“Carcere, ecco cosa cambiare”. Il bilancio di Luigi Pagano, prossimo alla pensione di Davide Parozzi e Luca Bonzanni Avvenire, 17 aprile 2019 L’isolamento dei detenuti non porta al reinserimento, le misure alternative sono più efficaci della pena in cella. “Chi resta in cella lo fa non perché pericoloso, ma perché non ha casa e lavoro. Così si fa assistenza. Le riforme? Senza l’opinione pubblica, non camminano”. “Va creato un ponte con il mondo esterno. La recidiva di una persona che non lascia mai il carcere è del 70-80%. Il rischio maggiore? È “l’infantilizzazione”, invece occorre responsabilizzare i detenuti”. Sulla scrivania ha libri e documenti, cioè cultura e lavoro quotidiano. In quarant’anni nell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, provveditore regionale delle carceri lombarde, ha provato a fare proprio questo: dare concretezza ai princìpi, mettendoli al servizio della società. Chiuderà la sua carriera il prossimo 1° maggio, andando in pensione nel giorno della festa dei lavoratori, lui che nel mondo della giustizia è entrato il 1° dicembre 1979, dopo la laurea in legge. Primo incarico a Pianosa, nel vivo degli anni di piombo e delle guerre di mafia; poi Badu ‘e Carros, Asinara, Piacenza, Brescia, Taranto. E soprattutto San Vittore, diretto per 15 anni tra 1989 e 2004, quindi provveditore regionale lombardo per altri otto, vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per tre anni e mezzo, infine di nuovo alla guida alla “sezione” lombarda. L’evoluzione del mondo-carcere si misura “nel rapporto con la società, sia il bello che il buono”, premette Pagano, classe 1954, campano d’origine. Di questi anni, tra i tanti ricordi, porterà con sé la soddisfazione dei detenuti impegnati a garantire la sicurezza di Expo, oppure l’emozione della visita di Papa Francesco a San Vittore, nel marzo 2017. Dottor Pagano, per capire il carcere bisogna partire dalla società? “Se non crei un ponte col mondo esterno, parlare di reinserimento sociale è mera utopia. La società civile riceve i risultati dell’azione che operi all’interno dell’istituto, ma ne è anche corresponsabile. L’investimento dall’esterno, con risorse ma anche con semplice testimonianza, è fondamentale. Altrimenti l’istituto rimane una monade: l’isolamento non porta al reinserimento”. Ma come è cambiato il rapporto con la società civile? “Resta fluttuante. L’ordinamento penitenziario del 1975 è una delle leggi col maggiore impatto sulla società civile ed è una delle più riformate: la Gozzini, la dissociazione, il carcere duro, i cambiamenti fisiologici legati alla nuova popolazione carceraria. E oggi il carcere, più che un luogo di pena che porta al reinserimento, è diventato assistenza”. Cosa intende? “Per alcuni profili, paradossalmente le carceri forniscono più servizi di quelli che avrebbero all’esterno. I detenuti definitivi in Lombardia sono circa 6mila; di questi, più o meno due terzi potrebbero avere misure alternative, ma la maggior parte non può ottenerle perché non ha casa, non lavoro, è irregolare. Sono persone che restano nel penitenziario non perché pericolose, ma perché non hanno altre possibilità”. Il carcere è da reinventare? “Bisognerebbe pensare a pene diverse. D’altronde, se l’efficacia del carcere si misura in relazione all’articolo 27 della Costituzione che pone al centro il reinserimento sociale, per quelle persone non c’è una possibilità. Ma se non c’è l’opinione pubblica dalla tua parte, nessuna riforma cammina”. Di questi tempi, è un ragionamento coraggioso… “I dati dicono che le misure alternative sono più efficaci della pena detentiva. Se le stime sulla recidiva di una persona che non lascia mai il carcere sono del 70-80% e invece si abbattono con le misure alternative, bisogna riflettere sul sistema-carcere”. Ma senza risorse, come si fa? “Più che negli investimenti, spesso la differenza sta nelle idee. Rifarsi solo al problema dei soldi rischia di essere un alibi. Penso a Bollate: è diventato un’eccezione ma dovrebbe essere la normalità, perché quel carcere è modellato sulla legge dell’ordinamento penitenziario. E penso anche all’articolo 6 di quella legge, in cui le celle sono chiamate “camere di pernottamento”: se davvero lo applicassimo, vivremmo una “rivoluzione normale”. Non solo per i detenuti: si riconoscerebbe per esempio piena valenza di polizia agli agenti penitenziari, con funzioni di analisi, raccolta e scambio di informazioni, a fini di sicurezza e prevenzione”. Per la Lombardia, l’ultima relazione del Garante dei detenuti parla di affollamento al 145%... “Anche qui, userei un’altra ottica. Più che la logica del metro quadro, è sulla qualità di vita complessiva del carcere che bisogna riflettere. Basta guardare la struttura di un penitenziario e se ne coglie la filosofia: San Vittore è una struttura del 1879, costruito ispirandosi al panopticon, all’isolamento e certo non al reinserimento”. Come si avvicinano le imprese private al carcere, costruendo occasioni di reinserimento? “Bisogna prendere atto che oggi è molto difficile, perché il costo del lavoro è alto e i penitenziari non sono pronti. L’attività lavorativa dei detenuti è spezzettata dalla routine del carcere. Una mia idea è ridurre il costo del lavoro e utilizzarlo come chiave per adattare il penitenziario al mondo del lavoro, valutando il trattamento come parte integrante del salario; in concreto, per esempio, si possono ricalibrare i colloqui e l’attività trattamentale per conciliarli col lavoro: si responsabilizza il detenuto e si attraggono gli imprenditori”. Insomma, serve una rivoluzione… “Il rischio del carcere è “l’infantilizzazione”, invece occorre responsabilizzare i detenuti. E cambiare la vita interna degli istituti. Uso una metafora: bisogna passare dalla marcatura a uomo a quella a zona. Ma non servirebbe una rivoluzione: le norme già ci sono, basterebbe solo applicarle”. Pagano, il direttore che ha modernizzato le carceri italiane di Brunella Giovara Corriere della Sera, 17 aprile 2019 Festa a San Vittore: “È stato il primo a ridisegnare il modo di intendere la vita dei detenuti e aperto le celle alla società civile”. Tanto per dirne una: ieri un gruppo di detenuti ha fatto un reading sulla Costituzione, leggendo brani di resistenti al fascismo e al nazismo, rinchiusi a San Vittore e poi fucilati. Alla fine, il coro del reparto La Nave ha eseguito “Bella ciao” nella rotonda del carcere. Ora, tutto questo vent’anni fa non era neanche immaginabile. San Vittore “era un posto dove ci si metteva il casco in testa e si andava nei raggi. Dove la gente stava sui tetti durante le rivolte, e c’erano le bocche di lupo...”, ricorda Francesco Maisto, per anni magistrato di sorveglianza a Milano. Insomma, era un postaccio. Più che una galera, peggio di un luogo di espiazione, aggravato dalla struttura antiquata, fine Ottocento, sovraffollato, violento, disumano. Le cose sono cambiate quando alla direzione del carcere arrivò un napoletano con alcune buone idee, che incredibilmente negli anni le ha portate avanti, come gli viene riconosciuto ora che va in pensione. Luigi Pagano, direttore storico, molto amato anche dai detenuti, il che sembra impossibile, invece. Dopo una quindicina di anni “al due”, come si dice a Milano intendendo il civico di piazza Filangieri, è stato provveditore regionale alle carceri, poi responsabile degli istituti di pena del nord Italia, quindi vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a Roma. Ieri ha ricevuto una standing ovation da parte dei molti arrivati a San Vittore per salutarlo, e dirgli grazie. A partire dall’attuale direttore Giacinto Siciliano, perché “lui ha lasciato il segno, ridisegnando il carcere e il modo di intenderlo”, e soprattutto ha lasciato dietro di sé una nuova generazione di direttori, ma anche di operatori, e comandanti della polizia penitenziaria, “ha avuto una visione” di carceri diverse, aperte alle città, come testimonia la collezione di foto proiettate per l’occasione, le visite dei famosi, gli ultimi sono stati papa Francesco e il presidente Mattarella, ma se si torna indietro nel tempo ecco il cardinale Martini, i ministri, i magistrati, gente di spettacolo e sport che viene a rendersi conto di cosa è davvero, un carcere. Poi, ci sono stati i politici che ci venivano in quanto arrestati, negli anni di Mani Pulite, e Filippo Astuto, sovrintendente capo della polizia penitenziaria, ha ricordato che “noi non sapevamo proprio gestirli, quei personaggi. Lui allora ci spiegò come dovevamo fare”. Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza: “La prima volta che lo incontrai, al tavolo del primo regolamento di San Vittore, io pensavo che avremmo messo giù gli orari, tipo il risveglio, la colazione... lui mi disse: “ma perché li vuoi fare alzare così presto, se non hanno niente da fare?”. Era uno sguardo nuovo su un mondo che nessuno conosceva”. Infatti sono arrivati la vigilanza dinamica, le celle aperte, i protocolli di intesa con la Regione. E il reparto ospedaliero per detenuti al San Paolo, e la struttura di custodia attenuata per le mamme con bambini. E il lavoro, i corsi professionali per avere una chance in più, una volta usciti. E i progetti nuovi: Opera, poi Bollate, carcere a custodia attenuata, un modello non solo per l’Italia. Ce ne sono, di cose, come il trattamento delle tossicodipendenze in carcere, oggi il reparto La Nave può ben essere definito all’avanguardia, un patto tra detenuti e operatori dell’Ats, un’esperienza che andrebbe riprodotta. Molto ha fatto, Pagano, che ieri ha detto poche cose, una è questa: “Una volta a Forcella sono stato riconosciuto da un contrabbandiere. Mi ha chiesto: “Ma voi siete il dottor Pagano? Non sono mai stato a San Vittore, ma mi dicono che siete uno buono”. Di sicuro ci tornerà, “perché San Vittore te lo porti dentro”, magari come volontario, ogni mattina ci sono centinaia di milanesi volontari che escono di casa e dicono “ciao, vado a San Vittore”, e sono tutti contenti. “Malafollia”: i racconti dei detenuti premiati al Salone del Libro di Torino di Teresa Valiani Redattore Sociale, 17 aprile 2019 Il Premio Goliarda Sapienza presenta un progetto speciale con i lavori dei migliori autori-detenuti che si sono distinti nelle precedenti edizioni. I proventi del volume contribuiranno alla realizzazione di progetti a favore della cultura della legalità. La premiazione il 9 maggio a Torino. “Ma anche quando luci e tv erano state spente, era rimasta viva la voce del corridoio: i richiami di aiuto, i sussurri di dolore e le grida di paura venute nel sonno, il trambusto dei passi, il frusciare delle divise e dei camici… la sezione non si era mai del tutto realmente addormentata. E poi quel freddo che ti congela le ossa”. (Salvatore Torre). “La maestra mi sgridava perché ero assente e mi metteva dietro la lavagna ma lì, stranamente, mi sentivo protetto dai miei stessi compagni, da mio padre e dalla sua follia”. (Stefano Lemma). Sei, tra gli autori che si sono distinti nelle precedenti edizioni del Premio Goliarda Sapienza, sono stati chiamati a raccontare, attraverso le loro esperienze, un tema di pressante attualità: la follia in carcere. “Ne sono emerse storie spiazzanti, di grande forza comunicativa, che non solo trasportano il lettore tra le mura di una cella ma lo spingono ancora più nella profondità della psiche umana. I sei racconti sono stati raccolti in una antologia e saranno presentati al Salone internazionale del Libro di Torino il 9 maggio prossimo quando, nell’occasione sarà premiato il racconto vincitore”. Antonella Bolelli Ferrera, autrice del Premio Goliarda Sapienza, che da 8 anni seleziona i migliori racconti che arrivano dalle carceri di tutta Italia, descrive così “Malafollia”, il nuovo progetto speciale del Premio che da due anni dal palcoscenico del teatro del carcere di Rebibbia è sbarcato al Salone del Libro di Torino. “Malafollia - spiega una nota del Premio organizzato da Inverso Onlus con il sostegno di Siae - è un progetto speciale del concorso letterario “Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere”, nato nel 2011 e rivolto alle persone detenute, con il coinvolgimento diretto di grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor. Fin dalla sua nascita, ha come madrina la scrittrice Dacia Maraini e come ideatrice e curatrice la giornalista Antonella Bolelli Ferrera”. Per questa edizione speciale è stata costituita una factory creativa formata dagli autori (detenuti ed ex detenuti) che si sono distinti nelle precedenti edizioni e che ora si sono cimentati nella scrittura di racconti sul tema della follia in carcere, ispirandosi alle proprie esperienze personali. I racconti sono stati pubblicati nell’omonimo libro dal titolo “Malafollia - Racconti dal carcere” edito da Giulio Perrone Editore, con l’introduzione dello scrittore Edoardo Albinati, del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e la prefazione di Antonella Bolelli Ferrera. Il volume, i cui proventi contribuiranno alla realizzazione di progetti a favore della cultura della legalità, sarà presentato nel corso della cerimonia finale del Premio, il 9 maggio a Torino, con un reading tratto dai racconti tenuto da Luigi Lo Cascio, Andrea Sartoretti e con la partecipazione degli autori. Seguiranno gli interventi di Edoardo Albinati, Erri De Luca, Patrizio Gonnella con la conduzione di Antonella Bolelli Ferrera. Gran finale con l’annuncio del vincitore dell’ottava edizione del Premio Goliarda Sapienza votato da una Giuria presieduta dal maestro Elio Pecora, composta di scrittori e, anche quest’anno, di studenti liceali. “Sono entusiasta di questa edizione speciale del premio - commenta Antonella Bolelli Ferrera - che ci ha permesso di mettere assieme i migliori autori emersi in questi anni dal concorso letterario, creando una factory creativa che ha prodotto risultati letterari eccellenti. Contiamo di andare avanti con questo progetto anche coinvolgendo nuovi autori del mondo penitenziario assieme come sempre ai tanti scrittori e artisti che sono al nostro fianco”. Ermini (Csm): “i giudici applicano le leggi e non cercano il consenso” Il Dubbio, 17 aprile 2019 Il vicepresidente del Csm difende i magistrati dalle “contestazioni” popolari: “sbagliato delegittimare le sentenze dei tribunali”. “Il giudice non viene eletto perché non deve seguire il consenso, ma deve applicare la legge”. Lo ha detto ieri mattina a Ravenna David Ermini, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura durante l’evento a ricordo del magistrato Pier Paolo Casadei Monti. “Se il giudice sbaglia ci sono dei sistemi costituzionali a cui ci si può rivolgere. Se invece ha commesso un reato c’è il codice penale e ci sono gli altri colleghi. È però necessario che alla sentenza del magistrato venga riconosciuta legittimazione. Il giudice ha proseguito durante il dibattito - emette una sentenza in nome del popolo italiano ma non secondo la volontà del popolo italiano. Il processo non è un referendum. Tante volte il giudice soffre nell’emettere una sentenza, siamo in un mondo in cui si guardano i