Il carcere in Italia? Impermeabile, autoreferenziale e tendente all’isolamento di Andrea Sparaciari it.businessinsider.com, 16 aprile 2019 Un lavoro quotidiano, faticoso, utilissimo, ma ancora troppo oscuro, e, a tratti, disorganizzato. È quello che volontari, organizzazioni non-profit, istituzioni pubbliche e imprese, portano avanti nelle carceri milanesi. Un’attività che fino a oggi non era mai stata mappata, né studiata in modo organico. A “sanare” il buco nero, cercando anche di misurarne il valore aggiunto creato, la ricerca “Creare Valore con la Cultura negli istituti di pena”, condotta dall’Università Bocconi in collaborazione con il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria della Lombardia con il sostegno di Fondazione Cariplo. Un’opera certosina, dato che i ricercatori hanno mappato tutte le “attività trattamentali” (così sono chiamate in gergo carcerario) condotte nei tre istituti di pena milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Lo scopo? Analizzarne le caratteristiche, misurarne il valore, individuare le criticità. Anche perché, come ha detto l’ex Pm, Gherardo Colombo, autore della prefazione del volume, purtroppo oggi “si cambia nonostante il carcere”. La prima “verità” che emerge dal report, la enuncia Filippo Giordano, ricercatore dell’Invernizzi Center for Research on Innovation, Organization, Strategy and Entrepreneurship, Università Bocconi (Icrios), coautore dello studio: “Senza i volontari, in massima parte provenienti dal Terzo Settore, non ci sarebbe reinserimento dei detenuti”. Un assioma suffragato dai numeri, visto che l’80% delle varie attività derivano da iniziative provenienti dall’esterno, mentre solo il 20% è attivata da impulsi provenienti dall’interno degli istituti di pena. Un’oggettività che, se da un lato aumenta la fiducia nell’essere umano, dall’altra rivela il nervo scoperto dell’istituzione adibita alla “rieducazione”: il mondo del carcere è impermeabile, autoreferenziale e tendente all’isolamento. Il che è un male, visto che “per i detenuti è fondamentale avere un rapporto con persone provenienti dall’esterno, con elementi che non appartengono al loro “mondo” delinquenziale”, spiega Giordano. Da ciò deriva un’altra criticità: se è l’esterno a proporre, non sempre l’offerta corrisponde ai reali bisogni dei detenuti. Inoltre, spesso si hanno sovrapposizioni e si registra una mancanza d professionalità dei pur volenterosi operatori. Tutte disfunzioni che potrebbero essere mitigate se ci fosse un disegno unitario a gestire le proposte, che a oggi manca. Colpisce poi che “l’85,5% delle attività ha per beneficiari gli uomini detenuti, il 30,56% le donne, mentre quasi il 18% coinvolge persone transessuali”. Nella disparità di possibilità tra uomo e donna, si riverbera infatti la disparità del mondo fuori carcere: se i maschi possono giocare a calcio, coltivare le piante, allevare i cavalli, per le femmine le possibilità sono di imparare a cucire o cucinare. Come se le donne non amassero gli animali o lo sport! “In carcere si vedono riflessi tutti i problemi della società”, sottolinea Giordano, “per questo serve un rapporto dialettico tra “il dentro e il fuori”, perché una società che non dialoga col carcere, è una società che nascondere la polvere sotto il tappeto”. Infine, altro tasto dolente è la quasi totale assenza del mondo dell’imprese dall’universo carcerario: “queste ultime costituiscono una piccola percentuale anche nell’attuazione di attività di tipo lavorativo (1 su 4), segnalando una scarsa interazione e il mancato sfruttamento delle potenzialità del tessuto produttivo milanese”, si legge nel rapporto, che certifica come “a offrire più occasioni lavorative alla comunità detenuta sono le cooperative sociali di tipo B (75%)”. In effetti il carcere è poco “cool”: per un’azienda è più impattante sponsorizzare un ospedale in Kenya (e per fortuna lo fanno) che pubblicizzare il fatto di aver dato da lavorare a dieci ex rapinatori. Fino a qui le note negative, tuttavia bisogna considerare anche i molti aspetti positivi delle tre carceri milanesi, le quali rappresentano il punto più avanzato del sistema carcerario italiano, basti pensare che da sole ospitano il 14% di tutte le attività pensate per i detenuti. Una testimonianza dello stretto rapporto tra Terzo settore (che in Lombardia è assai attivo) e benessere dei detenuti. I tre istituti milanesi, in particolare, sono un universo composto da funzionari dalla mentalità aperta, come Luigi Pagano, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Lombardia, e da una rete di quei 619 volontari, coinvolti in circa il 74% delle attività in modo esclusivo o al fianco di personale retribuito, che nel 2017 ha investito 36.078 ore della propria vita. Un’enormità. Inoltre Opera, San Vittore e Bollate hanno avuto accesso a un (relativamente) alto livello di finanziamento: nel 2017 hanno infatti ricevuto complessivamente 3.109.195,09 di euro, il 75% dei quali provenienti da fonti pubbliche. A chi giovano le attività - Circa i beneficiari delle attività trattamentali, naturalmente i primi sono i detenuti, ma non sono certo gli unici. Nei reclusi, le attività “generano incremento di conoscenze e competenze; miglioramento del coinvolgimento alla vita detentiva; aumento della consapevolezza di sé; riduzione della solitudine e miglioramento delle relazioni interne; maggiore fiducia nello staff e istituzione penitenziaria; miglioramento della relazione tra carcere territorio; miglioramento del benessere psico-fisico; aumento delle abilità personali; miglioramento dei rapporti con la famiglia; facilitazioni nella ricerca di un lavoro/stage e di una retribuzione”. Ma se il miglioramento della qualità di vita dei reclusi era scontato, non così la crescita di tutta una serie di altri indici che riguardano “il resto del mondo”, quali per esempio i loro parenti rimasti fuori, o le ricadute positive sullo staff della Polizia Penitenziaria, che ha rilevato “una riduzione del carico di lavoro, che contribuisce a rendere meno usurante il lavoro del poliziotto penitenziario; un miglioramento della relazione detenuto-agente; maggior produttività degli agenti; aumento del benessere lavorativo”. A guadagnarne, poi, anche gli stessi istituti di pena grazie alle migliorie che vengono apportate agli edifici e alle dotazioni. In primo luogo, si tratta di “donazioni di attrezzature (il 30,5% delle attività ha effettuato donazioni all’istituto), di suppellettili (16,8%) o di materiale per varie attività (6,3%), quantificate per un valore complessivo di 63.855 euro nel solo 2017. In secondo luogo, il 23,2% delle attività che hanno apportato migliorie ha realizzato 163 interventi di imbiancatura delle pareti, l’11,6% ha realizzato interventi di vere e proprie ristrutturazioni, mentre un altro 11,6% ha contribuito, con 25 interventi, alla riqualificazione di aree verdi e spazi comuni”. Insomma, far stare bene i detenuti, migliora la qualità di vita di quanti lavorano con loro, dei loro familiari, degli operatori e della società tutta. Criminale io? Se lavoro smetto di Angela D’Arrigo Corriere della Sera, 16 aprile 2019 Due milioni e mezzo di euro in palio per dare una “Seconda possibilità” ai detenuti di sei regioni del Sud. Il percorso proposto deve iniziare già durante la detenzione e proseguire senza interruzione dopo l’uscita. Dentro o fuori, per i detenuti non cambia una parola ma un mondo. Uguale resta però il bisogno di aiuto per affrontare la quotidianità. Dentro si ha bisogno di assistenza psicologica per resistere a condizioni di vita spesso insostenibili, fuori c’è tutta una vita da ricostruire: relazioni, lavoro, affetti. Di entrambe le dimensioni si fa carico il progetto intitolato appunto “Dentro e fuori”, promosso dall’Associazione La Sorgente di Napoli con altre associazioni e cooperative, penitenziari e istituzioni per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Lo sportello informativo “Dentro” i dodici istituti di pena coinvolti offre ascolto, consulenza legale e burocratica, sostegno; gli sportelli “Fuori” si relazionano con i servizi sociali per assistenza alle famiglie dei detenuti, a partire dai bambini ai quali dedicano doposcuola, attività sportive e ricreative. Il progetto è realtà grazie all’impegno di tanti volontari e al contributo assegnato da Fondazione Con il Sud, che segue da diversi anni il tema delle condizioni di vita nelle carceri e con l’ultima edizione del bando ha finanziato venti progetti specifici. L’avviso del 2019 è stato pubblicato da poco con 2 milioni e mezzo di euro a disposizione per dare una “Seconda possibilità” ai detenuti degli istituti penitenziari del Sud. Tutto ha inizio dalla Costituzione: l’articolo 27 sancisce il principio del fine rieducativo della pena e non solo per riaffermarlo ma per praticarlo in concreto la Fondazione Con il Sud invita con il bando “E vado a lavorare” le organizzazioni del Terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia a presentare progetti che possano dare ai detenuti una reale possibilità di ricostruirsi una vita appena messo il piede fuori dal carcere. Le proposte devono prevedere l’avvio di una esperienza di lavoro già nel periodo di detenzione e fare in modo che questa prosegua, senza soluzione di continuità, dopo l’uscita. Il lavoro può essere anche in progetti di utilità sociale presso comuni e enti pubblici, dal momento che l’integrazione socio-lavorativa resta l’obiettivo principale del bando. I partenariati possono essere vari e comprendere, oltre a una organizzazione del Terzo settore e una struttura penitenziaria, anche altre associazioni, università, istituzioni. Per le informazioni la pagina di riferimento sul web è la sezione “bandi e iniziative” del sito fondazioneconilsud.it, che poi rimanda alla piattaforma Chàiros per la presentazione della richiesta di contributo. Inchiesta sulle carceri, le parole della vita in cella di Ketty Volpe articolo21.org, 16 aprile 2019 La parola in carcere. I suoi diversi significati. I vari codici. Le parole criptate. Il doppio senso. I segni. I disegni. La parola scritta. I versi improvvisati. La poesia e la canzone. La parola recitata, la parola scritta e la parola giocata per evadere. È la comunicazione in carcere. Dietro le parole. Dietro le sbarre. In un mondo sconosciuto. Dove tutto è come fuori non è. Dove tutto è come nessuno sa. Dove tutto è come nessuno immagina che sia. Dove tutto non è come fuori. Ovunque, dentro, solo numeri. Matricole. Senza diritti. Le donne diverse dagli uomini nella detenzione. Uomini senza storie e donne senza anima in celle sovraffollate. Celle meno che spartane. Senza bidé ed altri igienici e, con solo water in buon uso per tutto. Celle calde. Umide di respiro. Roventi di sudore asciugato sui muri e appiccicato sopra pelle. Disumane galere. Prigioni senza dignità. Per nessuno. Dentro non ci sono uomini. Non ci sono persone. Solo numeri. Matricole. Femminile e maschile. Stanno stretti, con il fiato sul collo quando dormono, quando mangiano e, quando giocano a sognare di evadere. A sognare di amare. Ristretti persino nel pensiero. C’è poco da fare nel molto, illimitato, tempo della prigionia. L’attesa di un colloquio scandisce il tempo. La domandina, come viene chiamata ancora l’istanza, per chiedere ogni cosa, al direttore, allunga il tempo. Dà speranza. La toglie. L’ora d’aria divide la giornata. Il resto sono ore sempre uguali. Avanti e indietro nel corridoio. Nella cella senza aria. Mattina, sera, notte, alba e poi tramonto, col buio dei minuti nel cuore, e il fioco della luce negli occhi che sfidano i tre watt della lampadina. Vivono abbrutiti i detenuti nel disperato andare verso il fine pena. Soli. Incompresi. Vilipesi. Mortificati nella dignità, spesso, decidono, di farla finita. Scelgono il suicidio. Lo tentano, per dire, e mandare a dire, ciò che alle voci ristrette è vietato dire. L’edilizia carceraria è inadeguata. Non ha spazi, né strutture per riabilitare. Programmi pochi. Iniziative anche. Per educare. Per rieducare. Per apprendere mestieri, lavori. Per insegnare ad essere, a saper fare, a saper vivere. È una umanità varia, ricca, incompresa che non sa dire. Non sa chiedere, e, ancor oggi, non sa scrivere. Non sa parlare se non un linguaggio crudo. Rude. Figurato. E, proprio il linguaggio spinge ad entrare e scandagliare il quotidiano dei detenuti. Entrare nei loro modi di esprimersi. Di parlare. Di comunicare. Linguaggio singolare. Parole strappate. Graffiate. Graffianti. Parole arrabbiate. Crude. Salaci. Rabbiose. Pregne di sentimenti e di pathos. Dense di vita. Parole ristrette. Come gocce di caffè. Misurate. Dosate. Pesate. Soppesate. Tra aria e respiri di cella. Modi di dire. Di parlare, raccontare e confidare. Soliloqui ad alta voce. Pensieri spettinati. Balbettati. Pronunciati a fior di labbra. Senza tempo nel cuore, con l’orologio in testa e, in mente, la conta veloce del già passato, del già scontato. Maledette primavere col sole a scacchi. Santi ricordi. Imprecazioni e fine pena lungo da venire, lungo da passare. Giorni. Settimane. Un’ora ancora. Una vita da trascorrere dentro. In cella. Maledetta vita dentro. Memori e dimentichi. La detenzione trascina la vita. Di fuori solo un ricordo. Un film. Fotogrammi incollati. Dignità scalza e lotta amara per riconquistarla, per uscire fuori dai numeri. Per conquistare diritti civili. Un microcosmo trascurato. Dimenticato. Ignorato. Raccontato non sempre con le parole giuste. Come mangia la colomba di Pasqua un detenuto di Mauro Leonardi agi.it, 16 aprile 2019 In occasione delle festività pasquali, il cardinale Angelo De Donatis, in visita a Regina Coeli, ha donato delle colombe a mille detenuti come regalo di una ditta di dolciumi. Per chi è libero ed ha qualche denaro in tasca, non è facile percepire cosa significhi una colomba pasquale, o un panettone natalizio, per un detenuto povero. Frequentando da cappellano volontario il carcere di Rebibbia ho visto, davanti a una colomba, i volti duri dei carcerati, consumati come il legno e rovinati dalla vita, distendersi per un attimo nel profumo della gioia vera. Banalmente potrei dire che li ho visti tornare bambini, ma non è così perché oggi i nostri bambini spesso sono solo dei golosi sempre più frequentemente obesi, che non sanno cosa vuol dire mangiare una colomba. Invece, in carcere, i detenuti poveri, lo sanno. L’alimentazione passata dall’istituto è quelle minima per la sussistenza. A me raccontano che quasi sempre la cucina passa wurstel, minestra, un bicchiere di latte o di caffè, e poco altro, spingendo praticamente tutti ad integrare facendo “la spesa” e cucinando nella propria cella con un fornello precario a pochi centimetri dalla “turca” in stanze di tre per quattro metri dove vivono sei persone. Alcuni detenuti sono ricchi e possono acquistare cibo a volontà ma moltissimi non hanno nulla e il cibo in carcere costa. Gli acquisti non si fanno in denaro ma attraverso un complesso sistema di punteggi per cui un chilo di pasta o un sacchetto di caffè costa tre o quattro volte più del normale (così mi raccontano gli interessati). La maggioranza dei carcerati è povera. Chi visita i carcerati fa, senza proporselo, l’intero filotto delle povertà. Perché dà da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, veste