Cosa ha da dire Pignatone sullo stato della giustizia in Italia di Alberto Ferrigiolo agi.it, 15 aprile 2019 Vicino al “passo d’addio”, a poche settimane dall’andare in pensione (9 maggio, giorno del suo 70esimo compleanno), il Procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone “riflette” sullo stato della giustizia in Italia in un colloquio-ritratto sulle colonne del Sole 24 Ore dal titolo “Squadra unita, non eroi solitari per battere mafie e corruzione”, a cura di Raffaella Calandra. E in questo addio, l’unica certezza, per il momento, “è il ritorno a Palermo, dopo aver superato una tentazione romana”. Già, Palermo. Con tutte le sue “contraddizioni, “la violenza stragista”, ma anche il maggior successo dello Stato nella repressione alle mafie, ricorda l’articolista. “Un successo - puntualizza Pignatone - nel rispetto delle regole, come non sempre è avvenuto. Ne va dato atto alla magistratura siciliana, che tante colpe, ma anche tanti meriti ha avuto” perché “rispettare le regole può significare imputati assolti anche quando nei giudici c’è la certezza morale della colpevolezza”. Parole cruciali, sottolinea la giornalista, in tempi di rischio di populismo giudiziario e attacchi per sentenze non in linea con un “presunto indistinto sentimento popolare”, secondo il monito del capo dello Stato. “I magistrati non devono cercare consenso”, precisa il magistrato, che subito dopo aggiunge: “Forse c’è stanchezza, ma il fatto che la magistratura non sia più protagonista assoluta, come negli anni delle stragi e di Tangentopoli, è positivo, perché non ci sono più quelle forme estreme di patologia”. Eppure, nei suoi sette anni romani “tutto è stato amplificato”, ma al di là dei luoghi e dei fatti contingenti, “i magistrati, che non sono una categoria compatta, devono cercare di spiegare quel che fanno e perché lo fanno. Non per autodifesa, ma perché in democrazia il controllo da parte dell’opinione pubblica è fondamentale”. Perché, spiega, “l’attività giudiziaria, anche senza volerlo, incide sulla politica e su interessi economici, visto che molti punti di crisi vengono riversati sul tavolo delle toghe”. Tuttavia, precisa: “Sulle forme di corruzione c’è l’imbarazzo della scelta. Come spesso succede dove c’è la sede del potere politico” dove “da un lato c’è il classico do ut des, con il sistematico non rispetto delle regole; dall’altro una corruzione organizzata, o addirittura mafiosa. I processi indicano fenomeni significativi e, al di là degli esiti, offrono dati di conoscenza della realtà”. Ai confini di questa realtà, il magistrato ci tiene però a precisare, tuttavia, che “Roma non è Palermo: non abbiamo mai detto che è dominata dalle mafie; è stato un equivoco creato da alcuni, non tutti in buona fede. Ci sono presenze di mafie tradizionali, che si occupano di narcotraffico, riciclaggio e di attività imprenditoriali lecite. Poi ci sono associazioni diverse da quelle meridionali che, come ha confermato la Cassazione, vanno qualificate mafiose. E altri gruppi dediti ad attività criminali” precisa. Sulle inchieste in corso non parla, per rigore, ma anche perché “dietro ogni parola, qualcuno metterebbe un nome, per favorirlo o più possibilmente per danneggiarlo”, che poi è lo sport nazionale prediletto. Quindi un accenno al radicamento del crimine e di certe organizzazioni specie al nord, il recente riciclaggio di soldi sporchi da banche europee, che gli fanno dire che “la sanzione reputazionale funziona poco, persino nei confronti dei condannati, per mafia e per corruzione”. Soluzioni? “È vero che il sistema dei sequestri va migliorato, ma attenzione a non perdere uno strumento prezioso. Abbiamo intercettato a Roma quasi le stesse parole ascoltate 15 anni fa a Palermo: cosa peggiore della confisca dei beni non ce n’è”. Salvini: “Pistole elettriche da giugno alle forze dell’ordine” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 15 aprile 2019 Il ministro dell’Interno dichiara conclusa la sperimentazione avviata lo scorso settembre Torino, Firenze e Palermo dicono no alla consegna dell’arma alla polizia municipale. La sperimentazione è finita. A partire da giugno, annuncia Matteo Salvini, la pistola elettrica sarà in dotazione alle forze dell’ordine. Il ministro dell’Interno risponde così, “segnando” il territorio delle sue competenze, alle invasioni di campo del collega Luigi Di Maio, che dopo l’agguato di Foggia aveva lanciato l’idea della legittima difesa estesa anche a chi indossa la divisa. “Ho letto che Di Maio ha proposto di dare più potere alle forze dell’ordine. Ma non era il M5s che voleva mettere il numeretto sul casco dei poliziotti? Cambiare idea è sintomo di intelligenza. Bene, vuol dire che stare con la Lega porta saggezza”. Il Viminale dichiara dunque conclusa con successo la fase di test del Taser, avviata il 5 settembre scorso con la consegna di 32 esemplari modello X2 nelle mani di equipaggi campione di polizia, carabinieri e guardia di Finanza in 12 città. In sei mesi (da settembre a febbraio), l’arma è stata estratta 48 volte