e ter: istituto applicato poco ma ritenuto, laddove utilizzato, assai penalizzante. Se sul civile si è dunque trovata una buona sintesi, molto positiva è anche quella raggiunta in campo penale. Esito che si deve all’intesa preliminare stabilita fra Unione Camere penali e Anm e alla disponibilità di Bonafede a rimodulare, anche qui, le ipotesi di partenza. Sono state previste modifiche che rafforzano molto il filtro della fase preliminare. Ad esempio con la previsione che il pm chieda l’archiviazione in ogni caso in cui sia sfavorevole la prognosi sul “successo dell’accusa in dibattimento”. Ampliati, nella medesima direzione, i poteri del gup. Ma soprattutto sono stati potenziati i riti alternativi, più volte indicati da penalisti e Anm come “lo strumento più efficace a ridurre i tempi dei processi”. Certo, resta il paradosso della legge, appena approvata, che ha escluso l’abbreviato per i reati da ergastolo. Ma in compenso nella riforma messa a punto grazie al tavolo con avvocati e magistrati esce assai rafforzato l’istituto del patteggiamento. In particolare grazie alla riduzione della pena fino alla metà sia per le contravvenzioni che nel caso dei delitti per i quali la richiesta di applicazione della pena arrivi nella fase preliminare. Spazio anche all’ipotesi di depenalizzazione condizionata, e ad altri affinamenti comunque concordati. Difficile, anche su questo dossier, che le tensioni nella maggioranza possano far leva sul merito della legge delega. Bonafede: “La mia riforma pronta da tre settimane. Adesso la Lega deve sedersi al tavolo” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 aprile 2019 Il ministro della Giustizia: “Il vertice di ieri è saltato per gli impegni di Salvini, ma io vado avanti: ci confronteremo sui processi brevi nel prossimo Cdm”. Sullo scontro su prefetti e Difesa: noi e i leghisti siamo diversi. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è reduce da un vertice mancato. Nel pomeriggio avrebbe dovuto confrontarsi con Matteo Salvini e Giulia Bongiorno sulle riforme del processo penale e civile. Invece è stato un nulla di fatto. I leghisti non si sono presentati. E allora di riforme non si parlerà al consiglio dei ministri di oggi. Con la Lega però litigate su tutto. Dalla giustizia alla difesa, persino sui prefetti. È solo tensione da campagna elettorale o qualcosa di più serio? “Guardi, io ho sempre detto che siamo due forze politiche completamente differenti, con percorsi diversi, che hanno deciso di governare individuando un binario comune che è quello del contratto di governo”. Già, ma sui porti ci sono frizioni come non mai. “Certo, ci sono temi particolarmente sensibili su cui questa differenza originaria emerge con più forza... Ma tengo a dire che questo governo ha dimostrato un incredibile senso di concretezza e di efficienza nelle risposte ai problemi dei cittadini. Come avete visto, alla fine il governo ha sempre trovato soluzioni molto concrete e anche importanti, da Quota 100, al reddito di cittadinanza, a una norma rivoluzionaria come la Spazza-corrotti che mi è particolarmente cara”. Ministro, intende dire che nel pragmatismo si troverà una soluzione? “Sì”. Il vostro vertice intanto è fallito. Deluso da risposte che non arrivano? “No, doveva essere un vertice di maggioranza su un punto importante, ma non è che io aspettassi risposte. Mi attendevo un confronto che non c’è stato. Il ministro Salvini non era presente per altri impegni. Lo dico semplicemente, senza nessuna nota polemica. Però è importante andare avanti. I cittadini ci chiedono processi con tempi brevi”. Quali sono i punti irrisolti tra voi e la Lega? “Non si può dire che ci sono punti di distanza. Trattandosi di un tema importante e sentito, sarebbe stato importante confrontarsi. Ma va bene anche così. Avremo modo di farlo direttamente nel consiglio dei ministri, il primo utile. Chiaramente i cittadini non vogliono più aspettare. E sono sicuro che tutto il governo sia compatto nel ritenere un obiettivo prioritario la brevità dei processi”. Sull’obiettivo finale sicuramente sarete tutti d’accordo. Ma quale strada imboccare per arrivarci? “Ripeto: finora erano tutti pronti a scommettere sulle nostre divergenze. Invece abbiamo mostrato compattezza a partire dalla Spazza-corrotti”. Tempi previsti? “La riforma è pronta già da 3 settimane circa. Ho portato avanti due tavoli con gli addetti ai lavori, che hanno portato a questi progetti di riforma. Ci sarà una legge delega. Mi ero dato l’obiettivo di averla entro giugno. I decreti attuativi avranno tempi molto ridotti perché non presenteremo una delega “in bianco” nel pieno rispetto del Parlamento”. In serata lei ha incontrato il neopresidente dell’Anm, Pasquale Grasso e la giunta. Grasso in un’intervista al nostro giornale ha lanciato un allarme accorato sul pericolo dei processi mediatici, anticipati sui social, senza aspettare le aule di giustizia. “Perfettamente d’accordo”. Lei da Guardasigilli dice sempre che sarebbe inopportuno intervenire sui processi. Vale anche per i suoi colleghi? “Io sono ministro della Giustizia. Considerando il rapporto che ho con la magistratura, devo guardarmi bene dall’entrare nel merito delle loro decisioni. Non parlo per altri. C’è un punto però che mi preme dire: dev’essere chiaro che non tutto ciò che richiedono i cittadini in materia di giustizia può essere sempre considerato frutto di un desiderio di pancia. Non sono d’accordo ad archiviare così una richiesta generale dei cittadini. Bisogna che la giustizia sia credibile agli occhi dei cittadini e questo passa anche attraverso capacità di dare loro risposte. Per essere ancora più esplicito, non è che tutto ciò che i cittadini chiedono è necessariamente frutto di superficialità o di mediaticità. Per esempio, sul problema dei femminicidi, i cittadini chiedono tolleranza zero. E hanno perfettamente ragione”. La crisi della giustizia passa anche per una drammatica carenza di personale. “Lo so bene. Abbiamo una scopertura del 21% del personale amministrativo”. Nel 2018 lei ha ottenuto 1.000 assunzioni per il personale amministrativo e se ne annunciano altri 50.00 nel triennio a copertura delle uscite straordinarie dovute a Quota 100. Basteranno? Mancano forse 13mila amministrativi, però, e con Quota 100 il buco potrebbe raddoppiare. “Guardi, il nostro piano assunzionale è uno sforzo senza precedenti. Stiamo ampliando per la prima volta anche la pianta organica. Lo fecero 20 anni fa, ma non avevano coperture. Soltanto il nostro è il primo interamente coperto in legge di Bilancio. Anche rispetto a Quota 100, la risposta che poteva dare il governo è questa: in ambito di pubblica amministrazione, l’unica deroga al blocco del turn-over è stata per la giustizia. Con questo non voglio dire che da oggi a domani renderemo idilliaca una situazione drammatica, però posso dire che stiamo mettendo le fondamenta per una giustizi realmente efficiente”. Senta ministro, la governatrice dell’Umbria ha sbattuto la porta urlando che il suo partito non è garantista. C’è in Italia un problema di garantismo? “No, nella maniera più assoluta. Fermo restando la presunzione di innocenza, ogni forza politica di fronte a una inchiesta deve prendersi la responsabilità di assumere decisioni. Il M5S ha un codice etico e ha preso sempre decisioni nette”. Quindi condivide le mosse di Zingaretti che ha spinto per quelle dimissioni? “Se rispondessi, anche lontanamente sarebbe un mio commento su una vicenda processuale. Quindi, no comment”. Sicurezza, ai prefetti poteri straordinari di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 aprile 2019 Direttiva antidegrado di Salvini. Il ministro dell’Interno vuole estendere a tutte le città le “zone rosse” di Firenze e Bologna. “Zone rosse” off limits ai “balordi” in tutte le città d’Italia. “Daspo urbani” per precludere determinate aree di particolare interesse sociale ai mendicanti, ai senza fissa dimora, ai venditori ambulanti (tipicamente stazionanti al semaforo), e a chiunque sia stato anche solo denunciato per alcune tipologie di reato, come lo spaccio, il danneggiamento o il commercio abusivo. È il sogno di Matteo Salvini, rinverdito dall’avvicinarsi della scadenza elettorale europea. Al quale ieri ha dato corpo con una direttiva che sollecita i prefetti italiani a prendere iniziative simili a quelle adottate appena una settimana fa nei centri storici di Bologna e Firenze. E a ricorrere anche al “potere straordinario di ordinanza” pur di rafforzare le azioni militari di contrasto al degrado delle città già introdotte nel decreto sicurezza di Minniti e Orlando. Una iniziativa contro la quale si è scagliato, con pari piglio elettorale, il ministro Luigi Di Maio: “Ho letto che attribuisce più poteri ai prefetti che ai sindaci in alcuni casi. Non saprei dire, io sono dell’opinione che chi governa lo scelgono i cittadini. È l’abc della democrazia”. Nella circolare in verità, il ministro dell’Interno ha invitato i prefetti a “convocare specifiche riunioni del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica” (dove siede anche il sindaco) al fine di individuare “con la massima celerità” le aree necessarie di azione e, nel caso, “fornire il supporto necessario a declinare una complessiva strategia di intervento che contempli anche il ricorso al potere straordinario di ordinanza, di durata temporalmente limitata, qualora l’iniziativa non sia differibile all’esercizio degli strumenti ordinari se non incorrendo in quel danno incombente che si intende scongiurare con la sollecita adozione dell’atto”. Tanta burocrazia del linguaggio per dire che è concesso andare in deroga alle leggi. Poi però, “a partire dal prossimo 31 maggio - si legge ancora nella direttiva di Salvini - dovranno pervenire, con cadenza trimestrale, puntuali report sul monitoraggio condotto in relazione alle ricadute delle ordinanze adottate”. Le prime disposizioni di questo tipo sono scattate nei giorni scorsi a Bologna e Firenze. Nel capoluogo toscano il provvedimento, che avrà la durata sperimentale di tre mesi, impone l’allontanamento dal centro storico e dalle zone più frequentate dai turisti di tutte quelle persone i cui comportamenti confliggono con la percezione generale di uno spazio sicuro e pulito. A Bologna invece non c’è stata alcuna “zonizzazione” ma l’applicazione saltuaria di “daspo urbani”. Poiché nel capoluogo emiliano questo tipo di provvedimenti viene adottato fin dal 2017, i risultati sono già visibili, come fa notare il presidente dell’Anci Antonio Decaro: lo spaccio non è stato debellato ma ha solo spostato più in periferia le sue piazze prescelte, così come non sono stati risolti i problemi sociali o sanitari delle persone che vivono in strada, e il commercio abusivo si è solo nascosto un po’ di più. Niente da fare: per il leader leghista (almeno fino alle elezioni europee) le “piazze dello spaccio” vanno smantellate attraverso “l’inibizione alle aree maggiormente interessate dalla perpetrazione di tali illeciti”. Ed è il ministro degli Interni che considera “un successo” il ricorso “sperimentato localmente” a “provvedimenti prefettizi che vietano lo stazionamento a persone dedite ad attività illegali”. Salvini dà potere ai prefetti per il degrado nelle città. Di Maio: “Non è democratico” di Federico Capurso La Stampa, 18 aprile 2019 Il ministro dell’Interno: “Sindaci distratti, servono provvedimenti efficaci”. Il M5S contro la nuova direttiva: “Come ai tempi dei podestà fascisti”. Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ormai più avversari che alleati, hanno scelto il terreno di scontro sul quale dare il via alla campagna per le Europee: la sicurezza. Gioca in casa il leader leghista, all’attacco quello pentastellato che nella sua strategia aggressiva coinvolge ogni pedina a disposizione, da Palazzo Chigi alla Difesa, fino alla Farnesina. In poche ore, infatti, il capo politico del Movimento boccia prima l’intimazione di Salvini alla Marina sui “porti chiusi” come risposta alla crisi libica (trovando una sponda nello Stato Maggiore dell’Esercito) poi critica la direttiva emessa dal ministro dell’Interno con cui vengono dati, in alcuni casi, “più poteri ai prefetti che ai sindaci - dice Di Maio all’Ansa. Io sono dell’opinione che chi governa lo scelgono i cittadini. È l’abc della democrazia. Esprimi un voto e poi giudichi al termine del mandato”. E nel quartier generale del Movimento 5 stelle, a microfoni spenti, il giudizio sulla direttiva di Salvini è ancora più forte: “Sembra di tornare ai tempi dei podestà fascisti”. Il testo, uscito dal ministero dell’Interno, prevede la possibilità per i prefetti di emanare delle ordinanze per proteggere le cosiddette zone rosse delle città da “persone dedite ad attività illegali”, attraverso strumenti “di natura straordinaria, di necessità e urgente”, considerati “un prezioso ausilio alle politiche locali in atto”. La direttiva ricorda che la sicurezza delle città è prioritariamente una responsabilità dei sindaci, ma - aggiunge - “è stato localmente sperimentato con successo il ricorso a provvedimenti prefettizi che vietano lo stazionamento a persone dedite ad attività illegali, disponendone l’allontanamento”. Quando si parla di zone rosse, si intendono quelle aree urbane con una “elevata densità abitativa”, dove insistono i “flussi turistici”, oppure che si caratterizzano per l’esistenza di “una pluralità di istituti scolastici e universitari, complessi monumentali e culturali, aree verdi ed esercizi ricettivi e commerciali”. Il rimando dei Cinque stelle ai tempi dei podestà fascisti non è un caso. Alludono all’utilizzo di ordinanze, in funzione anti-degrado e contro le illegalità, “adottate dai Prefetti ai sensi dell’art. 2, del R.D. 18 giugno 1931, n. 773”. Ai tempi, quindi, di Benito Mussolini. L’attacco di Di Maio ormai è frontale. Salvini, però, ha un sentiero già tracciato davanti. La direttiva, dice il ministro dell’Interno, aiuterà “i sindaci distratti” a combattere il degrado e le occupazioni abusive, e sarà ricalcata “sull’ ordinanza anti-balordi del prefetto di Firenze Laura Lega”. Protesta anche il presidente dell’Anci Antonio Decaro: “Se Salvini ci avesse chiamati - osserva - per affrontare seriamente il problema del degrado urbano nelle città, gli avremmo detto che varare zone rosse è un po’ come mettere la polvere sotto il tappeto: non risolve il problema, lo sposta altrove. E no - aggiunge - non siamo distratti. Quello distratto sembra piuttosto il ministro, visto che sembra aver dimenticato che i prefetti hanno competenza esclusiva su ordine pubblico e sicurezza, e per occuparsi di questi temi non hanno bisogno di nessuna circolare ministeriale né di commissariare nessuno. Noi - conclude il presidente dei sindaci - amministriamo ogni giorno, tra mille difficoltà e non abbiamo bisogno di essere commissariati da nessuno”. Salvini, che non risponde direttamente alle critiche, rilancia la notizia di una rissa tra immigrati nel quartiere Gad di Ferrara, con coltellate tra un albanese e due nigeriani. “Il 3 maggio sarò in città - annuncia via social - e nelle prossime ore inviterò tutti i prefetti una direttiva per cacciare i balordi dalle città. Dove non arrivano i sindaci, arriviamo noi”. Lo scontro Salvini-Difesa e l’attenzione del Quirinale di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2019 Sembra che Mattarella stia seguendo con attenzione tutta la vicenda tra Salvini e lo Stato Maggiore della Difesa e di certo sarà stato informato prima della nota che è partita dal loro ufficio di comunicazione per chiarire la polemica esplosa sui giornali. In quelle righe si legge che “le Forze Armate sono uno strumento tecnico operativo al servizio del Paese e che ogni attività viene pertanto svolta in aderenza alle indicazioni politiche e secondo la prevista linea gerarchica”. Parole chiare e, anche se la Lega ha voluto interpretarle come un sostegno al ministro dell’Interno, in realtà è proprio il contrario. Nel senso che la direttiva di Salvini è sì politica ma non rispetta quella “prevista linea gerarchica” che si riferisce al ministro della Difesa e non a lui. Inoltre, quello che non va nell’ultima direttiva del capo leghista è che contrariamente alle altre che aveva emesso a marzo, in quest’ultima impartisce “ordini” sul caso singolo della Mare Jonio, il che presuppone un rapporto gerarchico che non è con il Viminale. Insomma, non un cavillo giuridico ma una questione sostanziale e complessa di cui si stanno occupando - oltre che al Quirinale visto che Mattarella è capo delle Forze Armate - anche a Palazzo Chigi. Il premier Conte, da giurista qual è, non ha potuto lasciare cadere la questione e ha incaricato i suoi uffici di dare la corretta interpretazione, al di là della versione che ha fornito la Lega. Tra l’altro, il chiarimento con il ministro Trenta non ci sarebbe stato, come ha detto lei stessa: “Se ci siamo chiariti? No, io ero impegnata e lui era impegnato”. Ma il tema vero di cui si discute tra vertici grillini e premier è che i fronti che apre Salvini sono ormai troppi e alcuni creati ad arte, quasi a freddo. Per esempio, questo continuo scavalcare i ministri 5 Stelle - Toninelli o la Trenta - o anche “scaricare” la responsabilità del ritardo dei decreti su Palazzo Chigi diventano gli indizi di un malessere che il vicepremier leghista vuole far trapelare nel suo mondo. “La mia posizione - ha detto ieri il titolare del Viminale - che riporterò al presidente del Consiglio e agli alleati è fare subito. Se continuiamo ad arricchire i testi tra un mese saremo ancora qui a parlarne”. E pure l’aprire a freddo un fuoco su Roma e la Raggi vengono letti come segnali di un’insofferenza non legata solo alla scadenza elettorale delle europee. Che senso avrebbe, del resto, questa marcia contro la Capitale? Ieri il vicepremier ha riunito al