titoli e non si approfondisce niente, figuriamoci se si legge una sentenza”. A margine dell’iniziativa, Ermini ha poi ricordato Pier Paolo Casadei parlando con i giornalisti: “Ci sono tanti magistrati come lui ma serve un sempre maggiore impegno da parte del giudice come buon senso, equilibrio, competenza e spirito di servizio. Delegittimare la magistratura porta dei guai molto forti”. Avvocati e magistrati uniti: la riforma della legittima difesa non piace di Giordana Restifo Gazzetta del Sud, 17 aprile 2019 “Norme che attentano allo Stato di diritto”Il 28 marzo scorso, con 201 sì, 38 no e 6 astenuti, l’aula del Senato ha definitivamente approvato la riforma della legittima difesa. Il provvedimento è stato fortemente voluto dalla Lega, ma fuori dal Parlamento non è stato accolto con lo stesso entusiasmo. Ne hanno discusso, durante l’evento “Legittima difesa, ecco cosa cambia”, la dottoressa Maria Giovanna Vermiglio, giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Messina, e gli avvocati Massimo Marchese, in rappresentanza della Camera Penale Pisani-Amendolia di Messina, Vincenzo Ciraolo e Alessandro Vaccaro, rispettivamente presidente dell’Ordine degli avvocati di Messina e di quello di Genova. L’incontro sul tema attualissimo che coinvolge magistratura e avvocatura si è tenuto al dipartimento Cultura e Servizi dell’Ordine. Tutti i relatori sono stati molto critici rispetto al provvedimento appena introdotto. Hanno concordato all’unanimità sul fatto che sia pericoloso e inutile, dal momento che esisteva già una norma valida. Con la riforma approvata lo scorso mese, nei casi di legittima difesa domiciliare, si considera “sempre” sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa. Nel 2006, il legislatore aveva messo mano alla norma, introducendo due comma che prevedevano una legittima difesa domiciliare. C’era già una presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa e, di fatto, una tutela per i domicili. Ciò che risulta con l’introduzione di queste modifiche da parte dell’attuale governo, è una sfiducia nell’operato della magistratura. Invece, è assolutamente necessario che i magistrati valutino ciò che è accaduto caso per caso. Servendosi di indagini necessarie, di accertamenti e verifiche approfondite, e non basandosi solamente sulla testimonianza della vittima. Gli oratori erano d’accordo nell’affermare che tale riforma porterà grande confusione. Hanno, inoltre, convenuto che si tratta modifiche apportate a scopo elettorale, atte a rispondere alla pancia dei cittadini. “Nell’immaginario comune, per l’opinione pubblica, l’aggredito ha sempre torto, subisce sempre un processo penale, e da qui l’esigenza di intervenire su una norma che, invece, ha una modestissima applicazione pratica. Sono, infatti, rarissimi i casi di legittima difesa”, ha detto la dottoressa Vermiglio. Per i relatori, l’unico aspetto positivo della normativa è quello di concedere il patrocinio gratuito, a spese dello Stato, per l’aggredito. C’è anche un altro risvolto concreto, ovvero quello che ha voluto sottolineare l’avvocato Vaccaro: “Con questa norma sono riusciti a mettere d’accordo, a unire, l’Associazione nazionale magistrati, l’avvocatura, l’Accademia forense”. L’aspetto più preoccupante è che se verrà legittimato in qualsiasi caso l’uso delle armi da parte della vittima, salterà un sistema di garanzie costituzionali a tutela di tutti cittadini, a prescindere dall’aggredito e dall’aggressore. Alessandro Vaccaro a tal proposito ha detto: “Si pensa che ciascuno in casa propria possa sparare, ma non è vero. Non può passare il messaggio che ognuno si deve tutelare da solo, è pericoloso per il cittadino. Non ci dev’essere sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sono per la tutela dei cittadini ma non per il Far West. Non potevano codificare il Far West e hanno preso in giro la gente. Ma non basta introdurre un avverbio (riferimento al “sempre”) per modificare il senso di una norma”. Infine, ha concluso l’avvocato Marchese: “Con tale riforma si innescano pericolosi automatismi. Il concetto della “giustizia fai da te” non deve passare, perché implica la sconfitta dello Stato di diritto”. Legittima difesa, ottimo il riequilibrio tra ladro e vittima di Bruno Ferraro* Libero, 17 aprile 2019 Da un’indagine Istat del 2018 il tema della sicurezza è al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani, con una percentuale del 60,2% legata ai furti in abitazione. D’altro canto, è opinione diffusa quella di pensare che il nostro Paese è infarcito di regole alle quali spesso non corrispondono le sanzioni previste, che però non spaventano i malfattori dal delinquere. Chi reagisce, difendendosi, rischia di passare dalla parte del torto esponendosi al rischio di dover risarcire il danno subito dal delinquente o dai suoi prossimi congiunti ed eredi. Nel confronto tra le due posizioni, non sembra accettabile il principio che chi aggredisce rischia molto meno rispetto all’aggredito. È in tale contesto che è andato ad inserirsi il discorso sulla legittima difesa, iniziato da una parte politica, salito nella sensibilità dell’opinione pubblica, e approdato a marzo alla nuova normativa. La norma precedente risaliva al codice Rocco emanato durante il regime fascista, norma difesa da soggetti e movimenti della cui ispirazione “progressista” non è lecito dubitare: così l’Anm, con l’unica eccezione di Magistratura indipendente, che ha operato una invasione di campo del potere giudiziario nella sfera riservata al potere esecutivo ed al Parlamento; così l’unione delle Camere penali (gli avvocati) che hanno difeso la discrezionalità dei magistrati; così quanti hanno ipotizzato una corsa degli italiani all’acquisto di armi o adombrato dubbi di legittimità costituzionale. Ma in che misura la nuova norma si distacca dalla precedente? La legittima difesa opera anche quando l’aggressore non impugni un’arma ma minacci di usarla e/o nel caso di grave turbamento. L’inasprimento delle pene per chi si introduce nell’altrui casa o azienda è più che giustificato per la maggiore pericolosità dell’autore del fatto rispetto a chi ruba per strada o con diverse modalità. 11 turbamento è in re ipsa ma, per essere efficace, dovrà essere grave. Che la legittima difesa sia sempre presunta e non una mera scriminante di cui l’aggredito deve dare dimostrazione risponde ad una esigenza di riequilibrio e si fa carico del principio secondo cui è l’accusa a dover dimostrare la responsabilità e non la difesa a dimostrare la propria innocenza. Non sarà più ammessa la costituzione di parte civile per i familiari dell’aggressore, misura necessaria se si vuole evitare che al danno segua la beffa. Certo, non siamo di fronte ad una sconvolgente rivoluzione, ma solo al tentativo di riaffermare alcuni diritti e di riequilibrare il rapporto tra chi offende e chi si difende, tra accusa e difesa: fermo restando che sarà sempre compito dei giudici applicare la nuova normativa con saggezza, prudenza e attenzione ai profili dei casi sottoposti alla loro decisione. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Io, penalista, dico: scioperiamo a oltranza o la nostra mobilitazione resterà inutile di Giorgio Coden Il Dubbio, 17 aprile 2019 I tre giorni di stop proclamati dall’ 8 al 10 maggio? Non porteranno risultati: meglio petizioni, convegni e interviste. Oppure non indossare più la toga finché sarà questa la politica sulla giustizia. L’ultimo è quello proclamato dall’Unione Camere penali per i giorni 8, 9 e 10 maggio prossimi. Si protesta contro i recenti interventi in tema di giustizia adottati dal governo Lega- M5S: esclusione del rito abbreviato per i reati da ergastolo, legge sulla legittima difesa, aumento delle pene per le violenze di genere, decreto sicurezza, diritti dei carcerati. Nel merito la contestazione ha buoni motivi per essere condivisa, nel modo altrettanti per essere criticata. Facciamo un passo indietro. Nel 2018 gli scioperi su scala nazionale sono stati cinque. Tutti di breve durata e riguardanti la riforma del sistema penale, le carceri, la prescrizione. Risultati? Zero. Il governo è andato avanti su tutto il fronte, imperterrito. Anche a livello locale c’è stata una miriade di scioperi, di uno o più giorni, dai quali non è scaturito alcunché di memorabile. Uno per tutti: i penalisti di Lucca nella scorsa primavera hanno inscenato uno sciopero per protestare contro la sistematica fuga di notizie a margine di un’indagine giudiziaria incardinata davanti alla Procura del luogo. Bene, quello sciopero ha raggiunto l’unico obiettivo di far coincidere il fine con la fine, nel senso che protesta era e protesta è rimasta, apprezzabile quanto si vuole in linea di principio ma nella sostanza inutile: la divulgazione alla stampa di notizie è continuata come e più di prima. Nessuna meraviglia: da anni il corto circuito Procure-Stampa, scattato all’epoca di tangentopoli a Milano e poi propagatosi a tutte le latitudini, si è trasformato in collegamento a corrente continua, con atti, verbali, documenti, intercettazioni, pensieri e parole che passano dalle stanze del segreto istruttorio alle stanze del battage giornalistico, prima ancora che ne siano informati i diretti interessati. Un abuso continuato contro cui si sono infranti tutti i tentativi di rimedio. Se nulla hanno potuto le denunce, le circolari ministeriali, i procedimenti disciplinari, figurarsi se può qualcosa uno scioperino di qualche giorno degli avvocati. D’altro canto, non è che sul piano nazionale vada meglio; basti vedere quali ricavi hanno ottenuto i plurimi reiterati scioperi indetti nel corso degli ultimi due anni dall’Unione Camere penali per protestare contro la mancata attuazione della riforma penitenziaria. Motivo nobile, mezzo inidoneo. Non è un mistero che le carceri italiane versino in condizioni disagevoli (ben inteso, rispetto alle prigioni dei Paesi democratici occidentali, perché, se si va verso est, le nostre sono alberghi a quattro stelle). Il problema dei problemi è il sovraffollamento, causato in gran parte da un’incontrollata applicazione della carcerazione preventiva. Esso altera tutte le dinamiche delle strutture carcerarie: riduce gli spazi di vivibilità, alimenta le tensioni tra i detenuti, spinge all’adozione di regole coercitive, impedisce le attività lavorative e mortifica gli sforzi rieducativi. Serviva una riforma che, con il contributo fattivo dell’avvocatura, è arrivata: la legge delega 103 del 2017. Sennonché i decreti attuativi, tra ritardi, smantellamenti e riscritture, in parte sono rimasti sulla carta e in parte (vedi misure alternative, recupero sociale, tutela affetti familiari) non sono propriamente in linea con i principi costituzionali e umanitari delineati dalla delega. Contro questa deriva giustizialista del governo e coerentemente alla sua funzione, l’avvocatura è insorta, chiedendo rispetto anche per i diritti del cittadino carcerato (motivo nobile). Solo che ha scelto, come arma principale di lotta, lo sciopero a singhiozzo (mezzo inidoneo). Infatti, le posizioni dell’esecutivo son rimaste tali e quali. D’altro canto, andando a memoria, mai gli scioperi della classe forense hanno avuto riscontri tangibili, anzi, uno sì: fu il mitico sciopero proclamato negli anni 89-90 dagli avvocati di Cosenza. Allora, effettivamente, a Roma dovettero darsi una mossa e risolvere i malanni di organico ed incompatibilità che affliggevano il Tribunale calabrese, ma quello fu uno sciopero vero, portato avanti ad oltranza per oltre un anno, senza eccezioni o concessioni: tutto bloccato, tutto rinviato, urgenza o non urgenza, anche i processi di ‘ndrangheta. Gli scioperi di prima e quelli venuti dopo, lunghi qualche giorno o al massimo una settimana con tanto di guarentigie per le udienze cosiddette indifferibili, non hanno spostato di un’acca gli assetti su cui volevano inferire. Le tre principali ragioni che militano contro questo edulcorato tipo di sciopero sono: circoscritta diffusività dell’iniziativa (ne sanno qualcosa gli addetti ai lavori, la ignora del tutto l’opinione pubblica); minima incidenza sul funzionamento degli uffici giudiziari, massimo disagio per gli utenti; adesioni all’astensione a macchia di leopardo nei vari distretti della Penisola ed anche all’interno dello stesso distretto. In definitiva, o si mettono da parte le velleità di stampo sindacale e si concentrano gli sforzi sulle iniziative politiche (petizioni), scientifiche (convegni) e mediatiche (interviste), che appaiono più mirate sia nei contenuti che sui destinatari, oppure si sciopera sul serio: via gli avvocati da tutti gli organismi di supplenza del sistema, rifiuto delle difese d’ufficio, astensione sine die dalle udienze. Il resto è un buffetto privo di effetto. *Avvocato penalista, Foro di Pordenone Mafie, il virus della vendita dei beni confiscati di Mariano Di Palma* Il Manifesto, 17 aprile 2019 Decreto Salvini. Siamo di fronte a un pericolo di privatizzazione di una grande fetta di patrimonio pubblico. Sono circa 800 le esperienze di riuso sociale dei beni confiscati, monitorate dal sito confiscatibene.it. La vendita è effettuata al miglior offerente. Questa frase inserita all’interno dell’articolo 36 del dl 113/08 (il cosiddetto “decreto sicurezza”) rischia di frantumare tutta l’idea alla base della legge 109/96 sul riutilizzo pubblico e sociale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie. Dopo 23 anni dall’approvazione della legge frutto della petizione popolare sostenuta da un milione di firme, dopo una storia nuova e straordinaria per l’antimafia sociale aperta anche e soprattutto da quelle esperienze di riuso sociale dei beni, quelle sette parole rischiano di demolire i principi del riuso pubblico e sociale. Se i soggetti privati - con diritto di prelazione, tra l’altro, per le fondazioni bancarie - possono acquistare i beni confiscati per scopi propri; se è il miglior offerente la “regola” con cui si può acquistare un bene è chiaro che le logiche del libero mercato rischiano di entrare con arroganza nella normativa sui beni confiscati, mettendo a dura prova il valore sociale del riuso. È come inserire un virus nel software, una sabbia negli ingranaggi del riuso collettivo. I beni confiscati non sono più il modo per restituire il maltolto (per citare lo slogan della campagna che Libera usò nel 1995 per raccogliere il milione di firme) ai territori che hanno subito la violenza mafiosa, ma un bene pubblico da svendere per fare cassa. Il rischio che la vendita da caso di extrema ratio diventi una prassi è ancora più chiaro leggendo il testo del decreto. Il meccanismo è costruito ad arte: i proventi della vendita saranno assegnati per il 20% all’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati. L’Anbsc è una struttura di poche decine di funzionari e ha il compito di gestire un patrimonio di 32.349 beni confiscati; una struttura che va assolutamente potenziata (e che lo stesso decreto prevede di potenziare), ma è preoccupante se questo avverrà non attraverso un investimento diretto, ma attraverso un meccanismo di