gli ignudi e accoglie i forestieri. E così, quando un detenuto povero riceve un colomba, mangia una colomba come noi liberi non sappiamo. Un detenuto non mangia la colomba tutta di corsa. Ne mangia un pezzo subito, forse un quarto, e il resto dopo. A noi occidentali con i figli obesi, piace baloccarci con i bussolotti di pensieri, piace pensare che la colomba pasquale sia un simbolo. Invece la colomba pasquale è cibo. È farina, latte, zucchero, burro, mandorle, glassa. E tutto ciò, dai detenuti più esperti, non viene mangiato con voracità, ma preso un po’ subito e un po’ dopo. Da seduti, in modo raccolto, con l’attenzione tesa, non si parla d’altro, non ci si distrae. Perché se fai così la colomba ha la forza di farti dimenticare le mutande del collega che penzolano a pochi centimetri da te, o la puzza che sale dalla turca, o le grida di chi litiga. E allora ti siedi per bene e te la metti sulla pezzuola stesa sulle gambe e non te ne fai cadere neanche una briciola, e la cominci a mangiare a piccoli morsi. E poi la mastichi. E mentre il profumo del dolce ti riempie la bocca, il naso e tutta la testa e va giù per il corpo, ti accorgi di quanto sono stupidi quelli di fuori, quelli liberi. E di quanto eri stupido anche tu quando eri libero. Che mangiavi e mangiavi, come si mangia quando non si sa quanto è importante la vita. Come si mangia quando si è sventati: patate a padellate, intere cofane di pasta, pezzi di carne grossi così e vino da tracannare finché ti scoppia la pancia. A Rebibbia sono arrivate tante colombe per i detenuti, anche se non bastano per tutti, e sono arrivate non dalle ditte ma regalate dalla gente, persone singole. E loro vorrei ringraziare raccontando quello che ho imparato. Che la vita vale non perché è un simbolo, non perché significa qualcosa, ma perché è la vita: la vita semplice. Che va vissuta. Perché a me il carcere regala che è sbagliato mangiare fino a farsi scoppiare la pancia. Il pensiero, quando si mangia la colomba, deve essere fisso sul cibo. Trovando il momento, quello giusto, in cui puoi sbocconcellare il tuo pezzetto con i denti che lo masticano e la lingua che se lo maciulla a furia di girarselo in bocca e rigirarselo, e risucchiarselo con le guance. Come dovremmo fare coi momenti che passiamo con le persone che amiamo. Le toghe tornano nel mirino della politica di Ugo Magri La Stampa, 16 aprile 2019 La magistratura è tornata nel mirino della politica. Oggi la sua indipendenza viene minacciata come e, forse, più che ai tempi di Mani Pulite e delle mille inchieste contro Silvio Berlusconi. Le toghe sono maggiormente a rischio perché il tentativo di soggiogarle non viene da leader inquisiti, preoccupati soltanto di sfuggire a una giusta pena, ma è condotto da personalità di governo che si proclamano interpreti dello spirito di vendetta e, metaforicamente, reclamano la forca. Tanto Luigi Maio quanto Matteo Salvini si sono scagliati a turno contro verdetti da loro giudicati troppo miti o non abbastanza esemplari. Hanno definito “vergognose” certe decisioni, surfando l’onda dello sdegno contro i colpevoli e innescando una gogna mediatica nei confronti dei magistrati “buonisti”. I quali una volta dovevano guardarsi dagli imputati, che manovravano le leve del potere nel tentativo di delegittimarli; adesso vengono egualmente strattonati dai potenti, però a nome delle vittime e per calcoli di natura elettorale. Un tempo pm e giudici passavano per inquisitori a tutto disposti pur di mandare i potenti al gabbio; ora devono proteggersi dal fuoco amico, cioè dall’accusa di anteporre le garanzie della Costituzione alle punizioni esemplari che il popolo reclama. In entrambi i casi, non viene tollerato che il giudice decida in base alla legge, con scrupolo e magari con qualche tormento interiore causato dalle sfaccettature in cui si cela la verità. L’interesse dell’intervista di Mattia Feltri a Pasquale Grasso, pubblicata a pagina 5, sta proprio in questa realistica presa d’atto. Il numero uno dell’Associazione nazionale magistrati riconosce che il fronte si è spostato, inedite sfide attendono gli operatori della giustizia. Si colgono, nelle parole di Grasso, le stesse preoccupazioni di Sergio Mattarella rilanciate su queste colonne da Vladimiro Zagrebelsky. Il capo dello Stato esorta la magistratura a rimanere concentrata sul proprio compito senza lasciarsi intimidire dal populismo giudiziario che vorrebbe sempre la pena massima. La cronaca trabocca di esempi. L’ultimo drammatico caso riguarda l’omicidio del maresciallo Vincenzo Di Gennaro. Quando il ministro dell’Interno diffonde personalmente le foto dell’assassino, e le accompagna con il commento standard (“Non merita di uscire dalla galera fino alla fine dei suoi giorni”), diventa difficile vestire i panni del giudice. L’unica via di scampo è uniformarsi. Qualora l’”infame” non ricevesse un bell’ergastolo, che probabilmente merita ma non spetta a Salvini stabilirlo, l’autore della sentenza verrebbe travolto dai media e sui social. Si coglie la tendenza a riversare sui magistrati le colpe dell’insicurezza collettiva (“Noi li arrestiamo, quelli li rimettono in circolo”). I troppi casi di femminicidio hanno reso ancora più esigui i margini di valutazione, criminalizzando quelle donne che non hanno ritenuto di applicare la giustizia di genere. In questo clima di attenuata civiltà giuridica, è difficile dissentire dal presidente Anm: una separazione delle carriere tra pm e giudici metterebbe la magistratura ancor più sotto schiaffo. Col paradosso che ai garantisti, quelli veri, oggi converrebbe ripensare quella loro antica battaglia, e schierarsi in difesa delle odiate toghe. Chi l’avrebbe mai detto. Pasquale Grasso (Anm): “Basta con i processi mediatici, la giustizia non sia emotiva” di Mattia Feltri La Stampa, 16 aprile 2019 Pasquale Grasso, cinquant’anni, presidente dell’Associazione magistrati nell’accordo di turnazione annuale per cui ognuna delle quattro correnti rappresentate nel parlamentino presiede la giunta per un anno, è esponente di Magistratura indipendente, forse la più moderata. Concede alla Stampa la prima intervista da presidente, e la chiacchierata parte inevitabilmente dai rapporti fra politica e magistratura. Presidente, di fronte a vari casi di cronaca, i leader politici, soprattutto di governo, hanno preso l’abitudine di anticipare le sentenze, esprimendo sul sentito dire quale sarebbe per loro la condanna adeguata. “Per noi non è un problema nuovo. Forse la necessità di una presa di posizione politica è inevitabile, e non possiamo impedire che le sentenze vengano anticipate secondo una sensibilità politica. Ci piacerebbe se anche i professionisti dell’informazione avessero cura del linguaggio, perché la forma è sostanza. Di recente alcune sentenze sono commentate con termini come assurdità o vergogna”. Sono termini usati dai vicepremier. L’informazione non può che riportarli testuali. “Me ne rendo conto, ma non posso permettermi di dire a un vicepremier quale linguaggio usare. Posso però dire che la distinzione fra il processo reale e il processo mediatico dovrebbe essere più chiara e rimarcata. Da tutti. Perché il processo mediatico, cui partecipa la politica, si distacca completamente dalla realtà dei fatti. Ma aggiungo che un magistrato deve restare indifferente: con le sentenze noi abbiamo l’obbligo di spiegare sempre perché decidiamo in un certo modo. E soprattutto non bisogna avere timore di una perdita di consenso”. È quello che dice anche il presidente Mattarella, a proposito dei magistrati che via internet cercano consenso sociale. “Dobbiamo trovare il modo di comunicare il nostro lavoro. Per esempio il tribunale di Genova ha nominato un responsabile della comunicazione. Oggi è indispensabile se, per esempio, una sentenza viene pesantemente e superficialmente criticata sulla base di una sola frase”. È anche vero che da quasi trent’anni i magistrati danno l’impressione di proporsi come guida morale del Paese. “È una percezione non del tutto infondata che risale a Mani pulite, quando i magistrati avevano consenso altissimo, erano visti come condottieri e risanatori. Alla lunga non è stata una buona cosa e c’è stato un riflusso. La stragrande parte di noi sono giudici di tutti i giorni, che fanno un lavoro essenziale ed eccezionale. Mi auguro che sapremo dare un’immagine più equilibrata di noi, e che ci venga riconosciuta”. Il risultato, oggi soprattutto a causa della politica, è un dibattito emotivo, il cui sbocco è sempre e solo l’aumento delle pene. “Sono d’accordissimo. La reazione emotiva può andare bene per le vittime e i parenti delle vittime, non per la politica, non con una, ma con tre p maiuscole, di cui ho sacrale rispetto. Lo dico da cittadino, non da presidente dell’Anm. Rispondere con l’aumento delle pene è comodo, facilone, e poco produttivo”. A gennaio scatterà lo stop alla prescrizione, e dovrebbe arrivare una riforma del processo penale scritta in pochi mesi. L’ultima, negli anni 80, fu pensata dai massimi giuristi in anni di lavoro. “Quella riforma fu una rivoluzione copernicana, mentre in questo caso il governo ha preso atto di alcuni limiti del processo penale e intende porre rimedio. Noi abbiamo dato il nostro contributo ma è vero che non c’è stato - a differenza che nella riforma che oggi compie trent’anni - un intenso rapporto fra governo, dottrina, giuristi, università e, anche qui, si corre il rischio di cedere all’onda dell’emotività. Quanto allo stop della prescrizione, si tratta del caso tipico di intervento su un solo organo di un organismo complesso, e può condurre a risultati contraddittori”. Lei, come quasi tutti i suoi colleghi, è contrario alla separazione delle carriere. Ma con l’abolizione dell’immunità parlamentare l’equilibrio dei poteri studiato in Costituzione si è incrinato. “L’abolizione dell’immunità parlamentare è stata una scelta politica e comunque non colgo la correlazione, non vedo squilibrio dei poteri. Dico solo che il pm chiede il proscioglimento degli imputati che scopre innocenti, mentre l’avvocato, legittimamente, cerca il meglio per l’assistito, anche se è colpevole: ecco la differenza fondamentale. E chiedo: ma davvero vorreste un indirizzo politico al lavoro dei magistrati dato da questo governo? O da qualsiasi altro governo?”. Ho visto procure abbattere governi sulla base di inchieste poi naufragate. “Effettivamente è un problema che la politica ha reiteratamente posto. Ma l’alternativa, se è il pm sottoposto all’esecutivo, è peggiore del supposto male”. Lei in una lettera ai suoi figli ha descritto lo strazio di infliggere trent’anni a un ragazzo di venti, nonostante fosse uno che ne avesse combinate di tutti i colori. “Si tratta di una devastazione emotiva che i magistrati conoscono bene. Non ci si abitua mai a decidere della vita degli uomini, sebbene siano colpevoli delle peggiori malefatte. Mi è capitato di uscire stravolto dalla lettura di dispositivi di sentenza”. Lei ha molto a cuore la giustizia civile, che da giudice sta amministrando. “La giustizia è un tema declinato esclusivamente sul penale, ma è il civile che regola le nostre vite: i divorzi, l’affidamento dei bambini, le eredità, le liti condominiali, le contese fra aziende. Il giudice è essenzialmente un giudice civile, e mi infurio quando si dice che le lungaggini dipendono da giudici fannulloni. Negli uffici giudiziari manca il 30 per cento del personale amministrativo. Noi siamo i cancellieri di noi stessi, stendiamo da soli il verbale al computer. Ma ci rendiamo conto che in media un giudice civile tratta seicento cause contemporaneamente? È come leggere seicento libri tutti insieme. E aggiungo una informazione che tutti trascurano: se il magistrato si ammala, una voce del suo stipendio viene meno, e automaticamente gli si riduce lo stipendio. Cioè, se mi ammalo, è colpa mia”. Inoltre se si blocca la giustizia civile, si blocca l’economia. “È così. Il diritto civile è economia. La politica dovrebbe rendersene conto perché i costi dei tempi lunghi li scontano, per esempio, i creditori, spesso imprenditori che attendono una decisione sulle loro richieste economiche”. Dalla sua corrente, quattro anni fa, si è scisso Piercamillo Davigo. Come sono i vostri rapporti? “Penso che le prospettive possano essere di tornare insieme. Forse la scissione ha più avuto a che fare con le contingenze che con le idee, che sono simili, e più che altro espresse con toni diversi”. Sarà, ma questa chiacchierata, con Davigo, non sarebbe andata così. “Davigo è un collega che rispetto, ma siamo due persone diverse con due storie diverse”. Processi fermi da anni e buchi negli organici. Corti d’Appello in crisi di Francesco Grignetti La Stampa, 16 aprile 2019 I casi di condannati a piede libero che colpiscono rischiano di ripetersi. Con l’entrata in vigore di Quota 100 mancheranno 4 dipendenti su 10. Sarà una buona iniezione di ricostituente, per la malata giustizia italiana, ma non risolutiva per le necessità: il ministro Alfonso Bonafede ha ottenuto l’assunzione di 903 assistenti giudiziari, pescando negli elenchi degli idonei al concorso del 2017 (indetto dall’allora ministro Andrea Orlando, ha permesso finora l’assunzione di 3084 giovani). Altre 1300 persone saranno assunte nel triennio come “assunzioni straordinarie” per pareggiare i conti delle “uscite straordinarie” dovute agli effetti di Quota 100. Ma anche così, con questi innesti, i buchi restano terrificanti: si stima che manchi il 21% del personale amministrativo; solo di assistenti giudiziari ne occorrerebbero 9.000. E se Quota 100 andasse bene, le scoperture addirittura si raddoppieranno. Eppure di questo dramma, che influisce soprattutto sul lavoro delle Corti d’Appello, trasformatesi in collo di bottiglia dei processi, si parla ben poco. Quel che è accaduto a Torino, ad esempio, dove un condannato pericoloso è rimasto a piede libero, e ha potuto uccidere di nuovo perché mancava il personale che portasse avanti le pratiche, ha infatti destato scandalo. Ma è la quotidianità in troppe Corti d’Appello. Già qualche anno fa, era l’ottobre 2016, l’Associazione nazionale magistrati organizzò una riunione interna con i diversi capi delle Corti d’Appello. Il quadro che emerse era sconcertante. “Senza interventi straordinari e urgenti per assumere il personale sarà sempre più difficile anche soltanto aprire la mattina gli uffici giudiziari”, disse Francesco Minisci, che in quella fase era il segretario generale. “Nessuna azienda potrebbe funzionare con percentuali di scoperture d’organico come quelle degli uffici giudiziari”, gli fece eco Piercamillo Davigo, che era il presidente. Da allora, l’Anm non ha mai mancato di ricordare ai politici che se non fossero arrivati i rinforzi nei ranghi del personale amministrativo, oltre ai magistrati, non si sarebbe andati lontano. Disse ancora Minisci: “Vi sono uffici in cui la scopertura supera il 51%”. La realtà degli uffici giudiziari infatti è a macchie di leopardo. Da qualche parte, le macchie sono gigantesche. Sono buchi neri. Grazie a un accurato studio del Ciag (Comitato idonei al concorso per assistenti giudiziari), che raccoglie oltre duemila giovani che aspirano solo a entrare in ruolo nella giustizia italiana, possiamo scoprire la Corte