Viminale i rappresentanti territoriali della Lega per mettere in campo le proposte su Roma, dai rifiuti ai trasporti. E pure tutto quello che si muove nel centrodestra, tra Toti e la Meloni, o le tensioni in Forza Italia, sarebbero un altro indizio del conto alla rovescia sul Governo. L’unico imbuto per Salvini è come gestirà la questione dell’economia e il passaggio della legge di bilancio. Le difficoltà per lui stanno in quei 25 miliardi che si dovranno trovare per evitare l’aumento dell’Iva più il finanziamento delle spese indifferibili e che rendono incerta l’attuazione della fiat tax. Sarà quello il pretesto? Manette e potere di Giuseppe Sottile Il Foglio, 18 aprile 2019 La vocazione moralista è un male che s’ingrotta nei palazzi di giustizia e in particolare nelle procure. Quella terra di mezzo tra stato di diritto e spirito del tempo. Quale demone manettaro ha convinto sabato scorso il pubblico ministero di Genova a spedire una pattuglia dei carabinieri al confine di Ventimiglia per arrestare Anna Rita Zappulla, 62 anni, preside dell’istituto “Guglielmo Marconi” di Imperia e del “Cristoforo Colombo” di Sanremo? Quali timori per la sicurezza pubblica hanno spinto quel magistrato ad accanirsi contro una gentile signora un po’ avanti negli anni e colpevole, sì e no, di avere utilizzato - non proprio per ragioni di servizio - l’automobile in dotazione alla sua scuola? La preside era andata a Mentone ma il viaggio oltre confine non era sfuggito alle vecchie volpi che con tanto zelo vigilano sui nostri comportamenti, né agli apostoli dello “spazza-corrotti” né ai predicatori del principio secondo il quale in questo mondo di scandali e follia non ci sono innocenti ma solo delinquenti sfuggiti alle maglie della giustizia. “Che marciscano in galera”. L’imperativo è riecheggiato nel Palazzo di giustizia di Genova, si è impresso sulle tavole della legge tenute in mano da un solerte procuratore della Repubblica e ha colpito senza misericordia la povera Anna Rita Zappulla che, con il peso dei suoi 62 anni, è stata rinchiusa per tre giorni e tre notti in una cella del carcere di Pontedecimo, assistita solo dalla pietà delle sue compagne di malasorte: “Quando ho raccontato alle altre detenute perché mi trovavo lì non ci volevano credere, sono state squisite con me”. Ma sì, anche chi marcisce in galera alla fine ha un cuore. Ma non ditelo ai catecumeni dell’onestà- tà-tà. E non ditelo soprattutto a quelli che di fronte a ogni vampata di giustizialismo ripetono che bisogna comunque avere fiducia nella magistratura, che c’è una dialettica interna al sistema, che ci sono tanti gradi di giudizio e che alla fine la verità verrà sempre a galla. Certo, nessuno nega che l’ordine di custodia cautelare firmato dal pubblico ministero per chiudere in una cella Anna Rita Zappulla sia diventato dopo tre giorni carta straccia: il giudice delle indagini preliminari non ha convalidato il fermo perché non c’era l’acclarata pericolosità dell’indiziato, non c’era pericolo di fuga, non c’era il rischio della cosiddetta reiterazione del reato. Ma è altrettanto vero che dentro i tribunali si comincia a respirare-ma sì, usiamo questa formula elegante - lo spirito del tempo. Non ci sono magistrati di regime: affermarlo sarebbe nient’altro che una scempiaggine. Né ci sono giudici apertamente schierati sulla linea forcaiola di quei grillini che non sopportano né la prescrizione né ogni altra garanzia a favore dell’imputato. Ma tra il castello dell’indipendenza, dentro il quale trova legittimità e protezione la parte sana della magistratura, e gli apparati di Via Arenula, dove signoreggia un ministro di Giustizia espresso dai puri e duri dei Cinque stelle, c’è una terra di mezzo, vasta e indefinita, nella quale si ritrovano, ad esempio, molti di quei magistrati, nati e cresciuti nel brodo dell’antipolitica, che non sono toghe rosse, né toghe gialle, né toghe verdi: sono semmai dei moralisti con la toga; o, più semplicemente, giudici intimamente convinti di essere venuti in terra per salvare il popolo dalle nefandezze del malgoverno, dalla piaga della corruzione e dagli insopportabili abusi di raccomandati e profittatori. La vocazione moralista, che questo governo agevola e alimenta, è un male serpigno che non fa fatica a ingrottarsi nei palazzi di giustizia e, in particolare, negli uffici più esposti: quelli delle procure. È un male che spinge spesso alcuni magistrati a dilatare, anche involontariamente, i contorni criminali di fatti e avvenimenti che in altra epoca - e con un altro spirito del tempo - sarebbero magari apparsi di inutile o inessenziale consistenza. Pensate all’odor di mafia. O al sospetto di massoneria. O al voto di scambio. O all’abuso di ufficio. O all’ipotesi di peculato nella quale è rimasta impigliata la preside Zappulla. Di fronte a reati come questi - difficili da definire e difficili da provare - molti magistrati della terra di mezzo vedono e stravedono. Sia perché sono i reati che offrono maggiori spazi di interpretazione e quindi di manovra; sia perché consentono al pm di colpire in alto e di dare al popolo - al popolo sovrano - l’idea che finalmente la legge è uguale per tutti, che non ci sono più santuari protetti, che non esistono più impunità né zone franche. E che la pacchia è finita. Capita però che, fra tanto zelo e tanto entusiasmo, non tutte le ciambelle riescano col buco. E capita pure che la voglia e la fretta di arrivare a un arresto clamoroso o a una retata senza precedenti, finiscano per trasformare il colpo grosso in un colpo di teatro; o, peggio, in un contraccolpo dalle conseguenze disastrose per la credibilità della giustizia e di chi è chiamato ad amministrarla. Quello che è successo in queste ultime settimane in Sicilia sta a dimostrarlo. Per una singolare combinazione di elementi, la procura di Trapani si è trovata per le mani una serie di scempiaggini, di abusi e malversazioni che vedevano coinvolti alcuni politici di livello regionale, una loggia massonica e un comune, Castelvetrano, ormai diventato il reliquiario di tutte le mafie, di tutte le connivenze e di tutti i favoreggiamenti nei confronti di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss di Cosa nostra ancora latitante. A Castelvetrano viene fatta, mediamente, una retata a settimana e non c’è generale dei carabinieri o superprocuratore antimafia che non prometta di farne subito un’altra per stringere sempre più il cerchio attorno all’erede di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i sanguinari corleonesi delle stragi mafiose del 1992. Ma a metà marzo lo stupore, con annessi titoloni sui giornali, non è arrivato con la tanto annunciata cattura di Messina Denaro. Ma con una retata di ventisette malvissuti accusati di avere traccheggiato con la politica, di essersi arricchiti illegittimamente con i soldi della formazione professionale finanziata dalla Regione e soprattutto di avere scandalosamente tramato sotto la copertura di una loggia massonica; ovviamente segreta, segretissima, e innervata da chissà quali e quante trame oscure. La “retata della super-loggia” - super come il super boss di Castelvetrano - non poteva essere più popolare. O più populista. Le intercettazioni sembravano fatte su misura per sputtanare le tresche degli onorevoli deputati, uno dei quali addirittura membro della commissione Antimafia istituita dal Parlamento siciliano. C’era l’immancabile odor di mafia perché non esiste casa o strada di Castelvetrano dove non arrivi l’aria malsana legata all’invisibile presenza del boss. E c’erano anche i soldi, i tanti piccioli sottratti alle casse della Regione con gli intrighi e le raccomandazioni, con lo scambio di voti e di favori, con i ricatti e le complicità. Il popolo - il popolo sovrano - avrebbe finalmente avuto di che gioire: anche in quello stramaledetto angolo di Sicilia la pacchia era finita. Ma c’era un però. Trapani, che ha tanto gonfiato il petto e ha tanto sbandierato la “brillante operazione”, non aveva alcuna competenza per farlo. Lo ha stabilito il Tribunale del riesame, sostenendo che i reati più gravi erano stati commessi a Palermo, tra i palazzi del potere regionale, e che spettava alla magistratura del capoluogo prendere in carico fascicoli e faldoni, decidere arresti e incriminazioni. Una doccia fredda per la procura trapanese. Anche in considerazione del fatto che l’ordinanza del Riesame ha comportato l’immediata scarcerazione dei ventisette e poco raccomandabili personaggi. Gli stessi che, nella notte della superloggia, erano stati ammanettati e impacchettati in modo tale da marcire in carcere per chissà quanti anni. Invece la gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi. Anche questo succede in quella terra di mezzo dov’è incerto il confine tra la legge e il moralismo, tra lo stato di diritto e lo spirito del tempo. Il valore di un pm non si misuri sul numero di rinvii a giudizio di Alberto Cianfarini* Il Dubbio, 18 aprile 2019 La statistica giudiziaria si occupa di rilevare le applicazioni di massa e gli effetti diretti e indiretti della legge la quale, per sua natura, non può che descrivere un caso singolo - generale ed astratto senza curarsi nell’immediato delle ricadute sulla realtà dei consociati. La molteplicità e la sommatoria dei casi singoli dà vita alla rilevazione statistica complessa. Francesco Crispi quale capo dell’esecutivo condivisibilmente considerava, alla fine dell’800, la statistica uno strumento essenziale per l’attività di governo poiché essa gli permetteva di conoscere la realtà italiana e, soprattutto, di prevedere gli andamenti e le tendenze dei fenomeni sociali (Giuseppe Leti, “La statistica pubblica italiana dalle origini ad oggi”, www.bdim.eu). Il singolo episodio non può che avere evidentemente una valenza ridotta, mentre lo studio dei fenomeni collettivi riveste rilevanza strategica ai fini della conoscenza del macro fenomeno: l’atto del singolo non è prevedibile. Diversamente - se lo si studia come fenomeno di massa esso diventa parzialmente prevedibile. Ecco, in poche parole, l’indispensabile necessità delle rilevazioni statistiche giudiziarie. Ma la statistica, per sua natura, si presta a usi e abusi mostrando un volto che si fa sovente beffa dell’etica. Questo soprattutto quando la statistica viene impiegata per scopi che non le sono propri, quali quelli di valutare non già il fenomeno naturalistico, come sopra delineato, ma l’impegno e il valore dell’uomo che di quei numeri è promotore. La statistica per giudicare gli umani ha sempre mostrato la sua inefficacia e la palmare miseria dei risultati. Trilussa, il grande poeta della Capitale, aveva ben chiaro il fenomeno quando descriveva il pollo “statistico”. Per conoscere ad es. quante sentenze può scrivere un medio giudice (ordinario) italiano in un anno si prende il numero delle sentenze scritte in una macro area da tutti i giudici colà presenti, lo si divide per il numero dei giudici e si ottiene la media (aritmetica) semplice delle sentenze scritte da un “giudice modello”. Colui il quale si allontana per eccesso dal numero così ottenuto sarà giudicato bravo o bravissimo (dipende sempre dal numero in esubero); colui che è sotto la media sarà giudicato un giudice quantomeno non laborioso. Nei suoi confronti si invertirà l’onere della prova: chi è sotto il numero dell’agente modello dovrà lui provare le sue proprie buone ragioni e non già il sistema il quale, con il numero più basso della media, ha già ipotecato una sorta di pregiudizio negativo sul suo comportamento. E la complessità delle questioni risolte? La qualità della risposta? Qui la statistica tace. Ecco che l’ingegno italico si mette in funzione, alla ricerca del caso giuridico semplice: quando non è semplice lo semplifica. Nella Pubblica Amministrazione italiana accade di tutto nella materia statistica: il popolo dei consociati ne è ben conscio ed assiste con sereno distacco ai numeri che ogni giorno i mass media ci propinano, a volte anche contraddittoriamente. La Magistratura non è e non deve mai diventare Pubblica amministrazione. Il rischio tuttavia c’è ed esso è più concreto se la valutazione del rendimento del magistrato è lasciata, solo ed unicamente, al profilo statistico. Un esempio renderà plastico il rischio. Un’astratta informativa di reato per bancarotta fraudolenta per distrazione arriva sul tavolo di due pubblici ministeri di una ancora più astratta Procura della Repubblica. Il primo iscrive il nome dell’amministratore che risulta dalla sentenza di fallimento, un anziano signore di 99 anni, e si appresta, sic et simpliciter, al celere rinvio a giudizio. Ci penserà il curatore fallimentare a spiegare i fatti in aula al Giudice, per come sono andate le cose. Il secondo diligentemente si mette alla ricerca del reale, quanto oscuro, dominus dell’azienda. Diciotto mesi di lunghe e complesse indagini, sequestri e riesami e alla fine si scopre il vero titolare dell’azienda. Nella rilevazione statistica del magistrato del pubblico ministero c’è una voce che desta curiosità: tempo medio del procedimento. Il primo pertanto apparirà come un moderno stakanovista che in pochi giorni risolve lunghe e complesse indagini; il secondo quasi un lavativo che impiega quasi due anni per fare il suo lavoro. Esempi analoghi se ne possono fare mille ed ogni lettore, a questo punto della lettura, starà pensando a quelli che conosce personalmente o a quelli che ha realmente rischiato di vivere. Non c’è forse il rischio che la statistica, che tanti meriti possiede per come sopra descritti, indirettamente influenzi i comportamenti? Non si corre forse il rischio di essere presi dalla voglia, anche inconscia, di indicare alla fredda statistica un percorso etero diretto e teleologicamente finalizzato? La statistica da indispensabile strumento di moderna conoscenza a serva delle utilità di coloro i quali erano potenziali soggetti da censire: una chiara eterogenesi dei fini. Ecco che il recupero dell’etica, di quell’onore di cui parla la Costituzione all’art. 54, costituisce un prius rispetto ad ogni, pur necessaria, rilevazione statistica. La statistica ha avuto nelle materie e nelle cattedre il posto scientifico che giustamente le spetta. L’etica, quale materia di insegnamento, non è stata ancora purtroppo attivata nei corsi di laurea degli atenei italiani. Forse è il momento di pensarci. *Magistrato È giusto il carcere per il bullismo? di Simone Cosimi wired.it, 18 aprile 2019 Diverse proposte di legge della maggioranza vogliono mettere mano al provvedimento sul cyberbullismo e legare gli atti violenti allo stalking: ma la confusione è enorme. Bullismo e cyberbullismo tornano all’attenzione dell’esecutivo. Eppure il Paese dispone già, nel secondo caso, di una legge dedicata al fenomeno: è la numero 71 del maggio 2017, quella che ha introdotto una serie di utili strumenti fra cui l’ammonimento del minore responsabile davanti al questore e la richiesta di rimozione dei contenuti incriminati ai gestori delle piattaforme entro 48 ore o, in seconda battuta, al Garante per la privacy. Volendo anche direttamente da parte del minore che abbia almeno 14 anni. Adesso Movimento 5 Stelle e Lega sembrerebbero voler stravolgere l’impianto di quel provvedimento e allargare il tiro anche al bullismo inasprendo l’inquadramento generale. In particolare, assimilando il bullismo allo stalking, dunque allargando il famoso art. 612-bis del codice penale anche a chi offende, deride e picchia un compagno di classe. Ogni gesto, prevede inoltre la proposta per come anticipato dal Messaggero, dovrà inoltre essere segnalato obbligatoriamente, “senza una valutazione discrezionale circa la gravità dell’atto”, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni. La pena per lo stalking va da sei mesi a quattro anni. Anche per chi ha più di 14 anni si prospetta dunque, evidentemente con pene ridotte, la reclusione in istituti penali per minorenni. Come d’altronde è già previsto al momento ma, appunto, riconducendo in modo forte il bullismo a uno specifico reato anziché lasciare alla vittima la possibilità di valutare, con i genitori, gli estremi della querela. Procediamo con ordine. Bisogna anzitutto tenere presente che se i responsabili di certi atti sono bambini minori di 14 anni non è prevista responsabilità penale, che nel nostro Paese scatta appunto sopra quella soglia. Se tuttavia il ragazzo viene riconosciuto socialmente pericoloso possono essere previste delle misure di sicurezza che non costituiscono una pena: libertà vigilata o il collocamento in comunità. Fra i 14 e i 18 anni, come si diceva, il discorso cambia: il bullo è imputabile se viene dimostrata la sua capacità di intendere e di volere attraverso i consulenti professionali psichiatri. Ripetiamolo: è imputabile già oggi per quello che succede nelle strade e nelle classi italiane in base alla grande quantità di fattispecie che possono essere applicate. Si va dalle percosse (art. 581 c.p.) alle lesioni (art. 582 c.p.) passando per danneggiamento alle cose (art. 635 c.p.), diffamazione (art. 595 c.p.), molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.) e ancora minaccia, lo stesso stalking, sostituzione di persona e così via. Le modifiche al codice penale incubate dalla maggioranza giallo-bruna riporterebbero tutto, pare di capire, come minimo allo stalking. Riserverebbero cioè all’atteggiamento bullistico nel suo complesso, a prescindere da come sia perpetrato, il trattamento riservato a quell’odioso reato persecutorio. Per poi valutare due aggravanti: se i fatti vengano commessi da tre o più persone o con finalità discriminatorie. A proposito, si dice che l’esecutivo si stia impegnando sul tema perché il punto è presente nel contratto di governo ma nella realtà dei fatti non è proprio così. In quell’accordo, infatti, c’è solo un gran