autosussistenza tramite i proventi derivati dalla vendita. A ciò si aggiunge che il 30% delle risorse destinate all’Agenzia potrà essere utilizzato per aumentare i fondi della contrattazione integrativa del personale. È chiaro quindi il meccanismo che abbiamo di fronte: spingere l’agenzia a vendere i beni confiscati. In questo modo ci saranno più risorse, più personale e condizioni salariali più vantaggiose. La vendita finirà per avere una procedura più rapida rispetto al processo di destinazione e assegnazione. Le modalità non le troviamo direttamente nel testo, che rimanda alle disposizioni generali della contabilità dello Stato sulla vendita del patrimonio pubblico: per i beni con valore superiore ai 400.000 euro si procederà tramite lo strumento dell’asta pubblica; per i beni con valore inferiore addirittura si potrà procedere attraverso trattativa privata. Il rischio è dunque duplice: che il bene ritorni all’illegittimo proprietario, al mafioso, o che anche grandi aziende private possano acquistare beni confiscati e iniziare, ad esempio, a produrre prodotti su quei beni come oggi fanno cooperative sociali di giovani nei territori del Sud Italia. Sarebbe una competizione ingiusta e insopportabile. Decine, se non centinaia di appartamenti e locali nei centri delle grandi città italiane potrebbero trasformarsi, ad esempio, in una ghiotta occasione per grandi gruppi immobiliari per investimenti nel settore del turismo. Anziché investire e pianificare un piano per l’emergenza abitativa o per costruire esperienze di innovazione e cooperazione sociale i beni confiscati potrebbero essere occasione per far accumulare capitale privato a chi già ne ha accumulato troppo. Siamo di fronte a un pericolo di privatizzazione di una grande fetta di patrimonio pubblico. Sono circa 800 le esperienze di riuso sociale dei beni confiscati, monitorate dal sito www.confiscatibene.it: un numero consistente, ma che ancora non esprime tutta la potenzialità che potrebbe avere il riuso delle decine di migliaia di beni ancora non utilizzati. Un patrimonio che fa gola a tanti. In questi giorni il Presidente dell’Eurispes ha dichiarato che i beni confiscati hanno un valore pari a circa 30 miliardi di euro e che servirebbe una holding per gestire questo capitale; paragona la holding a una “Iri2” che avrebbe “un capitale sociale più alto di Eni, Enel, Poste Italiane Leonardo, Intesa San Paolo, Generali messi assieme”. Chiunque pensi che un nuovo modello di sviluppo; che nuove occasioni di occupazione e welfare dal basso, soprattutto a Sud, passino anche dal riuso sociale del patrimonio pubblico non può non preoccuparsi e allo stesso tempo dotarsi di tutti gli strumenti giuridici, sociali e politici possibili per impedire che i beni confiscati si trasformino in un interesse privato, ma restino invece un’occasione unica per liberarsi dalle mafie costruendo giustizia sociale. Le mafie non sono semplicemente un problema di ordine pubblico, ma sono una delle grandi “questioni” italiane: un fenomeno sociale, politico, economico, intriso di corruzione e malaffare. È impensabile credere che sia sufficiente sequestrare e confiscare i beni ai mafiosi per liberarsene. Bisogna invece proprio ora, ancora di più, che da quei beni si moltiplichino occasioni di autonomia e giustizia sociale per quelle persone che vogliono alzare la testa con dignità e libertà. *Libera Whistleblowing, sì alle norme Ue per gli informatori di Roberto Da Rin Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2019 Venti di trasparenza. Arriva la “protezione europea” per i whistleblower, gli “informatori” che rivelano violazioni del diritto comunitario. Nei giorni della cattura di Julian Assange presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, il Parlamento europeo ha votato a favore di una proposta che allinea i Paesi Ue su questo tema, cercando di inserire in un perimetro normativo coerente fenomeni che, da Wikileaks in poi, hanno determinato consapevolezza riguardo al peso della divulgazione di alcune informazioni “sensibili”. Ieri il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva (dopo l’accordo con i governi, che formalizzeranno a breve) con 591 voti favorevoli, 29 contrari e 33 astensioni, nuove regole a livello europeo per proteggere gli informatori che rivelano violazioni del diritto comunitario nei seguenti settori: appalti pubblici, servizi finanziari, riciclaggio di denaro, sicurezza dei prodotti e dei trasporti, sicurezza nucleare, salute pubblica, protezione dei consumatori e dei dati. La svolta è di rilievo: chi divulga informazioni su attività illegali o dannose, acquisite nel contesto lavorativo, sarà protetto più efficacemente. Per garantire la sicurezza dei potenziali informatori e la riservatezza delle informazioni divulgate, le nuove norme consentiranno di comunicare le segnalazioni, a vari livelli: all’interno dell’ente interessato (come un’azienda), direttamente alle autorità nazionali competenti, nonché agli organi e le agenzie competenti dell’Ue. In altre parole saranno creati canali di comunicazione, sia dalle aziende sia dalle autorità nazionali. Che succederà nel caso in cui non vengano adottate misure protettive? Le nuove norme prevedono che, qualora si ritenga vi sia un pericolo imminente per l’interesse pubblico o un rischio di ritorsione, l’informatore sia comunque protetto in caso decidesse di divulgare pubblicamente le informazioni, senza passare attraverso questi canali. Laura Ferrara, europarlamentare del M5S, commenta così la normativa: “È un passo avanti significativo, le lobby dovranno farsene una ragione anche perché le possibili ritorsioni aziendali mirate a colpire gli informatori, saranno ostacolate dall’inversione dell’onere della prova, un passaggio innovativo”. La legge approvata a Strasburgo vieta comunque esplicitamente le rappresaglie e introduce delle salvaguardie, per evitare che chi denuncia sia sospeso, declassato, intimidito. Saranno tutelati anche coloro che assistono gli informatori, come i facilitatori, i colleghi e i parenti. Gli Stati membri dovranno garantire che gli informatori abbiano accesso gratuito a informazioni e consulenze complete e indipendenti sulle procedure e sui mezzi di ricorso disponibili, nonché all’assistenza legale nel corso del procedimento. Durante i procedimenti giudiziari, gli informatori potranno ricevere sostegno finanziario e psicologico. La relatrice del provvedimento, Virginie Rozière, del gruppo Socialisti e democratici, ha spiegato che “i recenti scandali come LuxLeaks, Panama Papers e Football Leaks hanno contribuito a mettere in luce la grande precarietà di cui soffrono oggi gli informatori”. Il carabiniere “pentito” chiede scusa a Ilaria Cucchi di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 aprile 2019 Processo bis. Il superteste Tedesco si difende. Gli agenti penitenziari si costituiscono parte civile nell’eventuale processo per depistaggio. L’avvocata che difende uno dei carabinieri accusati del pestaggio cerca di fare il suo mestiere: vuole far cadere in contraddizione l’imputato superteste, Francesco Tedesco, confutare l’atto d’accusa che il vicebrigadiere ha rivolto contro i suoi due commilitoni e coimputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Lo incalza, lo sommerge di domande, spera di vederlo cedere per sfinimento, dopo ore di controinterrogatorio. Ma l’uomo tiene la barra dritta e la legale segna un autogol. Ilaria Cucchi, che come sempre assiste insieme ai genitori al processo bis per la morte di suo fratello, lo sottolinea quasi subito su Facebook: “Vorrei ringraziare l’avvocato Maria Lampitella, difensore di D’Alessandro, che ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento - scrive in un post - Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto: “Io muoio ma a te ti levano la divisa” (rivolgendosi a Tedesco, ndr). Stefano era stato appena picchiato e stava proprio male”. Il superteste nega di aver sentito questa frase, ricorda invece il silenzio del giovane geometra romano, anche mentre prendeva uno schiaffo, un calcio sul coccige e subito dopo, quando era steso a terra, un calcio in faccia. E ricorda quella frase piena di disperata dignità pronunciata mentre tentava di rimettersi in piedi: “Sto bene, sono un pugile io”. In ogni caso, l’orrore della scena che si era consumata nella stanza del fotosegnalamento della caserma Casilina, rievocata da Tedesco anche ieri per la seconda udienza consecutiva, è ormai agli atti del dibattimento che si svolge davanti alla Corte d’Assise. E a fine interrogatorio, dopo che ha raccontato tutta la sua verità per la prima volta, dopo quasi dieci anni, in un’aula di tribunale, Tedesco si alza e si dirige verso Ilaria. Le tende la mano e le sussurra: “Mi dispiace”. “Grazie”, è la risposta della donna. Finalmente entrambi non sono più soli. Il carabiniere “pentito” - che nel giugno 2018 ha denunciato in procura il pestaggio e la scomparsa dall’archivio della caserma Appia della sua nota di servizio nella quale, subito dopo la morte di Cucchi, raccontava la verità - ripete che si sentiva in trappola. Per questo assecondava i suoi colleghi fingendosi d’accordo con loro e mentendo pure al telefono, che supponeva sotto controllo. “Di Bernardo e D’Alessandro (i cui nomi non risultavano neppure nel verbale d’arresto, ndr) si sono nascosti dietro le mie spalle per tutti questi anni - afferma il vicebrigadiere - per dieci anni loro hanno riso e io ho dovuto subire. Mi sono stancato. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L’unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero stato l’unico minacciato di licenziamento”. Tedesco racconta di aver maturato subito la convinzione di dover parlare, ma di aver rinviato cercando di recuperare la sua annotazione di servizio scomparsa, in modo da poter dare sostanza alle sue denunce. Afferma di essere stato finalmente convinto dalla lettura del suo capo d’accusa (gennaio 2017) per omicidio preterintenzionale stilata dal pm Giovanni Musarò. E soprattutto di aver trovato il coraggio necessario dopo la sospensione dall’Arma (febbraio 2017): “All’inizio l’ho presa male, ma poi l’allontanamento dalla caserma e dai colleghi mi ha permesso di non sentirmi più sotto pressione, di sentirmi libero nella coscienza”. In aula ieri c’era anche il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della caserma Appia, imputato nel processo per falso e calunnia con l’accusa di aver coperto i due carabinieri e tentato di far ricadere la colpa del pestaggio sui poliziotti penitenziari (assolti nel primo processo). Seduto tra il pubblico, Mandolini ha ascoltato con aria esplicitamente compiaciuta la testimonianza a suo favore del maresciallo Enrico Mastronardi, all’epoca comandante della stazione di Tor Vergata. Mastronardi ha dipinto Riccardo Casamassima (il primo carabiniere ad aver rotto il muro di omertà insieme a sua moglie Maria Rosati) come un “caso difficile”, un violento da controllare e di cui non fidarsi. Ma nella lunga e nervosa deposizione, nella quale il teste indagato ha bisticciato più volte col pm e con gli avvocati di parte civile, entrando spesso in contraddizione con quanto precedentemente raccontato agli inquirenti, Mastronardi ammette di aver parlato del caso Cucchi con Mandolini “una sola volta, per pochi minuti nel mio ufficio di Tor Vergata”. Allora, “mi disse che la Polizia penitenziaria stava cercando di scaricare la responsabilità sui carabinieri che avevano proceduto all’arresto e che il generale Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma, aveva tenuto una riunione per avere particolari sulla vicenda”. Ma soprattutto, ricorda il testimone, “Mandolini mi disse anche che al momento della perquisizione la madre di Cucchi era molto arrabbiata con il figlio, dicendo “non lo voglio più vedere”“. Mastronardi è attualmente indagato nell’ambito dell’inchiesta integrativa sul depistaggio che già oggi probabilmente si trasformerà in richieste di rinvio a giudizio per lui e altri sette militari (tra i quali anche il generale Alessandro Casarsa). E ieri i tre poliziotti penitenziari assolti definitivamente nel 2015, Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, ora parte lesa, hanno depositato un atto per costituirsi parte civile nell’eventuale processo per depistaggio, insieme alla famiglia Cucchi. In modo da poter ottenere un risarcimento danni non solo dagli autori materiali del pestaggio ma anche da coloro che semmai risultassero colpevoli di aver insabbiato la verità per dieci anni. Anche se i reati ascritti agli otto indagati nella terza tranche dell’inchiesta potrebbero andare presto in prescrizione. Dal caso Cucchi all’omicidio Di Gennaro, la catarsi dell’Arma che sa chiedere scusa di Fabio Evangelisti Il Dubbio, 17 aprile 2019 Il suo nome era Vincenzo Di Gennaro. Enzo per gli amici. Cullava sogni e coltivava speranze. Come ciascuno di noi. Aveva 47 anni e una compagna, Stefania. Presto si sarebbe sposato. Invece, in un sabato di aprile, in una piazzetta di un paese alle pendici del Gargano, quell’uomo è morto. Ammazzato soltanto perché indossava la divisa dei Carabinieri. Immediatamente la notizia è rimbalzata su tutti i siti e i social. Poi sono arrivate le televisioni e la carta stampata. E un coro unanime s’è levato nel Paese. Tutti stretti nel cordoglio e nella vicinanza all’Arma. Mentre una bandiera tricolore veniva poggiata come un velo pietoso sulla macchina con la striscia stilizzata sulla carrozzeria. Come se quel sangue versato su quella piazza di Cagnano Varano rappresentasse la catarsi, la purificazione dell’Arma dopo una settimane (e mesi) di dolorosa passione. Dapprima la lettera del generale Giovanni Nistri alla famiglia Cucchi. Non soltanto scuse per le botte che avevano portato a morte Stefano. Soprattutto la denuncia delle falsità e del depistaggio perpetrato dai propri commilitoni. Fino a ipotizzare la costituzione dell’Arma come parte civile nel processo in corso. Poi le immagini e la voce in tv di Francesco Tedesco, uno dei militari imputati per quell’omicidio che è diventato il super teste contro i colleghi coimputati. Quindi le polemiche seguite alle parole di Sergio De Caprio. Il famoso “Capitano Ultimo’ (noto per aver arrestato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, nel lontano 1993) ha criticato apertamente il comandante generale dei Carabinieri: ‘ Per dieci anni il vertice dell’Arma ha ignorato e negato il ‘ caso Cucchi’. Ora se ne accorge. Ritardo ingiustificabile”. A febbraio era emersa un’altra storia di depistaggio riguardo alla vicenda di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce, uccisa nel 2001 nella caserma dei carabinieri del suo stesso paese in provincia di Frosinone. Lo hanno confermato le analisi del Ris egli stessi Carabinieri. E, ancora, a ottobre scorso, l’imbarazzo dell’Arma per la prima condanna a 4 anni e 8 mesi (con rito abbreviato) per il carabiniere Marco Camuffo accusato a Firenze, insieme al collega Pietro Costa (che andrà a processo il prossimo 10 maggio), di aver abusato di due studentesse ventenni dopo averle riaccompagnate a casa con l’auto di servizio da una discoteca. Macchie difficili da cancellare in una storia pur segnata da quotidiani e normali atti di eroismo, dalle Alpi alla Sicilia. Dalle zone terremotate agli incidenti sulle strade. Dalla lotta alle cosche alle azioni di peace keeping nelle zone calde del mondo. Atti e gesta quotidiani suggellati dal testo di quella splendida canzone che Giorgio Faletti tanti anni fa portò a Sanremo: “e siamo qui con queste divise. Che tante volte ci vanno strette. Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette. E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo Paese. Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese. E c’è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù. E farla scendere è una parola, se chi ci ammazza prende di più di quel che prende la brava gente”. E infatti, secondo Eurispes, resta ancora altissima la fiducia dell’opinione pubblica verso l’Arma dei Carabinieri. Un livello del 69,4%, calcolato nel 2018. Probabilmente, se l’Italia anche sul piano della sicurezza e della lotta al terrorismo ha fin qui dimostrato grandi capacità di prevenzione, il merito va a questi uomini in divisa, spesso bistrattati se non strumentalizzati. Come è avvenuto anche sabato dopo il grave fatto di sangue in provincia di Foggia. “Pena di morte” qualcuno ha rilanciato. Non c’è bisogno di seppellire nuovamente Cesare Beccaria. E nemmeno di un inasprimento specifico delle pene. Quel che serve è che non si abbassi mai la guardia di fronte al crimine organizzato e l’impegno nel contrasto della microcriminalità diffusa. Quella maggiormente avvertita dai cittadini. E serve che la trasparenza continui a restare un valore primario per chi esercita funzioni istituzionali e amministra pene e giustizia. Altrimenti la retorica patriottica (come anche quella inneggiante a Dio e famiglia) potrà pure trionfare, ma soltanto come metafora di una civiltà senza presente. E, soprattutto, senza futuro. Carcere duro: esclusa la videoconferenza per i colloqui con i familiari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2019 Il tribunale di sorveglianza non può autorizzare i colloqui visivi con un congiunto attraverso la videoconferenza, per il detenuto sottoposto al carcere duro previsto dal 41-bis. Spetta, infatti al legislatore, in virtù delle nuove tecnologie prevedere o meno questa opportunità, dopo aver analizzato che non ci siano i rischi per la sicurezza interna. La Cassazione, con la sentenza 16557, accoglie il ricorso del ministero della Giustizia contro l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza aveva dato il via libera alla richiesta di un colloquio visivo con il fratello, anche lui carcerato, di un detenuto in regime di 41-bis. Per Via Arenula il sistema della videoconferenza è stato introdotto a fini processuali e non può essere usato per altri scopi, che introdurrebbero anche una nuova fonte di spesa, in violazione dell’articolo 81 della Costituzione. Il Tribunale dal canto suo aveva, invece affermato che non c’era aggravio di costi perché si trattava di un banale video-collegamento: una sorta di skype, realizzabile con mezzi artigianali che necessitava solo di un computer, un microfono e una connessione internet. Per il Tribunale di Sorveglianza, inoltre la decisione presa era in linea con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul rispetto della vita privata e familiare e con un precedente (sentenza 7654/2015) nel quale la Cassazione affermava che il regime differenziato non esclude la possibilità di colloqui visivi con un altro familiare detenuto in modo da consentire la coltivazione dei legami affettivi. La Suprema corte sottolinea però che la praticabilità di tale soluzione avrebbe dovuto essere verificata anche in sede di merito. Si trattava di un’affermazione di principio, nella quale si evocava la videoconferenza ossia “forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazioni criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti”. Verifiche che, nel caso specifico, il magistrato di sorveglianza non aveva fatto. La Cassazione senza sconfessare i principi dettati, ritiene necessario un approfondimento della questione alla luce della normativa vigente. L’ordimento penitenziario attuale prevede che i colloqui siano svolti in luoghi attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti: previsione evidentemente riferita ai colloqui personali e non a distanza. Inoltre le norme penitenziarie regolamentano le visite e le telefonate in quanto a frequenza e a durata. Un ambito, quindi, regolato dalla legge che non contempla per i detenuti né in regime ordinario né speciale la videoconferenza. Il mezzo artigianale tipo skype, conclude la Corte, non si attaglia al regime carcerario e ancora meno al 41-bis. Con questo i giudici non negano l’interessa all’evoluzione tecnologica, auspicato dal Tribunale, ma precisano che deve essere una legge o un regolamento a disciplinare la materia, stabilendo gli strumenti da adottare guardando alle voci di spesa e soprattutto alla sicurezza: possibilità di registrare i colloqui, rischio di intercettazioni e potere della polizia penitenziaria di interrompere le conversazioni non consentite. Diffamazione aggravata anche per le dichiarazioni fatte al blogger di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2019 La diffamazione aggravata scatta anche con le dichiarazioni lesive fatte ai blogger. Pur non potendosi, infatti, considerare i blog delle testate giornalistiche, sono comunque un veicolo pubblicitario che raggiunge, al pari dei social media, un numero indeterminato di persone. A ricordarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 16564, con la quale decide in merito ad una causa di diffamazione subita dal noto critico cinematografico Paolo Merenghetti. A Marco Muller, all’epoca dei fatti direttore del Festival di Venezia, era stata mossa una doppia accusa: di aver affermato, nel corso di una conferenza stampa dedicate a giornalisti di testate on line, che Merenghetti aveva fischiato durante la proiezione dei film di Werner Herzog, e che il critico aveva scritto la recensione del film “promesse scritte nell’acqua” di Vincent Gallo, pur essendo uscito dalla sala solo mezz’ora dopo l’inizio della proiezione. La prima accusa era caduta già in secondo grado: dire che qualcuno fischia nel corso di uno spettacolo non è diffamante, mentre l’ex direttore era stato condannato per aver attribuito a Merenghetti un comportamento scorretto: aver criticato il film pur avendone visto solo una parte. La Suprema corte, sul punto, conferma la prescrizione ma non assolve nel merito. L’accusa era stata riportata dal giornale Variety, ma Muller aveva sempre negato di aver detto la frase incriminata, e la registrazione dell’intervista era sparita. Pesa però la mancata richiesta di smentite o di denunce nei confronti del giornalista che gli aveva attribuito un fatto non vero. Per quanto riguarda invece il primo reato, per il quale c’era stata l’assoluzione, la difesa riteneva che rientrasse nel raggio d’azione del giudice di pace - facendo così scattare le regole di connessione anche per l’altro giudizio oggetto di condanna - non trattandosi di diffamazione aggravata. L’imputato, infatti, non aveva mai rilasciato dichiarazioni pubbliche a giornalisti, ma si era lasciato andare solo ad alcune esternazioni a Venezia “in privato” alla presenza di alcuni blogger: esternazioni poi messe sul web e rilanciate dal Corriere della Sera. La Suprema corte sottolinea però che anche in tal caso il reato, se ci fosse stato, sarebbe stato aggravato, rientrando nella competenza del Tribunale, perché fare dichiarazioni ad un blogger “implica non solo la consapevolezza ma anche il proposito della pubblicazione delle stesse sul web”. In ogni caso il problema di competenza sollevato è ininfluente a fronte dell’assoluzione per il reato contestato. Mentre l’altro è prescritto. Omessa denuncia abusi edilizi, dirigenti comunali senza responsabilità oggettiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 16 aprile 2019 n. 16577. Non risponde automaticamente del reato di “omessa denuncia” (361 c.p.) - nel caso di un abuso edilizio -, il responsabile dell’ufficio tecnico del comune che a seguito della presentazione di un permesso di costruire in sanatoria, non abbia trasmesso la relativa notizia all’autorità giudiziaria. È infatti necessario dimostrare anche la “sussistenza dell’elemento soggettivo” del reato - vale a dire l’effettiva conoscenza della notitia criminis - “non potendosi ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale in base alla sola funzione amministrativa esercitata all’interno della struttura burocratica del comunale”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 16577 di oggi, accogliendo il ricorso di un dirigente di un municipio in provincia di Catania. La Corte di appello invece gli aveva comminato una pena di 340 euro. Proposto ricorso, il dirigente ha sostenuto, tra l’altro, di essere il coordinatore di “ben otto servizi, tra i quali anche quello di Urbanistica e Repressione Abusivismo Edilizio”, e che ciascun settore, a sua volta, era retto da un responsabile “cui competeva l’istruttoria delle pratiche assegnate”, mentre lui si limitava “a sottoscrivere i provvedimenti finali”. Una tesi accolta dalla Suprema corte che sottolinea come nonostante i “plurimi rilievi tesi ad evidenziare una assenza di conoscenza della pratica relativa all’immobile oggetto di sanatoria, i giudici di merito hanno ritenuto il dirigente responsabile sulla base della sola posizione apicale ricoperta”. In senso contrario, prosegue la decisione, la Cassazione ha da tempo evidenziato che “non risponde di omessa denuncia di reato il sindaco che ometta di portare a conoscenza dell’autorità giudiziaria il contenuto delle domande di sanatoria per abusi edilizi pervenute all’amministrazione, o ne ritardi la trasmissione informale, richiesta dall’A.G” (n. 5499/1985). Un principio, aggiunge la Corte, “tranquillamente esportabile in capo al Dirigente dell’Ufficio tecnico cui oggi compete l’accertamento di conformità ex art. 36 Dpr 6 giugno 2001, n. 380”. Ciò non vuol dire, si affretta a precisare la sentenza, che il dirigente “non possa rendersi astrattamente responsabile del delitto di omessa denuncia di un fatto di reato di cui sia venuto a conoscenza in ragione dell’espletamento della funzione, e ciò a maggior ragione quando vengono coinvolti interessi connessi alla salvaguardia del territorio alla cui tutela il pubblico ufficiale è preposto”. “Ma non è possibile che tale obbligo/dovere di denuncia si estenda sino a ricomprendere le molteplici evenienze che involgono il campo d’azione dell’esercizio della funzione amministrativa e senza in concreto accertare se la notizia di reato sia stata realmente apprezzata dal soggetto agente”. In ultimo la Cassazione ricorda un proprio precedente (12021/2014) secondo cui il reato non scatta neppure a fronte della condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all’interno del proprio ufficio, al fine di verificare l’effettiva sussistenza di una “notitia criminis”, e non di elementi di mero sospetto. Un richiamo che pone ancora una volta l’accento sulla necessità della previa verifica dell’elemento soggettivo. Reati tributari: per mancata dichiarazione si confiscano prima i beni aziendali di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 aprile 2019 n. 16523. Illegittima la confisca sui beni personali degli associati di una Onlus se il Tribunale non ha cercato in precedenza di rifarsi sui beni aziendali. La Corte di cassazione, sentenza n. 16523/19, si è trovata alle prese con un’omessa dichiarazione dei redditi da parte di un’azienda, a seguito della quale era stata disposta la confisca sui beni personali degli associati. Questi ultimi hanno proposto ricorso. E i Supremi giudici lo hanno accolto, spiegando come fosse poco credibile parlare di una società non profit dal momento che la struttura aveva chiuso l’esercizio con un utile di bilancio. E questo, si legge nella sentenza, era un motivo in più per rifarsi sui beni della società e non su quelli personali. In materia la Cassazione ha anche osservato che in caso di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato. Ipotesi questa che non ricorreva nel caso concreto vista la chiusura del bilancio in utile. Conclusioni - Tale omissione inficia sulla validità dell’ordinanza impugnata, che non ha tenuto conto della fondatezza del rilevo formulato di fronte al Tribunale del riesame, sia dello stesso provvedimento di sequestro, che è stato adottato senza il preventivo scrutinio della possibilità di procedere al sequestro diretto anziché a quello per equivalente. Lombardia: l’80% delle attività per i detenuti gestito da terzo settore e volontari Redattore Sociale, 17 aprile 2019 Rapporto “Creare valore con la cultura in carcere” sugli istituti di pena a Milano. Decisivo il ruolo delle associazioni nelle attività culturali, religiose e di supporto alle genitorialità in carcere: nel 2017 hanno lavorato 619 volontari per oltre 36 mila ore. Un lavoro quotidiano, faticoso, utilissimo, ma ancora troppo oscuro, e, a tratti, disorganizzato. È quello che volontari, organizzazioni non-profit, istituzioni pubbliche e imprese, portano avanti nelle carceri milanesi. Un’attività che fino a oggi non era mai stata mappata, né studiata in modo organico. A “sanare” il buco nero, cercando anche di misurarne il valore aggiunto creato, la ricerca “Creare Valore con la Cultura negli istituti di pena”, condotta dall’Università Bocconi in collaborazione con il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria della Lombardia con il sostegno di Fondazione Cariplo. Un’opera certosina, dato che i ricercatori hanno mappato tutte le “attività trattamentali” (così sono chiamate in gergo carcerario) condotte nei tre istituti di pena milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Lo scopo? Analizzarne le caratteristiche, misurarne il valore, individuare le criticità. Anche perché, come ha detto l’ex Pm, Gherardo Colombo, autore della prefazione del volume, purtroppo oggi “si cambia nonostante il carcere”. La prima “verità” che emerge dal report, la enuncia Filippo Giordano, ricercatore dell’Invernizzi Center for Research on Innovation, Organization, Strategy and Entrepreneurship, Università Bocconi (Icrios), coautore dello studio: “Senza i volontari, in massima parte provenienti dal Terzo Settore, non ci sarebbe reinserimento dei detenuti”. Un assioma suffragato dai numeri, visto che l’80% delle varie attività derivano da iniziative provenienti dall’esterno, mentre solo il 20% è attivata da impulsi provenienti dall’interno degli istituti di pena. Un’oggettività che, se da un lato aumenta la fiducia nell’essere umano, dall’altra rivela il nervo scoperto dell’istituzione adibita alla “rieducazione”: il mondo del carcere è impermeabile, autoreferenziale e tendente all’isolamento. Il che è un male, visto che “per i detenuti è fondamentale avere un rapporto con persone