e, nella maggioranza dei casi, sottolinea il ministero, è stata sufficiente la minaccia di utilizzarla, evitando di innescare la scarica ad alto voltaggio che può “immobilizzare” una persona per cinque secondi. L’ultimo episodio è avvenuto sabato a Genova, dove la polizia ha “sparato” gli elettrodi (due piccole “frecce” legate alla pistola da cavi) per fermare un quarantenne italiano che dopo aver picchiato la moglie e distrutto casa, aveva minacciato di morte i poliziotti. A meno di cinquanta giorni dalla sua entrata in vigore, tuttavia, la decisione continua ad alimentare dubbi e dissenso. La voce più critica è quella del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, che ricorda come il Taser debba essere considerata “una vera e propria arma” e sottolinea come il suo uso “possa essere giustificato solo in un ambito limitatissimo di casi”. L’utilizzo della pistola elettrica, oggi in dotazione alle forze dell’ordine in 107 Paesi, è argomento controverso in tutto il mondo. Nelle relazioni inviate al Parlamento Palma ha più volte ricordato i casi di morte legati all’uso di quella che viene considerata un’arma “non letale”: più di mille nei soli Stati Uniti. Nel suo ultimo report, consegnato un mese fa, il Garante ha riconosciuto “la cautela” utilizzata nella sperimentazione italiana, senza tuttavia nascondere l’allarme per l’estensione della sperimentazione alle polizie locali, prevista dal decreto Sicurezza nei comuni capoluogo di provincia o con più di 100mila abitanti. Nei Comuni tuttavia l’obiezione di coscienza è già partita. All’inizio di aprile, con una mozione promossa da Mdp e Potere al Popolo e sostenuta dal Pd, il consiglio comunale di Firenze ha detto no alla consegna dei Taser alla polizia municipale. Un esempio seguito pochi giorni dopo da Torino, grazie a una inedita alleanza tra M5s e Pd. A dicembre era stata l’assemblea cittadina di Palermo a votare contro l’utilizzo dei Taser da parte dei vigili urbani. L’azienda produttrice Axon, di Scottsdale, Arizona, citando dati risalenti al 2009, sostiene che il 99,75% dei soggetti colpiti dalle scarica della pistola elettrica non hanno lamentato danni, o hanno riferito danni lievi, come abrasioni o lividi. Una commissione Onu, tuttavia, ha classificato il Taser come “strumento di tortura”. Perse il marito in una rapina: “Lo Stato mi darà solo 7.200 euro, è scandaloso” di Mara Rodella Corriere della Sera, 15 aprile 2019 Brescia, la battaglia di Federica: “Io e tante altre vittime questi soldi non li vogliamo, è elemosina. Mi appello ai ministri Salvini e Bonafede. Andrò fino alla Corte europea”. Non ha mai smesso di combattere e non ha intenzione di farlo adesso, cinque anni dopo aver perso il marito. Era la notte dell’8 luglio 2014: Pietro Raccagni, macellaio di 53 anni, fu aggredito da una banda di rapinatori nel cortile della sua villetta di Pontoglio, paese della Bassa bresciana. Uno di loro lo colpì alla testa con una bottiglia, lui morì undici giorni dopo. Tutti i responsabili, di origine albanese, sono stati condannati in via definitiva: 15 anni e 6 mesi per Victor e Pjeter Lleshi, 16 anni e 6 mesi a Ergren Cullahj e 14 anni e 4 mesi a Erion Luli. Lei, la vedova Federica Pagani, a Pontoglio non ci vive più, anche se resta membro del consiglio comunale tra le file della Lega. “Dopo tanti anni abbiamo chiuso l’attività e ci siamo trasferiti (con i due figli, Luca e Sara) sul lago di Garda, a Lazise, un posto splendido. Ci venivamo spesso con Pietro: avevamo adocchiato un negozio che ci piaceva tanto, sono riuscita a rilevarlo. Sarebbe tutto bellissimo, se non avessi questa croce sullo stomaco”. Perché è arrabbiata? “Combatto da cinque anni: per la legittima difesa, la modifica del rito abbreviato, la tutela delle vittime di reati violenti come noi. E alla fine? Lo Stato, per la morte di mio marito, mi darà un indennizzo di 7.200 euro: tanto, per le istituzioni, vale la vita di un uomo. È una vergogna: ci sentiamo semplicemente presi in giro, io e tutti gli altri. Perché purtroppo siamo in tanti”. Eppure gli assassini di Pietro sono stati condannati anche a pagarle un risarcimento ben più cospicuo. “Certo. Un milione e 800 mila euro, e 600 mila di provvisionale. Ma risultano nullatenenti, quindi noi quei soldi non li vedremo mai: sia ben chiaro, niente e nessuno mi ridaranno mai mio marito, la cui vita non ha prezzo, ma tocca allo Stato indennizzarci. Queste cifre, però, gridano allo scandalo. I parametri sono dettati dalla legge 122 del luglio 2016 emanata, evidentemente, per pulirsi la coscienza dopo i richiami dell’Unione Europea. Consideri che prima peraltro accedervi era pressoché impossibile, ma poco cambia: sono previsti 7.200 euro, che salgono a 8.200 in caso l’omicidio sia commesso da coniuge o familiare. Veda lei, io sono indignata. Noi dell’Unione nazionale vittime questi soldi non li vogliamo, è elemosina. Mi risulta anche che nell’ultima Finanziaria gli importi degli indennizzi siano stati alzati, ma mancano i decreti attuativi. Del resto negli altri Paesi europei si parla di ben