pasticcio. Nel patto sottoscritto meno di un anno fa da Matteo Salvini e Luigi Di Maio si legge infatti che “è indispensabile incentivare lo sviluppo del settore della sicurezza anche per quanto concerne la cyber security, avendo particolare attenzione al fenomeno del cyber bullismo e individuando strumenti di ausilio per il superamento del problema soprattutto negli ambienti scolastici”. Si mescolano pere e mele senza alcuna consapevolezza del tema. Ma questo è un altro discorso. Nel mirino dell’esecutivo ci sarebbe anche la legge n. 71, che già tanti assalti dovette schivare alla Camera e al Senato nel corso della precedente legislatura. L’intenzione sembrerebbe quella di irrobustirla. L’ammonimento al questore sembra poca cosa e dunque, secondo la leghista Anna Rita Tateo che ha depositato una proposta a Montecitorio, occorreranno altri sette articoli al codice penale che, nell’ordine: impongano ai provider l’obbligo di “offrire a chiunque abbia un accesso ad internet (famiglie, educatori, scuole, aggregazioni giovanili, internet point, biblioteche) servizi di navigazione differenziata”; di distinguere tra utente adulto e minorenne al momento della connessione per poter filtrare i contenuti online; di punire, in base all’art. 528, il fornitore di connettività che non segue gli ordini dell’autorità giudiziaria di interrompere la trasmissione di scritti, disegni o immagini osceni; di multare con sanzioni da 10 a 50mila euro i provider che non ottemperano. Passaggi scivolosissimi, ciascuno dei quali meriterebbe un approfondimento a parte. Sono norme che potrebbero entrare nella legge che dovrebbe reinserire l’educazione civica nelle scuole e che arriverà in aula alla Camera alla fine del mese. Si dovrà per forza arrivare a una sintesi perché, come spesso capita, le proposte sono diverse. Ce n’è per esempio un’altra della senatrice grillina Daniela Donno che sembrerebbe addirittura voler perseguire anche i minori di 14 anni al contempo coinvolgendo “le famiglie nel percorso di educazione, recupero e rieducazione dei minorenni”. Sempre il M5S punterebbe a istituire un tavolo tecnico per un piano di azione integrato, ma quel tavolo interministeriale già esiste e lo ha istituito proprio legge 71/2017. Grande e intensa è la confusione sotto il cielo del bullismo e del cyberbullismo, temi che scaldano le cronache e anche il populismo dei politici. La linea sembrerebbe quella del pugno duro, tentando di riportare pressoché automaticamente al contesto penale fatti che in effetti a volte lasciano sconvolti. Da una parte mettendo mano a una legge in vigore da appena due anni e che andrebbe fatta marciare anche e soprattutto sul lato della prevenzione e sensibilizzazione. Dall’altra, cioè il bullismo tout court, riconducendo ogni azione al solo reato di stalking, scelta che sembra perfino mortificante: occorrerebbe certamente un testo organico che individui aggravanti e modalità precise, tipiche del fenomeno, facendo però riferimento alle diverse fattispecie di reato già previste dall’ordinamento, più chiare che mai. Caso Cucchi. Depistaggio, chiesto il processo per otto carabinieri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 aprile 2019 Accusati d falso, favoreggiamento e calunnia un generale, tre colonnelli e un capitano. Al centro del caso la modifica di alcuni verbali riguardanti la morte di Stefano. Adesso sono tutti imputati. Un generale, tre colonnelli, un capitano e altri tre carabinieri dell’Arma dei carabinieri dovranno rispondere davanti a un giudici dei reati di falso, favoreggiamento e calunnia contestati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, per i depistaggi attuati nell’ambito delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata dopo che circa un mese fa era stato inviato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Un salto di qualità non solo negli accertamenti che la magistratura romana ha svolto sulla fine del detenuto arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi mentre era detenuto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, ma anche nel livello delle persone coinvolte, che coinvolge buona parte della scala gerarchica romana dell’Arma. Verbale modificato - Il generale Alessandro Casarsa, fino all’autunno scorso comandante dei corazzieri in servizio al Quirinale, è imputato di falso insieme ai colonnelli Francesco Cavallo, Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano per aver modificato, nell’ottobre 2009, la relazione che Di Sano fece subito dopo la morte di Cucchi, cancellando alcune frasi che davano atto delle cattive condizioni del detenuto la mattina dopo l’arresto e inserendone altre meno compromettenti. Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola sono accusati dello stesso reato anche in relazione all’annotazione del carabiniere Gianluca Colicchio, dove pure furono eliminate le frasi relative ai ““forti dolori al capo, giramenti di testa e tremore” sostituite con un “malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza”. Casarsa e Cavallo, a differenza di Soligo, hanno prima risposto alle domande dei pm quando furono convocati nella qualità di indagati, fornendo versioni considerate non convincenti dagli inquirenti, ma poi hanno scelto di avvalsi del diritto di non parlare quando sono stati chiamati a deporre davanti alla corte d’assise che sta processando altri cinque carabinieri per la morte di Cucchi. Omicidio stradale senza aggravanti, da valutare sospensione e non revoca della patente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2019 La Consulta, sentenza 88 depositata il 17 aprile, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, comma 2, quarto periodo, del Dlgs 285/199 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna (o applicazione della pena su richiesta) per i reati di omicidio stradale (art. 589-bis) e lesioni personali stradali gravi o gravissime (590-bis) del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa allorché non ricorrano le circostanze aggravanti della guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti. La revoca della patente di guida, infatti, spiega la decisione, “non può essere “automatica” indistintamente in ognuna delle plurime ipotesi previste sia dall’art. 589-bis(omicidio stradale) sia dall’art. 590-bis cod. pen. (lesioni personali stradali), ma si giustifica solo nelle ben circoscritte ipotesi più gravi sanzionate con la pena rispettivamente più elevata come fattispecie aggravate dal secondo e dal terzo comma di entrambe tali disposizioni (guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti)”. “Negli altri casi, che il legislatore stesso ha ritenuto di non pari gravità, sia nelle ipotesi non aggravate del primo comma delle due disposizioni suddette, sia in quelle aggravate dei commi quarto, quinto e sesto, il giudice deve poter valutare le circostanze del caso ed eventualmente applicare come sanzione amministrativa accessoria, in luogo della revoca della patente, la sospensione della stessa come previsto - e nei limiti fissati - dal secondo e dal terzo periodo del comma 2 dell’art. 222 cod. strada”. Per guidatore ubriaco niente bilanciamento con colpa vittima - I giudici hanno invece salvato il regime sanzionatorio più duro previsto per il reato di “omicidio stradale” e “lesioni personali stradali” aggravati, nel primo caso, dalla guida in stato di ebbrezza; nel secondo, dell’attraversamento col semaforo rosso. In particolare nelle ordinanze di rimessione (giudicate non fondate) sia il tribunale di Roma (omicidio) che quello di Torino (lesioni) avevano puntato il dito contro il divieto di bilanciamento, previsto dalla norma, tra le citate circostanze aggravanti e l’attenuante del concorso di colpa della vittima (che prevede la diminuzione della pena della metà). Dunque, anche quando c’è la corresponsabilità della vittima - nel primo caso perché priva di cintura; nel secondo perché al centro della strada nonostante la luce rossa per i pedoni - si dovrà comunque continuare a procedere prima all’aumento di pena previsto per le aggravanti e solo dopo alla diminuzione per il concorso di colpa, con un effetto ovviamente negativo sulla pena. La Consulta pur riconoscendo che la legge 41 del 2016 ha prodotto “sanzioni indubbiamente severe” e che in altri casi (spaccio, ricettazione, violenza sessuale, bancarotta), per le ipotesi di speciale tenuità, ha censurato la tecnica legislativa che inibisce il bilanciamento delle circostanze da parte del giudice, ha osservato tuttavia che “nella fattispecie in esame, l’attenuante ad effetto speciale non attiene all’offensività”. Sia l’omicidio stradale che le lesioni personali stradali (ove ricorra l’attenuante di cui al settimo comma degli artt. 589-bise 590-bis cod. pen), infatti, “offendono comunque, anche nell’ipotesi così attenuata, il bene della vita e quello dell’integrità personale”. L’attenuante speciale, dunque, non identifica “una fattispecie di minore offensività, ma si colloca sul piano del tutto distinto dell’efficienza causale dove opera il principio non già di proporzionalità, bensì quello di equivalenza delle concause dell’evento”. E dove dunque “maggiore è la discrezionalità del legislatore”, considerata anche la volontà di un “più incisivo contrasto di condotte altamente pericolose e che da tempo creano diffuso allarme sociale, quale appunto la guida di veicoli a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica”, ma anche “la condotta di chi, alla guida di un veicolo a motore, attraversa un’intersezione con il semaforo disposto al rosso”. Azzerata la condanna (patteggiata) per spaccio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2019 Corte di cassazione, sentenza 17 aprile 2019, n. 16790. Va cancellata la pena patteggiata per reati legati al traffico di stupefacenti. Il quadro punitivo dello spaccio è cambiato, non per legge ma per sentenza. Il riferimento è alla sentenza della Corte costituzionale che, un mese fa, ha stabilito l’illegittimità del minimo edittale di 8 anni invece di 6 (la fattispecie è quella disciplinata dall’articolo 73 comma 1 del Testo unico in materia di stupefacenti, Dpr n. 309 del 1990). Ne cominciano a prendere atto i giudici e La Cassazione lo testimonia con la sentenza n. 16790 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte è infatti intervenuta d’ufficio per dichiarare l’illegittimità della pena inflitta a un cittadino sudamericano la cui difesa aveva patteggiato con il pm una condanna a 3 anni e 7 mesi di reclusione per l’importazione in Italia di 39 ovuli contenenti cocaina e intercettati a gennaio all’aeroporto milanese della Malpensa. Il Gip aveva ratificato l’accordo delle parti sulla base della disciplina sanzionatoria antecedente alla sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019. La Consulta, preso atto dell’inefficacia dell’”invito pressante” al legislatore (giugno 2017, sentenza 179) per un intervento risolutore, ha riscritto le pene per lo spaccio “non lieve” di droga, abbassando il minimo di 2 anni, da 8 a 6. Per la Corte la conservazione di un limite così elevato era manifestamente arbitraria e irragionevole e aveva così proceduto alla modifica del Testo unico. La Cassazione adesso sottolinea che, essendo il quadro punitivo cambiato, a partire dal 13 marzo, con la pubblicazione in “Gazzetta” della pronuncia, deve essere annullato anche il patteggiamento che faceva comunque riferimento a un minimo punitivo ora non più in vigore e ne dispone quindi da subito gli effetti a favore del condannato. La sentenza di ieri mette anche in evidenza altri 2 aspetti: il primo è che l’inammissibilità del ricorso, come aveva invece sostenuto la Procura generale, non è di ostacolo all’applicazione della nuova e più favorevole disciplina che si è venuta a creare nei processi in corso. Si tratta di una questione infatti che può essere rilevata d’ufficio. Il secondo aspetto è costituito da un invito che i giudici rivolgono al Gip che ora dovrà riprendere in mano tutto il fascicolo. Infatti se lo stesso Gip aveva disposto, una volta espiata la condanna concordata, anche la misura di sicurezza dell’espulsione, ora la Cassazione ricorda la necessità di una motivazione stringente sulla necessità della misura. Anche in questo caso, osserva, il riferimento è a una sentenza della Corte costituzionale, anche se più risalente nel tempo, la n. 58 del 1995 che dichiarò l’illegittimità dell’automatismo dell’espulsione senza un accertamento in concreto della pericolosità sociale della persona interessata. In un contesto che deve anche tenere conto della compatibilità con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: no all’espulsione se il rischio possibile è di tortura o sanzioni inumane o degradanti. Fatture soggettivamente inesistenti a rilevanza penale ridotta di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2019 Corte di cassazione, sentenza 17 aprile 2019, n. 167768. L’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti non integra alcun reato ai fini delle imposte dirette: si tratta, infatti, di un costo realmente sostenuto relativo a servizi o beni effettivamente scambiati. La violazione può integrare solo il reato ai fini Iva. Così la Cassazione, sezione III penale, con la sentenza 16768 depositata ieri. La vicenda trae origine dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal gip nei confronti di un imprenditore per il reato di utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. In particolare, l’impresa aveva dedotto costi per prestazioni di lavoro occasionale svolte, in realtà, da soggetti diversi da quelli emittenti la fattura. Il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare e l’indagato ricorreva in Cassazione, lamentando l’irrilevanza penale della condotta. Infatti, il contribuente aveva registrato fatture riferite a prestazioni realmente avvenute e pagate, sebbene fatturate da un soggetto estraneo. Mancava quindi l’evasione dell’imposta. La Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture riferite a prestazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs 74/2000) ai fini delle imposte dirette è integrato solo in due specifiche ipotesi, ossia quando: si tratta di una inesistenza oggettiva delle prestazioni o dei beni indicati nei documenti; il corrispettivo è diverso totalmente o integralmente rispetto al costo sostenuto. Solo con riguardo all’Iva, invece, il reato è integrato anche con l’inesistenza soggettiva, ossia relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione o ceduto i beni e quello indicato in fattura. L’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è indifferente ai fini Iva, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può detrarre. Nella specie, il Tribunale del riesame aveva confermato la misura cautelare senza considerare che la violazione contestata non riguardasse l’Iva. La decisione è particolarmente importante poiché di sovente sia la Guardia di Finanza, sia alcune procure, in presenza di utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti non dando rilevanza sostanziale alla violazione, ritengono sussistente il delitto in questione, previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000, anche ai fini delle imposte sui redditi. In realtà si tratta di un costo deducibile e quindi non c’è alcun risparmio fiscale indebito. Peraltro, ancorché non fosse oggetto della pronuncia, alla luce dell’orientamento ora espresso dai giudici di legittimità, si ritiene che se la fatturazione soggettivamente inesistente non ha rilevanza neanche ai fini Iva, perché ad esempio si tratta di operazione comunque sottoposta al regime del reverse charge o di operazioni esenti, il delitto non sia configurabile per nessuna imposta, non sussistendo alcuna forma di evasione. Sicilia: i detenuti impiegati in attività di pubblica utilità di Serena Guzzone strettoweb.com, 18 aprile 2019 Accordo tra Anci Sicilia e il Ministero della Giustizia: i detenuti impegnati in attività di pubblica utilità. Un protocollo d’intesa per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso attività di pubblica utilità che, abbinate ad un’adeguata formazione, possano garantire future opportunità di lavoro. Lo hanno sottoscritto questa mattina a Palermo il presidente dell’AnciSicilia, Leoluca Orlando, e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sicilia, Gianfranco De Gesu. L’accordo intende coinvolgere le persone sottoposte a misure restrittive in attività extra murarie avendo come obiettivo la finalità rieducativa della pena. Tra i principali obiettivi del protocollo d’intesa: migliorare le condizioni ambientali e di decoro degli spazi pubblici, incluse le aree verdi, per favorirne la fruizione da parte dei cittadini; potenziare la raccolta differenziata all’interno degli istituti penitenziari al fine di contribuire alla conservazione dell’ambiente e ridurre gli sprechi; stimolare tra i detenuti la socializzazione, il rispetto, la condivisione delle regole, migliorandone le condizioni di vita. Se da un lato l’Anci Sicilia si impegnerà a promuovere e coordinare i contatti tra i comuni e gli istituti penitenziari per il raggiungimento delle finalità generali e specifiche del protocollo, dall’altro il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria promuoverà e coordinerà l’azione delle carceri affinché adottino le iniziative di competenza per selezionare i detenuti da ammettere alle attività di pubblica utilità, motivandoli a raggiungere obiettivi positivi. Infine, l’Anci Sicilia si occuperà di favorire, insieme con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la partecipazione a bandi europei e la promozione di progetti da finanziare anche attraverso la cassa delle ammende. “Il lavoro, in questo caso - spiega Leoluca Orlando - assume un ruolo fondamentale all’interno del percorso di