provenienti dall’esterno, con elementi che non appartengono al loro “mondo” delinquenziale”, spiega Giordano. Da ciò deriva un’altra criticità: se è l’esterno a proporre, non sempre l’offerta corrisponde ai reali bisogni dei detenuti. Inoltre, spesso si hanno sovrapposizioni e si registra una mancanza d professionalità dei pur volenterosi operatori. Tutte disfunzioni che potrebbero essere mitigate se ci fosse un disegno unitario a gestire le proposte, che a oggi manca. Colpisce poi che “l’85,5% delle attività ha per beneficiari gli uomini detenuti, il 30,56% le donne, mentre quasi il 18% coinvolge persone transessuali”. Nella disparità di possibilità tra uomo e donna, si riverbera infatti la disparità del mondo fuori carcere: se i maschi possono giocare a calcio, coltivare le piante, allevare i cavalli, per le femmine le possibilità sono di imparare a cucire o cucinare. Come se le donne non amassero gli animali o lo sport! “In carcere si vedono riflessi tutti i problemi della società”, sottolinea Giordano, “per questo serve un rapporto dialettico tra “il dentro e il fuori”, perché una società che non dialoga col carcere, è una società che nascondere la polvere sotto il tappeto”. Infine, altro tasto dolente è la quasi totale assenza del mondo dell’imprese dall’universo carcerario: “queste ultime costituiscono una piccola percentuale anche nell’attuazione di attività di tipo lavorativo (1 su 4), segnalando una scarsa interazione e il mancato sfruttamento delle potenzialità del tessuto produttivo milanese”, si legge nel rapporto, che certifica come “a offrire più occasioni lavorative alla comunità detenuta sono le cooperative sociali di tipo B (75%)”. In effetti il carcere è poco “cool”: per un’azienda è più impattante sponsorizzare un ospedale in Kenya (e per fortuna lo fanno) che pubblicizzare il fatto di aver dato da lavorare a dieci ex rapinatori. Fino a qui le note negative, tuttavia bisogna considerare anche i molti aspetti positivi delle tre carceri milanesi, le quali rappresentano il punto più avanzato del sistema carcerario italiano, basti pensare che da sole ospitano il 14% di tutte le attività pensate per i detenuti. Una testimonianza dello stretto rapporto tra Terzo settore (che in Lombardia è assai attivo) e benessere dei detenuti. I tre istituti milanesi, in particolare, sono un universo composto da funzionari dalla mentalità aperta, come Luigi Pagano, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Lombardia, e da una rete di quei 619 volontari, coinvolti in circa il 74% delle attività in modo esclusivo o al fianco di personale retribuito, che nel 2017 ha investito 36.078 ore della propria vita. Un’enormità. Inoltre Opera, San Vittore e Bollate hanno avuto accesso a un (relativamente) alto livello di finanziamento: nel 2017 hanno infatti ricevuto complessivamente 3.109.195,09 di euro, il 75% dei quali provenienti da fonti pubbliche. A chi giovano le attività - Circa i beneficiari delle attività trattamentali, naturalmente i primi sono i detenuti, ma non sono certo gli unici. Nei reclusi, le attività “generano incremento di conoscenze e competenze; miglioramento del coinvolgimento alla vita detentiva; aumento della consapevolezza di sé; riduzione della solitudine e miglioramento delle relazioni interne; maggiore fiducia nello staff e istituzione penitenziaria; miglioramento della relazione tra carcere territorio; miglioramento del benessere psico-fisico; aumento delle abilità personali; miglioramento dei rapporti con la famiglia; facilitazioni nella ricerca di un lavoro/stage e di una retribuzione”. Ma se il miglioramento della qualità di vita dei reclusi era scontato, non così la crescita di tutta una serie di altri indici che riguardano “il resto del mondo”, quali per esempio i loro parenti rimasti fuori, o le ricadute positive sullo staff della Polizia Penitenziaria, che ha rilevato “una riduzione del carico di lavoro, che contribuisce a rendere meno usurante il lavoro del poliziotto penitenziario; un miglioramento della relazione detenuto-agente; maggior produttività degli agenti; aumento del benessere lavorativo”. A guadagnarne, poi, anche gli stessi istituti di pena grazie alle migliorie che vengono apportate agli edifici e alle dotazioni. In primo luogo, si tratta di “donazioni di attrezzature (il 30,5% delle attività ha effettuato donazioni all’istituto), di suppellettili (16,8%) o di materiale per varie attività (6,3%), quantificate per un valore complessivo di 63.855 euro nel solo 2017. In secondo luogo, il 23,2% delle attività che hanno apportato migliorie ha realizzato 163 interventi di imbiancatura delle pareti, l’11,6% ha realizzato interventi di vere e proprie ristrutturazioni, mentre un altro 11,6% ha contribuito, con 25 interventi, alla riqualificazione di aree verdi e spazi comuni”. Insomma, far stare bene i detenuti, migliora la qualità di vita di quanti lavorano con loro, dei loro familiari, degli operatori e della società tutta. Isernia: non fu una caduta accidentale, gli sfondarono il cranio e morì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2019 Due rinvii a giudizio per il caso di Fabio De Luca, deceduto nel carcere di Isernia nel 2014. Gli avrebbero sfondato il cranio provocandone la morte. Ora ci sono due rinvii a giudizio per omicidio. Parliamo di Fabio De Luca, detenuto di origini romane, che perse la vita in circostanze all’epoca poco chiare nel carcere di Isernia nel novembre del 2014. Era recluso da un mese per rapina ai danni della madre residente a Isernia, quando venne portato d’urgenza all’ospedale con gravi traumi alla testa. Inizialmente si parlò di caduta accidentale. L’uomo, secondo le prime ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. A dare l’allarme furono proprio i due detenuti che si trovavano con De Luca, più un terzo individuo. Ora sono loro gli imputati. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti Fabio De Luca non era però morto per una caduta accidentale dalla branda, ma per i traumi provocati da un pestaggio, come ha stabilito l’autopsia. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili. Secondo gli investigatori le lesioni sul corpo della vittima erano incompatibili con una caduta accidentale in quanto, oltre al colpo alla nuca, si è stabilì con certezza che De Luca venne colpito al cranio in più punti con un corpo contundente, a superficie liscia, forse ricoperto da un panno. La Mobile visionò i filmati registrati sia prima dell’aggressione, sia nell’immediatezza dell’evento, analizzando in particolar modo il comportamento di un gruppo di detenuti campani. Fabio De Luca venne descritto come una persona particolarmente litigiosa. Il 45enne romano, come detto, era stato arrestato per rapina ed era in carcere dopo aver aggredito la madre. Intanto, la famiglia di De Luca, assistita dall’avvocato isernino Salvatore Galeazzo, si è già costituita parte civile e continua a chiedere verità e giustizia. Parliamo di una vicenda simile alla storia del marchigiano Achille Mestichelli, un ascolano di 53 anni che era detenuto nel carcere di Ascoli Piceno. Il detenuto, nel gennaio del 2015, era stato arrestato dai carabinieri della stazione di Castel di Lama in esecuzione di una sentenza definitiva. Era stato condannato a due anni di reclusione per aver commesso un furto, episodio risalente ad alcuni anni precedenti. Intorno alle 21 del mese di febbraio dello stesso anno, i detenuti con i quali divideva la cella hanno lanciato l’allarme in quanto il loro compagno dava flebili segni di vita. È stato prontamente soccorso e visitato dal medico di turno il quale, valutato il suo stato di salute, ha deciso che l’uomo venisse trasferito all’ospedale di Torrette, provincia di Ancona, dove poi è finito in coma irreversibile per poi morire. La morte era avvenuta a seguito delle gravissime lesioni, trauma cranico e fratture costali, provocategli, da un compagno di cella, Mohamed Ben Alì, a seguito di un tragico pestaggio avvenuto cinque giorni prima del decesso. È stato poi processato fino arrivare alla sentenza d’appello: dieci anni di reclusione, escludendo l’aggravante per futili motivi riconosciuta in primo grado nel processo celebrato con rito abbreviato. Milano: quelle vite che s’intrecciano nei corridoi di San Vittore di Paola Fucilieri Il Giornale, 17 aprile 2019 A chi sta fuori sembra che in carcere il tempo non passi mai e, soprattutto, che non accada nulla. E non solo a chi per ovvie ragioni ci deve stare, ma anche a coloro che ci lavorano. Ci si rende conto che questo mondo parallelo - così sommerso e per troppi versi sconosciuto - palpita di vita propria e vibra di emozioni di ogni genere, solo quando viene rischiarato dalle luci dei riflettori, comprensibilmente non troppo gradite ai suoi “abitanti”, grazie ad arrivi (e magari ritorni) d’eccezione. O per vicende amare, di vita e purtroppo anche di morte. Sotto questo profilo c’è stato un periodo eccezionale a San Vittore. A cominciare, andando in ordine temporale, da mercoledì 20 marzo, quando in serata è arrivato Ousseynou Sy, l’autista quarantaseienne di origine senegalese che quella mattina aveva preso in ostaggio 51 allievi di seconda media, due insegnanti e una bidella della scuola di Crema “Giacomo Vailati” dirottando il loro autobus sulla Paullese, per poi dargli fuoco. All’interno del carcere, portato in quello che viene considerato un circuito chiuso ma comune, nel quinto raggio, Sy non ha potuto rimanere. Quella prima notte trascorsa “in gabbia” non se la scorderà facilmente visto che la porta della sua cella è stata bersagliata da lanci di uova e arance. Ogni universo ha le sue leggi e il suo dio, seppur minore. E per gli altri detenuti di San Vittore quel che il nuovo arrivato aveva fatto ai ragazzini era “deprecabile”. Così la direzione ha valutato di spostarlo subito, la mattina successiva, nel circuito dei “protetti”, i detenuti che hanno commesso gravi reati di “disapprovazione sociale”, come pedofili, stupratori di ogni tipo o collaboratori di giustizia. Solo lì ha potuto ripetere incessantemente e soprattutto senza rischiare la pelle, la sua litania: “Mi sono sacrificato per l’Africa”. Dopo qualche giorno, lunedì 25, a una settimana dall’omicidio della sua donna, la cinquantaquattrenne milanese Roberta Priore, il rimorso ha avuto la meglio su Pietro Carlo Artusi, 48 anni, che si è tolto la vita in carcere. L’uomo aveva già tentato di farla finita subito dopo aver soffocato la compagna, nell’appartamento della donna in via Piranesi, staccando i tubi del gas, ma poi aveva abbandonato l’abitazione, per essere quindi arrestato. Aveva confessato Artusi. Confinato in una cella cosiddetta “a rischio” dove veniva seguito con cura, l’uomo era considerato però “a basso rischio”, perché non aveva manifestato volontà suicide, ma non ha retto. Poco dopo le 21, usando il lenzuolo come corda, in una manciata di attimi è accaduto quello che il personale definisce l’“imponderabile”: si è impiccato alle sbarre della finestra. Era da più di un anno che a San Vittore - carcere dove storicamente si lavora molto sul “rischio suicidario” - qualcuno non si toglieva la vita. Il carcere, però, è popolato da un’umanità piuttosto varia. E proprio in quelle stesse, drammatiche ore, nella struttura penitenziaria si svolgeva l’ennesimo capitolo di un’arcinota saga, di ben altro tenore: quella di Fabrizio Corona, “tornato” a San Vittore giusto in tempo per compiere 45 anni. Compleanno amaro per lui, giunto tra le mura di piazza Filangieri “provato, depresso e bisognoso di conferme” dopo che il magistrato del tribunale di Sorveglianza aveva sospeso l’affidamento terapeutico concessogli per curarsi dalla dipendenza psicologica dalla droga e che gli aveva permesso di lasciare San Vittore nel febbraio dell’anno scorso. Corona è stato riportato nella stessa cella del terzo raggio. E da lì fa sapere di essere “pronto a reagire” e a non lasciarsi più andare a “eccessi e a comportamenti sopra le righe”. Sassari: la Cassazione vieta i colloqui tra detenuti via Skype La Nuova Sardegna, 17 aprile 2019 Annullato il parere favorevole del magistrato di sorveglianza per un boss della n’drangheta recluso a Bancali. Non è possibile, in mancanza di una apposita legge, autorizzare colloqui audiovisivi “modello skype” per i detenuti - a maggior ragione per quelli al 41bis - che reclamano il diritto ad avere contatti con i parenti, anche loro reclusi in carcere. Lo sottolinea la Cassazione che ha annullato senza rinvio, in accoglimento del reclamo del Ministero della giustizia e dell’Amministrazione penitenziaria di Sassari, l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Sassari aveva autorizzato un boss della ‘ndrangheta, Francesco Pesce, ad avere dal carcere sassarese di Bancali “colloqui visivi periodici” con il fratello Giuseppe, anche egli detenuto in regime di carcere duro. Secondo il Tribunale di Sorveglianza, “l’adeguamento costante e inevitabile è imposto dall’avanzare della tecnologia” e dunque bisognava consentire i colloqui audiovisivi. Ma la Cassazione ha obiettato che senza “negare l’interesse per l’evoluzione tecnologica al fine di rendere più semplice, più sicura e più conveniente la corrispondenza telefonica tra detenuti”, occorre una legge o un regolamento che stabilisca “quali strumenti e attrezzature adottare, le regole (più o meno restrittive con riferimento al regime cui sono sottoposti i detenuti), le voci di spesa, i poteri delle Direzioni dei penitenziari e del personale di polizia penitenziaria”. Altrimenti, spiegano gli “ermellini”, non c’è garanzia dal rischio che si realizzino “comunicazioni non consentite” e si finisce per violare la parità di trattamento dei detenuti “affidando ai singoli Magistrati di Sorveglianza la verifica della praticabilità in concreto delle soluzioni tecnologiche ipotizzate”. Non è la prima volta che quanto avviene nel carcere di Bancali - destinato ai boss mafiosi - a seguito di autorizzazioni della magistratura di sorveglianza, finisce per suscitare attenzione, e, in questo caso, reclami all’autorità giudiziaria da parte del ministero. Nel 2017, la Commissione parlamentare antimafia guidata da Rosi Bindi aveva svolto una missione proprio a Sassari per accertamenti su permessi speciali concessi ai detenuti al 41bis. Aggiunge inoltre la Cassazione che l’ordinanza contestata dal ministero “non chiarisce nemmeno se i colloqui sono registrabili e in che modo, nè regolamenta le modalità di conservazione e utilizzazione delle registrazioni; non affronta il problema della possibilità da parte di terzi di intercettare e le relative garanzie da approntare; disegna un potere della polizia penitenziaria - di interrompere un eventuale colloquio con “comunicazioni non consentite” - che rischia di essere generico e non effettivo”. Trento: “per un carcere autonomo e umano” di Stefano Voltolini salto.bz, 17 aprile 2019 Fabio Valcanover si propone come garante dei detenuti: “Una provocazione positiva”. Ma le speranze sono nulle: favorita l’uscente Menghini dall’intesa Lega-Pd. I giochi politici a quanto pare sono già