altre somme”. Lei tra pochi giorni avrà udienza a Roma, vero? “Sì, giovedì. Ho fatto causa civile allo Stato italiano perché gli assassini di mio marito erano clandestini, quindi nel nostro Paese non avrebbero dovuto esserci. Non escludo in quella sede si possa discutere anche dell’indennizzo”. Non si fermerà qui? “Affatto. Tutto questo non è dignitoso, voglio giustizia: per la mia famiglia, per Pietro e per tutti gli altri. Sono pronta ad arrivare fino alla Corte Europea, se necessario. Nessuno si deve arrendere”. Cosa vuole dire invece alle istituzioni? “Che quello che è successo a me potrebbe capitare a chiunque e tutti abbiamo bisogno di risposte concrete. Mi appello alla sensibilità del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che più volte si è esposto su questi temi, ma anche al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, affinché ci stiano vicini. Eravamo una famiglia molto unita, non ci siamo più ripresi: i miei figli, anche se sono bravissimi e ci mettono l’anima, anche nel lavoro, il loro padre non ce l’avranno mai più”. Quella preside in manette. Sacrosanta l’inchiesta ma la gogna pubblica poteva essere evitata di Sebastiano Messina La Repubblica, 15 aprile 2019 Venti anni dopo Tangentopoli, l’arresto della preside Anna Rita Zappulla, per uso improprio dell’auto di servizio della scuola, ci avverte che rischiamo di passare da un eccesso all’altro. Ventisette anni dopo Tangentopoli, ogni volta che scoppia un nuovo scandalo - come se non fosse successo nulla, come se niente fosse cambiato - è difficile non pensare che sia stato fatto ancora troppo poco, per eliminare quel che di marcio c’è nella macchina dello Stato. Ma quello che è successo ieri ad Anna Rita Zappulla ci avverte che rischiamo di passare da un eccesso all’altro. Chi è Anna Rita Zappulla? È la preside di un istituto tecnico professionale di Imperia, l’Ipsia “Marconi”, che qualcuno della sua scuola ha denunciato ai carabinieri perché usava solo lei la Toyota Corolla che sarebbe invece dovuta servire a tutto l’istituto. Così i carabinieri l’hanno pedinata, hanno nascosto un Gps nell’abitacolo, hanno intercettato le sue telefonate, e hanno raccolto le prove di un uso, diciamo così, improprio della vettura. Tenendola sotto controllo, ieri si sono accorti che la preside era addirittura andata a Mentone, in Francia. Non una trasferta, dunque, ma una gita. Con la macchina della scuola. Appena la Toyota è tornata sul suolo italiano, la preside è stata perciò bloccata. È stata interrogata. È stata dichiarata in arresto. Ed è stata portata nel carcere di Pontedecimo. Tra i delinquenti comuni. Ora, dando per scontato che i carabinieri si siano convinti di avere in mano le inoppugnabili prove di un reato, una domanda è lecita: era proprio necessario, ed era davvero giusto, trattare una dirigente scolastica come un rapinatore beccato con la refurtiva? Sia chiaro: se l’abuso c’è stato, è sacrosanto che venga punito con la severità prevista dal codice penale. Così come è ovvio che dovrà affrontare un inevitabile procedimento disciplinare, alla fine del quale sarà magari licenziata. Ma quale ragione c’era per aggiungere al disonore di una denuncia per peculato - già insostenibile per un dirigente scolastico-anche il marchio d’infamia delle manette e del carcere? Si voleva colpire l’uso improprio delle auto di servizio? Ottimo. Ma quando un presidente della Provincia di Messina si fece scoprire mentre andava in Puglia con l’auto blu venne denunciato. Quando il sindaco di Termini Imerese non riuscì a spiegare perché usava l’auto di servizio fuori orario gli fu imposto l’obbligo di firma. E ci sono stati sindaci indagati per essere andati con macchina e autista allo stadio o a un matrimonio sulla costiera amalfitana. Ma nessuno, finora, è mai stato arrestato e portato in cella per uso improprio dell’auto blu. E nemmeno l’eccesso di tolleranza del passato può giustificare l’eccesso di durezza del presente, perché la giustizia deve sempre avere chiaro il confine tra la severità e l’accanimento. Eppure viviamo una stagione in cui la politica sta creando ad arte un clima da stadio intorno ai tribunali, e i presidi - che nella nostra adolescenza incarnavano l’Autorità Massima - sono improvvisamente finiti nel mirino del governo, che solo da loro, tra tutti i professori, pretende le impronte digitali all’entrata e all’uscita dalla scuola. È dunque oggi difficile, molto difficile, non pensare che si sia voluto dare a questa preside colta sul fatto una punizione esemplare, esponendola alla gogna più vergognosa che è - per un dirigente dello Stato - finire in cella come un delinquente. Una frustata sulla pubblica piazza che poteva, e doveva, essere evitata. Lucano: “Smontano il modello Riace. Forse preferiscono le baraccopoli mortali” di Simona Musco Il Dubbio, 15 aprile 2019 Nuovo avviso di garanzia per il sindaco di Riace Mimmo Lucano, il cui divieto di dimora in Calabria è stato prorogato per un anno. Una notizia che al sindaco sospeso del paese dell’accoglienza arriva come una bomba