d’Appello di Torino dispone di spazi insufficienti; solo reperire una stanza per i nuovi arrivati è un’impresa impossibile. L’accumulo di tanti arretrati, inoltre, ha prodotto la moltiplicazione degli armadi, così gli spazi utili sono diminuiti ancora di più. L’intero distretto di Torino ha una pianta organica di 2.620 unità, con 537 posti vacanti (percentuale di scopertura pari al 20,50%; a fine triennio saranno il 40,61%). Di contro, se si guarda al numero delle pendenze nella Corte d’Appello, si vede che si è passati da 20.705 fascicoli nel 2017 a 17.765 nel 2018. Milano resta un modello inarrivabile: la durata dei procedimenti si è ridotta. Per il primo grado, si viaggia sotto i due anni per il settore civile e intorno ai 300 giorni per il penale; per il secondo grado 1 anno e 4 mesi per il civile, 15 mesi per il penale. La scopertura del personale amministrativo è leggermente migliorata, attestandosi al 25,6%. Le pendenze in Corte d’Appello: 7.881 nel 2017; 8.061 nel 2018. A Roma, con una scopertura del 26,6% nel personale amministrativo, i dati dicono che le pendenze in Corte d’Appello raggiungono la cifra- monstre di 277.504 nel 2017; e 268.296 nel 2018. Diceva il presidente della Corte d’appello di Roma, Luciano Panzani: “La nostra situazione è unica ed è il frutto di scelte risalenti a 20 anni fa, col risultato che oggi abbiamo personale di altissimo livello, dotato di grande dedizione, ma numericamente insufficiente. Quando si fecero i calcoli della revisione delle piante organiche degli uffici non si tenne conto dei flussi, i quali generano un arretrato mostruoso”. Infine Napoli: con una scopertura del 28,2%, le pendenze in Corte d’Appello sono aumentate del 9% in un anno, passando da 44.668 nel 2017 a 48.777 nel 2018. E Napoli ha beneficiato nel corso dell’anno 2018 di una assegnazione massiva al Tribunale (62 assistenti giudiziari e 4 funzionari giudiziari) a fronte del collocamento a riposo di 19 unità (2 ausiliari, 1 operatore giudiziario, 5 assistenti giudiziari, 1 cancelliere e 10 funzionari giudiziari). “Persiste tuttavia la già denunciata carenza di risorse umane - si legge sullo studio del Ciag - a disposizione dell’Ufficio. La pianta organica prevede 884 unità di cui risultano coperti solo 657 posti”. Tra Roma e Napoli, insieme fanno il 39% di tutte le pendenze italiane in Corti d’Appello. E allora non sarà un caso se anche i numeri delle prescrizioni si concentrano in queste due sedi giudiziarie. Era un dato saltato agli occhi quando al ministero della Giustizia, nel 2016, hanno finalmente impostato un monitoraggio informatico: alla Corte d’Appello di Venezia si prescrive la metà dei processi, a Roma e Napoli il 40%, a Reggio Calabria oltre il 30%. “Inutile innalzare le pene per i reati contro noi agenti: servono processi rapidi” di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2019 Il sindacato di polizia Silp-Cgil sulle proposte del governo. C’è un incrocio sorprendente fra la riforma del processo penale e la richiesta di maggiore tutela che viene dalle forze dell’ordine: “Innalzare le pene per lesioni o oltraggio nei confronti di un pubblico ufficiale rischia di essere inutile”, dice al Dubbio Daniele Tissone, segretario di un sindacato di polizia, il Silp-Cgil, non nuovo a prese di posizione coraggiose. “Non arrivo ad affermare che rispediremmo un provvedimento del genere al mittente. Dico però che se una nuova legge a nostra tutela si limitasse a innalzare minimi e massimi edittali per i reati commessi contro gli uomini delle forze di polizia, rischieremmo di non avere alcun effetto. Serve invece accelerare i tempi dei procedimenti penali: va evitato che un soggetto davvero pericoloso venga arrestato e sottoposto anche a misure cautelari, ma che poi l’iter dell’accertamento diventi talmente lungo da non arrivare a una sentenza. Adesso finisce che la condanna non arriva mai e che ci si ritrova con la stessa persona scarcerata e di nuovo in condizione di compiere gli stessi reati”. Messaggio che arriva nei giorni del tragico assassinio di Vincenzo Di Gennaro, il carabiniere ucciso sabato a Cagnano Varano e del quale oggi alle 16.30 si terranno i funerali a San Severo, alla presenza tra gli altri della ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Sono anche i giorni, questi, in cui Luigi Di Maio da una parte e il ministero dell’Interno dell’altra - in particolare il sottosegretario Nicola Molteni, della Lega - si impegnano a inasprire le pene per chi, ad esempio, compie oltraggio verso gli agenti nel corso di manifestazioni, magari con il volto travisato. Ora, le richieste della Silp-Cgil forse non saranno perfettamente sovrapponibili alle ipotesi di riforma penale avanzate dal guardasigilli Bonafede, ma l’obiettivo è senz’altro comune. È evidente che dal punto di vista della polizia “va evitato il ripetersi di situazioni assai ricorrenti nel contrasto del traffico di stupefacenti: mi riferisco ai tanti spacciatori che vengono rimessi in libertà poche ore dopo l’arresto e magari tornano a occupare la stessa “piazza”. Servirebbero misure cautelari specifiche, in grado di scongiurare una simile beffa”. Le preoccupazioni degli uomini in divisa non sembrano intrecciarsi con l’idea, pure lasciata trapelare dal vicepremier Di Maio, di una norma assimilabile alla “nuova” legittima difesa. In proposito lo stesso Tissone aveva lanciato alcuni giorni fa una provocazione: “Abbiamo fatto notare che ora un cittadino comune può difendersi da un’intrusione in casa propria garantito da scriminanti non previste dall’articolo 53 del codice penale, destinato agli agenti e relativo all’uso legittimo della forza. Non chiediamo a nostra volta licenza di sparare, anzi: abbiamo sollevato questo paradosso perché ci sembra illuminante. Se si arriva al punto da far cadere quel presupposto della proporzionalità fra offesa, che invece noi poliziotti siamo tenuti a osservare, vuol dire che qualcosa non va”. Migranti, niente espulsioni per i malati cronici Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 15 aprile 2019 n. 16383. Stop alle espulsioni dei cittadini stranieri affetti da malattie croniche, per le quali in Italia ricevono gratuitamente cure in grado di tenerle sotto controllo, se nei loro paesi d’origine, dove verrebbero rimpatriati, le stesse cure non sono disponibili o sono a pagamento. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 16383 depositata il 15 aprile che accoglie il ricorso di un tunisino con Hiv che contro il decreto di espulsione. Documento al quale aveva dato il via libera il Tribunale di sorveglianza di Ancona nel maggio 2018. Il cittadino tunisino aveva fatto presente che in Tunisia le cure non sono gratuite e lui non era in “grado di accedervi a causa delle precarie condizioni economiche”. Per gli ‘ermellini’, a fronte di una seria patologia cronica accertata, occorre verificare “se e con quali effetti l’espulsione possa privare lo straniero di dette irrinunciabili cure, pur non rientrando le stesse fra quelle di pronto soccorso e immediata urgenza”. Ora i giudici di Ancona devono rivedere il loro “nulla osta” al rimpatrio. Reati contro il patrimonio: il furto tra tentativo e consumazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2019 Reati contro il patrimonio - Mediante violenza alle cose o alle persone - Furto - Tentativo e consumazione - Momento - Ipotesi di azione monitorata dalle forze di polizia. Si verte nell’ipotesi del furto consumato e non in quella del furto tentato nel caso relativo al furto di cavi elettrici in rame in cui l’attività predatoria sia stata costantemente monitorata a distanza dalle forze di polizia tramite controllo con sistema satellitare GPS sul veicolo utilizzato dai ladri e tramite posto di blocco nel punto in cui il veicolo era atteso. Tale controllo a distanza non preclude infatti né il compimento né la consumazione dell’azione furtiva, determinando di conseguenza il passaggio delle cose sottratte sotto il dominio esclusivo dei correi, condizione quest’ultima sufficiente a integrare la consumazione del reato di furto. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 aprile 2019 n. 14912. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Momento consumativo del reato - Sottrazione di autovettura munita di sistema di antifurto satellitare - Reato tentato - Esclusione - Furto consumato - Ragioni - Fattispecie. Il delitto di furto deve considerarsi consumato anche quando oggetto della sottrazione sia un’autovettura munita di sistema di antifurto satellitare, in quanto tale strumento non impedisce la sottrazione e il contestuale illecito impossessamento del veicolo, ma ha la diversa funzione di agevolarne il recupero. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42774. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Tentativo - Impossessamento con destrezza - Fatto avvenuto sotto il costante controllo delle forze dell’ordine - Configurabilità del delitto consumato - Sussistenza. Integra il reato di furto con destrezza nella forma consumata la condotta di colui che, subito dopo essersi impossessato di una borsa, approfittando della disattenzione della persona offesa, venga inseguito e bloccato dalla polizia giudiziaria che lo aveva osservato a distanza, in quanto il criterio distintivo tra consumazione e tentativo risiede nella circostanza che l’imputato consegua, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva. (In motivazione la S.C. ha precisato che l’osservazione a distanza da parte degli agenti non aveva rilevanza ai fini della configurabilità del reato nella forma tentata, in quanto tale “studio” non solo non era avvenuto a opera della persona offesa - che di nulla si era accorta, allontanandosi dal posto - ma, neppure, gli aveva impedito di far sua la borsa della vittima, prima di essere arrestato). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 giugno 2016 n. 26749. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose esposte alla pubblica fede - Sottrazione di autovettura dotata di antifurto satellitare - Integrazione dell’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. - Ragioni. Sussiste l’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. - “sub specie” di esposizione della cosa per necessità o per destinazione alla pubblica fede - nel caso in cui il soggetto attivo si impossessi di un’autovettura dotata di antifurto satellitare, il quale, pur attuando la costante percepibilità della localizzazione del veicolo, non ne impedisce la sottrazione e il conseguente impossessamento, consentendo solo di porre rimedio all’azione delittuosa con il successivo recupero del bene. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 febbraio 2014 n. 9394. Furto - Momento consumativo del reato - Impossessamento della cosa - Dominio esclusivo sulla res per un breve lasso temporale. Per la consumazione del reato di furto è sufficiente che la cosa sottratta sia passata sotto il dominio esclusivo dell’agente anche se per breve tempo e senza spostamento dal luogo della sottrazione. (Fattispecie nella quale l’autore del furto, dopo aver sottratto il corpo di reato dalla cassaforte dell’ufficio, lo aveva riposto all’interno della sua autovettura parcheggiata nel cortile dell’edificio, essendo poco dopo sorpreso dalle Forze dell’ordine). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 16 giugno 2005 n. 22588. Lazio: al via sedici corsi di formazione per 300 detenuti tusciaweb.eu, 16 aprile 2019 Il Garante Stefano Anastasìa: “Un tassello essenziale per attuare l’articolo 27 della Costituzione”. Avviati 16 corsi di formazione professionale nelle carceri del Lazio con 300 persone detenute coinvolte. Avviati 16 corsi di formazione professionale rivolti alle persone detenute negli istituti penitenziari del Lazio. I corsi riguardano la formazione per operatori delle strutture edili, manutentori d’impianti termo idraulici e manutentori elettrico elettronici, costruttori di carpenteria metallica, operatori del legno e dell’arredamento, tecnici audio e video in ambito teatrale, tecnici di stampa e serigrafia, operatori della ristorazione, aiuto cuoco e pizzaioli, tecnici di posa dei mosaici, operatori della ceramica artistica, assistenti familiari e tecnici di digitalizzazione dei documenti. Il progetto formativo coinvolge circa 300 persone detenute negli istituti penitenziari del Lazio, di cui circa 50 in trasferimento temporaneo, per poter frequentare corsi impartiti in istituti diversi da quello di assegnazione, con un investimento iniziale di 627 mila euro. I corsi sono gestiti da enti accreditati, da soli o in forma associata con enti di promozione sociale impegnati in progetti di sostegno al reinserimento sociale a favore dei detenuti. Al termine dei corsi, i detenuti riceveranno la qualifica professionale e saranno avviati a tirocini aziendali retribuiti, utili all’effettivo reinserimento lavorativo. Questa importante azione è stata attivata a seguito del bando per gli interventi di sostegno all’inclusione socio-lavorativa della popolazione detenuta promosso dall’Assessorato alla formazione professionale della Regione Lazio a valere sul Fondo sociale europeo, con il fine di rafforzare l’integrazione lavorativa e sociale dei detenuti attraverso la realizzazione d’iniziative di formazione professionale, d’inserimento e reinserimento lavorativo. “Il piano per l’empowerment della popolazione detenuta - ha commentato il Garante delle persone private della libertà della Regione, Stefano Anastasìa - costituisce un tassello essenziale per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione. Per il reinserimento sociale delle persone detenute, è fondamentale - infatti - l’offerta di opportunità di istruzione, formazione e inserimento lavorativo. L’esecuzione penale costituzionalmente orientata non è affare esclusivo del Ministero della giustizia, ma chiama in causa responsabilità e competenze degli enti territoriali. Per questo abbiamo sollecitato e seguito con particolare attenzione la decisione della Regione Lazio di investire in questo campo e ci siamo impegnati a monitorare l’attuazione del piano di formazione ed empowerment della popolazione detenuta”. Bollate (Mi): progetto Ri-genera, nuova opportunità per detenuti dalle macchine da caffè di Nadia Rossi bargiornale.it, 16 aprile 2019 Un’attività lavorativa ad alto indice di professionalità nel carcere di Bollate nata dalla collaborazione tra la Cooperativa sociale bee.4 altre menti e alcune aziende del mondo delle macchine per il caffè. Un’interessante iniziativa ad alto impatto sociale si svolge all’interno del carcere di Bollate. Nato nel 2016, dalla collaborazione tra la Cooperativa sociale bee.4 altre menti e importanti case di produzione di macchine da caffè dei settori domestico e vending, il progetto Ri-genera ha l’obiettivo di favorire il riscatto sociale attraverso il lavoro e il reinserimento professionale. A tal fine è stata allestita un’officina di oltre 400 mq, dove lavorano i detenuti insieme ad un team di professionisti che li aiutano a diventare tecnici autonomi in diversi ambiti quali la meccanica, l’elettronica, la componentistica, acquisendo competenze forti, spendibili in una carriera professionale. L’officina è suddivisa in funzione della specializzazione tecnica in tre settori