fatti. Non dovrebbero esserci sorprese, a Trento, riguardo alle nomine delle figure di garanzia, oggi in discussione nel consiglio provinciale. Gianna Morandi, funzionaria ed esperta legale dell’assemblea, è il profilo sul quale punta la Lega (che esprime il governatore) per l’incarico di difensore civico. Il garante dei minori e quello dei detenuti andrebbero invece alle persone scelte dal Pd, in minoranza. Mentre per la prima figura i consiglieri dem discutono ancora - si parla di un magistrato in quiescenza per superare le incompatibilità o di una psicologa - per il secondo ruolo la favorita è l’uscente Antonia Menghini, docente universitaria, nominata nel 2017 dalla passata maggioranza. Strada stretta dunque per Fabio Valcanover, avvocato, attivista dei Radicali e già candidato con +Europa, che si è autoproposto in segno, racconta, di “provocazione positiva”. Migliorare la detenzione - “Da tempo chiedo che le nomine di competenza consiliare, e in particolare quella del garante dei detenuti, avvengano in modo più trasparente, secondo l’esame dei curricula” afferma il penalista, che si è sempre occupato di tematiche carcerarie. In particolare, della situazione delle Case circondariali di Trento e Bolzano, in stato di sofferenza per motivi in parte diversi. Mi sono reso disponibile per tre mesi, a titolo gratuito, per raggiungere due obiettivi molto importanti: il primo è il provveditorato autonomo delle carceri di Trento e Bolzano. Serve anche in Alto Adige, dove prima o poi partirà il progetto della nuova struttura. “Nella scorsa consiliatura - prosegue - non c’è stato nulla di pubblico in merito. Ho quindi inviato una lettera ai consiglieri provinciali rendendomi disponibile in via temporanea, al fine di farmi carico principalmente di due obiettivi, molto importanti”. Valcanover, ancora a marzo, si è proposto “per tre mesi”, senza compenso, al fine di raggiungere un duplice traguardo. Primo, “incardinare e dare sostanza al progetto del provveditorato alle carceri per il Trentino Alto Adige Sudtirol, autonomo e dislocato a Trento o Bolzano”. Secondo, ottenere “il varo del regolamento - che non c’è - del carcere di Trento”. A suo avviso sono atti necessari che servono per migliorare sia le condizioni di vita dei detenuti nelle strutture dei due capoluoghi che la prevenzione dei conflitti - evitando il ripetersi di episodi quali la rivolta di dicembre a Trento. “Le due scadenze sono importantissime. Con un carcere autonomo si favoriscono le attività dei detenuti e anche la sicurezza di tutti. Se uno è costretto a girarsi i pollici e dormire e basta è già facile che si alimenti il pericolo di rivolte. Inoltre, per Bolzano l’autonomia è ancora più importante visto che prima o poi partirà il progetto del nuovo carcere”. Sulla questione incompatibilità conclude: “Non lo sarei di più di un membro laico del tribunale di sorveglianza”. La strada per l’avvocato appare tuttavia sbarrata. Dalle minoranze Alex Marini (5 stelle) aveva criticato l’intesa tra Lega e Pd funzionale a raggiungere il sì dei due terzi dell’Aula. “L’accordo è frutto di una logica cencelliana” critica il consigliere. Una delle sue interrogazioni sull’argomento riporta le candidature pervenute. Per i minori ci sono Maurizio Pangrazzi e Flavio Bertolini, per i detenuti appunto Valcanover e Florita Sardella, che per il suo cv - è psicologa, con studi di criminologia e perito del tribunale di Trento - non dispiacerebbe al M5s. Seguono nell’elenco Paolo Frizzi e Corrado Chiantoni (difensore civico), Lucia Busatta e Francesca Sartori per la commissione pari opportunità. Rovigo: petizione popolare sull’ex carcere sottoscritta da tutti i candidati sindaco di Paolo Lodi Il Gazzettino, 17 aprile 2019 Firme per dire no al carcere minorile. In questi giorni si sono lette notizie circa la prevista apertura del carcere minorile nella sede delle ex carceri di Rovigo. Tutti i politici che si sono espressi, ora dichiarano di non essere d’accordo su questa ipotesi, mentre nel momento in cui questa si era paventata non ci sono state prese di posizione da parte di quanti sono o dichiarano di essere impegnati per il bene della città. Se si realizzasse questo programma credo che avremmo aggiunto un’altra perla alla lunghissima collana di opportunità che la città non ha saputo cogliere, con i conseguenti danni che a catena si sono generati dal mancato governo dei processi urbani. Mi sembra paradossale che, di fronte ad una conclamata carenza di spazi per il tribunale di area vasta, (unico caso di insediamento a Rovigo di funzioni extraterritoriali), si pensi al trasferimento di tutto il tribunale, con un complesso in disuso nell’area adiacente di proprietà statale e di portare lì una funzione che francamente non vedo come possa essere compatibile con un tessuto storico, che aveva già fatto spostare il precedente carcere. Credo sia evidente a tutti quale importante indotto sia collegato alle funzioni direzionali come il Tribunale, a maggior ragione in una città così povera di iniziative imprenditoriali che interessino il centro, e quindi sia inimmaginabile che si possa spostare in periferia una funzione nodale della città. La proposta che mi sento di fare da subito è di aprire una petizione popolare, che venga sottoscritta da tutti i candidati sindaco alle prossime elezioni, contro questo insediamento ed a favore di un riuso dell’ex carcere come ampliamento del Tribunale, che manifesti al commissario prefettizio la contrarietà della cittadinanza e gli solleciti iniziative immediate presso l’amministrazione statale per sospendere ogni decisione in merito. È pur vero che la decisione è presa in sedi ministeriali, ma come è accaduto più volte difficilmente queste si attuano contro la volontà della cittadinanza, non dimenticandoci che la città va governata dalle istituzioni locali con dei programmi e delle visioni del suo funzionamento. Certo che al cospetto di una comunità silente prona a qualsiasi decisione, altri si arrogano il diritto di decidere ed a loro non compete pensare al bene della città, alle sue vocazioni o criticità; loro si muovono per logiche burocratico-utilitaristiche o a non dichiarati suggerimenti di altre entità ed istituzioni che magari non vedono l’ora di liberarsi di scomode presenze. Interessante riferimenti su temi simili in città vicine sono l’ex carcere di Padova nel castello Carrarese, che sta diventando un museo del design e spazio culturale; la vicina ex caserma Piave, che è stata destinata a campus universitario con già definito il progetto (architetto David Cipperfield); l’ex carcere di Ferrara ora museo nazionale dell’Ebraismo. Come si vede, il più grande problema è il vuoto d’idee prima che dei vuoti urbani. Livorno: il Rotary dona sette pc alle Sughere per i detenuti quilivorno.it, 17 aprile 2019 Destinare 5 pc portatili a supporto delle attività di studio universitario di alcuni detenuti. Altri due computer invece saranno per la biblioteca. “Doveva essere il regalo di Natale, sarà l’uovo di Pasqua” con queste parole il presidente del Rotary Club di Livorno Fabio Matteucci ha annunciato ai soci, nei giorni scorsi la conclusione del progetto. Martedì 16 aprile alle 12 sono stati consegnati i 7 computer destinati ai detenuti della media ed alta sicurezza alla Casa Circondariale delle Sughere. Il progetto finanziato dal Rotary Club Livorno, ha permesso di destinare 5 pc portatili a supporto delle attività di studio di alcuni detenuti che, grazie alla collaborazione con l’Università di Pisa, stanno seguendo dei corsi di studio universitario, consentendo loro di seguire le lezioni e di poter disporre ed elaborare scritti secondo le esigenze dei corsi intrapresi. A questi si aggiungono due postazioni fisse che consentiranno la riorganizzazione e la catalogazione dei numerosi volumi che arricchiscono le due biblioteche del carcere, molto frequentate ed apprezzate dai detenuti. Questo lavoro di riorganizzazione consentirebbe tra l’altro, per due detenuti, un vero e proprio lavoro, previsto tra le attività di supporto e trattamento previsti durante il percorso riabilitativo. Il Rotary Club Livorno, dopo il progetto iniziato tre anni or sono con la pet therapy, prosegue la collaborazione con la Casa Circondariale mettendo a disposizione risorse per il sostegno delle attività riabilitative, che consentano ai detenuti di impegnarsi in modo da rendere istruttivo e propositivo il periodo di detenzione, in vista del futuro ritorno nella società reale. Rimanere nell’inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, non aiuta a migliorarsi e per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. Napoli: concorso degli Alberghieri, vincono i detenuti di Secondigliano Il Mattino, 17 aprile 2019 Undici istituti alberghieri da tutta la Campania in gara e due vincitori a pari merito. Si è chiusa con un ex equo la quinta edizione del contest “I Primi delle Festività” organizzata dal Miur - Ufficio scolastico regionale per la Campania in sinergia con il Pastificio Artigianale Leonessa, che si è svolto all’istituto Ippolito Cavalcanti di di San Giovanni a Teduccio. Ad aggiudicarsi il concorso sono stati i “padroni di casa” del Cavalcanti e i detenuti che frequentano la sezione dell’istituto Enrico Caruso del carcere di Secondigliano, con due piatti che hanno stuzzicato positivamente la giuria: Tagliolini al nero di seppia (Amorini bianchi e neri Leonessa) con zucca, cannolicchi, calamari in trasparenza e nuvola di bufala (istituto Cavalcanti di Napoli) e I sapori della libertà (istituto Caruso, carcere di Secondigliano). Gli altri istituti giunti in finale erano l’Ipssar di Ariano Irpino e Vallesaccarda “G. De Gruttola”, il “Novelli” di Marcianise, Ipssart di Teano, “Rainulfo Drengot” di Aversa, “V. Veneto” di Napoli, “F. Morano” di Caivano, “Carmine Russo” di Cicciano” e “C Pisacane” di Sapri”. In giuria Carmela Libertino, dirigente del Cavalcanti, Oscar Leonessa, amministratore del Pastificio Artigianale Leonessa, gli chef Pasquale De Simone del Reinassance Hotel Mediterraneo di Napoli e Alfonso Porpora del Pastabar Leonessa dell’Interporto di Nola, Maria Sarnataro delegata Cilento e Vallo Di Diano dell’Ais Campania, e Michele Armano delle Scuole di Cucina del Gambero Rosso ed esperto della Guida ai Ristoranti del Gambero. Per i saluti finali è intervenuto anche Rocco Gervasio dell’Ufficio Scolastico Regionale della Campania. “Quest’anno - spiega Oscar Leonessa, dell’omonimo Pastificio Napoletano - hanno vinto due piatti, che si divideranno la tredicesima ricetta del Calendario Leonessa 2020, stampato in 60 mila copie. Il prossimo anno sarà un appuntamento importante per il nostro calendario perché festeggiamo i 25 anni della pubblicazione”. Teiste: incontro letterario presso la sezione femminile della Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2019 Il 19 aprile 2019 Maria Cristina Da Col presenterà, assieme a Carolina Ricci, il libro “Donne in lotta” presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà. All’incontro presenzieranno, anche, un gruppo di donne impegnate in vari campi professionali - sempre presenti agli incontri letterari - per favorire il colloquio e il confronto. Scambio fondamentale per superare e prendere le distanze da alcune caratteristiche del carcere: “Impermeabile, autoreferenziale e tendente all’isolamento”. Il libro, una serie di racconti, trattano di avvenimenti accaduti durante il Ventennio e la fine della seconda Guerra Mondiale nel territorio del Goriziano. Le protagoniste del libro sono realmente esistite: bambine, donne che lavorano, madri; donne senza fede politica ma con una grande forza interiore e determinate, coraggiose e dignitose, e in tali pregi trovano la forza di superare le difficoltà e gli avvenimenti avversi. Determinazione, coraggio e dignità tre aspetti importanti della persona, tre qualità che vanno rafforzate specie in coloro che stanno vivendo percorsi difficili della propria vita. Per permettere un riscatto e un reinserimento sociale che certamente non sarà facile. E un rapporto dialettico improntato sulla fiducia, il rispetto e la serietà tra il “dentro” e il “fuori” è fondamentale. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Siena: pallamano, il gioco entra in carcere di Antonio Galizia Gazzetta dello Sport, 17 aprile 2019 L’idea della Ego Handball di A-1: portare la pallamano nella casa circondariale Santo Spirito. Il direttore Sergio La Montagna: “Così migliorano la salute e la convivenza”. La pallamano che fa “evadere” i detenuti del carcere di Siena. L’idea porta la firma di Marco Mastrandrea e dell’ex azzurro Alessandro Fusina, presidente e coach dell’Ego Handball Siena, club di A-1 maschile, che si son messi in testa un’idea meravigliosa: portare la pallamano dentro la casa circondariale della città, il Santo Spirito. L’Incontro - Il primo approccio col progetto che punta a reinserire i detenuti nel tessuto sociale attraverso lo sport c’è stato martedì 16 con l’incontro tra una delegazione della società, composta dal presidente Santandrea, dal tecnico Fusina e dal giocatore algerino Yacine Djedid, i detenuti e il direttore della casa circondariale Sergio La Montagna: “La pallamano entrerà a far parte della vita carceraria - ha dichiarato il direttore - attraverso un progetto di inclusione che mira a rappresentare una cornice educativa di sviluppo psico-fisico e motorio, contribuendo al processo di rieducazione dei detenuti, sia attraverso il mantenimento di uno stato soddisfacente di salute, che per migliorare la convivenza all’interno dell’istituto stesso”. Finalità dell’iniziativa è quella di mettere in luce gli aspetti educativi e formativi legati alla pallamano, attraverso la collaborazione e interazione con la struttura ed i vari livelli scolastici presenti al suo interno ed i tecnici e giocatori del Siena. “Crediamo fortemente che lo sport rappresenti un forte veicolo di inclusione - commenta il presidente Santandrea - attraverso i valori, sani ed educativi, di cui è naturale portatore. Chi lavora nello sport e riesce a viverlo appieno sa di avere a disposizione un canale privilegiato, che può e deve essere messo a disposizione del contesto sociale ed in questo caso diventare strumento di inclusione e rieducazione”. “Ringrazio vivamente la Ego Handball - ha aggiunto il direttore del Santo Spirito, La Montagna - per l’opportunità offerta ai detenuti, poiché la pratica e la formazione sportiva sono funzionali al miglioramento delle condizioni di vita in carcere e costituiscono uno strumento di crescita civile”. Caro Conte, salvi Radio Radicale di Francesco Merlo La Repubblica, 17 aprile 2019 Caro Giuseppe Conte, caro presidente, non le scriviamo per costringerla a fare le cose che non vorrebbe fare, ma per aiutarla a fare le cose che vorrebbe e non riesce a fare. Perdoni questo inizio in “pannellese”, ma noi di Repubblica non ci saremmo rivolti a lei, affidandole la nostra speranza di salvare Radio Radicale e dunque l’impareggiabile servizio pubblico che offre e il bellissimo mondo di passione e di lavoro che rappresenta, se non