ad orologeria, nel giorno in cui il gup del tribunale di Locri ha deciso il rinvio a giudizio. L’avviso di conclusione delle indagini per Lucano e altre nove persone persone - l’amministratrice della cooperativa per la gestione dell’accoglienza “Girasole”, Maria Taverniti, e otto proprietari delle case destinate all’accoglienza - riguarda l’accusa di truffa, nell’ambito di un secondo filone dell’inchiesta “Xenia”. In particolare, il pm Ezio Arcadi contesta a Lucano di aver “indotto in errore il ministero dell’Interno”, rappresentato dal Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati - e la Prefettura di Reggio Calabria, “ricorrendo all’artifizio di predisporre una falsa attestazione” nella quale veniva dichiarato “che le strutture di accoglienza per ospitare i migranti a Riace erano rispondenti e conformi alle normative vigenti, laddove in effetti così non era”. In particolare le abitazioni risulterebbero prive del collaudo statico e del certificato di abitabilità, richiesti dalle convenzioni. L’assenza di questi requisiti avrebbe consentito, secondo la procura, un ingiusto profitto, per una somma complessiva di 134.550 euro. Ma Mimmo Lucano, contattato da “Il Dubbio”, chiarisce la sua posizione. “La Prefettura, ad ogni emergenza sbarchi, mi chiedeva con insistenza di risolvere il problema, di trovare case, subito, magari ben sapendo che non avevano l’agibilità. Io mi rivolgevo alle cooperative ed erano loro ad occuparsi della cosa. Mi sembra tutta una montatura per rafforzare la prima indagine, crollata mediaticamente dopo la svalutazione delle accuse da parte della Cassazione. A Rosarno o a San Ferdinando, dove la gente brucia e muore, c’è forse l’agibilità? Perché di quello non si sono mai preoccupati? Era la prefettura ad insistere nell’utilizzare qualsiasi casa”. Giovedì, inoltre, sono stati posti i sigilli all’area destinata al ricovero degli asinelli utilizzati per la raccolta differenziata, per un abuso edilizio segnalato da un privato. “Si tratta di un’opera che riqualifica un’area del paese - conclude Lucano. Dà un senso all’azione dell’accoglienza a livello sociale. Ma c’è una deriva sul mio caso, vogliono distruggermi. È facile così”. La class action cambia pelle di Claudia Morelli Italia Oggi, 15 aprile 2019 Molte le modifiche apportate dalla legge approvata in via definitiva dal parlamento. Nuova class action: doppio passaggio per ottenere i risarcimenti. Procedure automatizzate per l’adesione alla classe. “Quota lite” per gli avvocati che rappresentano la classe. Sono numerose le modifiche apportate all’istituto della class action dalla legge approvata in via definitiva dal senato il 3 aprile e ora in attesa di pubblicazione in G.U. Le novità però avranno una gestazione lenta, visto che entreranno in vigore dopo 12 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta e varranno per i danni commessi successivamente. Entro tale termine, il ministero della giustizia dovrà approvare una serie di provvedimenti per: a) disciplinare le attività che dovranno essere compiute tramite il portale telematico; b) individuare i requisiti per l’iscrizione nell’elenco delle organizzazioni e associazioni legittimate all’azione di classe, nonché determinare il contributo dovuto ai fini dell’iscrizione e del mantenimento della stessa. Le principali novità. Innanzitutto la trasmigrazione della disciplina dal codice del consumo (dlgs 206/2005) al codice di procedura civile, con l’inserimento di un nuovo titolo nel Libro IV sui Procedimenti speciali. La nuova collocazione consegue al carattere “generalista” della nuova class action, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. L’istituto non è più infatti collegato alla materia del “consumo”, piuttosto a tutte le circostanze a seguito delle quali dall’attività di aziende private e enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità sia derivata una lesione a diritti individuali omogenei (i cosiddetti mass torts). Non vi è più dunque la limitazione soggettiva del dover essere “un consumatore”, e oggettiva, potendo l’azione di classe riguardare qualsiasi situazione soggettiva maturata a fronte di condotte lesive delle aziende. Il nuovo procedimento. Il nuovo titolo del Libro IV è intitolata ai Procedimenti collettivi. In particolare l’azione di classe si svolgerà in due step. Il primo, finalizzato alla ordinanza di ammissibilità della class action, viene introdotto con ricorso e segue esclusivamente il rito sommario ordinario nel tribunale delle imprese del distretto dove ha sede l’azienda resistente. Le cause di inammissibilità replicano le attuali. Ammessa l’azione di classe e pubblicata l’ordinanza nel portale del ministero della giustizia (a fine di pubblicità legale), entro 60 giorni sarà possibile presentare altre azioni di classe basate sugli stessi presupposti. Nuove modalità di adesione alla classe. Dopo l’ammissione della class action ha inizio la procedura “progressiva”, con le nuove modalità di adesione, che potrà avvenire immediatamente dopo la ordinanza di ammissibilità (tra