di intervento: macchine professionali da bar, distributori automatici del settore vending, macchine da caffè a capsula Ocs. Delle macchine prese in carico vengono effettuate riparazioni, revisioni e “messe a nuovo” o rigenerazioni, con l’obiettivo di restituire valore ed efficienza a ciascun macchinario allungandone il ciclo di vita e di funzionamento. Dopo lo smontaggio le componenti in plastica e metallo, sono pulite mediante l’uso di vaporizzatori ad alta pressione, bagni acidi e sabbiatrici. In fase di assemblaggio vengono montati kit standard in base alle tipologie di apparecchiature, che infine sono chiuse e protette in modo per essere trasportate in sicurezza. Delle macchine prese in carico vengono effettuate riparazioni, revisioni e “messe a nuovo” o rigenerazioni. “Vogliamo essere riconosciuti per il fatto di essere bravi nel nostro lavoro e competitivi nei prezzi, oltre che portatori di un messaggio importante: la possibilità di creare un carcere utile esiste anche e soprattutto nelle nostre pratiche di lavoro - afferma Pino Cantatore, socio fondatore della Cooperativa sociale bee.4 altre menti -. Tutti abbiamo bisogno di rieducarci all’idea di un carcere utile, capace di essere di servizio a chi vive fuori e di proporre servizi ben fatti”. Scegliere di affidarsi al progetto Ri-genera significa optare per un modello di economia che riduce i costi di gestione e l’impatto ambientale legato allo smaltimento dei rifiuti, valorizzando le competenze e rinnovando il valore del proprio investimento in macchinari. “La sfida - prosegue Cantatore - è riuscire a creare un legame duraturo tra la dimensione della qualità e i luoghi di pena. Per farlo abbiamo bisogno di lavorare su due piani: internamente investendo sulle persone che hanno fame di sapere e voglia di costruire un futuro differente, valorizzando le competenze esistenti o formando le persone; all’esterno abbiamo bisogno di fare cambiare la mentalità delle persone rispetto al carcere e ai luoghi di pena, ripensando lo stereotipo che vorrebbe confinare là dentro esclusivamente aspetti negativi. Tutti abbiamo bisogno di rieducarci all’idea di un carcere capace di essere di servizio a chi vive fuori e di proporre servizi ben fatti. Fortunatamente nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito, grazie alla disponibilità dell’Amministrazione Penitenziaria e allo spirito di iniziativa del mondo delle imprese, alla nascita e al consolidamento di progettualità interessanti e ricche di potenziale. Vogliamo collegarci a questo filone, candidandoci ad essere un partner serio e affidabile di chi opera nel settore dell’erogazione di caffè e della distribuzione automatica”. A tal fine sono continue la ricerca verso il miglioramento e l’attenzione a rendere più consistente la base dei clienti, dimostrando rapidità nella risposta e lavori eseguiti con cura e attenzione. Rovigo: servizi sanitari per i detenuti, un carcere modello per l’Europa di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 16 aprile 2019 Inaugurato ieri nella casa circondariale la sezione di assistenza intensiva per la cura e la riabilitazione aperta ai duemila reclusi dei nove istituti veneti. Servirà da modello perché è il primo esempio in Italia, e probabilmente anche in Europa, la sezione di assistenza intensiva nel carcere di Rovigo che ieri è stata inaugurata dal sottosegretario per la Giustizia Jacopo Morrone e dall’assessore regionale alla Sanità Manuela Lanzarin. Con loro, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini e il provveditore regionale del Triveneto Enrico Sbriglia, il direttore della casa circondariale di Rovigo Claudio Mazzeo, il direttore generale dell’Ulss Antonio Compostella, la senatrice Roberta Toffanin e il prefetto Maddalena De Luca. Nella nuova sezione prestano servizio un medico fisiatra, una volta la settimana, e due fisioterapisti a tempo pieno: il personale, le apparecchiature e le attrezzature sono la risposta ai bisogni di cura di quanti, tra gli oltre duemila detenuti nei nove istituti penitenziari del Veneto, necessitano di trattamenti fisiatrici per patologie ortopediche. “La Regione - ha spiegato l’assessore Lanzarin - ha ben interpretato il passaggio dell’assistenza sanitaria in carcere, prima in capo all’Amministrazione penitenziaria, realizzando un duplice obiettivo: tutelare la salute dei detenuti con servizi di qualità e puntuali ed evitando i disagi e i costi delle traduzioni di persone recluse verso strutture esterne al carcere, aumentando così la sicurezza e con effetti positivi anche sulle liste di attesa”. Il sottosegretario Jacopo Morrone ha visitato uno a uno i locali della sezione di assistenza, interni alla struttura penitenziaria: accolgono apparecchiature per un valore di 31mila euro (due apparecchiature per elettroanalgesia, un laser, un ultrasuono e un magneto), più attrezzature per 30mila euro. L’investimento realizzato dalla Regione, attraverso l’Ulss è pari a 172mila euro in questo primo anno di attivazione e comprende il costo annuo per il personale, basato sul numero massimo di utenti previsti (15 al giorno), e pari a 111mila euro l’anno. “Penso che Rovigo sia una delle strutture migliori tra le 25 che ho visitato in questi primi 10 mesi di mandato”, ha commentato il sottosegretario Morrone. “Si sta realizzando al più alto livello il diritto delle persone alla salute”, aveva detto poco prima il direttore Mazzeo, mentre il direttore generale dell’Ulss Compostella aveva ricordato che l’inaugurazione di ieri segue a quella, di un anno fa, dell’area degenze per le persone detenute, unendo sempre funzionalità e diritto alla salute. Il provveditore Sbriglia ha rilevato la veloce tempistica tra termine dei lavori e definizione dell’istruttoria, e ha sostenuto il carcere rodigino come punto di riferimento per la popolazione detenuta sopra i 60 anni d’età, cresciuta da 2.136 persone nel 2005 a 4.476 nel 2017. Per il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Basentini, l’attivazione della nuova sezione “dimostra che è nella collaborazione che si raggiungono i migliori risultati”. Avellino: al Concilia Point, sportello che aiuta le donne a trovare lavoro di Elisa Forte nuovairpinia.it, 16 aprile 2019 Oggi l’inaugurazione dello spazio presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, nell’ambito del progetto regionale #Liberedi destinato alle mogli, madri e sorelle dei detenuti, oltre che a tutte le donne del comprensorio, per dare loro la possibilità di conciliare tempi lavorativi e tempi familiari. La Regione Campania sta per pubblicare un piano strategico da 26 milioni di euro per l’imprenditoria femminile, per dare la possibilità alle donne in generale e alle mamme di mettere a frutto le competenze tecniche e professionali, e inserirsi a pieno titolo nel mondo del lavoro. In questo orizzonte amministrativo di riferimento è stato presentato questa mattina il primo Concilia Point all’interno della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi da parte dell’assessore regionale alle politiche sociali e pari opportunità Chiara Marciani, che ha inaugurato lo sportello insieme alla presidente del Consiglio regionale Rosetta D’Amelio, e alla direttrice della struttura Giulia Magliulo, fra gli altri. Obiettivo del progetto illustrato oggi “#Liberedi” è quello di conciliare i tempi lavorativi con quelli familiari, per quante vivono una vita familiare diversa da quella ordinaria. Lo strumento di sostegno alla ricerca della lavoro per mamme, mogli e sorelle dei carcerati, oltre che per tutte le donne del comprensorio altirpino, rappresenta un’autentica novità per una struttura carceraria, che amplia gli orizzonti dell’inclusività e del sostegno alle famiglie dei detenuti, offrendo la possibilità alle donne di un sostegno nelle varie fasi della ricerca di una occupazione: dalla compilazione di un curriculm vitae, fino all’integrazione del settore della formazione, con la valorizzazione delle competenze. “Il concilia point deve aiutare le donne a captare anche altre fonti di finanziamento regionale, come quelli che saranno appostati per l’auto-imprenditorialità” ha spiegato l’assessore Marciani. “Il Concilia Point inoltre, avrà il compito di certificare le competenze non formali, da trasferire poi in un titolo da spendere nella formazione e avere uno sconto sui programmi destinati; oppure di avere una premialità sul progetto candidato all’auto-imprenditorialità” aggiunge. “Senza contare che i voucher messi a disposizione dai Consorzi dei Servizi Sociali, per consentire alle mamme di usufruirne per lasciare i figli da zero a 3 anni, ma anche da zero e fino a 12 anni, in una ludoteca convenzionata, e dedicarsi al lavoro. Si tratta del primo progetto in Italia, teso a offrire possibilità alle donne e valide opportunità” ha spiegato alla platea intervenuta. L’assessore Marciani ha confermato inoltre, una serrata attività di concertazione con tutti i livelli istituzionali e della formazione, per far partire due corsi di formazione presso la struttura: uno legato alla stampa, e un altro all’abbigliamento. Proprio la Presidente del Consiglio regionale Rosa D’Amelio, ha sottolineato il grande risultato raggiunto dalla Casa di Reclusione grazie ad una “politica di continuità” che ha consentito di aggiungere mattoni e sforzi a progetti ideati lontano nel tempo. “Da assessore regionale alle politiche sociali ho sostenuto interessanti progetti di sperimentazione in questa struttura, insieme all’ex Stapa Cepica di Avellino” ha spiegato. “Questa struttura è una realtà importante per l’intero Mezzogiorno, e oggi inizia una nuova sperimentazione, che aggiunge un altro tassello alla nostra battaglia di civiltà”. Dalla Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi Samuele Ciambriello detta la metrica del ruolo della struttura all’interno della società: “Carcere è l’anagramma di cercare”. Mentre una fitta rete di cooperative, istituzioni, enti di formazione e politica collaborano per proporre la migliore offerta rieducativa e consentire il riassorbimento nella società di quanti scontano la pena, la struttura si apre al territorio e diventa inclusiva. Al tavolo dei relatori anche Francesco Mancini del Consorzio Tekform, Stefano Farina presidente del Consorzio Servizi Sociali Alta Irpinia, Don Rino Morra dell’Associazione di Volontariato Galea, e Antonio Borea presidente di Confcooperative Campania. Hanno preceduto le relazioni dei vertici istituzionali regionali Fiorenza Taricone Docente di Pensiero politico e questione femminile Università di Cassino, Samuele Ciambriello Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Regione Campania, e Giuseppe Martone, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. Catania: costruzione del nuovo carcere di Bicocca, progetto fermo blogsicilia.it, 16 aprile 2019 “Sul progetto per la costruzione della Casa Circondariale di Bicocca-Catania si rischia di passare dal danno alla beffa: se l’Amministrazione Penitenziaria non darà corso al progetto dovrà pagare una pesante penale al Consorzio Stabile SQM s.c.a r.l. che ha avuto l’incarico di progettazione per conto di Presidenza del Consiglio dei Ministri - Ufficio del commissario Straordinario del Governo per le Infrastrutture Carcerarie”. A denunciarlo è il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP. Aldo Di Giacomo che dopo aver interessato nei giorni scorsi della questione il Ministero di Grazia e Giustizia, DAP, Prefetto di Catania, Regione e rappresentanze istituzionali della Sicilia, annuncia che nella prossima settimana sarà a Catania per riproporre il problema. “Stiamo parlando di 27 milioni di euro da circa sei anni accantonati e - evidenzia - 450 nuovi posti per detenuti, un numero importante tenendo conto l’alto indice di sovraffollamento di tutte le carceri specie siciliane (sono 6.500 i detenuti) che consentirebbe di applicare la norma della detenzione nella regione di origine. Soprattutto in Sicilia lo Stato ha un forte debito che risale all’intesa con la Regione sottoscritta nel 2010 che prevedeva addirittura quattro nuovi istituti di pena (oltre Catania, Sciacca, Mistretta e Marsala) e poi le cose sono andate come tutti sappiamo”. Per il segretario del S.PP. “come dimostrano ritardi, inadeguatezze, sottovalutazioni da parte dell’Amministrazione Penitenziaria non si è in grado nemmeno di gestire l’ordinaria amministrazione che in questo caso scandaloso riguarda semplicemente l’iter burocratico-normativo-tecnico per la realizzazione di un importante progetto in grado di migliorare l’attuale dotazione carceraria caratterizzata da istituti di pena che hanno sino ad un secolo di vita. Ma noi che ci battiamo a tutela della piena dignità di detenuti e personale di Polizia Penitenziaria non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare alla battaglia per il nuovo carcere a Catania sfidando le istituzioni a pronunciarsi con chiarezza e di conseguenza ad assumersene la responsabilità”. Grosseto: incontro in Prefettura “chiusura carcere dopo l’apertura nuova struttura” grossetonotizie.com, 16 aprile 2019 Il Prefetto di Grosseto, Cinzia Torraco, ha presieduto una riunione del tavolo istituzionale convocato per l’analisi congiunta della questione relativa all’ipotesi di chiusura del carcere di Grosseto, considerando gli aspetti di natura organizzativa, logistica, economica e di opportunità sotto i diversi profili di attenzione e competenza. Presenti, tra gli altri, all’incontro, il presidente del Tribunale e il procuratore della Repubblica di Grosseto, il provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria, il sindaco di Grosseto, il Questore, il Comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri, il Comandante provinciale della Guardia di Finanza, il direttore della Task Force valorizzazione e dismissione immobili non residenziali del Ministero della Difesa, il direttore della casa circondariale, il responsabile del Demanio Toscana e Umbria, il responsabile della Soprintendenza, il responsabile del presidio militare territoriale e il referente della Regione Toscana. In apertura dell’incontro il Prefetto ha consegnato al referente dell’amministrazione penitenziaria il documento delle organizzazioni sindacali di categoria, presenti con un sit-in di fronte al palazzo del Governo, a sostegno delle motivazioni contrarie alla chiusura del carcere di Grosseto. Ha poi illustrato al responsabile dell’amministrazione penitenziaria le motivazioni per le quali si è reso importante svolgere un’attenta riflessione, insieme alle diverse componenti istituzionali interessate da una decisione di significativo rilievo per il capoluogo e l’intera provincia. Nel corso dell’incontro sono state evidenziate dai presenti le molteplici motivazioni che rendono inopportuno procedere alla tempestiva chiusura del carcere, in assenza di una nuova struttura. Sono state evidenziate, tra l’altro, le ricadute negative sotto il profilo logistico, le motivazioni di sicurezza nei trasferimenti dei detenuti per gli adempimenti giudiziari e le opportunità generali di sicurezza, oltre alla situazione occupazionale e ai costi diretti\indiretti. Al contempo, è emersa una significativa condivisione di intenti, dichiarata in particolare da Comune, Difesa, Demanio e Regione, relativa