avessimo letto e pubblicato il suo dialogo così non-violento, spiritualista e moralmente energico con Emanuele Severino. Non so quanto Severino le abbia fatto bene, ma certo è stato sorprendente non solo per la povera e nuda filosofia che lei ha onorato, ma anche per la tensione morale che ci è parsa appunto radicale, come la radio che quel simpaticone del sottosegretario Crimi vorrebbe spegnere, con motivazioni diciamo così alla carlona, che invece non ci sorprendono. Abbiamo, insomma, pensato che lei non avrebbe permesso questo delitto quando, lunedì sera, il sottosegretario ha annunziato, con uno sbrigativo ma ardente (ardito?) burocratese, ben peggiore del sincero vaffa dal quale proviene, la futura e vicina morte di Radio Radicale, che è una comunità morale e politica, è un’Italia pulita, ed è un’informazione, essenziale alla nostra fragile democrazia, che ha resistito per più di quarant’anni a ogni genere di assalto. La premessa è che, a fondamento di quel suo dialogo con uno dei grandi del Novecento, ci sia la forza della libertà. Creda a noi, professore, non si possono “sradicalizzare” i Radicali e dunque non si può seppellire Radio Radicale con lo stile cerimonioso, i toni bassi della voce, i passi felpati di una funzione alla quale, a volte, la costringe il contratto di governo di cui è garante. È un affare di coscienza, una faccenda, vale a dire, in cui si ha da vedersela con la propria coscienza, per non arrossire un giorno di fronte a noi stessi e uno di fronte all’altro. Certo, ci fosse ancora di mezzo il corpo di Pannella, che nell’astinenza diventava diafano, smunto, tutto pelle, ossa e occhi stralunati, sarebbe meno difficile per lei salvare i preziosi servizi della radio, non importa come, ma certo non affidandola alla presunta libertà del mercato e alla sua famosa flessibilità. Lei è pugliese e sa che, quando non c’è nessun mercato, la flessibilità è solo un’astuzia alla quale, dalle nostre parti, si risponde così: “cca niusciuno è flesso”. Radio Radicale, che è per statuto un servizio pubblico, senza pubblicità, senza guadagni e, virtuosamente, senza passivi, è da un lato il microfono aperto dentro le istituzioni, con le dirette dalla Camera e dal Senato, dai congressi di partito, dalle aule di giustizia. Dall’altro lato è la radio dei radicali, da Salvemini a Pasolini, da Ernesto Rossi a Leonardo Sciascia, da Domenico Modugno a Vasco Rossi, da Umberto Veronesi a Franco Battiato, ai suoi direttori, da Lino Jannuzzi a Massimo Bordin e ad Alessio Falconio: è “il ragionevole sregolamento di tutti i sensi” come recita il verso di Rimbaud che Pannella scelse per manifesto politico. Non pretendiamo che le piaccia sempre e comunque, ma solo che lei intervenga perché continui a vivere, e con la ragione non con la pietà. Ci sono ancora corpi radicali che per nobilitare la politica passano la vita mettendo a rischio la vita, una piccola folla di digiunatori per la radio, tutti in fila dietro Rita Bernardini che delle carceri italiane è la regina bella e dolente, Maria Antonietta Coscioni, Paola Di Folco, Irene Testa, Maurizio Bolognetti. C’è anche il corpo ingiuriato di Massimo Bordin che, con la sua straordinaria rassegna stampa, racconta la politica italiana da oltre trent’anni, ed è diventato, senza volerlo, il leader della comunità di Radio Radicale, l’ultimo dei moicani, il radicale libero, l’erede, via radio, di Marco. Ma è come se Pannella gli avesse trasmesso, con la sua forza, un eccesso di vita, un ingorgo di impulsi troppo potente. Con la sua bandiera stinta nelle mani stanche, è la montagna che sopravvive alla fede che l’ha spostata. Si ricordi, presidente, che Radio Radicale ha superato gli abbordaggi corrottivi di Berlusconi e prima ancora le mortali astuzie della Dc, le ingiurie del partito comunista e le minacce del terrorismo. E si è dimostrata più viva degli stessi politici radicali. Nel mondo radicale solo la radio ha saputo reagire con la vita alla morte del fondatore e protettore. Non rinnovare la convezione, negando a questa radio i 5 milioni che a maggio le spetterebbero, graverebbe come un peso di responsabilità sull’anima collettiva di un governo e di un Movimento, quello dei 5 stelle, che nato per spazzare via il cosiddetto Ancien Régime, spazzerebbe via la sola comunità di giornalisti che l’Ancien Régime ha raccontato, ma non ne ha mai fatto parte e anzi lo ha sempre combattuto. Poco prima di morire Pannella, che pure non era canterino, mi disse che c’era un canzone che da un po’ di tempo gli tornava alla mente, anche in sogno, “come una febbre musicale”. Eccola: “ma pecché pecché ogni sera / penso a Napule com’era,/ penso a Napule comm’è”. Caro presidente, il passato ci segue tutto intero, galoppa al nostro fianco. “La durata è la forma delle cose” significa che il grosso mangiafuoco logorroico, imprigionato nel ruolo di digiunatore, è nel flusso della sua coscienza di presidente, anche lo scheletro del Pinocchio imbavagliato che, con il girocollo nero e il naso affilato, beve la sua orina in tv per salvare Radio Radicale. Le aggiungiamo che ci sembrano cattivi presagì gli eccessi di difesa di Radio Radicale, i testimonia) che firmano tutti gli appelli delle battaglie perse, gli abbracci che la soffocano, e capisco che sotto sotto ci sia chi vuol prendersi la rivincita sul morto diventando ora pannelliano, e spesso sono gli stessi che da vivo volevano spegnere Pannella e oggi compongono coccodrilli per la radio come omaggi funebri, lapidi cimiteriali, pietre tombali sul sarcofago nel lungo viale italiano dei monumenti ai caduti. Radio Radicale è viva, è molto ascoltata, serve tutte le istituzioni e tutti i partiti, compreso il suo. Trovi il modo di aiutarla, si faccia sentire, faccia in quella radio quel che ha fatto in Libia. Caro presidente, quell’articolo che ha mandato a noi, proprio a noi che siamo e saremo avversari del suo governo, non ci è sembrato un trucco retorico di propaganda, ma un bisogno di verità. Abbiamo cioè creduto che per lei conti molto il rispetto della gente con cui ci si intende anche quando ci si morde, e che davvero lei abbia bisogno della stima dell’avversario soprattutto quando, come sta capitando dentro il governo che lei presiede, sono in via di esaurimento la lealtà dell’amico e l’amicizia dell’alleato. Ci pensi. Se davvero imboccasse la strada senza ritorno della violenza contro l’informazione libera, non il suo governo ma il suo Movimento 5 stelle potrebbe presto trovarsi disprezzato dall’avversario e abbandonato dall’amico. Di tutti gli errori che ha commesso questo sarebbe il definitivo, il più nefasto. Non ci deluda, presidente. Come diceva Leonardo Sciascia: “Se bussiamo a quella porta è perché sentiamo che ci stanno aspettando”. Anche Conte chiude agli appelli per Radio Radicale di Maurizio Carucci Avvenire, 17 aprile 2019 “Per Radio Radicale è stato fatto un piano triennale e come regime transitorio vale quello. All’esito degli Stati generali dell’editoria trarremo le conclusioni”. Lo dice il premier Giuseppe Conte. In sostanza il governo non è intenzionato a rinnovare la convenzione. Le stesse parole del sottosegretario con delega all’Editoria, Vito Crimi, confermano l’orientamento sui destini dell’emittente che da quasi 44 anni “svolge attività di informazione di interesse generale”, come lo stesso governo riconosce. Da Lega e M5s arriva anche il rifiuto a calendarizzare l’esame delle mozione per il rinnovo della convenzione a Radio Radicale (promossa dal senatore dem Francesco Verducci), come richiesto dalle opposizioni in conferenza dei capigruppo. “Abbiamo cose più importanti da fare, quindi non siamo disponibili a trattarla”, riferisce il leghista Massimiliano Romeo. La risposta da parte dell’emittente è immediata: “Ribadiamo che la convenzione tra Radio Radicale e il ministero dello Sviluppo Economico si è avviata a seguito di una gara indetta il 1° aprile del 1994 e che da allora il servizio è proseguito in regime di proroga, nonostante Radio Radicale abbia sempre richiesto che venisse rimesso a gara. Inoltre il piano di tagli triennale non si applica a Radio Radicale per la quale la legge di Bilancio ha previsto l’azzeramento di tutti i contributi dal 1° gennaio 2020 e la cessazione della convenzione con il Mise per la trasmissione dei lavori parlamentari dal prossimo 20 maggio”. A difesa della storica emittente si è levata la voce delle opposizioni. Filippo Sensi, deputato dem, sottolinea che “Crimi mette a verbale che è intenzione, sua e di Di Maio, del M5s dunque, di non rinnovare la convenzione di Radio Radicale”. Da Forza Italia sono le capigruppo, Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini, a intervenire con forza sulla vicenda: “I governi che spengono le radio e fanno chiudere i giornali non sono governi democratici”. Migranti. Scontro M5S-Lega sulla direttiva porti chiusi di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 17 aprile 2019 Di Maio: non fermi così 800 mila persone. Il leghista: scelta doverosa e legittima. L’ira della Difesa: Salvini sconfina. La questione, dopo i casi Diciotti e Sea Watch, si è fatta cruciale con la situazione libica. L’unico che si chiama fuori, con una certa dose di ironia, è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti: “Porti aperti o chiusi? Non so, io mi occupo di sport”. Ma lo scontro sulla questione migranti, e sulle relative competenze, cresce di ora in ora. In poche ore il titolare del Viminale Matteo Salvini viene attaccato dal ministro M5S Danilo Toninelli e dalla collega Elisabetta Trenta (a sua volta criticata) ed emana una direttiva sui migranti che viene contestata da Luigi Di Maio. Direttiva che provoca però anche un violento scontro politico-diplomatico con la Difesa, con accuse di sconfinamento di poteri e la protesta del Pd che parla di “pressioni sui vertici del ministero” e di un “atteggiamento degno della peggior dittatura”. Incentivare gli attraversamenti - La questione porti chiusi o aperti, dopo i casi Diciotti e Sea Watch, si è fatta cruciale con la situazione libica, che rischia di provocare un esodo di persone in fuga dalla guerra. E, insieme a loro, si teme, anche di persone poco raccomandabili e perfino di affiliati all’Isis. Ieri il ministro Salvini - mentre la nave Mare Jonio salpava da Lampedusa seguendo “il faro dell’umanità” - emanava una direttiva con indicazioni alle forze di polizia e ai capi di Marina e Guardia di Finanza di “vigilare” affinché il comandante e la proprietà della Mare Jonio (della Mediterranea Saving Humans) “non reiterino condotte in contrasto con la vigente normativa in materia di soccorso in mare”. La tesi di Salvini è che l’attività di salvataggio delle ong non faccia che incentivare gli attraversamenti. Tesi respinte dalla Mare Jonio, che parla di “propaganda” e ricorda come la Libia sia “teatro di indicibili orrori”. Il premier del governo di salvezza nazionale libico Sarraj ha detto al Corriereche “dalla Libia sono pronti a partire 800 mila disperati verso l’Italia”. E il vicepremier Maitig aggiunge, in un colloquio con Salvini, che ci sono 500 terroristi detenuti a rischio di scappare. L’approccio di Salvini è quello di chiudere i porti e impedire l’arrivo dalla Libia di chiunque, negando lo status di “rifugiato”. I 5 Stelle la vedono diversamente. “Superata la linea rossa” - Il guardasigilli Alfonso Bonafede spiega che questo fenomeno “non può pesare solo sugli italiani, se ne deve occupare l’Europa”. La stessa tesi del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, che contesta la linea di Salvini: “Se dovessero arrivare migliaia di richiedenti asilo, non può bastare l’approccio porti chiusi”. Il ministro annuncia un possibile “innalzamento della sicurezza dei porti”. La collega Trenta risponde a brutto muso al titolare del Viminale: “Mettiamo fine a questa storia ridicola, non ho mai detto di aprire i porti, ho evidenziato quel che può succedere con l’inasprimento del conflitto. Non ho tempo di vaneggiare come fanno altri”. Alla Difesa l’irritazione è altissima anche per il presunto “sconfinamento”: “È stata superata una linea rossa”. Perché la direttiva è stata inviata a polizia, carabinieri, guardia di finanza e costiera, ma anche al capo di stato maggiore della Difesa. Di qui le accuse di sconfinamento, che Salvini nega: “Siamo tranquillissimi perché il Viminale è la massima autorità per la sicurezza interna. Quindi la direttiva è doverosa, oltre che legittima”. E fa sapere che la legge “dispone dell’uso di navi della Marina. Ingerenze? Io ho il diritto-dovere di decidere in quale porto sbarca tizio o caio”. Duro anche Luigi Di Maio: “Se abbiamo il problema di 800 mila migranti in Italia, di certo non li fermi con una direttiva. Se vogliamo aiutare l’Italia, molliamo i Paesi che non accolgono i migranti, invece di allearci con loro, da Orbán in giù”. Allusione, naturalmente, a Salvini. Il premier Giuseppe Conte prova a mediare: “Porti aperti sì o no, è una semplificazione bellissima per il pubblico, ma chi la segue può scoprire che la politica italiana sull’immigrazione è molto più complessa”. “Infiltrazioni sui barchini” - A Radio anch’io su Radio1 Rai, questa mattina Salvini ha aggiunto: “Il problema è che in Libia ci sono migliaia di terroristi islamici: il rischio di infiltrazioni sui barchini è una certezza. Per questo devo ribadire che in Italia non si sbarca. Non si arriva senza permesso. Quest’anno abbiamo ridotto del 92% gli arrivi via mare e dimezzato il numero di morti e dispersi. Evidentemente una politica seria e rigorosa dà risultati”. Migranti. Non obbedisco, signor ministro di Alessandro De Angelis huffingtonpost.it, 17 aprile 2019 L’esercito si rivolta contro Salvini, ma lui va avanti. Sembra smarrito il minimo senso dello Stato mentre tutto è ridotto a mera propaganda. Contatti col Quirinale a pasticcio fatto. Mai si era visto lo Stato Maggione della Difesa rivoltarsi contro il ministro dell’Interno con parole di inusitata durezza paragonando la circolare sui migranti firmata da Salvini a un atto degno di un “regime”, perché “un ministro non può alzarsi e ordinare qualcosa a un uomo dello Stato”. Mai si era visto un ministro dell’Interno imporre prima una direttiva di quel tipo, senza coordinarla tra i ministeri competenti. E rispondere poi, incurante, il suo vado avanti, che poi significa “comando io, punto”, pressoché un “me ne frego”. Della Difesa, delle critiche Di Maio, di tutto. Al Quirinale, assicurano fonti “ufficiali”, non se ne è parlato nel corso dell’incontro tra Mattarella e Conte, dedicato alla necessità di mettere ordine nell’approvazione dei tanti decreti da convertire, altro capitolo di un governo che ormai non governa, impegnato in una campagna permanente. Però quello che si è materializzato agli occhi del capo dello Stato, che è anche il capo supremo delle forze armate, è uno “scontro istituzionale grave”. E qualche contatto, sollecitato da palazzo Chigi c’è stato, nel tentativo anche di coinvolgere Mattarella in una situazione già sfuggita di mano, e non da oggi. Perché, questo il punto, è almeno da metà marzo