i 60 e i 150 giorni); o anche dopo la sentenza (tra i 60 e 150 giorni). Nel procedimento, l’acquisizione delle prove penalizzerà con una sanzione amministrativa pecuniaria sia la parte che rifiuta senza giustificato motivo di esibire le prove, sia alla parte o al terzo che distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio; la sanzione è devoluta alla Cassa delle ammende. La sentenza che accoglie l’azione di classe, adottata dal tribunale delle imprese, ha carattere “dichiarativo” sull’accertamento della responsabilità, stabilisce le caratteristiche dei diritti individuali che possono far parte della classe, quale documentazione le parti sono tenute a produrre, sui diritti al risarcimento o alla restituzione, nomina il giudice delegato e il rappresentante comune degli aderenti (con stessi requisiti del curatore fallimentare). La stessa sentenza provvede sulle domande risarcitorie e restitutorie, ma solo se esse sono proposte da soggetti diversi da associazioni organizzazioni. Infatti per queste ultime, la nuova disciplina rimanda al giudice delegato. Sarà quest’ultimo ad accogliere le adesioni e a condannare al pagamento delle somme dovute ad ogni aderente, con un decreto che è titolo esecutivo. La procedura di adesione è informatizzata: la domanda di adesione va inviata mediante posta elettronica certificata (Pec) o servizio elettronico di recapito certificato qualificato (Serc) e non richiede l’assistenza del difensore; Accordi transattivi. È una ulteriore novità, per favorire conciliazioni tra le parti prima della sentenza. La prima proposta può essere formulata dal tribunale prima della discussione orale della causa. Dopo la sentenza che accoglie l’azione, il rappresentante comune degli aderenti può stipulare con l’impresa o con l’ente gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità un analogo schema di accordo di natura transattiva. La quota lite per l’avvocato che rappresenta gli aderenti. Viene disciplinato il compenso derivante dalla cd. quota lite, cioè una somma che, a seguito del decreto del giudice delegato, il resistente deve corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e al difensore del ricorrente. Si tratta di un compenso ulteriore, quindi, rispetto alla somma che il resistente dovrà pagare a ciascun aderente come risarcimento. Tale somma costituisce una percentuale dell’importo complessivo che il resistente dovrà pagare, calcolata in base al numero dei componenti la classe in misura inversamente proporzionale (la percentuale scende all’aumentare del numero dei componenti), sulla base di sette scaglioni. Tali percentuali possono essere modificate con decreto del ministro della giustizia. L’azione inibitoria. In base alla riforma, con l’azione inibitoria collettiva “chiunque abbia interesse” (nonché le organizzazioni e alle associazioni iscritte nell’elenco del ministero della giustizia) può chiedere al giudice di ordinare a imprese o enti gestori di servizi di pubblica utilità: la cessazione di un comportamento lesivo di una pluralità di individui ed enti commesso nello svolgimento delle rispettive attività; o il divieto di reiterare una condotta commissiva o omissiva. Tra detenuto e avvocato controllo della corrispondenza solo in casi eccezionali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2019 Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorso n. 11236/09. Il controllo sulla corrispondenza tra detenuto e avvocato, effettuato da un funzionario di polizia penitenziaria, autorizzato dal giudice dell’esecuzione, è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo se non ha portata eccezionale. Questo anche quando, secondo le autorità nazionali competenti, il legale ha consegnato un libro ritenuto “pericoloso” e non necessario alla difesa del cliente. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 9 aprile (ricorso 11236/09) con la quale Strasburgo ha accertato la violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione europea (equo processo). Questo perché non è stato garantito il diritto alla riservatezza nelle conversazioni cliente - avvocato. A rivolgersi alla Corte era stato un cittadino turco condannato all’ergastolo per aver provocato un attentato all’ordine costituzionale. Il suo legale gli aveva spedito un libro e un settimanale. Secondo la Turchia questi testi non avevano alcun rilievo per la difesa e, quindi, non vi era stata una violazione della Convenzione. Di diverso avviso la Corte europea che, ammessa la possibilità di imporre sugli avvocati taluni obblighi nell’ambito delle relazioni con i clienti, ha sottolineato il ruolo vitale dell’avvocato nell’amministrazione della giustizia e, quindi, l’obbligo delle autorità nazionali di assicurare che ogni limitazione abbia una portata eccezionale. Di conseguenza, le autorità penitenziarie non possono bloccare la consegna di un testo inviato dal legale al cliente sul solo presupposto che non è strettamente collegato alla difesa del detenuto. Di qui la condanna allo Stato anche al pagamento di 2mila euro per i danni non