riabilitazione. È, quindi, importante offrire ai detenuti l’occasione di uscire dalla casa circondariale nell’orario lavorativo previsto, riprendere familiarità con l’ambiente esterno, prestarsi volontariamente allo svolgimento di lavori utili alla società piuttosto che trascorrere il proprio tempo nella struttura. È fondamentale che ci sia una formazione e una preparazione che siano propedeutiche al reinserimento nella società avendo chiara la scala dei diritti e quella dei doveri”. “L’opportunità del lavoro di pubblica utilità - ha affermato il Provveditore De Gesu - si sta rivelando ogni giorno di più una chiave vincente sulla quale il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap stanno investendo molto in termini di impegno. L’applicazione sempre più ampia del Lpu su tutto il territorio nazionale nonché il recente interesse manifestato dalle Nazioni Unite confermano la assoluta bontà di un progetto di reinserimento dei detenuti che conviene a tutti: ai detenuti in primis, che vengono adeguatamente formati a svolgere un lavoro una volta usciti dal carcere; ai Comuni, che con i soldi risparmiati per la manutenzione del decoro urbano possono reinvestire in altri servizi; e infine alla Giustizia, che attraverso il recupero del detenuto alla società civile vede abbattersi l’annoso fenomeno della recidiva”. Il protocollo, di durata triennale e utile all’intera collettività, può essere considerato un esempio di buone pratiche strutturate tra pubbliche amministrazioni. Viterbo: le lettere dei detenuti “Un mondo infernale”, “Cicatrici in testa per le botte” di Luisiana Gaita ilfattoquotidiano.it, 18 aprile 2019 Da un anno i detenuti scrivono ad Antigone e al Garante del Lazio, raccontando della “cella liscia”, dei “calci e pugni” in faccia, di aver perso la vista a un occhio. Dopo l’esposto di Anastasia è partita un’indagine. Sono già 4 i fascicoli aperti: un altro riguarda un episodio di violenza, due sono sui morti impiccati. Intanto, dopo l’omicidio dello scorso marzo, anche la Polizia penitenziaria protesta: “Muro di fango eretto ad arte”. Il carcere dei “suicidi sospetti”. Il penitenziario dal quale arrivano lettere di detenuti convinti di essere all’inferno. È il Mammagialla di Viterbo, un istituto preceduto dalla sua stessa fama. Qui la polizia penitenziaria ha deciso di manifestare davanti alla prefettura contro quello che definisce “il muro di fango che ad arte stanno erigendo”. I sindacati aggiungono: “Se ci sarà chi ha sbagliato, è giusto che debba pagare”. Ma cosa è accaduto tra quelle mura? “Ho la testa piena di cicatrici dalle botte subite”. “Mi convinco sempre di più di trovarmi in un mondo infernale”. E ancora: “Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato così forte da farmi perdere la vista all’occhio destro”. Sono stralci delle lettere scritte da alcuni detenuti e inviate da febbraio 2018 e nei mesi successivi ad Antigone e al Garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Le accuse sono state confermate anche a voce da alcuni detenuti ascoltati dal Garante che, a giugno 2018, ha presentato un esposto alla Procura, informando il direttore dell’istituto, Paolo D’Andria. Dopo quella denuncia è stata aperta un’inchiesta, la quarta che coinvolge il carcere. Altri tre fascicoli sono stati aperti rispettivamente in seguito alla denuncia della moglie di un detenuto di 31 anni, Giuseppe De Felice, che le ha raccontato di essere stato aggredito dagli agenti penitenziari, alla morte di Andrea De Nino, trovato impiccato il 21 maggio 2018 e al suicidio, due mesi dopo, del 21enne egiziano Hassan Sharaf. Il terzo avvenuto nell’istituto penitenziario lo scorso anno. È poi in corso un’indagine amministrativa partita dalla richiesta del ministero della Giustizia. “Il carcere di Viterbo - spiega il Garante Stefano Anastasia a ilfattoquotidiano.it - ha fama di essere un istituto ‘disciplinarè, ossia dove si fanno rispettare le regole anche ai detenuti che si comportano male in altri istituti”. Le lettere ricevute dal Garante e da Antigone raccontano storie di puro orrore che avverrebbero tra le mura del penitenziario, nel Paese dove il carcere punitivo non esiste. Almeno sulla carta. “Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una ‘cella liscia’. Ho subito aggressioni con pugni e calci che mi hanno lasciato cicatrici in faccia, sul corpo e anche agli organi interni”, scrive un detenuto. La cella liscia è una cella completamente vuota che dovrebbe ospitare detenuti che si ritenga possano commettere atti autolesionistici, ma molte organizzazioni internazionali ne condannano l’utilizzo proprio per il rischio che si trasformi in arma di punizione. Dopo una prima lettera, il detenuto torna a scrivere: “Mi è esplosa una bombola del gas e ho tutto il braccio sinistro bruciato. E qui mi curano molto male visto che non mi trasferiscono non ho avuto la scelta…Ho anche fatto una denuncia il 30 aprile che il 29 aprile sono stato picchiato dalle guardie”. Un altro detenuto avrebbe perso la vista all’occhio destro e riportato un trauma alla testa a causa delle botte. Il motivo? “Perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai…”. A quel punto l’uomo avrebbe detto: “Fate i mafiosi con me senza motivo…”. E dopo pochi minuti “mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali. Da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo”. “Non possiamo dire con certezza se la fama che accompagna l’istituto si basi su fatti veri - spiega il Garante regionale dei diritti dei detenuti - ma di certo qui vengono trasferite persone che hanno a loro carico provvedimenti di ordine e sicurezza”. Anche Sing Khajan, il 34enne indiano che a marzo 2019 ha ucciso, colpendolo con uno sgabello, il compagno di cella Giovanni Delfino, era considerato un detenuto con problemi disciplinari. Arrestato a Cerveteri per tentato omicidio, era stato portato nel carcere di Civitavecchia, dove si era reso protagonista di un’altra aggressione. “Lo stesso direttore del carcere - spiega Anastasia - dice che su circa 500 detenuti, almeno 100 arrivano al Mammagialla a seguito di provvedimenti disciplinari”. Ma come vengono ‘messi in riga’ questi detenuti? “Io spero che le pratiche non siano quelle descritte nelle lettere inviate, a iniziare da febbraio 2018, da alcuni detenuti e che ci hanno spinto a intensificare la nostra presenza a Viterbo, anche per fare luce su alcuni suicidi”. Solo un mese prima, il 9 gennaio, nel carcere Mammagialla, si era tolto la vita Abouelfetouth Mahomoud, vent’anni. Il primo dei tre suicidi avvenuti nel 2018. Il 20 marzo è avvenuto qualcos’altro. È stata perquisita la cella di Hassan Sharaf, egiziano di 21 anni e il ragazzo, insieme ad altri detenuti, è stato accusato di un traffico di psicofarmaci all’interno del carcere, ricevendo una sanzione disciplinare. Il giorno dopo, proprio durante un colloquio con le collaboratrici del Garante Anastasia, un altro detenuto ha riportato di presunte violenze da parte degli agenti di polizia penitenziaria, segnalando proprio la storia di Hassan, raccontata poi in un servizio della giornalista Laura Bonasera, andato in onda nel corso della trasmissione Popolo sovrano di Rai2. Le collaboratrici del Garante hanno incontrato Hassan. Il ragazzo ha mostrato segni rossi sulle gambe e tagli al petto, raccontando che a procurarglieli erano stati alcuni agenti. “Aveva paura, era terrorizzato” ricorda a ilfattoquotidiano.it Anastasia. A quel punto ha chiesto all’amministrazione penitenziaria di trasferire Hassan e di sottoporlo a una visita. Nel frattempo sono arrivate altre lettere ed è avvenuto un altro suicidio. L’8 giugno il Garante ha presentato un esposto in procura. Il 23 luglio, inaspettatamente, Hassan è stato portato in isolamento. Gli hanno detto che si trattava della conseguenza della sanzione disciplinare per il traffico di psicofarmaci avvenuto quattro mesi prima. Entrato in cella alle 12.50, è stato ritrovato due ore dopo. Si era impiccato con un lenzuolo. Il ragazzo è stato portato in ospedale: è morto dopo una settimana di coma. Il Garante ha chiesto al direttore della struttura per quale ragione quel provvedimento disciplinare fosse stato eseguito solo a luglio. “Mi ha risposto - spiega a ilfattoquotidiano.it - che la sezione di isolamento, in tutto quel periodo, era stata sempre piena”. A rendere paradossale questa vicenda altre due circostanze. Hassan avrebbe terminato di scontare la pena il 9 settembre: gli mancavano solo 40 giorni, ma già a luglio non avrebbe più dovuto trovarsi al Mammagialla. Il 10 maggio, infatti, aveva finito di scontare la pena per una rapina commessa da maggiorenne. A quel punto, gliene restava un’altra di quattro mesi per spaccio, ma da scontare in un carcere minorile, dato che quel reato era stato commesso quando non era ancora maggiorenne. Il 19 aprile il Tribunale dei minori aveva ordinato il trasferimento, che non è mai avvenuto. Sulla morte del ragazzo è aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione e aiuto al suicidio. Un’altra inchiesta era stata aperta dopo l’esposto presentato da Anastasia a giugno. Un terzo fascicolo invece riguarda la morte, avvenuta a maggio, del detenuto Andrea Di Nino, 36 anni. Il secondo suicidio del 2018. Di Nino era in carcere da due anni per possesso di stupefacenti. È stato trovato impiccato il 21 maggio, sempre in cella d’isolamento. Ha lasciato una compagna e cinque figli, ma i familiari sono convinti che non si sarebbe mai potuto suicidare. In primis perché gli mancava un anno dalla fine della pena ed era convinto che sarebbe uscito anche prima. E poi perché dalle lettere che scriveva ai suoi cari, era evidente il desiderio di viversi appieno la famiglia una volta uscito dal carcere. “Ho voglia di spaccare il mondo” scriveva il 36enne. Una quarta indagine della magistratura è stata avviata in seguito alla denuncia della moglie di Giuseppe De Felice, che le ha raccontato di essere stato picchiato da una decina di agenti penitenziari, armati di una mazza bianca, che indossavano guanti neri. “L’ho visto con il volto tumefatto, pieno di lividi e con il sangue all’occhio sinistro”, ha raccontato la donna al quotidiano “Il Dubbio”. Del caso si sono occupati, oltre al Garante, anche il consigliere regionale di +Europa Alessandro Capriccioli, Rita Bernardini del Partito Radicale e il collega Riccardo Magi che ha presentato un’interrogazione parlamentare insieme a Manfred Schullian del Gruppo Misto. A rispondere alla Camera, a febbraio 2019, è stato il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Il ministro Alfonso Bonafede ha attivato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha chiesto una relazione e, il 31 luglio scorso, ha dato disposizione al Provveditorato regionale di eseguire un’indagine ispettiva. A inizio marzo gli ispettori hanno lavorato per due giorni nel carcere. Non sono più arrivate lettere, ma è pur vero che in questi mesi il carcere ha avuto i riflettori puntati. Nel frattempo, a fine marzo, il Consiglio d’Europa ha inviato una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene per esaminare la condizione dei detenuti sottoposti al regime 41bis e all’isolamento. Il Comitato ha condotto una visita di dieci giorni e ha elaborato una relazione da consegnare al Consiglio. “Non ne conosciamo l’esito, ma in forma riservata verrà inviata al Governo - spiega il Garante a ilfattoquotidiano.it - che avrà un mese di tempo per rispondere. Poi la relazione verrà resa pubblica”. Il clima resta molto teso e l’omicidio di Giovanni Delfino ha peggiorato la situazione. I sindacati di polizia penitenziaria hanno deciso di manifestare davanti alla prefettura, sottolineando che la sera della tragedia “c’erano solo due agenti per tutto il reparto, che ospita 300 detenuti”. Denunciano la cronica carenza di personale in tutti i settori dell’istituto che “sta comportando abnormi carichi di lavoro” e “turni stressanti anche di 12 ore continuative”. Una situazione al collasso che, però, non giustificherebbe le presunte violenze descritte nelle lettere dei detenuti. Su cui è ora di fare chiarezza. Pordenone: carcere infinito, a maggio riavvio del cantiere a San Vito Il Gazzettino, 18 aprile 2019 Ancora pochi giorni e la vicenda legata al blocco del cantiere del nuovo carcere a San Vito al Tagliamento potrebbe sbloccarsi. Entro questo mese di aprile la Cassazione dovrebbe pronunciarsi sul ricorso presentato dalla impresa Pizzarotti di Parma rispetto all’assegnazione dell’appalto per la realizzazione del nuovo penitenziario alla società Kostruttiva-Riccesi. Salvo rinvii la lunga battaglia giudiziaria dovrebbe concludersi. E - in un modo o nell’altro - il cantiere potrà ripartire. La notizia è emersa ieri nel corso di un summit tra i vertici dell’amministrazione giudiziaria che si è tenuto a Pordenone. In visita al carcere del Castello è arrivato Enrico Sbriglia, provveditore regionale per Veneto-Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige del Dipartimento ministeriale, che - insieme ai direttori dei penitenziari del Nordest - ha visitato la struttura accompagnato dal direttore del carcere cittadino Alberto Quagliotto. “La situazione - ha aggiunto il provveditore - è di fatto in stand by da circa sei mesi. A novembre la vicenda giudiziaria ha costretto allo stop dei lavori, quando l’opera era già avviata con i lavori di bonifica dell’area. Auspichiamo che entro maggio ci possano essere le condizioni per riavviare il cantiere”. Sei mesi di blocco che hanno allungato ulteriormente quella che è ormai una storia infinita. Troppi anni infatti sono trascorsi dopo che diverse ipotesi sul carcere di Pordenone in città erano saltate una dopo l’altra. Fino al trasferimento della struttura e l’appalta a San Vito. Tempi lumaca per il nuovo penitenziario mentre nel carcere del castello la situazione sta diventando davvero pesante. E a confermarlo è stato lo stesso Sbriglia: “È una struttura che essendo nata nei secoli per altri utilizzi presenta delle difficoltà strutturali e logistiche con cui chi è costretto a viverci e chi vi lavora si confronta tutti i giorni. Per questo il personale penitenziario, coordinato dal direttore e del comandante della polizia penitenziaria, è costretto a sacrifici poiché il tipo di struttura rappresenta uno svantaggio”. Se inoltre si considerano le difficoltà legate al sovraffollamento della struttura diventa fondamentale riuscire a stringere i tempi per la nuova realizzazione. Ogni settimana che passa è un disagio in più per in quella struttura ci deve vivere e lavorare. Entro fine mese, dunque, si capirà quale sarà l’impresa che dovrà proseguire - o subentrare - nell’opera di realizzazione del novo carcere. “L’auspicio - conclude il provveditore - è che i tempi siano il più possibile brevi. Le carceri del Veneto rientrano in uno standard simile ai Paesi nordeuropei, credo che anche il futuro carcere pordenonese sarà adeguato a quei livelli”. Napoli: quando dal carcere germogliano fiori di Antonio Averaimo Famiglia Cristiana, 18 aprile 2019 Don Franco Esposito, nel Centro di pastorale carceraria a Napoli, accoglie i condannati che scontano la pena con forme alternative alla prigione. Nell’ufficio di don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e responsabile del Centro di pastorale carceraria della diocesi di Napoli, c’è in bella mostra un quadretto con una citazione di una canzone di Fabrizio De André, Via del Campo: “Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”. Ci vuole poco per capire che il “letame” cui allude il sacerdote è l’umanità derelitta che affolla le carceri italiane, in particolare quello di Poggioreale, il più sovraffollato d’Italia, dove le condizioni di vita dei detenuti sono drammatiche. Un giorno, un detenuto gli regalò un disegno. Lui ha deciso di utilizzarlo come logo della struttura, bene esposto sul portone d’ingresso. Vi sono raffigurati il pane eucaristico e delle catene spezzate. “Simboleggiano la condivisione e la liberazione, entrambi doni che vengono da Cristo”, spiega don Franco, mentre ci accompagna in giro per il centro, aprendoci le porte dei vari laboratori. Quello della liberazione è un concetto fondamentale qui nella struttura che sorge in cima al quartiere della Sanità, uno dei più difficili di Napoli. Don Franco è un sacerdote molto concreto, che predilige la pratica ai discorsi teologici. Quando però gli chiediamo perché la diocesi abbia deciso di aprire questo centro, che ospita quasi quaranta detenuti beneficiari di misure alternative al carcere, non ha un solo secondo di esitazione nel rispondere: “Cristo stesso, nei Vangeli, ci chiede di occuparci dei detenuti. Addirittura si identifica con essi, una cosa scandalosa agli occhi degli uomini. Come può infatti Gesù, lontano anni luce dal peccato, identificarsi con dei malfattori? Eppure egli ci dice: “Ero in carcere e mi avete visitato” (Matteo 25,36)”. Insomma, per don Franco e per tutti i volontari del centro non c’è differenza fra Gesù e i detenuti che ospitano qui. Quello che fanno a loro, sanno di farlo a Cristo stesso. Nei vari laboratori i detenuti strappati all’inferno di Poggioreale sono impegnati in diverse attività, quasi tutte collegate alla fede. C’è un gruppetto che confeziona rosari. “Quando li consegniamo ai religiosi per cui li facciamo, chiediamo di pregare per noi”, ci spiegano i ragazzi. “Bisogna uscire dalla sola logica della punizione”, dice don Franco. “D’altronde le statistiche ci dicono che l’80 per cento di coloro che entrano in carcere vi ritornano. Questo vuol dire che il modello esclusivamente punitivo è una strada che non può funzionare. I ragazzi hanno bisogno di esempi positivi: solo così possono prendere coscienza del male commesso ed elaborare nuove idee per la loro vita. È quello che cerchiamo di fare qui”. Don Esposito ci spiega che “la