all’individuazione di un rapido percorso che consenta l’avvio di un cronoprogramma di fattibilità per la scelta della nuova sede presso la caserma Barbetti. Il sindaco ha lamentato la mancanza di una preventiva valutazione e disamina dei molteplici fattori di rilievo che una decisione del genere comporterebbe per un territorio molto vasto, oltre che per le ricadute sotto il profilo occupazionale in un momento di comprovate difficoltà economico-territoriali, ribadendo l’importanza che le scelte vengano effettuate d’intesa con le autonomie locali, vicine alla collettività locale. Il responsabile dell’amministrazione penitenziaria ha precisato l’importanza dell’incontro, proprio per consentire al Dal di comprendere e valutare osservazioni, proposte ed eventuali difficoltà da parte delle istituzioni territoriali. Per tale motivo non è stato ancora adottato alcun provvedimento definitivo in merito. Al termine dell’incontro, il Prefetto ha indetto una seconda riunione per il prossimo 10 maggio. Velletri (Rm): Papa Francesco giovedì in visita al carcere agensir.it, 16 aprile 2019 La direttrice: “ci incoraggia a fare di tutto perché i detenuti possano riabilitarsi”. “A noi dà quello spirito necessario perché possiamo portare avanti il nostro lavoro come prevede la nostra Costituzione e fare di tutto affinché i detenuti possano riabilitarsi e restituirli alla società”. Lo ha detto Maria Donata Iannantuono, direttrice della casa circondariale di Velletri, in un’intervista rilasciata alla trasmissione di Radio Vaticana “I Cellanti”, parlando della visita di Papa Francesco nel carcere in cui giovedì prossimo il pontefice celebrerà la Messa in Coena Domini. “Tutti gli ospiti della casa circondariale non vedono l’ora di conoscere il Santo Padre - ha aggiunto. Tutti si stanno dando da fare per abbellire il luogo in cui incontreranno il Papa. Ognuno fa il suo senza chiedere nulla. E c’è la ressa per chi dovrà essere presente alla cerimonia. Perché chiaramente i detenuti sono tanti e noi ospiteremo più della metà. Ma non potremo raggiungere tutti”. La direttrice della casa circondariale ha rivelato che “la cerimonia si svolgerà nel teatro dell’istituto”, perché “è il luogo dove possiamo ospitare più detenuti”. “Noi ci aspettiamo che il Papa ci incoraggi ad andare avanti. Sono sicura che già ci sta sostenendo. Però, vedercelo dire ci darà grande forza”. Mons. Apicella (vescovo), “gesto di sostegno verso una realtà spesso demonizzata” “Ci stiamo preparando all’incontro con Papa Francesco, cercando di rendere il più accogliente possibile un ambiente che di solito non è abituato a situazioni del genere e anche animando la vita carceraria. Vogliamo evitare che sia semplicemente un fatto mediatico o cerimoniale ed emotivo ma sia quello che nelle intenzioni del Santo Padre vuole essere”. Lo ha detto mons. Vincenzo Apicella, vescovo di Velletri-Segni, in un’intervista rilasciata alla trasmissione di Radio Vaticana “I Cellanti”, parlando della visita di Papa Francesco nella Casa circondariale in cui giovedì prossimo il pontefice celebrerà la Messa in Coena Domini. Soffermandosi sulla realtà di Velletri dal punto di vista carcerario, il presule ha spiegato che “è una delle più grosse case circondariali”. “Fino all’anno scorso ospitava 300 detenuti, recentemente questo numero è stato raddoppiato. Sono Chiesa anche loro”. Approfondendo, invece, il significato della visita del Papa, mons. Apicella lo ha considerato “un gesto di vicinanza, di partecipazione e di sostegno della Chiesa verso una realtà che oggi ha bisogno di un’attenzione tutta particolare e che spesso invece è non dimenticata, ma demonizzata in qualche modo”. “Frequentare il carcere - ha aggiunto il presule - vuol dire scoprire che dietro quelle mura ci stanno delle persone che possono aver sbagliato, ma che hanno bisogno di qualcuno che li ascolti, che condivida una situazione di sofferenza pesante”. Don Diamante (cappellano), “molti detenuti si stanno preparando con confessioni, vorrebbero salutarlo” “Sarà una grande festa e la festa in questo luogo è straniera. Non è una cosa banale che il Papa venga a portare questo clima di festa. Sicuramente per ogni carcerato sarà un’emozione. Credenti o non credenti, la visita del Papa in tutti porta questa gioia”. Lo ha detto il cappellano della Casa circondariale di Velletri, don Franco Diamante, in un’intervista rilasciata alla trasmissione di Radio Vaticana “I Cellanti”, parlando della visita di Papa Francesco nel carcere in cui giovedì prossimo il pontefice celebrerà la Messa in Coena Domini. Il sacerdote ha raccontato inoltre come si stanno preparando i detenuti, in questi giorni, spiegando che “c’è un gruppo che sta lavorando dalla mattina alla sera con entusiasmo”. “Molti di loro si stanno preparando spiritualmente con piccoli ritiri e confessioni individuali. C’è la richiesta da parte di tutti di essere presenti alla messa o di rivolgere un saluto al Papa. C’è molta emozione”. A proposito del messaggio del Papa atteso dai detenuti, don Diamante ha riferito che “i carcerati vorrebbero tutti trascorrere tre minuti con il Papa e aprire il loro cuore perché sanno che Francesco li ascolta e vuole loro bene”. “Il desiderio sarebbe questo. Anche stringergli la mano o gridare ‘Papa Francesco’ lascerà nel cuore di queste persone la certezza che qualcuno gli vuole bene. In carcere si soffre spesso la sindrome di abbandono. Che il vicario di Cristo, invitato in tutto il mondo, venga proprio qui lascerà in queste persone un sentimento di sentirsi molto amante”. Conversione, cambiamenti sono cose di cui parlare in altri momenti - ha concluso il cappellano -. Adesso lasciamo che la visita del Papa ci colmi di gioia”. Oristano: i detenuti a lezione di storia e di scrittura del Giudicato di Arborea di Elia Sanna L’Unione Sarda, 16 aprile 2019 Il professor Mele: “Ho voluto ricordare come Oristano sia la capitale della scrittura in Sardegna”. Una conferenza con i detenuti del carcere di Massama per rievocare la scrittura, la lettura e il canto ai tempi di Eleonora d’Arborea. È stato il professor Giampaolo Mele, docente del Dipartimento di Scienze umanistiche dell’università di Sassari e direttore dell’Istar, l’Istituto Storico Arborense a tenere la relazione ad una cinquantina di detenuti, alcuni anche classificati quali As3. Un incontro promosso dalla direzione della Casa circondariale nell’ambito delle iniziative culturali finanziate dal ministero della Giustizia. Il professor Mele ha introdotto l’argomento con un resoconto dettagliato delle ricerche e della documentazione sul giudicato d’Arborea e il marchesato di Oristano. Giampaolo Mele ha spiegato come i detenuti, alcuni dei quali hanno trascritto alcune pagine dei codici miniati della cattedrale, nell’ambito dell’attività formativa, erano a conoscenza della storia giudicale di Oristano. “Ho voluto ricordare - ha spiegato il professor Mele - come Oristano sia la capitale della scrittura in Sardegna, parlando proprio della Carta De Logu e dei codici liturgici della Cattedrale di Oristano che costituiscono infatti il patrimonio librario e musicale più antico di tutta l’isola”. Napoli: i detenuti si raccontano, al di là del muro di Pasquale Ferro ilmondodisuk.com, 16 aprile 2019 “Al di là del muro” è un progetto di Arcigay Antinoo Napoli che coinvolge Blu Angels Associazione Arco (Associazione ricreativa circoli omosessuali). L’iniziativa nasce per dare una assistenza ai detenuti (reparto omosex) della casa circondariale di Poggioreale, creando un corso di scrittura automatica, letteratura, teatro, disegno, ma sostanzialmente un supporto morale e psicologico per chi vive dietro le sbarre, costretto a una convivenza forzata non sempre facile, gli odori, gli umori si mescolano, scontrano, tra di loro. Allora tutto diventa insostenibile, a volta basta una parola e scatta la difesa, a volte vorresti stare solo con i tuoi pensieri, mentre invece il tuo compagno di cella ha bisogno di parlare, t’innervosisci, vorresti stare da solo, ma lo sei già in mezzo a persone sconosciute che diventeranno i tuoi compagni di pena, devi abituarti e accettare questa condizione, stare in una cella con persone che magari non condividono il tuo pensiero è difficile, poi l’essere umano a mille sfaccettature, ti ritrovi con persone diverse culturalmente, chi è troppo abituato a lavarsi, magari chi non lo è, oppure altre etnie con la loro cultura il loro credo, i modi di fare di dire di agire. Diventa tutto complicato. Ci hanno detto: Quando facciamo i colloqui veniamo messi in disparte, gli altri detenuti ci guardano ironici ci “sfottono” veniamo derisi mentre aspettiamo per ore le nostre famiglie che vengono a trovarci… a volte non scendiamo nemmeno al “passeggio” per non essere guardati come fenomeni da baraccone. Arcigay si è rivolta al referente del progetto, che subito ha provveduto per risolvere questo stato di cose, perché vivere la carcerazione pagando per i reati commessi ci sembra una cosa giusta, ma la dignità dell’essere umano va tutelata e rispettata, gli operatori di Arcigay e Arco, cercano di stemperare la tensione con i loro strumenti culturali (ma soprattutto umani), anche grazie a colloqui individuali portando un po’ sollievo. Le tematiche affrontate sono tante, si discute di Hiv, di prevenzione, della storicità dei movimenti omosessuali e delle problematiche attuali, di quello che succede fuori dal carcere, di letteratura (i libri sono forniti gratuitamente dalle due associazioni, come pure il materiale didattico… penne, colori, block notes, è altro). Disegnano, fanno lavoretti, scrivono… “Tutti mi consigliavano di rompere con questa donna: Lasciala stare, questa ti porterà su una cattiva strada mi dicevano gli amici che mi volevano bene. E anche la famiglia insisteva: ti porterà alla rovina, non vedi come ti sei ridotto? Ma io non ascoltavo, la volevo pur capendo che mi faceva solo del male, intanto tutti mi avevano abbandonato, non volevano assistere alla mia distruzione causata da una maledizione che mi aveva portato sulla via della malavita. Era costosa mantenerla, e questo mi spingeva a commettere reati, che con il passare del tempo, mi hanno portato in queste mura… scusate dimenticavo di dirvi il nome di questa donna.. eroina, la droga”. Questa è una delle tante accorate lettere dei detenuti. Scritta da un ragazzo sensibile che parla ben tre lingue, un ragazzo che chiede aiuto con gli occhi. Paradossalmente il temine eroina ci potrebbe riportare a storiche donne che sono diventate famose per i loro atti eroici, invece è una parola che fa paura, terrore, un grave problema che oggi è ritornato più presente degli anni che furono, una vera e propria peste bubbonica che coinvolge non solo la persona che si perde in un mondo alienante e distruttivo, ma anche le povere famiglie e amici costretti ad assistere a questo incubo, impotenti, pregando tutti i santi del mondo per salvare la persona amata. Verona: teatro-carcere, i detenuti attori interpretano la Divina Commedia Corriere della Sera, 16 aprile 2019 L’Inferno di Dante dentro i confini del carcere: una discesa nell’abisso della pena eterna e della reclusione carceraria. Tutto questo è “Ne la città dolente”, lo spettacolo teatrale che la compagnia di detenuti “Teatro del Montorio” presenta in anteprima lunedì 29 aprile poi giovedì 2 maggio nel Carcere di Verona; quindi venerdì 3 e sabato 4 maggio (sempre alle 19)nell’ambito del Festival Biblico di Verona, quest’anno dedicato alla tematica della Polis. È prima tappa di un progetto triennale che proseguirà fino all’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, nel 2021. Gli attori del gruppo teatrale del Carcere di Verona (12 detenuti e una detenuta provenienti da tutte le sezioni) affrontano la prima cantica della Divina Commedia; il Purgatorio e il Paradiso saranno i capitoli successivi, nel 2020 e nel 2021. L’idea è del regista Alessandro Anderloni che lavora in carcere dal 2014 con un progetto organizzato dalla Direzione del Carcere di Verona con l’associazione culturale Le Falle e sostenuto dalla Fondazione San Zeno Onlus. Ad affiancarlo nel condurre il laboratorio teatrale, iniziato a novembre del 2018, sono l’autrice e attrice Isabella Dilavello e l’attore e danzatore Paolo Ottoboni. Alla rappresentazione prenderanno parte come co-protagonisti anche una decina di studenti delle scuole secondarie veronesi. Accesso su prenotazione, info su lefalie.it. Avellino: al via la mostra “Non me la racconti giusta” sulle carceri irpine avellino.zon, 16 aprile 2019 Al Mac di Carife la mostra “Non me la racconti giusta” una mostra con immagini dalle carceri di Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi Giovedì 18 aprile, negli spazi del nuovo Museo Archeologico di Carife, si apre la mostra fotografica dedicata al progetto di arte urbana nelle carceri italiane dal titolo “Non me la racconti giusta”, in collaborazione con il Museo Archeologico di Carife. “Non me la racconti giusta” è il progetto nato nel 2016 grazie alla collaborazione tra il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline, gli artisti Collettivo Fx e Nemo’s, ed il fotografo e videomaker Antonio Sena. L’obiettivo di Nmlrg è di esplorare la realtà carceraria italiana attraverso l’arte e riportare all’esterno impressioni, problematiche e il racconto di cinque giorni in cui gli artisti lavorano a stretto contatto con i detenuti. Le immagini in esposizione, a cura del fotografo irpino Antonio Sena, documentano l’intero percorso del gruppo all’interno della Casa circondariale di Ariano Irpino e della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Dalle immagini affiorano i dettagli della progettazione in sinergia con i detenuti, l’individuazione di tematiche e concetti da riportare sul muro, le nozioni tecniche ma, soprattutto, le problematiche del sistema carcerario e le storie di chi lo vive quotidianamente. La mostra sarà aperta al pubblico dal 18 aprile al 5 maggio 2019, tutti i giorni (escluso il lunedì) dalle ore 9.00 alle 14.00, con ingresso libero. Brindisi: con la danza entra il carcere il tema della violenza di genere brindisireport.it, 16 aprile 2019 AlphaZTL, compagnia d’arte dinamica si esibirà in “Violata” il 17 aprile alle ore 15 per i detenuti nella Casa Circondariale di Brindisi. La danza e il sociale. La AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica di Brindisi diretta dal coreografo Vito Alfarano danzerà il giorno 17 aprile alle ore 15 per i detenuti nella Casa Circondariale di Brindisi. La AlphaZTL, membro del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere e del Coordinamento Teatro in Carcere di Puglia e Basilicata nonché inserita nell’elenco regionale del terzo e quarto settore del Garante Regionale dei detenuti, proporrà la performance di danza contemporanea “Viola(ta)” per dire basta alla violenza sulla donna. Lo spettacolo rientra nel cartellone nazionale della sesta giornata nazionale di Teatro in Carcere del 27 marzo. La violenza sulla donna è un tema sul quale insistere non è mai troppo perché certi argomenti non devono mai essere messi da parte o, peggio, sottaciuti in nessun luogo. “Viola(ta)” nasce dalla necessità di raccontare le emozioni che accompagnano le donne vittime di violenza. L’inizio di “Viola(ta)” è al tempo stesso anche la sua fine e viceversa, come un cerchio che si ripete ciclicamente dove la donna non ha una sola identità ma rappresenta ogni età, estrazione sociale e razziale, sotto il peso di un abuso. “Viola(ta), co-prodotta da AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica & Fabula Saltica con la regia e coreografia di Vito Alfarano e l’interpretazione di Stefania Catarinella, è una performance creata per la donna e rivolta principalmente agli uomini. “Rappresentare Viola(ta) in carcere sarà - dice Vito Alfarano - una grande emozione proprio per il pubblico prettamente maschile. “Viola(ta)” ha vinto il premio della critica in Bielorussia all’Ifmc 2018 di Vitebsk, festival Internazionale di danza contemporanea”. “L’obiettivo della AlphaZTL è proprio questo e lo dice il nome stesso: Alpha, prefisso di origine greca che indica rispetto al termine cui viene apposto valore di negazione, mancanza e privazione (alfa privativo). ZTL zona a traffico limitato. AlphaZTL vuole entrare attraverso l’arte in quelle realtà poco calpestabili esistenti in società abbattendo quelle barriere che non permettono l’integrità sociale. Lo scopo è quello di dare voce a quelle realtà relegate da pregiudizi facendo arrivare l’eco quanto più lontano possibile attraverso le attività che la compagnia svolge”. La compagnia sviluppa i propri progetti nel sociale facendo danza con i detenuti della Casa Circondariale di Brindisi e Rovigo, della Rems di Carovigno, con gli immigrati del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Restinco, i ragazzi della Aipd Brindisi (Associazione Italiana Persone Down) e ragazzi con disturbo dello spettro autistico. L’evento è organizzato grazie alla collaborazione artistica nata dal 2015 tra la AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica e la volontà e disponibilità della direttrice della Casa Circondariale di Brindisi, Anna Maria Dello Preite. Non solo AlphaZTL ma anche il service audio luci “Eventi&Eventi” di Raffaele Caputo offre la propria collaborazione per puro spirito amichevole, ritenendo l’arte in carcere uno strumento ricreativo e di formazione. Biella: “Vivicittà-Porte Aperte”, detenuti e atleti insieme nella 12esima edizione newsbiella.it, 16 aprile 2019 La competizione si è disputata sabato 6 aprile. 