patrimoniali. Diffamazione: il diritto di critica deve essere supportato da un fatto “vero” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2019 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 18 febbraio 2019 n. 7340. In tema di diffamazione, ai fini del riconoscimento del diritto di critica occorre distinguere, come anche precisato dalla giurisprudenza della Cedu, tra i “fatti” su cui si esercita la critica e i “giudizi di valore” in cui si sostanza l’opinione critica: mentre i primi devono basarsi su di un nucleo veritiero e rigorosamente controllabile, i giudizi di valore non sono suscettibili di dimostrazione perché la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica. Così la sezione V penale della Cassazione con la sentenza 18 febbraio 2019 n. 7340. Piuttosto, i limiti immanente della critica sono costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento (interesse pubblico) e dalla correttezza dell’espressione, che non deve comunque trascendere in gratuiti attacchi personali, pur potendosi ammettere toni anche aspri e forti, purché pertinenti al tema in discussione. È costante orientamento giurisprudenziale quello secondo cui, in tema di diffamazione, condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di critica sono: a) la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni di critica, in quanto - fermo restando che la realtà può essere percepita in modo differente e che due narrazioni dello stesso fatto possono perciò stesso rivelare divergenze anche marcate - non può essere consentito attribuire a un soggetto specifici comportamenti dallo stesso non tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili; mentre, qualora il fatto risulti obiettivamente falso, la possibilità di applicare la scriminante, sotto il profilo putativo ai sensi dell’articolo 59 del codice penale, presuppone che il giornalista abbia assolto all’onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria e che l’errore circa la verità del fatto non costituisca espressione di negligenza, imperizia o, comunque, di colpa non scusabile, come nel caso in cui il fatto non sia stato sottoposto alle opportune verifiche e ai doverosi controlli; b) l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; c) la continenza, che deve ritenersi superata quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica: la verifica circa l’adeguatezza del linguaggio alle esigenze del diritto del giornalista alla cronaca e alla critica impone l’accertamento della verità del fatto riportato e la proporzionalità dei termini adoperati in rapporto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto, quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico; con la precisazione che, pur essendo consentita una polemica anche intensa su temi di rilievo sociale e politico, esula comunque dalla critica il gratuito attacco morale alla persona (sezione V, 26 giugno 2013, Maniaci). Di rilievo quindi l’affermazione in forza della quale la critica deve pur sempre esercitarsi su un fatto “vero”: anche nell’esercizio del diritto di critica, quindi, deve essere rispettato il requisito della verità, con riferimento non al contenuto valutativo della critica, ma al suo presupposto fattuale. Vale a dire che, una volta riferito un fatto (un avvenimento, una condotta, un’opinione, ecc.) nei suoi esatti termini (almeno in quelli che appaiano, all’esito di un diligente accertamento, al momento in cui la notizia viene diffusa), il giornalista (come qualsiasi cittadino) è poi libero di sottoporlo a valutazione e critica, ben potendo essere la critica aspra, corrosiva, distruttiva, radicale e impietosa, sempre, si intende, che ricorrano gli ulteriori requisiti della rilevanza sociale e della continenza espressiva. In altre parole, la rispondenza al vero del fatto criticato costituisce il presupposto sul quale l’attività di critica si innesta, per l’ovvio motivo in base al quale criticare un fatto non vero, non solo costituisce un inescusabile danno nei confronti del soggetto cui ingiustamente si attribuisce un comportamento non tenuto, ma integra anche gli estremi della “falsa comunicazione” nei confronti dei destinatari della notizia di critica-cronaca, che, dunque, vedono, di riflesso, frustrato il loro diritto di essere correttamente informati. Falso ideologico del medico in prescrizioni e ricettari del Ssn. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2019 Reati contro la fede pubblica - Falso ideologico - Medico sostituto del medico convenzionato - Uso di ricettari e timbri di quest’ultimo - Apposizione firma illeggibile - Innocuità del falso - Esclusione. Si ravvisa il reato di falso ideologico in atto pubblico di cui all’articolo 479 del c.p. nella condotta tenuta da due medici, in forza della quale il primo, medico in quiescenza, abbia sostituito il secondo nelle visite, apponendo falsamente la propria sigla (illeggibile) su prescrizioni del SSN redatte con l’uso di timbri e ricettari fornitigli dall’altro. È da escludere, in tal caso, l’innocuità del falso, essendo rilevante, nel giudizio sulla concreta offensività della condotta nei confronti del bene della pubblica fede, l’indicazione dell’identità fisica del medico responsabile delle prescrizioni, anche per le implicazioni rispetto a eventuali contestazioni sull’operato del sanitario. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 3 aprile 2019 n. 14681. Reati contro la fede pubblica - Falso ideologico - Medico libero professionista - Utilizzo ricettari collega convenzionato Asl. Il medico libero professionista che emette ricette falsamente riconducibili a un medico convenzionato Asl commette il delitto di falso ideologico in atto pubblico, essendo irrilevante ai fini della configurazione del reato l’eventuale assenza di un movente e l’innocuità del falso, in quanto tale comportamento può portare a contestazioni di ipotesi di danno erariale o colpa professionale. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 dicembre 2013 n. 48803. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - In atti pubblici - Medico libero professionista che sostituisce un medico convenzionato asl in visite non comunicate all’azienda, apponendo falsamente la propria sigla su ricette e prescrizioni redatte con ricettari e timbri del medico convenzionato - Integrazione del reato di falso ideologico in atto pubblico. Integra il reato di falso ideologico la condotta di due medici, uno dei quali, libero professionista, sostituisca l’altro, medico convenzionato con la ASL, in visite non comunicate all’Azienda, apponendo una sigla illeggibile su ricette e prescrizioni redatte su ricettari e con l’uso di timbri fornitigli dal medico convenzionato, in modo tale da ingenerare la falsa rappresentazione della riconducibilità a quest’ultimo delle visite e delle conseguenti prescrizioni. Né, in tal caso, è prospettabile l’innocuità del falso, considerata la funzione attestativa degli atti, la quale comprende anche i necessari presupposti di fatto della realtà documentata, in virtù della quale rileva - nel giudizio sulla concreta offensività della condotta nei confronti del bene della fede pubblica - l’indicazione dell’identità fisica del medico responsabile delle prescrizioni, avuto anche riguardo a eventuali contestazioni in ordine all’operato del sanitario. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 dicembre 2013 n. 48803. Falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento - Uso abusivo di sigilli e strumenti veri - Timbro recante nominativo e codice regionale di medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale - Utilizzazione da parte di altro medico. Non integra il reato di uso abusivo di sigilli o altri strumenti di pubblica autenticazione o certificazione la condotta del medico il quale utilizzi il timbro a inchiostro recante il nominativo e il codice regionale di altro medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale, su certificazioni mediche e prescrizioni, in quanto il suddetto timbro vale solo a individuare la provenienza amministrativa di queste ultime e non la persona fisica del medico che le redige, tanto che di esso può avvalersi anche il sostituto temporaneo previa aggiunta del proprio timbro personale, la cui mancanza, peraltro, costituisce una irregolarità non rilevante sotto il profilo penale. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 24 ottobre 2001 n. 38333. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - Falsità ideologica - Elemento soggettivo del reato. Ai fini della sussistenza del reato di falso ideologico in atto pubblico, a nulla rileva la circostanza che la immutatio veri sia stata commessa non solo senza l’animus nocendi o decipiendi, ma anche con la certezza di non produrre alcun danno, essendo sufficiente che la falsificazione sia avvenuta consapevolmente e volontariamente. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 settembre 1988 n. 9556. Caltanissetta: il detenuto è un buon padre. I giudici “no alla decadenza genitoriale” La Repubblica, 15 aprile 2019 L’uomo è in carcere per reati che nulla hanno a che fare con i figli. Il tribunale per i minorenni ha emesso un decreto che annulla la perdita della potestà. Il detenuto perde la responsabilità genitoriale solo se “violi o trascuri i doveri ad essa inerenti o abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio per i figli”. Nessuna decadenza automatica, dunque, neanche quando la condanna comporta la pena accessoria della sospensione dalla stessa responsabilità genitoriale, se il detenuto è un bravo padre o una brava madre. Lo ha stabilito il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, pronunciandosi sul caso di un padre detenuto per reati che nulla avevano a che fare con i figli, ma nonostante ciò gravato dalla pena accessoria della sospensione dal ruolo paterno. A prevalere, con il decreto del Tribunale di Caltanissetta (presidente Antonino Porracciolo, giudice relatore-estensore Alessandra Gatto) è stato dunque il diritto del minore alla bigenitorialità. Durante le audizioni dei bambini, secondo quanto riferito dalla pronuncia, era