Chiesa italiana è sempre stata in carcere per occuparsi dei detenuti. Ora però è in atto una nuova stagione, in cui le diocesi e le parrocchie ospitano i detenuti con misure alternative al carcere, grazie alle quali la recidiva si abbassa notevolmente”. Alfredo e Dragan sono due ospiti del centro. “Il carcere ha poco di riabilitativo”, dice il primo. “Quando ci sono entrato, ero disperato. La mia famiglia mi aveva allontanato. Si vergognava di me. Lo stesso ha fatto mia moglie. Un giorno decisi di confessarmi. Ma mi sentivo in colpa. “Sono qui solo perché vivo un momento difficile”, mi dicevo. Ma poi mi sono convinto che a Dio non importava e che mi aspettava a braccia aperte. Così ho cominciato ad andare regolarmente a Messa, e ora sono qui. E vorrei restare anche quando avrò terminato di scontare la mia pena per aiutare gli altri detenuti”. Poi si lascia andare a una confidenza: “La mia conversione è merito di una religiosa, suor Lidia, che non mi ha mai fatto sentire giudicato. Se non fosse stato per lei, probabilmente avrei potuto anche togliermi la vita. Ma ora sono solo brutti ricordi”. Chiediamo ad Alfredo per quale reato sia finito dentro. Dopo la sua risposta, che non riferiamo, cala il gelo. Alfredo ci spiega: “Vedi, in tanti anni, suor Lidia non mi ha mai chiesto cosa avessi fatto. Si è semplicemente occupata di noi”. Don Franco conferma: “Non ci interessa quali reati abbiano compiuto i detenuti. Ci interessa che cambino vita”. Dragan, che è serbo, racconta delle botte ricevute i primi tempi dagli agenti penitenziari. Anche lui ha conosciuto in carcere una religiosa che gli ha cambiato la vita, suor Anna Maria. Anche lei è fra i tanti cristiani impegnati nelle carceri italiane perché da quello che per la società è “letame” nasca qualcosa di bello e di buono. Con l’iniziativa “Un gesto di cuore”, i lettori di Credere possono regalare un abbonamento della rivista a persone che non se lo possono permettere: famiglie indigenti, carcerati, anziani nelle case di riposo. Per partecipare basta versare 52,80 € (pari all’importo di un abbonamento annuale) oppure l’importo che si desidera offrire con le modalità modalità indicate alle pagine 50-51 della rivista. Velletri (Rm): il Papa fra i detenuti di Igor Traboni Avvenire, 18 aprile 2019 Oggi la Messa in Coena Domini nel penitenziario laziale con la lavanda dei piedi a dodici reclusi. Il cappellano don Diamante: sarà una primavera di speranza in un luogo dove la gioia non è di casa. Prima di tutto sarà una grande festa, una festa vera. Sorprendente ed emozionante, in un luogo dove la festa non è di casa. Tutta la comunità carceraria di Velletri ha già un altro volto, insolitamente gioioso”. Così don Franco Diamante, cappellano della casa circondariale di Velletri, descrive ad Avvenire l’ attesa per l’arrivo del Papa che in questo penitenziario in provincia di Roma celebrerà oggi, Giovedì Santo, alle 16.30 la Messa in Coena Domini. Nel corso della liturgia Bergoglio laverà i piedi a dodici reclusi. “Tanti stanno adoperandosi nell’organizzazione e nella preparazione di piccoli doni per Francesco - prosegue il sacerdote. E come quando il sole brilla alto nel cielo e ciascuno viene raggiunto dal suo calore: anche la pietra più refrattaria assorbe una piccola quantità di quel calore. In secondo luogo, le persone carcerate sentono questa visita come una conferma di ciò che già sanno: che il Papa con tutta la Chiesa li ama, li ascolta e si adopera perché a tutti sia data la possibilità di riscattarsi”. Don Franco, 62 anni e 38 di sacerdozio, dieci dei quali trascorsi come fidei donum in Messico è cappellano del carcere dal 2007. “Quando ho saputo dell’arrivo del Papa - aggiunge - ho pensato subito alla gioia che avrebbero avuto i detenuti e me ne sono rallegrato”. Detenuti che per un terzo non sono italiani. “Ci sono europei dell’Est, africani del Nord e subsahariani, pochi latinoamericani, pochissimi asiatici. Oltre ai cattolici, sono presenti soprattutto musulmani e ortodossi. Pochissimi sono gli evangelici e i testimoni di Geova. Solo questi ultimi sono impenetrabili. Con gli altri c’è una relazione amichevole. Gli ortodossi partecipano alla Messa e alla catechesi. Nell’ascoltare le richieste di aiuto non si fa nessuna discriminazione. I più poveri vengono aiutati in modo particolare, cosa apprezzata da tutti, in particolare dagli islamici”. Ma che cosa si aspetta il cappellano del carcere di Velletri dalla visita? “Mi auguro - fa sapere don Diamante - che serva a rafforzare il lavoro che già si fa. Che rafforzi la speranza che seminiamo tutto l’anno. Il popolo prigioniero conosce la promessa di una strada nel deserto e fiumi d’acqua nella steppa. La voce autorevole del Papa produrrà una primavera della speranza”. L’attesa coinvolge anche il personale della polizia penitenziaria e quello civile del carcere di Velletri, un moderno complesso che sorge al centro della vasta pianura che poi arriva fino al litorale romano, dotato di una scuola media e una sezione dell’Agrario e di varie attività lavorative. “I detenuti sono attualmente 577 - racconta Maria Donata Iannantuono, direttrice della casa circondariale veliterna - e, con agenti e civili, arriviamo a una comunità di mille persone. Tutti siamo in fibrillazione e questa visita ci darà la forza per continuare nel nostro operato con le persone a noi affidate perché possano reinserirsi nella società. Ho avvertito subito una grande attesa nei detenuti, in quelli di tutte le fedi, che lo sentono davvero come il Papa del dialogo. Tutti sono colpiti dall’ulteriore dimostrazione di sensibilità nei confronti di questa parte di cittadini che soffrono, privati della libertà. Cosa mi aspetto? Che la visita del Pontefice e le parole che ci lascerà possano aprire la mente a chi ancora ce l’ha chiusa rispetto alla dimensione del carcere”, conclude la direttrice. Perché insistiamo su Radio Radicale di Michele Serra La Repubblica, 18 aprile 2019 L’appello all’esecutivo: niente è più lontano da questa politica, veloce, sbrigativa, nervosa, della fluviale chiacchiera che quei microfoni hanno intercettato e diffuso lungo i decenni della prima e della seconda Repubblica. Se mai questa maggioranza dovesse muovere un dito per confermare Radio Radicale nel suo ruolo di servizio pubblico, lo farebbe per convenienza tattica o per comodità politica, non certo per convinzione. Specie in una delle sue componenti, quella grillina, il potere italiano del 2019, prima ancora di non avere un’opinione compiuta su Radio Radicale, non ne ha contezza. Non sa quello che è stato e quello che è. E nemmeno è in condizione di capirlo. Un Gange di parole, ovviamente non tutte limpide, che confluivano lente e limacciose da infinite fonti (partiti, congressi, convegni, sedi istituzionali, microfoni aperti), un’assemblea permanente di voci umane con indefessa fede nel “dibattito” anche quando il dibattito ammorba, o indispone, o mette sonno. Anche se alcune voci sono odiose e altre inutili, serve ascoltarle: questo ci ha sempre detto Radio Radicale. Il contrario del clic con il quale si pretende di rimpiazzare il logos, che puzza di “vecchia politica”, di chiacchiera interminabile, di volute di fumo, di perdigiorno come Pannella che alla politica dedicavano ogni fiato e ogni energia, e non andavano a dormire la notte pur di parlarne ancora, e non sempre si capiva quello che volevano dire. Il solo termine riconosciuto, per la passione politica di quella leva, non era misurabile in legislature. Era la morte, come ci ha detto bene Massimo Bordin che ha smesso di parlare solo quando ha smesso di respirare. È il logos, è la dialettica, la materia della quale questo potere (questa società?) non sa più che farsene. Il logos non è salubre, non è sintetico, non è efficiente, non ha piattaforma che lo metta in riga, non porta quasi mai a conteggio le opinioni e anzi le somma di continuo, nell’interminabile vizio democratico di aggiungere voci e di non selezionarle. Aggiungere: questo ha fatto, per mezzo secolo, quella radio, anche a costo di irritare chi non ne poteva più di sentire l’opinione di tutti. Servizio pubblico, appunto. Se le giornate fossero di quarantotto ore e non di ventiquattro, Radio Radicale avrebbe trovato il modo di diffondere una quantità doppia di chiacchiere politiche, istituzionali, parlamentari, nella sua fede militante che sacralizza la voce umana per principio, sia o non sia degna di credito e di rispetto. Già le frasi troppo lunghe, quelle con coordinate e subordinate, sono sospettabili di voler complicare le cose, ovviamente a vantaggio di oscure manovre a scapito della purezza del cittadino “buon selvaggio”. Figuriamoci le dirette interminabili, i ragionamenti senza sponde, le parole libere e divaganti, superflue e preziose. È per una questione di tempi e di ritmi, soprattutto di ritmi, che i giovanotti al potere non possono capire che cosa morirebbe, con la morte di Radio Radicale. Stop ai fondi e addio alla sua voce storica, il giorno più buio per Radio Radicale di Giovanna Casadio La Repubblica, 18 aprile 2019 Quando le stanze di Radio Radicale sono invase dal Requiem di Mozart e la commozione per la morte di Massimo Bordin è nei volti dei compagni, degli amici, dei colleghi che lavorano nella Radio che il governo vuole chiudere, a sorpresa non è la rabbia ma l’orgoglio a prevalere. La fierezza per quella Radio che nacque clandestina nel 1976 e alla quale i parlamentari radicali giravano il finanziamento pubblico al partito. Un pezzo della storia dell’Italia e delle conquiste civili. E mentre si rincorrono i ricordi, gli aneddoti, su Facebook impazzano i melomani bordiniani - quelli per cui la voce di Massimo era puro jazz - e il via vai di telecamere e Tg è incessante, Radio Radicale ringrazia. Ringrazia Repubblica e l’appello lanciato: “Caro premier Conte, salvi Radio Radicale”. “Non ce l’aspettavamo tanta solidarietà”: dicono. Ma non per mancata consapevolezza del valore (loro e della Radio), bensì per quella cosa che gli ha insegnato Bordin, il quale amava dire: “Sono un umile cronista”. Invece era tante cose, come Radio Radicale. Da riassumere con la frase ripetuta da Emma Bonino: “L’essenza della democrazia è la libertà d’informare e il diritto di sapere”. Senza tanti giri di parole, l’essenza appunto. “La morte di Bordin ricorda l’importanza di Radio Radicale”, rimarca la storica leader. Alessio Falconio, il direttore che non ha mai voluto fosse toccata la stanza del suo predecessore Bordin, scuote la testa: “Un momentaccio. Il più brutto”. E però entra nello studio dove Massimo registrava ogni mattina alle 7 e 35 la rassegna stampa da trent’anni, e indica le bruciature delle sigarette sul tavolo, traccia di Massimo e di Marco Pannella. L’amministratore delegato Paolo Chiarini elenca il numero dei dipendenti: 52 e 33 collaboratori. Conteggia: un mese di vita prima che scada la convenzione e quindi la Radio taccia. Anche la seconda carica dello Stato, Elisabetta Casellati solidarizza: “Impegnarsi a scongiurare la paventata chiusura di Radio Radicale, salvaguardando così il pluralismo dell’informazione, sarà il miglior modo per ricordare la figura di Bordin e testimoniare il valore della sua esperienza”. L’elenco dei sostenitori è lungo. Tuttavia il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede ribadisce la linea del sottosegretario Vito Crini: “Radio Radicale? C’è il servizio pubblico pagato dai cittadini”. Chiudiamola così, senza rimpianti. Crimi esprime il suo cordoglio su Facebook: “Alla famiglia dell’ex direttore di Radio Radicale Bordin, ai colleghi ed amici esprimo il mio sincero cordoglio per la sua scomparsa. B giornalismo italiano perde uno fra i suoi più importanti protagonisti”. Basta per scatenare sui social le reazioni anche dure verso il sottosegretario che Bordin il 2 aprile, ultimo giorno in Radio, aveva battezzato “il gerarca minore”. Ada Pagliarulo in Radio ha la voce spezzata mandando in onda l’annuncio della morte di Massimo. Si cambia il palinsesto. Si racconta Massimo e insieme Radio Radicale, le sue battaglie, la sua novità. Il centralino è preso d’assalto. Il cdr della Radio fa un comunicato: “Se ne va Bordin, resta il regime, quel regime che tutte le mattine, fino all’ultimo, ha raccontato con la sua memoria storica, con la sua lucida intelligenza e la sua ironia”. Oggi riunione alla Fusi per capire cosa fare, per non arrendersi, come Massimo Bordin insegna. Radio Radicale, morto Massimo Bordin storica voce dell’emittente di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 18 aprile 2019 Era curatore della Rassegna Stampa dedicata ai temi della politica. Aveva 67 anni. Per chi lo ascoltava tutte le mattine, in quella sorta di preghiera laica collettiva che teneva da anni su Radio Radicale, Massimo Bordin, morto ieri a 67 anni, era un amico. È stato molto altro, nella sua vita, ma il rapporto con gli ascoltatori era diventato così stretto che ormai più che una rassegna stampa, la sua sembrava una seduta d’analisi, con noi sdraiati sul suo lettino e lui che raccontava fatti e misfatti della cronaca e della politica. I suoi commenti spesso sarcastici, puntuti, ma sempre eleganti, raffinati. Giornalista colto e raffinato - Del resto Bordin è sempre stato così, un giornalista colto, raffinato ed elegante, tremendamente intelligente, diventato noto ai più soprattutto per le interminabili conversazioni con Marco Pannella. Un flusso di coscienza, quello di Pannella, interrotto puntualmente dall’unica persona in grado di seguire e capire in ogni sfaccettatura l’eloquio contorto del grande radicale. Bordin si è sottoposto per anni a una specie di splendida tortura, ribellandosi soltanto nel 2010, con litigi furibondi rigorosamente in diretta radio, seguiti dalle dimissioni da direttore, ma non da quelle di conduttore di Stampa e Regime. Da giovane è comunista, anzi trotzkista, transitando presto nella galassia radicale. Nel 1979, dopo un passaggio a Radio Città Futura, entra a Radio Radicale, direttore Lino Jannuzzi, e non la lascia più. Diventa la spalla di Pannella, il suo sparring partner, il suo più fedele duellante. Qualcuno si chiede chi glielo fa fare, qualcuno pensa che sia troppo poco per lui quel ruolo di secondo, ma non è così, tanto che a un certo punto Bordin diventa l’emblema della radio e persino dei radicali. La personalità istrionica di Pannella, poco disposta a concedere spazio agli altri, ha un soprassalto quando la notorietà di Bordin si impenna. Ne segue una diretta drammatica, con insulti (“stronzo dalemiano”, a Bordin naturalmente). Gli epici scontri con Pannella - Non è la prima volta. Si ricordano gli scontri epici su Massimo Fagioli e tanti altri. Ma non finì mai l’affetto e il rapporto con il grande affabulatore, che lo lascia, e ci lascia, solo qualche anno prima di lui. Accomunati dal destino di fumatori incalliti. Pannella diceva di fumare 60 sigari al giorno, Bordin tre pacchetti di Chesterfield. E verso la fine, quando cominciava ad avere i primi problemi respiratori, sigari a volontà. Per la rabbia impotente e affettuosa degli ascoltatori che lo sentivano sempre più circondato da una nuvola gutturale di scoppi di tosse, lunghi silenzi e parole che si perdevano nel silenzio mattutino. Nei suoi accessi d’ira, nelle stilettate velenose, Bordin ha sempre conservato il cinismo intelligente di chi sa che non esiste la purezza e pure cerca con tenacia di distinguere, di capire, di andare fino in fondo. E per questo continuò ad avere il rispetto di tutti i radicali, anche quando la galassia andò in mille pezzi, con i Radicali italiani espulsi dalla sede, in lite furibonda con il Partito. Le assenze degli ultimi giorni - Negli ultimi giorni le sue assenze dalla radio avevano allarmato i suoi ascoltatori e anche quel drappello di fedelissimi che ne commentava ogni passaggio, nel gruppo facebook “Melomani bordiniani”. Solo ieri Roberta Jannuzzi aveva letto un comunicato stringato in radio, gettando molti nello sconforto: “Massimo Bordin ha chiesto un periodo alla radio per curarsi, cosa che sta facendo nel massimo riserbo”. In questi minuti su Radio Radicale va in onda il requiem di Mozart, che per anni ha annunciato l’arrivo di Stampa e Regime. La notizia la dà in radio il suo successore alla direzione, Alessio Falconio: “È con immenso dolore che diamo questa comunicazione. Massimo era malato da tempo e aveva chiesto di poter vivere e lottare con questa malattia nel massimo riserbo. Abbiamo rispettato questa sua scelta. Non ce l’ha fatta. Voglio onorare la sua memoria con quel requiem che ha preceduto la sua unica, splendida, rassegna stampa”. Un dolore che colpisce molti che radicali non sono. E che forse, oltre alla sua voce, non potranno più sentire l’eco della sua casa, Radio Radicale. Alla quale il governo potrebbe staccare la spina, non rinnovando quella convenzione per la quale Bordin si era battuto a lungo. Massimo Bordin, il Tony Bennet di Stampa e Regime di Luigi Manconi Il Manifesto, 18 aprile 2019 Era la voce di Radio Radicale, un fior di giornalista, capace di offrire ogni giorno un’accurata indagine politica che si snodava come un racconto sociale e culturale. Nel linguaggio musicale, crooner indica l’interprete che si muove tra genere popolare e jazz e che, grazie a un uso sapientissimo del microfono, modula la propria voce lungo una molteplicità di toni che si avvicinano al parlato. E che, dunque, prevedono le tonalità più basse, l’incespicare, la fatica, il sussurro, il borbottio, il sospiro, lo starnuto, il brontolio, il respiro e la tosse. In italiano viene tradotto impropriamente come “cantante confidenziale”, ma in realtà si deve immaginare più Tony Bennet che Jonny Dorelli. Ecco, Massimo Bordin era un giornalista crooner. Non è un caso che Stefano Bollani, bravissimo musicista jazz, dotato di misconosciute