120 detenuti e un gruppo di 20 atleti capeggiati da Valeria Roffino hanno corso lungo il circuito di 2,7 km ricavato nella casa circondariale. Nella giornata di sabato 6 aprile si è svolta nella casa circondariale di Biella la dodicesima edizione della corsa podistica denominata “Vivicittà-Porte Aperte”, organizzata dall’ente di promozione sportiva Uisp, manifestazione che si svolge in contemporanea in molte città italiane e in altri 21 istituti penitenziari. Quest’anno la gara rientrava dentro un progetto di inclusione sociale denominato Reload e finanziato dalla Compagnia di San Paolo di Torino. È stata una grande giornata di festa e di svago all’insegna dello sport. Circa 120 detenuti si sono sfidati nelle tre batterie che sono state predisposte per l’occasione. A questi si sono aggiunti 20 atleti amatori capeggiati dalla guest star Valeria Roffino, atleta professionista del gruppo militare della Polizia Penitenziaria, i quali hanno accompagnato e sostenuto tutti gli atleti durante la loro prova. La gara è stata dedicata al detenuto scomparso nei giorni precedenti, alla cui manifestazione intendeva partecipare. Enorme l’entusiasmo dei partecipanti che si sono preparati nelle settimane precedenti e che hanno lottato, chi per la vittoria finale, chi più semplicemente per arrivare al traguardo. Tre giri di un circuito ricavato dentro l’area della casa circondariale per un totale di 2,7 km. Alla fine della gara tutti gli atleti hanno potuto usufruire del ricco ristoro distribuito dai reclusi della sezione Ricominciare. I migliori sono stati premiati con numerose borse gastronomiche. Durante la premiazione la direttrice Antonella Giordano ha sottolineato l’importanza dell’utilizzo dello sport come strumento rieducativo. Un plauso anche agli agenti della polizia penitenziaria e al gruppo dei volontari sportivi che hanno contribuito alla realizzazione della manifestazione. La clava di Crimi: “Radio Radicale? Liberi di chiuderla” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 aprile 2019 Tagli al pluralismo. Il sottosegretario all’Editoria rivendica i tagli e la revoca della concessione con l’emittente. Domenica 21 aprile maratona oratoria in piazza Madonna di Loreto contro la scure governativa. “Nessuno ce l’ha con Radio Radicale o vuole la sua chiusura ma sta nella libertà del Governo farlo”. La frase pronunciata dal sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, a margine di un convegno sull’informazione a Benevento, la dice tutta sulla ratio che muove la scure pentastellata caduta sulla convenzione con l’emittente radiofonica “organo della Lista Marco Pannella” e sui fondi per l’editoria. Tagli che uccidono anche il manifesto, l’Avvenire, Italia Oggi, il Foglio, Libero e una lunga serie di giornali cooperativi locali, ma non i cosiddetti “giornaloni” (nello slang grillino). “La posizione è molto chiara: l’intenzione del Governo, mia e del Mise - ha affermato Crimi - è di non rinnovare la convenzione con Radio Radicale che ha svolto da 25 anni un servizio senza alcun tipo di gara e valutazione dell’effettivo valore di quel servizio”. In sostanza, secondo il sottosegretario, “la convenzione è stata rinnovata come una concessione”. Ma ora, assicura, “la valutazione è stata fatta: esiste Rai Parlamento, un servizio pubblico, un canale istituzionale che trasmette le sedute parlamentari e delle commissioni”. Una nota di Radio Radicale ricorda però al delegato per l’Editoria che la convenzione tra l’emittente privata “e il Mise si è avviata a seguito di una gara indetta il 1 aprile del 1994 e che da allora il servizio è proseguito in regime di proroga, nonostante Radio Radicale abbia sempre richiesto che venisse rimesso a gara”. Il Crimi-pensiero non sembra comunque seguire necessariamente un percorso logico: mentre impone tagli che peraltro non fanno risparmiare un centesimo allo Stato perché gettano centinaia di famiglie nel pozzo senza fondo della disoccupazione, il sottosegretario riesce infatti a mostrarsi perfino paladino della piccola editoria. “Dove l’informazione locale è più sviluppata, c’è una maggiore lotta alla corruzione - afferma l’esponente grillino - Già oggi nel taglio ai fondi all’editoria che sono stati fatti è stata privilegiata l’informazione locale. C’è uno zoccolo di 500 mila euro che non viene toccato, e chi percepisce milioni di euro dallo Stato non è certo l’editoria locale. Chi percepiva contributi pubblici tra gli editori locali non vedrà toccato un euro dei suoi contributi per i prossimi quattro anni”. La giusta risposta viene direttamente dal presidente nazionale della Fnsi, Giuseppe Giulietti, che giudica come “sciagurata” la scure pentastellata “perché colpisce le voci delle differenze”. “Per capirci: colpisce Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, tanti giornali diocesani, e molte realtà locali in Campania dove c’è il rischio che in numerose province non resterà nessuna voce a raccontare il territorio. Mette a repentaglio la voce della diversità e della differenze perché sono tagli destinati a diventare bavagli. Quando si chiude un piccolo giornale si oscura una comunità. Per questo - annuncia Giulietti - proporremo una serie di iniziative di lotta a partire da oggi per contrastare questa decisione che lede, ferisce ed umilia l’art. 21 della Costituzione”. Per questo il presidente dell’Fnsi rivolge un appello al capo dello Stato “che per dieci volte ha richiamato l’attenzione nazionale sulla libertà di informazione, sulla necessità di aggiungere le voci, perché ciò che sta accadendo è uno sfregio alla Costituzione ed anche alle sue stesse parole”. Su un punto però Crimi ha ragione: “Per l’80% delle imprese che avevano un contributo pubblico non ci sarà alcun taglio”. Appunto: il taglio è ben mirato evidentemente a colpire solo chi non è utile all’attuale corso giallo-bruno. E tra questi, anche Radio Radicale, che ha raccolto più di 50 mila firme in calce ad una petizione su change.org, oltre al supporto di un intergruppo parlamentare e numerosi appelli in suo favore da esponenti di ogni parte politica. Molti di loro parteciperanno alla “maratona oratoria” che si terrà domenica di Pasqua (21 aprile) dalle 11 alle 13 in piazza Madonna di Loreto, a Roma. L’emittente inoltre parteciperà alla consulta dei cdr Rai che si tiene oggi e domani ad Assisi. Il cdr e il direttore Alessio Falconio sono stati invitati dall’Usigrai a testimonianza di una totale solidarietà con i giornalisti e i tecnici che rischiano il posto di lavoro dopo la revoca della convenzione per la trasmissione dei lavori parlamentari. E a dispetto di chi pensava di creare competizione e conflitto con i lavoratori del Gr Parlamento che pure fornisce quel tipo di servizio pubblico. Tanto più che nei giorni scorsi è emersa la notizia di un possibile matrimonio tra la Rai e Radio Radicale. L’emittente pubblica italiana potrebbe infatti acquisire le frequenze, le teche e il patrimonio audiovisivo dell’emittente che fu di Marco Pannella. Stop a Radio Radicale: quando si colpisce l’informazione vera di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 16 aprile 2019 La fine della convenzione, annunciata dal sottosegretario Vito Crimi, si inserisce in una logica di sistema che percepisce come un fastidio qualunque fonte indipendente. Nell’epoca sciagurata delle fake news, il governo della democrazia diretta decide di colpire e affondare uno straordinario strumento di informazione. Anche ricorrendo alla retorica populista della disintermediazione, con i giornalisti assimilati a manipolatori, non si può negare che Radio Radicale sia stata per decenni una palestra di democrazia, inalberando, non a caso, il vessillo einaudiano “Conoscere per deliberare”. Ma “conoscere” è ormai un optional, sacrificabile senza rimorsi sull’altare del taglio dei costi. E per deliberare si fa sempre in tempo a schiacciare un tasto su Rousseau, rispondendo a domande spesso “suggestive” (nel senso che suggeriscono la risposta). La mannaia del risparmio a tutti i costi, la furia iconoclasta della lotta alla Casta, funzionale a recuperare qualche voto, non risparmiano nessuno. Non sarebbe un incidente, a meno di un ripensamento, lo stop alla convenzione a Radio Radicale, annunciato dal sottosegretario Vito Crimi. Perché si inserisce in una logica di sistema, che percepisce come un fastidio qualunque fonte informativa indipendente. Intellettuali e giornalisti, già “morti viventi” per Beppe Grillo, nella paranoia dei “rivoluzionari” sono considerati fiancheggiatori del vecchio sistema. E chi diffonde informazione e cultura viene invitato, come ha fatto il premier Giuseppe Conte, ad “andare sul mercato”. Come se una seduta di Parlamento, l’udienza di un processo, l’assemblea di un partito possano avere un valore commerciale. E allora meglio avocare il controllo della “trasparenza”, meglio cancellare una voce indipendente. A parlare ai cittadini penseranno i leader, direttamente dai loro profili social, gestiti da una massa enorme di comunicatori: pagata, naturalmente, da tutti noi. Radio Radicale, la scure M5S su un pezzo di storia italiana di Fabio Martini La Stampa, 16 aprile 2019 Crimi: “Non rinnoviamo la convenzione”. Audio di sedute parlamentari, dibattiti, udienze: Pannella la seppe salvaguardare, i grillini la giustiziano. Un piccolo, sconosciuto aneddoto che spiega tante cose nella sciarada di Radio Radicale. Era l’ottobre del 2014, il Senato voleva ricordare Eduardo De Filippo che nella sua lunga vita era stato senatore a vita, ma in aula aveva parlato una sola volta, il 23 ottobre 1982. Un intervento memorabile, sui “ragazzi dell’Istituto Filangeri di Napoli, che spesso a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via...”, disse il vecchio Eduardo. Alla fine - travolti dalla poesia e dalla commozione - avevano applaudito tutti, comunisti, liberali e democristiani. Ma come risentire quel sonoro? I volenterosi funzionari del Senato, che cinque anni fa volevano riproporre quell’intervento, scoprirono che né palazzo Madama né la Rai dispone disponevano della registrazione. Uno di loro propose: perché non proviamo con Radio Radicale? Il sonoro venne fuori. Perché la radio dei radicali dispone non soltanto di un archivio audio-video formidabile (540mila registrazioni) ma fino agli anni Novanta è stata l’unica ad aver impresso tutte - ed intere - le sedute parlamentari. Ma da ieri Radio radicale è più vicina alla chiusura. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Rocco Crimi, Cinque stelle, ha dichiarato testualmente: “Radio Radicale? La posizione è molto chiara, è intenzione di questo governo - almeno mia e del Mise che abbiamo seguito il dossier - di non rinnovare la Convenzione con Radio Radicale. Un servizio svolto per 25 anni senza alcun tipo di valutazione, come l’affidamento con una gara. Nessuno ce l’ha con Radio Radicale o ne vuole la chiusura”. In realtà il combinato disposto degli atti decisi, sino ad oggi dal governo e di quelli annunciati, avrebbe proprio l’effetto di soffocare o persino spegnere quella voce. Fino al 2018 Radio Radicale ha potuto vivere grazie a due distinti finanziamenti. Il primo, di 8,2 milioni di euro, erogato dal Ministero dello Sviluppo Economico per la trasmissione integrale di tutte le sedute del Parlamento: il riconoscimento di un servizio pubblico. La volle il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e da allora la convenzione non si è mai interrotta. Ma ora Crimi conferma che l’ultima tranche di quella convenzione sarà interrotta a partire dal 21 maggio. C’era poi un contributo di 4 milioni per l’editoria (questo sarà azzerato il primo gennaio 2020) ed erogato alla radio come “impresa privata che ha svolto attività di interesse generale”. Fondi a copertura delle spese per seguire e registrare l’attività di Consulta, Csm, 24 mila udienze dei più importanti processi, tremila congressi di partiti e sindacati, 32mila dibattiti con tutti i più importanti intellettuali del Paese, 22mila conferenze stampa, settemila comizi. Una sorta di “patrimonio nazionale” obiettivamente a rischio e del quale fa parte anche la torrentizia programmazione “autonoma” della Radio, la proverbiale “Stampa e regime” di Massimo Bordin, rubriche introvabili altrove, da Radio carcere a Musulmane laiche, da L’ora di Cindia al Rovescio del diritto, da Voci africane a Divorzio breve. Un patrimonio che nei decenni Marco Pannella ha saputo salvaguardare anche grazie ai rapporti personali con Andreotti e Craxi, Berlusconi e Prodi. Ora molto dipenderà da Matteo Salvini. Nei rapporti col mondo dell’informazione il capo della Lega non ha condiviso i toni irridenti e aggressivi di Di Maio e ieri sera, il viceministro leghista all’Economia Massimo Garavaglia ha detto: “Mi auguro che il Parlamento trovi una soluzione di equilibrio”. Come dire, senza dirlo: se la vicenda sarà “parlamentarizzata” si potrebbe trovare anche una maggioranza diversa da quella governativa. La forza della parola contro il degrado di Dacia