che Salvini, con la prima direttiva in materia sul controllo delle frontiere marittime e il contrasto all’immigrazione clandestina, ha “scippato” i poteri del ministro Trenta invadendo il campo della Difesa. E ora ha aggiornato il testo, rendendo quella misura di “chiusura del mare” in acque territoriali anche per le Ong operativa “costantemente” e non di volta in volta, come nella precedente versione. Una misura al limite, che impatta sulle convenzioni internazionali, e giocata sul filo della legittimità rispetto alle norme vigenti. Proprio la delicatezza del momento e della questione ha spinto il capo dello Stato a un approccio prudente e silenzioso. Sia perché è necessario un approfondimento giuridico della norma sia perché la questione è già deflagrata politicamente, per cui palazzo Chigi chiede una sponda a pasticcio già fatto. Lo scenario che si materializza di fronte ai vertici delle istituzioni è di uno “scontro” senza precedenti che rappresenta una dissoluzione del minimo senso dello Stato, in un clima da perdita di principio di realtà, per cui tutto è ridotto a esigenze “comunicative”, di propaganda per le Europee, in un contesto che richiederebbe grande capacità di governo: l’isolamento dell’Italia in Europa, il caos libico, la possibile ripresa di flussi migratori. Il problema di Salvini è far vedere che comanda, il problema di Di Maio è “rispondere colpo su colpo” per mostrare che non subisce, in una escalation che riguarda ogni dossier. Nessuno trae le conseguenze su cosa significhi in termini di governo e dove porta questa dinamica sudamericana. Perché è evidente che una direttiva del genere avrebbe imposto, a rigor di logica, una condivisione tra ministeri dell’Interno e della Difesa, coinvolgendo entrambi. Ma, al netto dello stupore che pure trapela da palazzo Chigi per tale brutalità del ministro dell’Interno, il premier, finora, pare più spettatore che attore. Le crisi istituzionali si affrontano attraverso “atti”: consigli dei ministri, riunioni collegiali, mozioni parlamentari. Atti che riparino, correggano, chiariscano, facciano sintesi. E ora invece, secondo fonti 5 stelle, l’atto non anche se, dicono, si è pronti a setacciare il testo per trovare un cavillo giuridico al fine di rendere la circolare impraticabile. Finora, tutto il governo è impegnato in un luna park in cui vale tutto. Salvini impegnato ad accedere le lucette nere che attestino il suo poderoso spostamento a destra in vista delle europee, Di Maio impegnato ad accendere qualche lucetta rossa che lo faccia recuperare a sinistra. E, nel gioco ottico, il governo appare disarmato di fronte alla annunciata crisi libica, al netto della retorica sul contrasto al terrorismo che frana sulle modalità del prolungamento della missione Sofia, unico caso al mondo di missione navale senza navi. Ora è ipotizzabile, così spifferano i Cinque Stelle, che il gioco pericoloso iniziato con la Libia, e sfruttato da entrambi per riposizionarsi, uno a destra l’altro a sinistra e proseguito sulla direttiva anti-Ong proseguirà anche domani con Di Maio che attaccherà Salvini sulla sua ingerenza unilaterale, in coerenza col suo cambio di passo comunicativo inaugurato dopo la Basilicata, che prevede un atteggiamento più aggressivo verso Salvini, in particolare sui temi della sicurezza, dove c’è stata la grande emorragia. E che poi il ministro dell’Interno, a sua volta, ribadirà che sul tema non accetta invasioni di campo e che la linea dei “porti chiusi” non si discute. Il problema è che a un certo punto il gioco diventa insostenibile in termini di tenuta democratica e istituzionale. Quel punto è arrivato. Per ora al Quirinale si constata, con preoccupazione e sgomento, che la situazione è di rara gravità. Le situazioni gravi non possono rimanere statiche. O si riparano attraverso atti o esplodono. Droghe. Retorica della politica e civiltà del diritto di Riccardo De Vito* Il Manifesto, 17 aprile 2019 Mentre la politica di governo - per bocca del Ministro dell’Interno - mastica gli slogan triti della fallimentare war on drugs, la Corte costituzionale, con la sentenza 40 del 2019, interviene sulla legislazione penale in materia di stupefacenti. La decisione scaturisce dall’urgenza di sopperire al silenzio del legislatore, il quale, a fronte dei ripetuti inviti rivoltigli dalla stessa Corte costituzionale, non aveva ripristinato “il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio” e risanato “la frattura che separa le pene inflitte per i fatti lievi e i fatti non lievi”. Tale frattura era stata causata dall’affastellarsi di leggi e sentenze della stessa Corte che, sconfessando gli inasprimenti repressivi della legge Fini-Giovanardi, avevano però determinato un divario sanzionatorio di eccessiva ampiezza tra fatti di lieve entità e fatti di non lieve entità: da sei mesi a quattro anni di reclusione per i primi, indipendentemente dal fatto che avessero ad oggetto droghe leggere o pesanti; da otto anni a venti anni per i secondi, quando si avesse a che fare con droghe pesanti. Nell’ambito delle droghe pesanti, dunque, la pena minima per i fatti gravi era diventata pari al doppio di quella massima prevista per i fatti lievi. L’”anomalia sanzionatoria” era accresciuta dal fatto che al banco del giudice non fosse possibile stabilire contorni netti tra i diversi fatti di reato, molti dei quali, come si legge nella sentenza, “si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato”. Pertanto, a fronte di condotte non oltremodo differenziate sul piano della concreta offensività, il giudice si vedeva costretto a fornire risposte punitive gravemente differenziate. A questo trattamento diseguale la Consulta mette ora fine, dichiarando illegittimo l’art. 73, comma 1, del Testo unico stupefacenti - contenente la disciplina dei fatti non lievi per le droghe pesanti - “nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni”. Sono molti i profili di interesse di questa pronuncia, alcuni dei quali travalicano la materia degli stupefacenti. Occorre dare atto che la sentenza scrive una pagina ulteriore e importante del rapporto tra Corte costituzionale e legislatore (dunque: politica). Preso atto dell’immobilismo del Parlamento, la Consulta decide di intervenire, anche a rischio di attirarsi critiche per avere invaso la sfera della discrezionalità politica. Lo fa perché, come è scritto nella 40/2019, “occorre evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore”. Va poi evidenziato che la mitigazione del trattamento punitivo degli illeciti conseguente alla pronuncia avrà effetto non solo per l’avvenire, ma anche per il passato, visto che sarà possibile rimodulare le pene irrogate in via definitiva, ma all’interno di cornici edittali illegittime. Gli effetti, si auspica, potranno in parte riverberarsi anche sul sovraffollamento carcerario, fenomeno di ritorno nonostante le parole ufficiali dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria lo neghino. Sul piano più strettamente riguardante le sostanze d’abuso, a fronte delle preoccupanti aperture politiche all’inasprimento delle pene per i fatti lievi, la Consulta restituisce fiato a una razionalità giuridica che è bene non dimenticare. Sempre che si voglia contrastare il traffico di droga e non tornare a riempire il carcere di consumatori. *Presidente di Magistratura democratica Libia. Una guerra che l’Italia da sola non può fermare di Alessandro Orsini Il Messaggero, 17 aprile 2019 La Francia ha prorogato la chiusura delle frontiere con l’Italia per altri sei mesi, perché teme di subire un attentato da parte di jihadisti provenienti dalla Libia. A quanto pare, l’allarme del premier di Tripoli ha sortito i primi effetti. Serraj ha assicurato che ci sarebbero 800 mila profughi pronti a scappare verso l’Italia, tra cui anche militanti dell’Isis. Che siano 800 mila o molti meno, non conta: l’Italia sarebbe comunque disarmata. Trattandosi di persone in fuga dalla guerra, e non di migranti economici, il governo Conte non potrebbe fare altro che concedere accoglienza. Davanti a una simile emergenza, la chiusura delle frontiere, da parte dei Paesi confinanti, lascerebbe l’Italia in balia di una pressione migratoria senza vie di sfogo. Ne consegue che l’Italia ha la massima urgenza di ottenere l’interruzione delle ostilità a Tripoli, ma non la Francia, che non sta facendo niente di concreto per arrestare l’aggressione di Haftar, la cui offensiva ha però subito una battuta d’arresto grazie alla reazione degli assediati. In questa fase, in cui le forze in campo sembrano bilanciarsi, tutto dipende dal pagamento degli stipendi. Vincerà la fazione che avrà più risorse economiche per arruolare soldati e garantire una paga duratura. Da questo punto di vista, Haftar appare ben posizionato. A febbraio ha conquistato un importante pozzo petrolifero, quello di Shahara, che gli ha procurato risorse significative. Poi ha incontrato il re saudita Salman, il 27 marzo a Riad, il quale gli ha assicurato un sostegno di decine di milioni di dollari. Giunto a questo punto, gli mancava soltanto una copertura politica in sede Onu e nell’Unione Europea, che è giunta proprio dalla Francia. Macron non può vendere le armi ad Haftar, dal momento che l’Onu ha decretato l’embargo delle armi verso la Libia, ma può bloccare tutte le iniziative della comunità internazionale contro il generale, come ha fatto di recente quando ha impedito l’approvazione di un documento di condanna caldeggiato dall’Italia. Quanto alle armi, sembra proprio che giungano dagli Emirati Arabi Uniti. I calcoli di Haftar non sono sbagliati. Considerato anche l’appoggio dell’Egitto, appena ribadito da al Sisi, non esiste un momento più favorevole per avanzare. Haftar riceve copertura politica dalla Francia, soldi dall’Arabia Saudita e armi dagli Emirati Arabi Uniti: ha tutto. Serraj, che conosce questi fatti, sa che la partita si gioca più nelle diplomazie internazionali che in Libia. E così sta cercando di convincere l’Italia a concedergli lo stesso appoggio che l’ArabiaSaudita assicura al suo nemico. Serraj chiede armi e soldi. Tutto ciò aiuta a comprendere l’allarme che ha lanciato circa gli 800 mila profughi. Se nessuno gli crederà, il suo governo finirà. Il suo nemico non si fermerà, se non sarà fermato. Haftar è in una posizione troppo favorevole: può assediare senza essere assediato. Respinto, non perderebbe nessuno dei suoi territori e questo gli fornisce un grande incentivo a proseguire. Haftar è sordo alle richieste di pace dell’Italia perché - che vinca o che perda la battaglia di Tripoli - non rischia di cadere. Anche l’Italia ha affermato che, in caso di tregua, Haftar conserverebbe il suo ruolo di spicco. Se ad Haftar la guerra per conquistare Tripoli non costa niente, perché dovrebbe rinunciare? Chiedendo armi e soldi, Serraj sta cercando di innalzare i costi per Haftar, ma questo richiede di innalzare i costi per l’Italia. Il problema è che il governo Conte, a guerra in corso, può fare ben poco. Una legge del 9 luglio 1990 impedisce all’Italia di vendere armi a un Paese in guerra e Di Maio ha escluso un intervento in Libia. All’Italia resta soltanto l’aiuto di Trump, che però non sembra intenzionato a intervenire, come dimostra il fatto che, all’avanzare di Haftar, ha ordinato il ritiro dei soldati americani da Tripoli. Il gesto è parso come un via libera all’offensiva. D’altronde, i rapporti tra il re saudita e Trump sono ottimi. Salman non farebbe mai niente di sgradito al presidente americano, il quale non ha posto veti all’avanzata verso Tripoli. Il governo Conte non ha colpe. La struttura delle relazioni internazionali, emersa dopo la seconda guerra mondiale, è concepita in modo tale da rendere l’Italia irrilevante, quando si arriva allo scontro armato. L’Italia non può che fare appelli alla pace, che però non fermano le guerre. Spagna. Il candidato è detenuto e il comizio si tiene in carcere di Francesco Olivo La Stampa, 17 aprile 2019 L’indipendentista Junqueras, candidato alle politiche del 28 aprile, detenuto in attesa di giudizio, sarà protagonista di un’iniziativa politica del suo partito. La tribuna politica entra in carcere. Si avvicinano le elezioni, si vota il 28 aprile, e la campagna elettorale spagnola fa i conti con una delle anomalie di questi tempi: alcuni dei candidati sono detenuti in attesa di giudizio. È il caso di Oriol Junqueras, leader indipendentista di Esquerra Republicana e candidato alle politiche, che venerdì prossimo sarà protagonista di un comizio del suo partito direttamente dalla prigione alla porte di Madrid nella quale è recluso. Lo ha deciso la giunta centrale elettorale, secondo la quale non ci sono le condizioni per impedire a un candidato il diritto a fare la campagna elettorale, seppure senza libertà di movimento, la giunta ha rifiutato altre richieste, come quella di poter fare interviste con cinque testate giornalistiche e partecipare a un dibattito con altri politici. Non è ancora chiaro come si svolgerà l’appuntamento elettorale, sicuramente il collegamento di Junqueras sarà telematico, video o audio, in quanto gli è stato impedito di lasciare la prigione di Soto del Real per la campagna elettorale. La stessa Esquerra Republicana ha ottenuto di poter tenere iniziative elettorali nel carcere di Lledoners in Catalogna per coinvolgere i detenuti, che dovranno votare il 28 aprile. Oriol Junqueras è imputato, con altri 11 leader indipendentisti, in un processo che si sta svolgendo da due mesi al Tribunale Supremo di Madrid. La procura generale ha chiesto per lui una pena di 25 anni di reclusione con l’accusa di ribellione violenta, malversazione di fondi pubblici e sedizione. Il leader di Esquerra è anche candidato alle elezioni europee, così come l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont, attualmente in Belgio. In caso di elezione sorgerà il tema dell’immunità alla quale hanno diritto i deputati europei. Nicaragua, un anno di repressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 aprile 2019 Il 18 aprile 2018 iniziava in Nicaragua un periodo di brutale repressione nei confronti delle manifestazioni contro le riforme, poi ritirate, in materia di sicurezza sociale. Da allora i morti sono stati almeno 325, uccise soprattutto dalle forze di sicurezza e da gruppi armati filo-governativi; oltre 2000 persone sono state ferite, centinaia arrestate arbitrariamente e decine di migliaia costrette a fuggire in Costa Rica. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno documentati casi di grave violazione dei diritti umani e di crimini di diritto internazionale, tra cui torture ed esecuzioni extragiudiziali che hanno chiamato in causa la Polizia nazionale e i gruppi armati filo-governativi. Il governo del Nicaragua ha espulso dal paese l’Ufficio dell’Alta commissaria per i diritti umani dell’Onu, il Gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti e il Meccanismo speciale di monitoraggio sul Nicaragua, ha annullato lo status giuridico di organizzazioni locali della società civile e ha continuato a minacciare giornalisti e difensori dei diritti umani.