doti di imitatore, ne abbia fatto - quindici anni fa - un ritratto mirabile. Il Bordin di Bollani compulsava e aggrediva la carta stampata e dopo averla, con puntualità e pignoleria, letta e commentata, ne andava all’assalto: la faceva a pezzi, a brandelli, la appallottolava in una sorta di delirio di amore e di odio (e si poteva sospettare che, infine, la divorasse), accompagnato da una tosse ritmata che assumeva i tempi di quel ballo detto giava. Massimo Bordin era questo e poi tutto il resto. Se non sbaglio - le biografie di persone riservate come Massimo sono affidate, innanzitutto, alla tradizione orale - il suo incontro con il giornalismo radiofonico avvenne quando Radio Città Futura si trasferì nei locali di via dei Marsi, dove si trovava la sede italiana della Quarta Internazionale. Bordin era un militante trotskista e tracce di quella esperienza e di quella cultura hanno accompagnato l’intera sua esistenza, in particolare per due connotati determinanti. Il primo si ritrovava nel suo fermo riferimento alla sorte degli sfruttati. Un riferimento mai retorico e mai declamatorio, che appariva quasi trattenuto e contenuto, fino a quando riteneva (lo immaginavo mormorare: “quando è troppo è troppo”) di non poterlo più tacere. Una rassegna stampa che procedeva fluida, inappuntabile e inattaccabile, ma quando poi emergeva una questione cruciale (di vita o di morte, di diritto o di torto, insomma di verità essenziali), allora Bordin diceva la sua in maniera inappellabile: dalla parte dei naufraghi o dei giovani precari o dei rom. In altre parole, va bene tutto, vanno bene le ambiguità più sottili e le cortigianerie più melliflue celebrate dai giornali, ma poi, alla resa ultima dei conti, ciò che davvero vale è la vita e la dignità degli esseri umani. Era questa la sua fedeltà da eretico alla storia e al sistema di valori del movimento operaio (fateci caso: quante volte accade che gli eretici siano più memori e coerenti di quanto lo siano gli ortodossi). E questo sapeva faticosamente ma ostinatamente combinare, da buon radicale pannelliano, col suo liberalismo di sinistra e col suo antistatualismo ben temperato. L’altro tratto della sua militanza giovanile lo si rintracciava in quella acribiosa passione per il dettaglio e in quell’inesausto zelo per i particolari, quelli della storia italiana e del suo sistema di partiti, così come quelli delle vicende della criminalità organizzata e dei relativi infiniti processi. Qui emerge quella dimensione del “socialismo scientifico” che troppo spesso è stato buttato via insieme all’acqua sporca. E, tuttavia, si deve evitare di dare, di Bordin, una immagine deformata quasi si trattasse di un conduttore radiofonico tra gli altri. Era un fior di giornalista, capace di offrire ogni giorno un’accurata indagine politica che si snodava come un racconto sociale e culturale. Era di origini venete ma immagino, chissà poi perché, non sia mai andato oltre Firenze. E mi suggeriva una simile idea quella sorta di antropologia urbana che ricavava, attraverso una toponomastica minuziosa, dalle vicende sociali e innanzitutto criminali di tre città amatissime: Roma, Napoli, Palermo. Poi, c’era la rubrica quotidiana su Il Foglio, Bordin Line, dove l’ironia del commento delle ultime righe sembrava volesse attenuare l’aspra esattezza delle contestazioni verso la vocazione all’Approssimazione del Giornalista Collettivo: fatti, date, nomi e cognomi, circostanze, località, parentele, associazioni legali e illegali, fasi processuali, ma anche soprannomi, usi e costumi, tic e vizi e virtù, tutto veniva sottoposto a quello che oggi viene definito fact checking, e che è nulla più dei criteri del buon giornalismo. Lettore onnivoro (mi parlò a lungo di “Oro” di Salvatore Rossi), Bordin faceva brevi e riottosi accenni a qualche film, a qualche saggio, a qualche romanzo; tifoso della Roma, si piccava di non citar mai il gioco del calcio nel corso della sua rassegna. E questo, in un tempo che vede il linguaggio politico ricorrere alle più miserevoli metafore calcistiche, è un atto di elegante eroismo. Per finire, devo dire che mai mi è capitato di scrivere così tanto a proposito di un amico con il quale mai ho pranzato o cenato, mai preso un caffè e mai andato al cinema. Ci siamo sentiti al telefono e abbiamo parlato decine e decine di volte, ma proprio il fatto che ancora a lungo potrei parlare di lui si deve - lo giuro - solo in minima parte alla mia prolissità. Assai di più, invece, a quella espressione di intelligenza culturale e politica che è stata la sua Stampa e regime. Non stupisce che oggi vi sia chi la voglia chiudere, insieme a quella scuola di memoria e di giornalismo così sfrontatamente pubblica e istituzionale che è Radio Radicale. Muore Massimo Bordin e chiude Radio Radicale di Dimitri Buffa L’Opinione, 18 aprile 2019 L’ultima battuta di Massimo Bordin - prima della sua morte - che rimarrà nei nostri cuori oltre che nei nostri cervelli, fu quella per etichettare il sottosegretario all’Editoria del Movimento Cinque Stelle, Vito Crimi, definito il “gerarca minore”. Il tutto durante una delle ultime, forse proprio l’ultima, rassegna di “Stampa e Regime” da lui condotta. Prima di dover chiedere alla Radio - che adesso il Governo si vanta di voler far chiudere con indifferenza e arroganza - alcuni giorni di sosta per curarsi. Era discreto Massimo e dei suoi problemi di salute, come di tutti gli altri, immagino parlasse a stento con gli amici intimi. Di cui non ho avuto la ventura e la possibilità di fare parte. Tuttavia Massimo è come se fosse morto sul pezzo. E nelle orecchie quella battuta feroce per sbugiardare la prosopopea infingarda e ipocrita del sottosegretario che dice di voler risparmiare quattro soldi non finanziando più la convenzione con l’emittente, inventandosi falsità a ripetizione per giustificare l’ingiustificabile - tipo il “non aver mai partecipato a una gara”, mentre era il Governo che dopo la prima non ne volle fare più perché non si sapesse che con quella cifra che corrisponde agli attuali 8 milioni di euro nessuno si presentava non essendo la cosa affatto redditizia - farà eco ancora a lungo. Come minimo finché questa brutta storia di soppressione di un servizio pubblico non verrà chiarita per quel che è: il “Governo del cambiamento” semplicemente non vuole che le persone sentano i discorsi dei parlamentari, quel che avviene nelle aule di giustizia, al Csm, alla Corte costituzionale e nei congressi di partito, né che i cittadini possano rendersi conto della pochezza della classe dirigente italiana semplicemente sentendola parlare. Adesso l’algoritmo qualunquista della Casaleggio Associati prefigura per tutti noi una consapevolezza da autobus gremito nelle ora di punta, tra gente inferocita per il peso delle sporte della spesa o perché qualcuno le si è strofinato contro nella calca interna al mezzo. Massimo Bordin era per Radio Radicale ciò che Luis Armstrong o Chet Baker sono stati per il jazz: semplicemente il più grande, anche dei simboli. Se la rassegna di “Stampa e Regime” era la summa teologica del rapporto tra Radicali e mass media, la conversazione domenicale con Marco Pannella, interrottasi nell’aprile 2016 un mese prima della morte di Marco, era il sancta sanctorum della politica del Partito radicale transnazionale. Peraltro Bordin era una persona preparatissima e quasi leonardesca nei propri interessi giornalistici: si andava dalla conduzione e annessa spiegazione dei vari processi seguiti udienza per udienza nello speciale giustizia al dialogo con Fiamma Nirenstein su Israele fino a quello con Giovanna Pajetta sull’America. Un giornalista così se non ci fosse stato si sarebbe dovuto inventare. E invece, a parte essere stato per anni direttore della più grande radio di informazione pubblica europea e collaboratore de “Il Foglio”, nessuno nei decenni si era mai sognato di approfittare della sua preparazione per proporlo, che so, come direttore di rete in Rai. Figuriamoci, una persona così buona e onesta intellettualmente andare a sbattere in simili covi di vipere del potere. No, Massimo Bordin era contento e ricco di quel che aveva dentro, oltre alla suddetta bontà d’animo: un’intelligenza esagerata, un senso critico che si coniugava con l’onestà intellettuale di cui poteva fare sfoggio come e quando voleva. Noi tutti qui a “L’Opinione” - oltre a stringerci attorno alla sua famiglia di Radio Radicale che in questi giorni sta vedendo i sorci verdi della prepotenza e dell’ignoranza grillina - rimpiangeremo la voce che per trenta e passa anni ci ha svegliato la mattina intorno alle 7,35. Noi tutti abbiamo amato “The Voice”, noi tutti osserviamo la sinistra coincidenza simbolica tra il suo ultimo viaggio e quello che sembra essere l’ultimo capitolo di una storia radiofonica e politico-esistenziale iniziata a metà degli anni Settanta. Ma nessuno di noi si rassegnerà a questo schifo senza prima aver lottato. A cominciare dalla partecipazione alla marcia di Pasqua delle 11 a piazzale della Madonna di Loreto vicino l’Altare della Patria. E se non è Patria Radio Radicale, ditemi voi cosa lo è. Anche il direttore Arturo Diaconale, la redazione, l’amministrazione, i colleghi e i collaboratori tutti de “L’Opinione” si stringono attorno alla famiglia di Massimo Bordin e di tutta Radio Radicale. Cinque milioni di poveri in Italia, 17 milioni “working poors” di Mario Pierro Il Manifesto, 18 aprile 2019 L’Istat conferma la gravità della crisi sociale del paese. Il sussidio detto impropriamente “reddito di cittadinanza” si rivolge a una parte dei “poveri assoluti”. Resta senza risposte la povertà dei minori e la crisi dell’istruzione: il nostro paese è tra gli ultimi per numero di laureati e tra i primi per tasso di abbandoni scolastici. Nel 2017 gli individui in povertà assoluta erano 5 milioni e 58mila (8,4%). la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 28,9% (circa 17 milioni e 407 mila individui), in diminuzione rispetto al 30% toccato nell’anno precedente. Lo ha confermato ieri l’Istat nel “Rapporto SDGs 2019. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia” e può essere usato per confermare dati già noti rispetto alla politica denominata “reddito di cittadinanza” che, a marzo, ha riscontrato l’interesse di oltre 800 mila persone, di cui poco più della metà sono state selezionate per accedere al programma di “workfare”, ovvero lo scambio tra un sussidio pubblico e l’obbligo a lavorare fino a 16 ore a settimana e formarsi obbligatoriamente presso centri per l’impiego e altri enti. Questo “reddito” non è diretto a tutti i “working poors” (oltre 17 milioni), ma a una parte dei “poveri assoluti” sotto i 9.360 euro di reddito Isee. La rilevazione effettuata dall’Istituto nazionale di statistica ha stabilito un indicatore di povertà o esclusione sociale sulla base della quota di persone che si trovano in almeno una di queste situazioni: sono a rischio di povertà di reddito; gravemente deprivate materialmente, vivono in famiglie con una intensità lavorativa molto bassa. Su questi parametri è stato definito che in Italia la povertà di reddito riguarda il 20,3% della popolazione. Questo valore è sostanzialmente stabile rispetto al 20,6% del 2016. Si trova in grave deprivazione materiale il 10,1% della popolazione, una quota più bassa di 2 punti nel confronto con l’anno precedente. La quota di coloro che vivono in famiglie con una intensità di lavoro molto bassa è dell’11,8%, in diminuzione dal 12,8% del 2016. Le disparità regionali restano molto ampie, sia per l’indicatore composito sulla povertà o esclusione sociale, sia per le tre misure che lo compongono. Il Mezzogiorno presenta i valori più alti per tutti e quattro gli indicatori. Il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 44,4% degli individui residenti in questa area del Paese contro il 18,8% del Nord. Se si considerano gli occupati che vivono in condizione di povertà reddituale, il nostro paese è quintultimo nella Ue con il 12,2% degli occupati a rischio di povertà nel 2017. La quota relativa al Nord Italia è passata dal 4,5% del 2004 al 6,9% del 2017; quella del Mezzogiorno, già molto elevata, è salita dal 19,2% al 22,8% mentre al Centro Italia è quasi raddoppiata (dal 5,9% all’11,2%). L’Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di laureati, tasso di abbandono”, osserva l’Istat. E nonostante i progressi degli ultimi tre anni, rimane il primo paese europeo per “Neet”, i ragazzi che non studiano e non lavorano (sono ancora il 30,9% nel 2018). Anche quelli che hanno un impiego, spesso sono precari ed esposti al rischio di povertà. Del resto l’Italia è uno dei paesi europei con più lavoratori poveri, superata solo da Grecia, Spagna, Lussemburgo e Romania. Le difficoltà sono maggiori al Sud Italia e in particolare in tre regioni: la Sicilia, la Calabria e la Campania. Migranti. Vergogna svelata, umanità urgente di Marco Tarquinio Avvenire, 18 aprile 2019 Dopo i tweet, le cannonate. Non quelle in corso tra loro, tra i libici. Ma quelle impossibili: le nostre. Cannonate su persone inermi, ma colpevoli di emigrazione. Cannonate che abitano tweet e dirette social da anni, che esplodono in barzellette cattive e furibonde invettive, e corrono con le monumentali bufale che han fatto alzare e incattivire l’inusitato coro xenofobo che echeggia dall’Alpi al Canale di Sicilia. Ma non accadrà. Non può e non deve accadere. Deve piuttosto esserci una presa di responsabilità umanitaria, corale, senza tentennamenti, una volta tanto esemplare. Perché dovremmo prepararci solo ad aggiungere cannonate a cannonate, se avessero ragione Matteo Salvini e Fayez al-Sarraj. Se, cioè, davanti ai disperati di Libia, all’orda di “migranti, libici e terroristi” annunciata con enfasi, non ci fosse nessuna seria e generosa iniziativa euro-africana e ci fossero, invece, solo “porti chiusi”. Già. Porti chiusi. Lo slogan preferito di Salvini. Il ministro dell’Interno e faso-tuto-mi nel governo giallo-verde (Difesa, Esteri, Trasporti, Finanze, persino Presidenza...) ha ribadito più volte a parole ciò che non sta scritto (come abbiamo acclarato su queste pagine) in nessun atto ufficiale, ma che a ogni “tragedia migrante” sventata nel Mediterraneo si realizza per le misteriose vie del potere che il segretario della Lega si è dato e che sino a ieri - negli ultimi giorni, per la verità, con sempre meno entusiasmo e più disagio - il Movimento 5 Stelle gli ha concesso: i porti italiani, appunto, “sono chiusi”, anche se soltanto per richiedenti soccorso e asilo poveri e dalla pelle scura (per gli altri naturalmente no). Ho appena scritto “misteriose vie del potere”, ma da oggi lo sono un po’ meno. Ciò che oggi siamo infatti in grado di pubblicare, fatti e carte alla mano che il collega Nello Scavo ha verificato, disegna un quadro di decisioni politiche assunte senza trasparenza e senza legge, interna e internazionale. Un quadro pesante, tanto quanto i disumani respingimenti ciechi di richiedenti asilo compiuti in questi mesi dall’Italia. Respingimenti in maschera libica (cioè, a quanto va emergendo, per interposta e pilotata Guardia costiera libica) e in nome di una legalità proclamata, ma in realtà svuotata di sé. Sono umiliati gli alti princìpi del nostro civile ordinamento, sono invase - esse sì - le responsabilità di altre istituzioni da parte di un ministro dell’Interno propenso non solo, come si sa, a indossare giubbe e giubbetti dei diversi corpi dello Stato, ma anche a mettersi cappelli non suoi, persino quelli dei comandanti e capi di stato maggiore delle nostre Forze armate. Contemporaneamente, negli ultimi giorni, il capo del governo che governa assai poco in una Libia che da otto anni come Stato non esiste più e non ha nemmeno ufficiali in grado di far funzionare la sua Guardia costiera (a quanto pare “commissariata” nei fatti immigratori da ufficiali italiani), ha annunciato che ottocentomila persone, cittadini libici e immigrati, alcuni pericolosi, starebbero preparandosi a fuggire verso l’Italia e l’Europa. Persone in fuga dalla guerra che nell’ex Jamairiya è tornata a divampare e che dunque non viene più combattuta a bassa intensità contro gli stessi poveri di cui sopra (i circa 65 mila immigrati attualmente tenuti nei “lager”), ma aperta anche contro i civili libici renitenti all’ingresso nelle milizie tribali, e sempre più apertamente, contro il comune senso di umanità. Se avessero ragione Salvini e al-Sarraj, non resterebbero, dunque, che le cannonate. Che cos’altro con le logiche imperanti in Italia e in Europa, ma anche nella stessa Africa? Che cos’altro considerata l’indifferenza e il cinismo dei potenti del mondo? Solo le impossibili cannonate sugli inermi sembrano poter tenere insieme, con gli ovvi e fastidiosi effetti collaterali, il puzzle afroeuro- mediterraneo: guerra alla siriana in Libia, lager per profughi e migranti diventati contendibili, porti italiani chiusi, barconi stracarichi di uomini e donne e bambini lasciati alla deriva o andati a fondo, morti e dispersi, coscienze in subbuglio… E scandalo delle migrazioni senza regole e senza umanità rivelato nella sua tragica interezza. No, non può andare così. E si può metter la mano sul fuoco che nessun politico degno di questo nome e, soprattutto, nessun uomo o donna in divisa italiana si arrenderebbe a una simile follia. Ma bisogna anche essere realisti. E mettere non la mano, ma gli occhi sul fuoco che divampa sulla sponda meridionale del Mare Nostrum. L’ultima volta che un allarme simile venne lanciato - dal ministro Alfano, ai tempi del governo Renzi - dalla Libia presero drammaticamente il largo verso nord a decine e decine e decine di migliaia. E poco dopo, quando al Viminale era già arrivato Minniti, scattò il piano di blocco della Libia “costi quel che costi” che si sviluppò in desolante