Maraini Corriere della Sera, 16 aprile 2019 La resistenza contro il degrado lo si fa, secondo me, cominciando proprio dal linguaggio: che deve richiamarsi alla ragione, rispettando l’avversario, rifiutando la progressione dell’ingiuria e della calunnia. La tendenza al degrado della città di Roma che precede e simboleggia un degrado più ampio e ramificato in tutta la penisola, si manifesta in tanti modi: l’incuria in cui sono lasciate le strade, i mezzi pubblici che bruciano come fossero scatole di fiammiferi, le buche nelle strade, il disordine del traffico che non viene regolato e controllato, i cassonetti che debordano di rifiuti, gli alberi caduti che nessuno rimuove, intere zone della città abbandonate a se stesse. Ma c’è un altro degrado che riguarda tutto il paese, che fa la spia all’ imbarbarimento della vita quotidiana, ed è il linguaggio. Linguaggio del corpo e della parola. Il linguaggio del corpo porta alla violenza cieca, e si accompagna a un obnubilamento della coscienza. La scopriamo soprattutto nei ragazzi, i più fragili e impauriti, e si accanisce su chi dorme per strada, su chi chiede l’elemosina, sul nero che ha l’aria malandata, sul povero, sulla ragazzina che cammina sola. Come se infierire contro il più debole fosse non solo un divertimento crudele, ma quasi un dovere eroico che nasce dalla nostalgia del mito del superuomo che disprezza il più debole e odia il diverso. Il degrado della parola è ancora più tenace e brutale. Anche chi magari non tirerebbe mai un pugno o un calcio, si sente in diritto di rivolgersi al proprio avversario indirizzandogli parole feroci. L’esempio purtroppo lo dà chi ha posti di potere, chi governa e amministra, credendo che l’avversario si vinca con l’insulto e non col ragionamento. La cosa è avvilente, perché il confronto viene trasferito dalle idee e dalla logica all’invettiva. Non ci si confronta sul piano delle opinioni, dei progetti, ma sul discredito da gettare sull’avversario: Mi chiami ladro? e io ti dico che tu sei più ladro di me. Mi chiami furfante? e io ti dico che sei più furfante di me e così via. Ma questo appiattisce ogni confronto politico vero, riducendo tutto a rissa e parapiglia. La resistenza contro il degrado lo si fa, secondo me, cominciando proprio dal linguaggio: che deve richiamarsi alla ragione, rispettando l’avversario, rifiutando la progressione dell’ingiuria e della calunnia. Devo dire che la più virtuosa è la radio dove non vige come in tv lo spettacolo della battaglia fra galli: che si becchino, si spennino, la gente si diverte, facciamola divertire! In radio per fortuna i corpi sono assenti e la voce perde quella dinamicità spettacolare tipica dello schermo. Radio3 per esempio fa un ottimo lavoro di resistenza, proponendo una parola pacata, savia e fiduciosa nella logica e non nella sopraffazione. Sempre più anziani malati costretti alla contenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2019 Il Garante ha avviato un monitoraggio e visite alle residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà. Dai bracciali per immobilizzare polsi e caviglie, alle fasce addominali per bloccare al letto o alla carrozzina, alle fasce pelviche, ai corsetti con bretelle o con cintura pelvica; ai tavolini per carrozzina, a vari tipi di camicie, come i “fantasmini”, che si indossano come una maglia lasciando libere braccia e mani ma impedendo alla persona di alzarsi dal letto. Parliamo della contenzione degli anziani. Molto si è dibattuto - anche se non basta mai - sull’utilizzo eccessivo della contenzione per i pazienti psichiatrici, poco però per gli anziani. Oltre alla contenzione meccanica, esiste - spesso in aggiunta - anche quella farmacologica. Si parla di quest’ultima quando i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale sono finalizzati a limitare o annullare la capacità motoria e di interazione dell’individuo. Si tratta spesso di farmaci sedativi, antidepressivi e antipsicotici, che, in dosi eccessive, hanno numerosi effetti collaterali, quali sopore, confusione, agitazione. L’uso della contenzione è aggravato dallo stato di fragilità delle persone anziane. All’aumento di aspettativa di vita non corrisponde ancora un miglioramento della qualità della stessa, e la gran parte degli anziani negli ultimi 3/ 5 anni di vita è affetta da malattie invalidanti e demenze senili: sono questi i soggetti più colpiti dalla contenzione. Il fenomeno però è sommerso e i dati sono molto scarsi, poiché in Italia sono ancora pochi gli studi che analizzano la complessità del fenomeno anche da una prospettiva etica e deontologica. I primi a fare i conti, anche dal punto di vista umano, sono gli operatori sanitari. Solo nel 2010 c’è stato uno studio, in Lombardia, condotto dai tre collegi della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri Ipasvi di Aosta, Brescia e Milano- Lodi-Monza e Brianza, dal quale era emersa una prevalenza della contenzione fisica del 15,8% su 2.808 degenti nelle unità di chirurgia, geriatria, medicina, ortopedia e terapia intensiva e del 68,7% su 6.690 residenti nelle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali. Lo studio qualitativo ha dato voce agli infermieri sulle convinzioni, anche da una prospettiva etica e deontologica, sui fattori ostacolanti e soprattutto quelli che favorirebbero una riduzione di tale pratica. Gli intervistati hanno riportato una varietà di emozioni associate all’uso della contenzione fisica, spesso ambivalenti e contrastanti, espresse nei confronti di diversi soggetti (familiari, altri operatori e responsabili istituzionali), tra cui: la rabbia, la pena, l’angoscia, la tristezza, l’imbarazzo, il sollievo/ tranquillità, la sensazione di prevaricazione, il senso di impotenza, il fallimento e la soddisfazione. L’immedesimazione con il paziente contenuto è il sentimento più forte e più frequentemente citato, anche in termini di proiezione futura di sé. Per il processo decisionale, ricordiamo, l’infermiere assume un ruolo strategico all’interno dell’equipe assistenziale, soprattutto per la posizione di garanzia che ha nei confronti dei cittadini. La contenzione degli anziani è una privazione della libertà, proprio per questo l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà ha da tempo avviato un monitoraggio e delle visite a residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà, appunto, de facto. Un monitoraggio non facile visto le tipologie di residenze diffuse su tutto il territorio. “Tale capillarità - si legge nell’ultimo rapporto del Garante - unita a un’articolazione regionalizzata del sistema socio-sanitario, con quel che consegue in termini di differenti normative tra una Regione e l’altra, suggeriscono l’utilità d’un lavoro di rete che coinvolga i Garanti territoriali”. Morcone (Cir): l’Italia cambi atteggiamento, i diritti degli invisibili vengono prima di Paolo Lambruschi Avvenire, 16 aprile 2019 L’ex capo di gabinetto del Viminale: Roma si faccia carico anche della situazione dei detenuti nei campi. Non è possibile che l’Italia non faccia il proprio dovere con dignità e orgoglio in caso di una nuova emergenza umanitaria in Libia. Tradotto, non si possono chiudere i porti a chi fugge dal conflitto. Mario Morcone, direttore del Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, torna a parlare dell’ex “quarta sponda” alla vigilia di un incontro al Cnel previsto oggi. “La Libia - afferma 1’ ex prefetto - ci interessa non solo dal punto di vista economico ma anche politico e umanitario. Abbiamo dei doveri imposti dalla Costituzione, da leggi nazionali e internazionali, una storia e una cultura da rispettare. Siamo un Paese civile e non dobbiamo avere dubbi nel malaugurato caso di una nuova ondata di partenze”. Quanto agli 800mila migranti, tra cui terroristi islamici, che il premier al Serrai descrive come potenzialmente pronti a partire, Morcone, 67enne che fino alla scorsa estate era capo di gabinetto al Viminale, invita alla calma. I numeri e la situazione sul campo vanno presi infatti con le molle perché oggetto di grande prudenza per i rischi di manipolazione e propaganda. E non è possibile continuare a ignorare quanto sta accadendo nelle galere libiche. “Il Cir lancia un appello perché si aiutino anzitutto i detenuti. Rischiano di perdere anche i servizi essenziali per la sopravvivenza, dei quali abbiamo più volte denunciato l’insufficienza. Ci sono donne e bambini subsahariani imprigionati che rischiano di fare una brutta fine e che non possiamo guardare con cinismo. Ma a questi si aggiungono anche i libici. La popolazione più vulnerabile ha bisogno di servizi essenziali al momento interrotti. Occorre una tregua per tornare a un tavolo negoziale, siamo convinti che la soluzione non passa attraverso il conflitto, bensi attraverso una paziente e tenace trattativa”. Ma per il direttore del Cir anche l’Europa deve fare la sua parte nell’eventualità che la situazione precipiti. Perché questo avvenga, però, il governo deve cambiare strategia. “Penso, e lo dico senza polemiche facendo riferimento alla vicenda della nave Alan Kurdi finita a Malta, che sia meglio cambiare atteggiamento. I tedeschi si erano già detti disponibili ad accogliere i migranti a bordo, è stata l’Italia a tirarsi indietro in una trattativa di redistribuzione. Quindi si fa un passo avanti e si dialoga con chi ci è tradizionalmente amico. Mi riferisco ai governi tedesco, svedese, olandese e agli stessi francesi perché tra chi ci sta avvenga una redistribuzione effettiva delle persone che arrivano”. Ovviamente i partner europei che non aderiscono all’intesa contravvenendo al trattato di Lisbona, ad esempio i Paesi del gruppo di Visegrad, verranno penalizzati successivamente su altri dossier. “Ma il fatto che alcuni Paesi si tirino indietro - avverte Morcone - non può diventare un alibi per non fare nulla e non prendersi le proprie responsabilità. Avevamo fatto passi avanti in tema di politica migratoria con l’Ue. Sono il primo a riconoscere che ci possono essere stati errori e non si è operato con la rigidità necessaria. Però dopo il 2014 si era costruita una struttura flessibile e intelligente, concertata tra Stato, Regioni e Comuni, il piano nazionale per l’accoglienza. Oggi tutto questo è saltato e la mia preoccupazione è che si torni, in presenza di una pressione migratoria forte, agli anni dell’emergenza Nord Africa”. Porti e Libia, guerra (di parole) tra alleati di Andrea Colombo Il Manifesto, 16 aprile 2019 Scontro tra Lega e M5S. Il leghista: “Di sicurezza e confini mi occupo io. Chi non è d’accordo venga in cdm”. È campagna elettorale: se non proprio parole al vento qualcosa di simile. Ma il rischio che la crisi libica degeneri rende più serio l’ennesimo duello a uso degli elettori tra i soci della maggioranza. È un botta e risposta inaugurato da Di Maio al quale replica subito, con toni più autoritari del solito, Salvini. L’oggetto del contendere è un po’ surreale: la chiusura dei porti per i rifugiati che dovrebbe decidere il ministro delle Infrastrutture Toninelli e che il collega degli Interni ha scippato con il beneplacito dell’intero governo, va inteso come misura temporanea o eterna? Quel che rende meno astrusa la schermaglia è che non si parla solo di teoria ma anche di quello che potrebbe succedere domani se la guerra civile libica divampasse. Sullo sfondo si intravede un secondo scontro: quello sul come affrontare la crisi, con Di Maio e la ministra della Difesa Trenta palesemente inferociti, anche se il vicepremier nega ogni allusione rivolta al collega leghista, per la strategia diplomatica, anzi antidiplomatica adottata dal leghista sia per quanto concerne il fronte di guerra vero e proprio, sia, soprattutto, nei confronti della Francia. Così al Di Maio che definisce “misura occasionale” la chiusura dei porti, specifica che “di fronte a un intensificarsi della crisi non funzionerebbe”, bacchetta chi “si diverte a fare il duro come se questo fosse un Risiko mentre le parole hanno un peso”, Salvini risponde a stretto giro, e con rara brutalità. “Di ordine sicurezza e confini mi occupo io. Se Di Maio e Trenta la pensano diversamente lo dicano in cdm e faremo una sana, franca discussione. Finché sono ministro io i porti restano chiusi”. Sembra una minaccia di arrivare alla crisi ove M5S insistesse ed effettivamente lo è. Salvini, del resto, ha nel cassetto una nuova direttiva, un ennesimo giro di vite contro le Ong che rincara il divieto di entrare nei porti italiani alle navi private. Avrebbe dovuto presentarlo ieri. Ha rinviato a oggi probabilmente proprio perché, pur trattandosi di una misura essenzialmente propagandistica che non dovrebbe aggiungere molto a quanto già contenuto nelle precedenti direttive, nel clima determinato dallo scontro con i 5S e soprattutto dall’incandescente quadro libico avrebbe acquistato una valenza più esplosiva del previsto. La Trenta, però, non si fa certo mettere a tacere né da Salvini né dalla Meloni che la accusa di “parlare come se fosse rappresentante delle Ong”. Risponde per le rime: “Posso invitare tutti al ministero, così spiego un po’ di diritto internazionale e magari capiscono cosa possono produrre i toni aggressivi sulla Libia. Rischiano di destabilizzare ulteriormente la situazione provocando loro per primi nuovi flussi migratori”. Rischio che peraltro rilancia, moltiplicato all’ennesima potenza Sarraj. Ci sarebbero “800mila profughi, tra cui criminali e jihadisti, pronti a invadere l’Italia e l’Europa”. Che il presidente - ormai tale quasi solo di nome - libico esageri per spingere la comunità internazionale a intervenire, come segnalerà poco dopo Salvini, è ovvio. Ma è altrettanto ovvio che in caso di guerra aperta e a tutto campo gli sbarchi probabilmente si moltiplicherebbero. In quel caso la posizione unanime dei 5S, da Di Maio alla Trenta al presidente della Camera Fico, è che si debba rispettare il diritto internazionale e considerare i profughi, come spiegava ieri proprio la Trenta, rifugiati con diritto d’asilo. La rotta di collisione con Salvini sarebbe garantita. Le battaglie mimate della campagna elettorale rischierebbero di diventare reali. Se invece la crisi sarà contenuta e l’iniziativa diplomatica messa in campo da Conte e Moavero avrà successo, quella dei porti resterà per ora una promessa di scontro futuro e chissà se e quando sarà davvero combattuto. Ma la nuova divaricazione non passerà senza lasciare traccia. Oggi Salvini vedrà Ahmed Maitig, vicepresidente e comandante di Misurata, l’uomo forte della resistenza ad Haftar, poi però ha convocato il suo stato maggiore con all’odg la necessità di lanciare un segnale forte ai soci. Anche senza la Libia la tensione resterà alta, in particolare su Flat Tax e autonomie. Ma se la Libia esploderà tremerà anche il governo di Roma. Sea Watch. Salvini, Di Maio Conte e Toninelli tutti indagati per concorso in sequestro di Adriana Pollice Il Manifesto, 16 aprile 2019 La nave della ong tedesca fu costretta ad aspettare dieci giorni al largo di Siracusa prima di avere il permesso di sbarcare i migranti che aveva tratto in salvo. Il premier Giuseppe Conte, i ministri Matteo Salvini, Danilo Toninelli e Luigi Di Maio sono indagati per concorso in sequestro di persona continuato dal tribunale dei Ministri di Catania. Il caso è quello della nave dell’Ong tedesca Sea Watch, costretta a rimanere 10 giorni alla fonda al largo di Siracusa con 47 naufraghi a bordo prima di avere l’autorizzazione allo sbarco, il 31 gennaio, a Catania. Tra i migranti c’erano 15 minorenni che godono di una protezione rafforzata da parte dell’ordinamento italiano e infatti si mossero il procuratore del tribunale dei Minori e il Garante per l’infanzia, intimando che venissero portati a terra. Si tratta di un secondo caso Diciotti, per cui lo stesso tribunale dei ministri di Catania aveva chiesto il rinvio a giudizio per Salvini, rinvio bloccato dal Senato che ha negato l’autorizzazione a procedere. Allora il leader della Lega invocò la collegialità della decisione, sostenuto dall’intero esecutivo, adesso ne rispondono in quattro, dal premier ai tre ministri. Il procedimento è iniziato a Roma grazie all’esposto dell’associazione Borderline, che chiedeva di verificare l’eventuale coinvolgimento dei dicasteri Interno e Trasporti nell’omissione in atti d’ufficio. Il pm Sergio Colaiocco ha affidato alla Guardia costiera i primi accertamenti: ritenuto che nei confronti dei naufraghi ci sia stata una limitazione della libertà personale, ha trasmesso gli atti a Siracusa che poi li ha girati a Catania, a cui fa capo in caso di reati che coinvolgono il governo. Contestualmente, il capo della procura catanese, Carmelo Zuccaro, fedele alla sua linea, ha chiesto l’archiviazione degli indagati ai colleghi del tribunale dei ministri, come già aveva fatto nel caso Diciotti. Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch, ieri ha commentato: “Ci solleva osservare che la magistratura si stia rivolgendo ai rappresentanti delle istituzioni che in quei giorni hanno calpestato diritti umani e obblighi di legge, non concedendo l’approdo senza addurre motivazioni giuridiche. Siamo pronti a testimoniare. Il trattenimento a bordo a fini di propaganda non può restare ancora una volta ingiudicato perché protetto dalla politica”. Salvini è partito subito al contrattacco: “Sono nuovamente indagato ma, finché faccio il ministro dell’Interno, i colleghi di governo possono dire quello che vogliono, i porti italiani rimangono chiusi. Possono aprire altri 18 procedimenti penali, non cambio idea”. E sui social, perentorio: “Gli italiani ci chiedono porti chiusi. Punto”. Il problema, però, non è assecondare l’umore dei follower ma rispettare il diritto. L’altro vicepremier, Di Maio, in cerca di voti e di una nuova identità, domenica aveva preso le distanze dalla politica dei porti chiusi (“può essere solo occasionale”), nonostante fin qui l’avesse totalmente condivisa. Così Salvini ribatte: “Ai colleghi ministri, che in queste ore hanno qualche dubbio, dico che se qualcuno ha nostalgia degli sbarchi Salvini e la Lega dicono no”. E ancora: “Di ordine pubblico, sicurezza e difesa dei confini me ne occupo io e rischio personalmente. Rispetto il lavoro di Di Maio, che si occupa di Sviluppo economico, e spero che lui faccia lo stesso”. Il capo politico dei 5S è in missione a Dubai così replica ma non troppo: “Sono indagato anch’io ma non mi sento Napoleone. Non mi interessano le polemiche, fanno male al paese. Il mio unico scopo è proteggere l’Italia”. Per i pentastellati questa nuova inchiesta rischia di terremotare la fragile pace interna, raggiunta in nome delle europee. Il caso Diciotti spaccò il Movimento, con il 40% che si espresse sulla piattaforma a favore del rinvio a giudizio di Salvini. Le regole 5S impongono di non sottrarsi al giudice. Doriana Sarli ieri ha invocato il rispetto delle norme interne: “La procura deve fare il suo lavoro. Il parlamento non può trasformarsi in un tribunale, ma sarei comunque sempre favorevole a procedere”. E Gilda Sportiello: “Ci si difende nei processi e non dai processi. Questo per me è un punto non derogabile”. Paola Nugnes, ancora a rischio espulsione, non crede che “si verificherà la stessa situazione della Diciotti”. Attende di studiare le carte Elena Fattori, anche lei sotto procedimento dei probiviri. Libia. Unhcr: “trasferire 1.500 rifugiati detenuti nei centri, è questione di vita o di morte” agensir.it, 16 aprile 2019 Alla luce del drastico peggioramento delle condizioni di sicurezza nella capitale libica Tripoli, l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha chiesto con urgenza “il rilascio immediato di rifugiati e migranti dai luoghi di detenzione” poiché molti di questi centri si trovano in aree teatro di scontri continui. In seguito all’inasprirsi del conflitto in Libia all’inizio di aprile, oltre 9.500 persone sono state costrette alla fuga. L’Unhcr stima “oltre 1.500 rifugiati e migranti bloccati in centri di detenzione che si trovano in aree interessate dalle ostilità”. “Queste persone sono in una situazione di grande vulnerabilità e pericolo. Sono fuggite da conflitti o persecuzioni nei propri Paesi solo per ritrovarsi intrappolate in nuovi scontri. È necessario metterli in salvo con urgenza. Per intenderci, è una questione di vita o di morte”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Fra i centri di detenzione che si trovano in prossimità degli scontri vi sono quelli di Ain Zara, Qasr Bin Ghasheer e Abu Sleim, tutti a sud di Tripoli. Fino al 12 aprile, l’Unhcr aveva potuto effettuare il trasferimento di soli 150 rifugiati vulnerabili dal Centro di detenzione di Ain Zara perché “ostacolati dall’impossibilità di accedervi e da problemi di sicurezza”. Gli scontri stanno ostacolando gli spostamenti mentre l’instabilità delle condizioni di sicurezza comporta sia la difficoltà di accedere alle strutture interessate dal conflitto per mettere in salvo i rifugiati, sia quella di organizzarne il trasferimento in aree più sicure. Quale ultima misura salva-vita, non avendo ottenuto il rilascio dei detenuti, l’Unchr, insieme ai propri partner, giovedì scorso ha tentato di ricollocare tutti i 728 rifugiati e migranti detenuti nella struttura di Qasr Bin Ghasheer al centro di detenzione di Zintan, lontano dal conflitto. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati rivolge un appello alla comunità internazionale affinché solleciti tutte le parti coinvolte nel conflitto “a conformarsi agli obblighi di diritto internazionale e sostenga le misure necessarie a porre fine alla detenzione, promuovendo, allo stesso tempo, soluzioni per la popolazione vittima del conflitto in Libia, fra le quali corridoi umanitari per evacuare i più vulnerabili fuori dal Paese”. Libia. Mercenari africani e consiglieri: la legione straniera di Haftar di Lorenzo Vita occhidellaguerra.it, 16 aprile 2019 Ciadiani e sudanesi, egiziani e libici, consiglieri militari forse russi o francesi. Quella di Khalifa Haftar non è solo l’avanzata della Cirenaica verso Tripoli, ma l’avanzata di una vera e propria “legione straniera” composta da mercenari provenienti da diverse parti dell’Africa o da veri e propri professionisti della guerra che, con i soldi arrivati da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, compongono una delle colonne portanti della campagna avviata da Haftar per la conquista della capitale libica. E tutto fa pensare a una costellazione composta da mercenari che fanno parte della rete di alleanze del maresciallo. Come raccontato a La Stampa dai soldati della Prima Brigata, quelli che controllano la prigione di Zawia con i tuareg fra i detenuti: “Dicono di essere libici, ma sono ciadiani”. Una denuncia che ricorda quell’altro allarme proveniente dal sud della Libia, dove le Nazioni Unite avevano denunciato più volte negli anni passati l’occupazione di soldati stranieri per conquistare la parte meridionale del Paese nordafricano. La denuncia era arrivata direttamente dai vertici della missione Unsmil sul caos a Sebha, dove lo stesso sindaco della città aveva parlato di “occupazione di forze straniere”. Come riporta sempre La Stampa, si puntava il dito soprattutto sui miliziani dei movimenti ribelli Sudanese Liberation Army (Sla) e Justice and Equality Movement (Jem), ma anche del Front for Change and Concord in Chad (Fact). Un metodo che serve ai governi locali anche per liberarsi dal loro territorio di questi miliziani: strumento usato anche da altri governi con i jihadisti inviati in Siria e Iraq negli anni precedenti. Ma non sono gli unici che sostengono o comunque partecipano, più o meno direttamente, all’avanzata del generale verso Tripoli. Con i soldi di Riad e Abu Dhabi, il generale può permettersi cdi pagare una parte del suo esercito. Ma è chiaro che per l’intelligence e per gli armamenti non può fare solo affidamento sui soldi. Serve esperienza, tecnologia, una rete diplomatica e paramilitare adeguata allo scopo. E per questo entrerebbero in campo altre forze e soprattutto i consiglieri militari: contractors o elementi delle forze speciali che aiutano l’Esercito nazionale libico nelle operazioni di conquista della Libia. Qui la questione si fa più fumosa. Perché ovviamente tutto diventa figlio di una guerra per procura in cui le potenze coinvolte non ammetteranno mai di essere sul campo. Quindi si può andare solo per deduzione, frasi estrapolate da alcune interviste, sospetti lanciati dalle fazioni in campo. Ma è chiaro che una potenza interessata non può non avere qualcuno pronto a fare da ponte fra terreno di scontro e strateghi che, dai centri di comando, monitorano e orientano un esercito che da solo non potrebbe mai sostenere una campagna come quella che sta portando avanti il maresciallo Haftar. Il primo sospetto cade sulla Francia, Paese che da tempo sostiene le mosse del generale della Cirenaica. Nei giorni scorsi, uomini del maresciallo hanno raggiunto Parigi. Ma è soprattutto uno strano aereo da Lione a destare sospetti, visto che la rotta vedeva questo aereo partire da un aeroporto secondario della città e raggiungere le coste vicino la Cirenaica per un sorvolo continuo dell’area. Inoltre, negli ultimi giorni si è parlato sempre più incessantemente di consiglieri militari francesi tra gli uomini di Haftar. Un uomo catturato ad Ain Zara ha confessato al Libya Observer che nel suo aereo proveniente dall’aeroporto di Bengasi e diretto a Jufra c’erano “14 libici, 30 egiziani e sei consiglieri militari francesi”. Quindi non solo francesi, ma anche soldati egiziani, 30 addirittura, che rappresentano la conferma di quell’appoggio dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi all’uomo forte della Cirenaica. Ieri l’incontro al Cairo ha ribadito l’asse fra Bengasi e il governo egiziano. E il sostegno militare dell’Egitto, Paese al confine con il nucleo centrale dell’Esercito haftarino, è stato confermato anche da alcune operazioni dell’aviazione del Cairo. E infine, la “legione straniera” del maresciallo potrebbe anche coinvolgere la Russia. Anche in questo caso, si parla di sospetti di cui è difficile avere conferme. Anche perché molto spesso le accuse provengono da Paesi rivali (in particolare dal Regno Unito) che hanno un forte interessante a screditare l’operato del Cremlino. Ma è del tutto evidente che Mosca sia più che coinvolta nelle dinamiche libiche. Nei mesi scorsi si era parlato di una presenza del Gruppo Wagner dalle parti di Derna, in particolar per presidiare le operazioni navali russe sia lì che a Tobruk. Ma di questa presenza, come di tutte le operazioni in cui potrebbe essere coinvolta la Wagner, vige un silenzio quasi totale. Ma quel blitz di Haftar a Mosca dopo una serie di viaggi del generale nella capitale russa e con la visita alla portaerei Admiral Kuznetsov sembrano confermare anche la presenza russa. Gran Bretagna. Viaggio a Belmarsh, il carcere di Julian Assange di Giulia Giacobini wired.it, 16 aprile 2019 Soprannominata la Guantánamo britannica, la prigione di massima sicurezza sorge a Londra e in passato ha ricevuto accuse di maltrattamenti dei detenuti. Oggi la situazione sembra migliorata. Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks arrestato nei giorni scorsi, è stato portato nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, soprannominato la Guantánamo britannica. La notizia è stata data da Vaughan Smith, amico dell’attivista, e confermata da sua madre, Christine Assange, su Twitter. L’istituto penitenziario di Belmarsh si trova in una zona nel sud-est di Londra ed è finito sotto la lente d’ingrandimento nel 2001 quando, a seguito degli attacchi terroristici alle torri gemelle, il governo decise di rinchiudere al suo interno nove stranieri sospettati di terrorismo. Come riporta la Bbc, queste persone pur non essendo formalmente indagate, erano costrette a rimanere in celle molto piccole per 22 ore al giorno, non avevano ricevuto adeguata assistenza legale o sanitaria e non potevano pregare. Una condizione che Amnesty International aveva definito “inumana, crudele e degradante”, simile a quella dei detenuti di Guantánamo, il carcere statunitense aperto dall’amministrazione Bush nel 2001 a Cuba per internare i sospettati di terrorismo catturati in Pakistan e Afghanistan, e spesso paragonato a un campo di prigionia anche a causa di testimonianze di uso della tortura per estorcere confessioni. Qualcuno su Twitter ha sostenuto che le due strutture, Belmarsh e Guantánamo, non sarebbero in realtà paragonabili. Come riporta Business Insider, alcuni di loro hanno fatto notare che a Londra i detenuti possono usare la biblioteca, partecipare a seminari, sedute terapeutiche e anche fare ginnastica. Com’è la situazione oggi - Secondo un report del 2018 del centro amministrativo che si occupa di ispezionare le carceri, la situazione dai report è molto migliorata e il carcere, nel complesso, è “gestito bene”. Rimangono, però, alcuni punti critici. L’istituto è sovraffollato, le attività di rieducazione sono considerate “scarse” e i detenuti continuano a passare la maggior parte del loro tempo all’interno della cella. Alcuni si sono lamentati di essere trattati senza rispetto e di non essere mai messi in grado di avere colloqui con dottori e infermieri (queste ultime affermazioni tuttavia sono state in parte smentite dal report, che evidenzia che all’interno dell’istituto c’è personale a sufficienza e l’assistenza medica viene garantita). A complicare la vita di tutti i giorni all’interno di Belmarsh è anche la presenza - peraltro comune a gran parte delle strutture di massima sicurezza - di ergastolani, di persone con necessità particolari, di stranieri che non sempre parlano o capiscono la lingua inglese, e di detenuti che hanno bisogno di una qualche forma di protezione a causa del crimine che hanno commesso. “Soddisfare le esigenze di questi gruppi resta un compito molto complicato”, si legge nel report. Gli altri detenuti di alto profilo - Julian Assange non è il primo detenuto famoso a essere stato rinchiuso all’interno di Belmarsh. In passato, hanno scontato la loro pena nell’istituto anche Ronnie Bigs, un cantante britannico che suonò coi Sex Pistols alla fine degli anni Settanta, il predicatore radicale Abu Hamza, il braccio destro di Osama Bin Laden in Europa Abu Qatada e il romanziere Jeffrey Archer. Quest’ultimo venne condannato per falsa testimonianza e ha raccontato la sua esperienza in un libro che riprende la struttura della Divina Commedia di Dante. La prima parte si intitola “Belmarsh Hell” (l’inferno di Belmarsh).