contemporaneità con la prima campagna di criminalizzazione delle Ong umanitarie e che portò a stringere accordi assai onerosi coi “signori della guerra”. Capiclan, ribattezzati per l’occasione “sindaci”, ovviamente più che disposti a fungere da carcerieri ufficiosi e retribuiti (oltre che sfruttatori) delle persone “colpevoli” di reato di migrazione. E se al-Sarraj spara numeroni mentre il generale Haftar spara coi suoi cannoni e i capi delle altre milizie non stanno a guardare, si può essere certi che è perché sta preparando un supplemento di conto da pagare: politico, economico e militare. Usa i suoi stessi connazionali (come noto poco propensi a rischiare la vita in mare, e assai di più a riparare per un po’ nei Paesi vicini, Egitto e Tunisia) per ingrossare propagandisticamente le fila dei fuggiaschi. Profughi e migranti trattenuti in condizione terribili in Libia non sono infatti più di 65mila. Più o meno tanti quanti scapparono verso nord nel 2011, quando gli euroamericani fecero collassare il regime di Gheddafi. Ma oggi ci sarebbero terroristi in gran numero, dice al-Sarraj. Mai visti, in realtà, terroristi rischiare la vita su fragili gusci che tentan la traversata del Mediterraneo. I pochissimi terroristi arrivati via mare e transitati per i centri italiani di identificazione sono - parola dei nostri 007 e degli altri inquirenti - personaggi “radicalizzati” e conquistati al jihadismo assassino strada facendo, dall’approdo in Europa in poi. Ma il rischio non può essere sottovalutato. Dunque, va evitato. Come? Come abbiamo suggerito più volte in questi lunghi e tragici anni e in modo pressante pochi mesi fa, unendo doveri di umanità e preoccupazioni di sicurezza e facendo eco alle voci sagge del mondo della cooperazione internazionale e ai promotori dei “corridoi umanitari” (Comunità di Sant’Egidio, Comunità evangeliche, Tavola valdese, Cei). Serve un grande ponte aereo e/o marittimo, e servono trasporti bene organizzati e protetti via terra. L’Italia, l’Unione Europea, l’Unione Africana, i potenti del mondo cooperino con le Agenzie Onu e organizzino il trasferimento rapido e sicuro fuori dalla Libia, in Europa e in Africa, di tutte le persone straniere a rischio lì trattenute. Le guardino in faccia. Le riconoscano. Ne valutino la condizioni. Sono circa 65mila: in minima parte nei campi ufficiali (disumani secondo l’Onu) la gran parte in quelli “privati” (terribili, per ciò che testimonianze di scampati, filmati e reportage documentano). E, allo stesso modo, aiutino la popolazione libica sfollata. Ogni centesimo e ogni energia anche italiani siano spesi per questo. Non per armare di più i “signori della guerra” e per finanziare una politica di respingimenti ciechi (e “in maschera libica”) che ci sta portando dritti dritti a un’altra condanna dell’Italia per violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Si chiudano così non i porti, ma la via marina irregolare e lo sterminato, gelido cimitero degli innocenti nelle acque tra il Nord Africa e l’Italia. Altro che tweet senz’anima e senza cuore, altro che cannonate. Bastano e avanzano quelle che fanno disastri di là dal mare. Migranti. Così Roma comanda la Libia. La verità sui respingimenti di Nello Scavo Avvenire, 18 aprile 2019 La nave Mare Jonio aveva soccorso 49 persone a 40 miglia dalle coste libiche il 18 marzo, poi aveva fatto rotta su Lampedusa a causa di condizioni meteomarine avverse. La nave aveva ricevuto il divieto (mai formalizzato) di avvicinarsi alle coste italiane, ma il capitano Pietro Marrone si era rifiutato: “Abbiamo persone da mettere in sicurezza, non fermiamo i motori”. Poi alle 19.30 del 19 marzo i migranti erano stati fatti sbarcare a Lampedusa. “Ma in questi casi non c’è una procedura?”, domanda sbigottito un ufficiale italiano a un collega delle Capitanerie di porto. “No - risponde l’altro - è una decisione politica del ministro, stiamo ancora aspettando le direttive”. Intanto, però, senza ordini formali la nave Mare Jonio subisce un tentativo di blocco. Poche ore prima, sulle linee telefoniche Roma-Tripoli, si era consumato l’ennesimo riservatissimo scaricabarile a danno dei migranti. L’inchiesta giornalistica che viene pubblicata oggi in contemporanea da un pool di testate internazionali e per l’Italia Avvenire e Repubblica svela anomalie e irregolarità. Tra questi alcune registrazioni audio (disponibili sul canale Youtube di Avvenire) ottenute nel corso di indagini difensive, che rischiano di trascinare le autorità della penisola davanti alle corti internazionali che stanno investigando sui respingimenti e i morti in mare. Sono ore convulse quelle tra il 18 e il 19 marzo, quando la nave italiana della Missione Mediterranea aveva a bordo 49 persone salvate nel Mar Libico. Una motovedetta della Guardia di finanza aveva intimato di fermarsi e spegnere i motori. Dopo lo sbarco a Lampedusa il comandante e il capo missione vengono indagati per aver disobbedito, ma ora emergono registrazioni audio e documenti che raccontano un’altra storia e su cui la procura di Agrigento vuole vedere fino in fondo, risalendo l’intera catena di comando fino al vertice politico. L’ascolto di tutte le registrazioni audio e l’esame della documentazione lasciano sul campo molte domande. A cominciare da quelle sulla reale capacità della Guardia costiera libica di intervenire, ma che segretamente ottiene la supplenza di militari italiani. Abbiamo ricostruito i momenti ad alta tensione con vite alla deriva, mentre tra Roma e Tripoli passano minuti e ore prima che qualcuno provi a darsi davvero una mossa. L’unica certezza è che bisognava fare il possibile perché non intervenissero i soccorritori della missione civile italiana. Da Roma le direttive operative per Tripoli - Alle 13.25 del 18 marzo parte verso la Libia una telefonata da Mrcc Roma, il centro di coordinamento e soccorso della Guardia costiera presso il Ministero delle Infrastrutture. Risponde l’ufficiale di servizio a Tripoli che però non è in grado di comprendere le comunicazioni in lingua inglese. Ne nasce una conversazione tragicomica. Degna dei migliori Totò e Peppino spersi tra le piazze della grande Milano. Se non fosse per le 49 vite umane alla deriva nel Mediterraneo, più che da sorridere ci sarebbe da disperarsi. “Le passo l’ufficiale di servizio”, dice al libico in ottimo inglese un militare italiano che da Roma sta per porgere la cornetta al suo superiore. Ma il libico non capisce: “L’ufficiale di servizio sono io”, ribatte. Da Roma cercano di non perdere la pazienza: “I’m passing you our duty officer”, spiegando di nuovo e lentamente che al telefono sta arrivando “l’ufficiale di servizio della guardia costiera italiana”. Non c’è verso. Il guardacoste libico sembra perdere le staffe: “Sono io l’ufficiale di servizio”, scandisce nel suo inglese stentato, dopo avere però avvertito che la lingua di Shakespeare la parla solo “a little”. Troppo poco per gli standard internazionali stabiliti per chi deve gestire situazioni d’emergenza. Caccia all’interprete - Da Roma vogliono sapere se Tripoli prenderà in carico il coordinamento delle ricerche e del soccorso del gommone perché, come quasi sempre accade, i libici non avevano risposto alle richieste d’aiuto e perché quando intervengono lo comunicano di rado e a cose fatte. Anche questa volta la cosiddetta Guardia costiera libica non aveva neanche afferrato il telefono per rispondere alle segnalazioni di Moonbird, l’aereo dell’Ong Sea Watch che aveva avvistato il barcone e fornito le coordinate già nella mattinata, ma senza ricevere alcuna risposta. Vista l’impossibilità di intendersi, all’ufficiale di servizio italiano non resta che contattare con urgenza un interprete che, in conferenza telefonica, cercherà di spiegare in arabo al militare libico quale fosse la ragione della telefonata da Roma. Si perdono così minuti preziosi, con il guardacoste di Tripoli che arriva a dire di non sapere “se ci sono motovedette libiche che stanno intervenendo, se sono partite, da quale porto e verso quale rotta si stiano eventualmente dirigendo”. Al contrario il comportamento dell’ufficiale italiano presso Mrcc appare impeccabile. Il militare si sforza in ogni modo di farsi comprendere e di rendere chiare le indicazioni e nel corso di successive comunicazioni sembra quasi battersi per avere certezza che qualcuno stia occupandosi dei disperati in mare. Che ruolo ha la Marina italiana in Libia? - Se già in passato in molte circostanze era apparso chiaro che la cosiddetta Guardia costiera libica non è in grado di gestire l’area di ricerca e soccorso registrata con il sostegno economico e logistico dell’Italia, adesso si ripropone un nuovo interrogativo: chi coordina davvero le motovedette regalate dall’Italia a Tripoli? Dopo quella con la bislacca marineria libica partono una serie di altre telefonate tra Mrcc Roma e la nave della Marina Militare “Capri”, ormeggiata a Tripoli. Ufficialmente è lì per assistenza logistica sulla base di accordi bilaterali. Ma è davvero così? Il giallo dell’ordine ai libici partito dalla nave italiana - La sequenza dei contatti parte alle 13,28. Appresa la notizia dell’Sos lanciato dal Moonbird con una mail inviata dalla Mare Jonio, Mrcc Roma chiama la nave militare italiana a Tripoli a cui fornisce le informazioni ricevute dai soccorritori di Mediterranea. Dal quartier generale nella capitale chiedono se a bordo della “Capri” ci sia l’ufficiale libico. Dalla plancia rispondono che lo attendono a minuti. Alle 13,43 l’ufficiale in servizio a Roma richiama il personale italiano della missione Nauras, insistendo per poter parlare con il guardacoste libico. In sottofondo si sente un militare italiano che a sua volta su un altro telefono parla in inglese con un tale Mustapha: “Ok, ti aspettiamo a bordo”, gli dice. Nell’attesa, da Nauras assicurano a Mrcc che i libici avrebbero gestito l’evento ma che ancora non c’era una formale assunzione di responsabilità da parte loro. Alle 14.02 l’ufficiale della Marina militare sulla Capri rassicura Roma: l’ufficiale libico sta per firmare l’assunzione di coordinamento. Non solo, l’atto di conferma conferma sarebbe stato firmato da “Mustapha” e spedito via fax attraverso la nave italiana: “Io comunque sto per fare partire da qui il fax che sta firmando il liasoner officer libico”, dicono dal vascello italiano. Ma il governo aveva smentito - Nel corso di una interrogazione parlamentare presentata da Erasmo Palazzotto (Leu), il governo aveva risposto escludendo categoricamente che la Marina Italiana sia in Libia per cooperare con la Guardia costiera libica durante le operazioni. “In tale contesto e a tale scopo, l’Unità dislocata in porto a Tripoli svolge attività tecnico/logistica e supporto - spiegava il governo il 2 agosto rispondendo all’interrogazione - per il ripristino dell’efficienza di alcune imbarcazioni della Guardia Costiera libica e consulenza a favore della Guardia Costiera e Marina libica. Pertanto, per quanto noto, il coordinamento delle attività di soccorso è assolto esclusivamente da personale della Guardia Costiera libica”. Le comunicazioni, invece, sembrano raccontare una storia differente. Mrcc Roma: “La Libia svolgerà i soccorsi” - Alle 14.31 Mrcc informa la nave Mare Jonio che “alle h. 13.00 Zulu, 14.00 italiane, Jrcc Tripoli (la centrale di soccorso libicca, ndr) ha assunto il coordinamento dell’evento precisando che una motovedetta libica, la Raz Al Jadar, “si sta dirigendo in area per effettuare il soccorso”. Poi aggiunge: “In nome e per conto dell’autorità libica, ci chiede di riferire a tutte le navi in area di mantenersi a una distanza di sicurezza di 8 miglia per evitare che, qualora avvistati dai migranti, possano generarsi situazioni di pericolo per gli stessi”. A questo punto il militare italiano, sembra prendere le distanze da quanto è accaduto. Non può immaginare che nel giro di poche settimane verranno resi noti i retroscena: “Questo - scandisce - è quello che ci chiedono e io testualmente ve lo riporto”. “Ordini politici”. Ma nessuna traccia di atti formali - I libici, invece, non si sono fatti vedere, così Mediterranea mette in salvo i migranti e si dirige verso Lampedusa. Nel quartier generale della Guardia costiera viene registrata un’altra telefonata. “Nottata intensa”, dice un militare che chiama da fuori e chiede novità all’ufficiale di turno nella centrale di soccorso. “Mare Jonio - spiega questi - è adesso entrato nelle acque territoriali, sta a sud di Lampedusa e procede”. Cosa fare, nessuno lo sa. “Quali sono le azioni in questo caso?”, domanda il chiamante. Da Mrcc l’ufficiale di servizio sorride quasi rassegnato: “Mi fai una bella domanda. Adesso, chiaramente, è una questione politica”. Di nuovo la domanda: “Ma ci sono procedure?”. L’ufficiale non sa davvero cosa rispondere: “Decide il ministero, il ministro dell’Interno. Aspettiamo direttive”. Nonostante le “direttive” non fossero state fornite (come poi hanno confermato nei giorni scorsi sia il Viminale che il Ministero delle Infrastrutture smentendo qualsiasi ordine di porti chiusi o divieti alla Mare Jonio) all’esterno non era stato fatto trapelare nulla. E viene da domandarsi quante altre volte, nei casi dei dispersi e dei morti in mare, i rimpalli e le incomprensioni possano avere giocato un ruolo fatale. Chissà se anche per questo nessuno doveva conoscere quel grande imbroglio che prende il nome di “Guardia costiera libica”. Migranti. L’Italia vuole cambiare i trattati internazionali di Andrea Palladino Il Manifesto, 18 aprile 2019 In un documento dell’Imo le richieste del governo gialloverde: “Occorre tener conto della sicurezza dei confini marittimi”. Le parole felpate della diplomazia non hanno potuto nascondere l’attacco al cuore del diritto internazionale. Un progetto tutto italiano, apparso nei documenti ufficiali - che il manifesto ha potuto consultare - infilato nella formula del “bilanciamento di esigenze diverse”, vite umane e “sicurezza dei confini”. La sede è quella dell’Imo, l’agenzia Onu che si occupa dei trattati internazionali sulla navigazione. Il tema è l’attività di ricerca e salvataggio nel tratto di mare che divide l’Italia dalla Libia, il Mediterraneo centrale. Un linguaggio burocratico che riempie tre pagine di un documento ufficiale, presentato dagli ufficiali del Comando generale della Guardia costiera all’agenzia delle Nazioni unite lo scorso gennaio, con una indicazione chiara: servono nuovi trattati per il mare, bilanciando le esigenze umanitarie con “la protezione delle frontiere contro il flusso di migranti clandestini e di terroristi”. Per la prima volta viene introdotta l’ipotesi di una modifica delle convenzioni internazionali sui salvataggi, carte fondamentali che garantiscono l’insieme di regole a tutela dei naufraghi. Con un principio cardine: l’operazione di salvataggio si conclude solo quando le persone strappate dalle acque arrivano in un luogo sicuro, il Place of Safety. Non un porto qualsiasi, ma un punto di sbarco dove i diritti fondamentali siano rispettati; nel caso dei migranti questo vuol dire l’esclusione della Libia, paese che non ha mai firmato - come è noto - la convezione di Ginevra. Fino ad oggi il corpus di questi trattati (Solas, Unclos e Sar, tutti citati nel documento prodotto dall’Italia) ha garantito una barriera, almeno giuridica, al piano dell’attuale governo di respingere in Libia chi fugge dalle guerre e dalle torture. Norme internazionali richiamate nei mesi scorsi più volte dalla magistratura, sia nel caso del sequestro della Open Arms - poi rilasciata proprio perché l’equipaggio aveva rispettato quei trattati - che nell’atto di accusa del Tribunale dei ministri di Catania contro Matteo Salvini per il caso Diciotti. La dichiarazione di una volontà di modificare i trattati internazionali è probabilmente nata da un mandato politico preciso, affidato alle Capitanerie di Porto. Il documento - attribuito dall’Imo alle autorità italiane - riporta le conclusioni della conferenza di Roma dell’11 ottobre scorso, dove si è discusso del coordinamento Sar (Search and Rescue) libico e delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale. All’incontro erano presenti le autorità delle Guardie costiere di gran parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, Libia inclusa. Non c’erano però solo tecnici: come osservatori hanno partecipato “i ministeri italiani competenti”, oltre a Frontex, all’Unhcr e ai rappresentanti delle ambasciate di Germania, dei Paesi Bassi e della Francia. Nella documentazione ufficiale pubblicata dall’Imo non sono indicati i nomi dei rappresentanti ministeriali italiani, ma dal dicastero dei Trasporti fanno sapere che alla conferenza erano presenti rappresentanti del Viminale e degli Esteri, senza però fornire nomi o ruoli. L’agenzia Onu, contattata da il manifesto, spiega a sua volta di non essere in possesso della lista dei partecipanti; nessuna risposta è arrivata dal comando generale della Guardia costiera. Le conclusioni della conferenza hanno confermato l’aiuto attivo del governo alla Guardia costiera libica: “L’Italia e l’Unione europea - si legge nel documento - continueranno a supportare le istituzioni marittime della Libia nello sviluppo della loro zona Sar”. La funzionalità del coordinamento di Tripoli è stato messo in dubbio dalle Ong che ancora operano nel Mediterraneo centrale, denunciando più volte la mancata risposta da parte della Guardia costiera libica. La stessa agenzia Onu ha sottolineato la gravità dell’attuale situazione: “Il Segretariato osserva con preoccupazione i recenti sviluppi sulle questioni umanitarie che circondano la Libia”, si legge in un comunicato dei giorni scorsi. “Non siamo però nelle condizioni di verificare la situazione all’interno di tale paese”, ha aggiunto l’Imo rispondendo ad una richiesta di informazioni sullo stato delle attività di soccorso da parte di Tripoli. Nessuno, in altre parole, controlla l’operato dei libici. In Libia l’Italia all’angolo. E l’America ci lascia soli di Antonella Rampino Il Dubbio, 18 aprile 2019 Da diversi anni il nostro Paese ha subito il protagonismo delle altre potenze, Parigi su tutte. Ma davvero l’Italia rischia 800, anzi 900 mila sbarchi a seguito della terza guerra civile di Libia, innescata il 4 aprile dal generale Haftar che muove verso Tripoli e non riesce né è in condizione di espugnarla? I rischi che comporterebbe una escalation sono molti, come vedremo, e un ulteriore salto è stato compiuto nella notte tra martedì e mercoledì scorsi, quando Haftar ha preso come obiettivi i civili facendo bombardare i quartieri residenziali di Tripoli, una città di 3 milioni di abitanti, e nella quale un paio di settimane di guerra han già prodotto 18mila sfollati, 190 morti e 614 feriti. Ma, al netto della rispettiva propaganda, sia l’Italia che Sarraj san bene che quella cifra è a dir poco irrealistica. 800- 900mila sono infatti i migranti economici che in Libia arrivano dal Sahel e dal resto dell’Africa sub- sahariana in cerca di lavoro, e solo all’incirca un quarto di loro si stima possa avere intenzione - e mezzi economici- per tentare la traversata verso le sponde europee del Mediterraneo. L’effetto della guerra sta provocando piuttosto il rientro della gran parte di loro nei Paesi di provenienza, anche via aerea, o la dislocazione in altre zone della Libia, non interessate dagli scontri. Sarraj ha però evidentemente agitato lo spettro degli sbarchi in massa per ricordare all’Italia che ha tutto l’interesse a non trascurare la Libia proprio per via del problema dei flussi migratori, oltre che per l’approvvigionamento energetico. Tema sensibile, ben oltre le divisioni che vi sono nel governo italiano, con Salvini che asserisce come “certezza” l’arrivo in Italia di terroristi, e che per questo ha disposto la chiusura dei porti via circolare inoltrata anche agli alti vertici militari, innescando così una mezza crisi istituzionale. E con Conte che invece chiarisce che vi è il “rischio” di “qualche foreign fighters”. Ma al netto delle traversie politiche nella maggioranza di governo, il fatto è che l’Italia quei suoi interessi li ha trascurati, lasciando campo ad altre potenze. Subendo l’iniziativa francese durante l’ultima fase del governo Gentiloni, vedendo il fallimento del vertice di Palermo voluto nel novembre scorso dal governo Conte, e di nuovo non riuscendo a contrastare la Francia che ha bloccato sia alla Ue che all’Onu le censure al generale Haftar all’assalto di Tripoli. È stata la Gran Bretagna, ieri, a promuovere alle Nazioni Unite una risoluzione per il cessate il fuoco immediato in Libia. E per spiegare all’Italia come sia indispensabile distinguere tra aggressore ed aggredito, ovvero tra Haftar e Serraj, e come occorra far rispettare l’embargo negli approvvigionamenti militari ad Haftar, son dovuti venire a Roma nei giorni scorsi lo stesso Sarraj e il vicepremier e ministro deglI Esteri del Qatar Ahmed Al Thani. Il tutto mentre l’inviato speciale Onu per la Libia ricordava che “quella di Haftar non è solo una guerra, è un colpo di Stato”. Il resto, a spingere il frenetico attivismo in queste ore di Palazzo Chigi e Farnesina presso le cancellerie internazionali, lo ha potuto fare solo il rischio che Haftar raggiunga il territorio libico a ovest di Tripoli dove è insediata l’Eni. Senza un cessate il fuoco effettivo infatti la guerra d’attrito che Haftar ha mosso a Sarraj può durare anni. Aprendo questo sí l’intensificazione degli sbarchi in Italia, porta d’Europa. Questa consapevolezza, che comincia ad affacciarsi, ha aperto un pressing diplomatico della Germania sulla Francia, mentre Haftar - sostenuto da Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia, e in maniera ambigua anche dalla Francia- è corso da Al Sisi per farsi riconfermare fiducia e aiuti. Ma le divisioni nel sostegno a Serraj sono tali che molti si aspettano una presa di posizione americana. Il presidente del Consiglio italiano è da giorni in attesa di una telefonata da Donald Trump, che non arriva. Gli Usa, dopo la stagione in cui Barack Obama spingeva gli europei a prendersi le responsabilità che competono loro, superando gli Usa “guardiani del mondo”, sono ora nella fase locale del sovranismo, l’America tornata jacksoniana, “fortezza” che rimira se stessa e si disinteressa del mondo: guardano al conflitto libico come cosa che non tocca i loro diretti interessi. E forse difficilmente gli apparati militari potrebbero convincere Trump a stigmatizzare quel che combina Haftar, che ha vissuto per vent’anni a poche miglia dalla sede Cia in Virginia. L’era trumpiana sin qui ha lasciato campo libero al principale attore politico oggi in Medio Oriente e in Nord Africa: la Russia di Putin e Lavrov. Libia. L’Unhcr ricolloca presso un proprio centro un secondo gruppo di rifugiati detenuti La Repubblica, 18 aprile 2019 Ma ne restano 2.700 ancora rinchiusi nelle carceri, tenuti come ostaggi da chi, tra miliziani e “secondini” libici, pretende denaro in cambio della liberazione. L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ieri ha ricollocato altri 150 rifugiati detenuti nel Centro di Abu Selim, nella zona sud di Tripoli, presso il proprio Centro di raccolta e partenza (Gathering and Departure Facility/Gdf) situato nel centro della capitale libica, al riparo dalle ostilità. Il Centro di detenzione di Abu Selim è uno dei tanti a essere stati colpiti dalle ostilità in Libia, fin dallo scoppio dei combattimenti nella capitale quasi due settimane fa. I migranti rifugiati temono per le loro vite. I rifugiati presenti nel Centro hanno riferito all’Unhcr di essere terrorizzati e traumatizzati dagli scontri e di temere per le proprie vite. Lo staff dell’Unhcr che ieri si è occupato di organizzare il ricollocamento ha riferito come gli scontri fossero in corso a circa 10 km di distanza e chiaramente udibili. Nonostante l’intenzione di ricollocare un numero ulteriore di rifugiati, lo staff dell’Unhcr ha dovuto desistere a causa del rapido inasprirsi dei combattimenti nell’area. L’Unhcr intende riprovare a mettere in pratica tale soluzione salva-vita non appena le condizioni sul posto lo consentiranno. “Metterle in salvo è una corsa contro il tempo”. “Mettere in salvo queste persone è una corsa contro il tempo. Il conflitto e il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza ostacolano ogni nostro sforzo”, ha dichiarato Lucie Gagne, Assistente Capo Missione dell’Unhcr in Libia. “È necessario trovare urgentemente soluzioni per le persone bloccate in Libia, fra cui evacuazioni umanitarie volte a trasferire i più vulnerabili fuori dal Paese”. Fra i rifugiati ricollocati ieri, i più vulnerabili e bisognosi, vi erano donne e minori. Il ricollocamento è stato effettuato col sostegno di International Medical Corps, partner dell’Unhcr, e del Ministero dell’Interno libico. Ancora 2.700 rifugiati tenuti in carcere. Questo ricollocamento costituisce il secondo trasferimento di persone organizzato dall’Unhcr da quando si è acuito il conflitto in Libia nelle ultime settimane. La settimana scorsa l’Unhcr aveva ricollocato più di 150 rifugiati dal Centro di detenzione di Ain Zara, anch’esso nella zona sud di Tripoli, al GDF, portando il totale di rifugiati qui accolti attualmente a oltre 400. Dopo il ricollocamento di ieri, restano oltre 2.700 rifugiati e migranti detenuti e bloccati in aree in cui gli scontri sono ancora in corso. Oltre alle persone rimaste ad Abu Selim, vi sono quelle negli altri Centri di detenzione in prossimità delle ostilità, fra i quali quelli di Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tajoura. Le condizioni attuali nel Paese continuano a evidenziare che la Libia rappresenta un luogo pericoloso per rifugiati e migranti e che quanti fra essi sono soccorsi e intercettati in mare non devono esservi ricondotti. L’Unhcr ha chiesto ripetutamente che si metta fine alla detenzione di rifugiati e migranti. Stati Uniti. Niente libertà per i richiedenti asilo: “restino in carcere” di Sara Volandri Il Dubbio, 18 aprile 2019 L’annuncio del Segretario alla Giustizia Barr. Una nuova stretta, l’ennesima, dell’amministrazione Trump contro i migranti che provengono dal centroamerica. Il Segretario alla giustizia Usa William Barr ha infatti dichiarato che presto verrà negata la possibilità di chiedere la scarcerazione su cauzione a molti degli arrestati per ingresso illegale negli Stati Uniti, anche per i richiedenti asilo. In particolare, le autorità americane avranno in diritto di negare la possibilità di chiedere la scarcerazione su cauzione a migranti sulla base del semplice “timore” che possano costituire una minaccia alla sicurezza. “La misura toglie al giudice della tribunale sull’immigrazione di valutare caso per caso e determinare se una persona sia a rischio di fuga o possa costituire una minaccia”, spiega a Politico Andrew Free, avvocato di Nashiville specializzato nella difesa dei migranti. La misura, ha poi aggiunto Free, non potrà essere applicata ai minori, che viaggiano con la famiglia o da soli, dal momento che un accordo del 1997 stabilisce che non possono essere detenuti per un periodo superiore a 20 giorni. Inoltre, non potrà essere applicato ai migranti che si consegnano volontariamente ai posti di controllo sulla frontiera per chiedere asilo, perché a loro - ha detto ancora l’avvocato deve essere garantita la libertà provvisoria senza dover pagare una cauzione. La decisione di Barr impone comunque un nuovo peso alle risorse e strutture del dipartimento della Sicurezza Interna che con la nuova politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, e l’arresto di tutti i migranti che attraversano irregolarmente il confine, sono già allo stremo. Il dipartimento di Giustizia ha rinviato di 90 giorni l’entrata in vigore della misura per dare il tempo di “condurre la necessaria pianificazione” per nuovi centri di detenzione. A febbraio il Congresso ha stanziato fondi per altri 45mila posti nei centri di detenzione per migranti, ma l’amministrazione Trump afferma che non sono sufficienti. Intanto, comunque, la sua guerra il generale Haftar l’ha già vinta: facendo rimandare a data da destinarsi la Conferenza nazionale libica di Gadamesh, punto di approdo di 4 anni di lavoro sulla riconciliazione nazionale che, tra mille diverse difficoltà, doveva portare a fissare la data di elezioni e a scrivere la Costituzione. Quella che, con la riconsegna delle armi, avrebbe previsto proprio l’uscita di scena anzitutto dello stesso Haftar. Gli “Yemen Papers” rivelano le forniture francesi di armi ad Arabia Saudita ed Emirati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 aprile 2019 Dal sito investigativo Disclose, che ha reso pubblici documenti militari secretati, sono emerse nuove prove sulle ingenti forniture militari destinate dalla Francia all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, gli stati che guidano la coalizione che dal 2015 bombarda incessantemente lo Yemen nel tentativo di sconfiggere il gruppo armato huthi. Queste rivelazioni si aggiungono alla recente denuncia di Amnesty International, che nella battaglia di Hodeidah aveva verificato la presenza di carri armati Leclerc di fabbricazione francese. La Francia è sotto accusa per aver inviato forniture militari, carri armati inclusi, alle forze armate degli Emirati Arabi Uniti, che le hanno poi girate a gruppi armati che combattono sul terreno accanto alle forze regolari della coalizione. Le ripetute richieste di Amnesty International al ministero della Difesa di Parigi di fornire informazioni sulle forniture di armi alla coalizione sono finora cadute nel vuoto. C’è da sperare che le rivelazioni di Disclose spingano le autorità francesi a essere trasparenti e, soprattutto, a sospendere tutti i trasferimenti alle parti in conflitto in Yemen. Secondo le Nazioni Unite negli ultimi tre mesi c’è stata una recrudescenza dei combattimenti nelle province dello Yemen confinanti con l’Arabia Saudita, col conseguente aumento del numero degli sfollati. Nella sola Sa’da, il 62 per cento delle proprietà civili è stato pesantemente danneggiato. Perù. “Reclusione non è sinonimo di esclusione” Avvenire, 18 aprile 2019 La prefazione del Cardinale Barreto al libro di don Ginami. Il testo racconta il viaggio del sacerdote bergamasco assieme al vescovo Quispe López nella Casa circondariale di Challapalca sulle Ande a 5mila metri priva di acqua potabile e riscaldamento. Un viaggio nelle miserie dell’uomo. Ma anche in luoghi dove la dignità umana viene dimenticata e calpestata. C’è tutto questo nel libro “Angel”, scritto a quattro mani da don Luigi Ginami, sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione Santina Onlus, e da monsignor Ciro Quispe López, vescovo della prelatura di Juli in Perù (Edizioni Messaggero Padova, 136 pagine, 8 euro). In particolare il prete bergamasco e il vescovo peruviano raccontano - ognuno dal proprio punto di vista - la loro visita al carcere di Challapalca, a 5mila metri di quota, che ospita 172 tra i più pericolosi detenuti del Paese. Per il vescovo è una scoperta: non vi era mai stato. “Qui manca acqua potabile e riscaldamento - racconta il presule - e il colore marrone dell’acqua è molto più eloquente di ogni parola”. Un ospite conosciuto, invece, don Ginami, che in quella struttura è salito molte volte e si sente a casa, tanto da sedersi in mezzo ai detenuti, “anche se un po’ di timore lo nascondo dietro a un sorriso”. È qui che vive Fingel, o come è chiamato “elviejo paco”, boss temutissimo e killer spietato (“la sua firma nei delitti erano 4 pallottole nel corpo e due nella testa della vittima”). Un uomo che l’incontro con il prete bergamasco ha cambiato e convertito. Il libro offre anche altre situazioni di degrado che cercano riscatto (bimbe diventate madri perché violentate, minori sfruttati e così via). Pubblichiamo di seguito la prefazione scritta dal cardinale Pedro Riccardo Barreto Jimeno, gesuita, già arcivescovo di Huancayo in Perù, impegnato nella custodia del Creato e la salute delle persone. “Reclusione non è sinonimo di esclusione” è il titolo scelto dal cardinale per la sua prefazione che pubblichiamo. Pedro r. Barreto jimeno La relazione umana, reciproca, faccia a faccia, è una delle migliori eredità che ci ha lasciato nostro signore Gesù. E credo che questa eredità, di duemila anni fa, in questi tempi molto accelerati tecnologicamente, si presenti come la più preziosa delle eredità. Viviamo in un’era, inoltre, dove la violenza umana nella società e nella famiglia non diminuisce ma, anzi, aumenta paradossalmente. E una delle conseguenze allarmanti del terrore è precisamente la paura, paura che si appropria delle nostre vite e la paura che si traduce in una disumanizzazione nelle nostre relazioni umane. Non scrivo queste righe mostrando un pessimismo sociale e umano, bensì tutto il contrario. È il sentimento che mi invade quando leggo questo piccolo libro di Ciro Quispe López e di Luigi Ginami, che contro ogni pronostico si intitola “Angel”. Qualsiasi lettore si aspetterebbe una storia meravigliosa, celestiale e mistica. Tuttavia le pagine del testo svelano il contrario: una storia drammatica, inaudita ma reale. E non una, ma varie storie, che vanno dai bambini poveri della periferia di Juliaca, passando per la storia dura di una madre e le sue figlie, fino ad arrivare alla crudezza inconcepibile della vita dei detenuti nel carcere di massima sicurezza di Challapalca, a 5.000 metri di altezza dove, tra le altre persone, si trova A ngel, un prigioniero classificato come detenuto di alta pericolosità. Con queste storie emerge anche lo sforzo di alcuni protagonisti di costruire relazioni umane e cristiane, fondate sull’amicizia e la vicinanza, esattamente come ci ha detto Gesù duemila anni fa. Ed è stato proprio questo ciò che ci ha ricordato Papa Francesco durante la sua visita al carcere di Palmasola in Bolivia: “Reclusione ed esclusione non sono la stessa cosa”. Questo libro parla esattamente di ciò e il mio augurio è che noi camminiamo Su questa via. Abbiamo bisogno di alimentarci di umanità in questi tempi di disumanizzazione. Sudan. Bashir va in carcere, ma non sarà estradato Libero, 18 aprile 2019 L’ex presidente sudanese, Omar Al Bashir, deposto nei giorni scorsi dall’esercito, è stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Kobar, a Khartoum. Lo ha riferito il sito della Bbc, sottolineando come finora alcune fonti indicassero che Al Bashir fosse in arresto nella residenza presidenziale. Secondo l’emittente britannica, il presidente deposto è tenuto in isolamento ed è sotto stretta sorveglianza. L’ex ministro della Difesa, Awad Ibn Aouf, che era alla guida della giunta militare, aveva affermato il giorno del golpe, 1’11 aprile scorso, che l’ex presidente era detenuto in un “luogo sicuro”. Il giorno successivo, il capo del “Comitato politico” della giunta militare in Sudan, Omar Zine El Abidine, aveva escluso l’estradizione del deposto presidente sudanese, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio in Darfur, poiché “abbiamo la nostra magistratura. Non concederemo l’estradizione di cittadini sudanesi”. Perciò Al Bashir “sarà processato e giudicato qui in Sudan”, aveva affermato El Abidine. Ieri, le autorità dell’Uganda si sono dette disposte ad accogliere Al Bashir, dicendo di apprezzare i suoi sforzi per giungere alla pace nel Sud Sudan. “Se Omar al-Bashir farà richiesta di asilo in Uganda, il presidente lo terrà in considerazione”, ha dichiarato il ministro degli Esteri ugandese Henry Okello Oryem, citato dal Daily Monitor ugandese. Il governo di Kampala è tra i firmatari dello Statuto di Roma della Cpi.