emersa l’esistenza di un forte legame con il padre, che si era occupato delle loro esigenze fin dalla nascita ed aveva partecipato, compatibilmente con il regime carcerario, alle loro vite. La circostanza era stata confermata dalla madre che, per non sciupare la relazione tra i figli e il padre, li accompagnava periodicamente a fargli visita e ne sollecitava i contatti telefonici. Per i giudici non sono esistiti, quindi, motivi validi per recidere il rapporto prole-genitore. Nel sostenerlo, il Tribunale ha voluto marcare come dalla reclusione non sia derivata automaticamente la decadenza dalla responsabilità genitoriale, anche se già sospesa per interdizione legale e che anzi “l’autorità giudiziaria è tenuta ad effettuare una verifica, nel caso concreto, in ordine alla sussistenza di condotte pregiudizievoli del genitore nei confronti dei figli” che possano giustificare una pronuncia di decadenza. La pronuncia del Tribunale per i minorenni di Caltanissetta rammenta inoltre che l’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue sancisce il diritto del minore a intrattenere regolarmente rapporti personali e diretti con entrambi i genitori; un diritto ugualmente sancito anche dalla Convenzione di New York. Così anche, il nostro Codice civile che all’articolo 315-bis riconosce il diritto dei figli a essere cresciuti, mantenuti, educati e assistiti moralmente dai genitori e all’articolo 330 consente al giudice di pronunciare la decadenza per chi violi, trascuri i suoi doveri o ne abusi. Nella vicenda esaminata dal Tribunale per i minorenni di Caltanissetta non solo il detenuto non era colpevole di reati che comportassero di per sé la perdita della responsabilità, ma era riuscito a coltivare un rapporto significativo con i figli e ad adempiere ai suoi doveri nonostante la restrizione. Un atteggiamento, auspicato dallo stesso ordinamento penitenziario teso a favorire la responsabilizzazione dei detenuti agevolandone gli incontri con i figli, che i giudici, considerato l’impegno paterno, hanno premiato con il non luogo a provvedere sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale. A trionfare è infine il principio di uguaglianza: il Tribunale di Caltanissetta ha rilevato infatti che “un eventuale divieto di intrattenere contatti con i propri figli posto nei confronti del genitore in stato di detenzione”, che abbia adempiuto ai propri doveri genitoriali, determinerebbe una “violazione del diritto di uguaglianza” non solo nei confronti del genitore detenuto, “ingiustificatamente limitato” nel suo “diritto di essere parte”, ma anche nei confronti dei figli minori, che “a causa dello stato di detenzione dei propri genitori assisterebbero ad una illegittima compressione dei propri diritti”. Messina: al carcere di Barcellona situazione critica, i sindacati chiedono interventi di Lina Bruno Quotidiano di Sicilia, 15 aprile 2019 La direzione, da noi interpellata sull’argomento, ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. Sono 230 i detenuti nella struttura, tra i quali quelli dell’Articolazione di salute mentale. Una situazione divenuta insostenibile. Il carcere locale non ha personale sufficiente e adeguato per gestire i detenuti, tra cui quelli presenti nel reparto numero 8 dell’Articolazione per la tutela della salute mentale, ove mancano professionalità adeguate per i percorsi riabilitativi. Le aggressioni continue agli agenti di Polizia penitenziaria, i tentativi di fuga e suicidio, le autolesioni, le tensioni che sfociano in atti violenti per la mancanza di un’adeguata sorveglianza, sono elementi denunciati da mesi dalle organizzazioni sindacali e da associazioni del territorio. Qualche settimana fa sembra sia stata anche effettuata un’ispezione disposta dal Provveditorato regionale e sollecitata da tempo dal Cosp. Dopo l’ulteriore aggressione di lunedì, però, il segretario nazionale della Federazione sindacale autonoma Domenico Mastrulli si è rivolto direttamente al ministero della Giustizia e al Dap affinché prendano atto del fallimento di chi gestisce la sicurezza e provveda a un avvicendamento dei vertici al comando. Mastrulli ha invitato anche il sottosegretario Jacopo Morrone nella struttura carceraria per incontrare il personale. Abbiamo chiesto a Romina Taiani, che da alcuni mesi è alla direzione della Casa circondariale di Barcellona, un commento alla situazione, cercando anche di approfondire le vicende appena descritte con ulteriori domande ma, dopo 19 giorni, ha così risposto: “In questo momento non ritengo opportuno trattare degli argomenti proposti quale oggetto dell’intervista”. Il carcere di Barcellona accoglie fino a 230 detenuti di cui oltre 60 nell’Articolazione di salute mentale e 9 donne. Il personale di Polizia penitenziaria sulla carta è di 166 unità, ma in sostanza ne mancano una cinquantina se si contano le aspettative e le assenze giustificate. C’è inoltre la Legge 104/92 di cui, secondo i rappresentanti della FpCgil, usufruisce il 50% del personale. I rappresentanti del Cosp già a dicembre avevano segnalato criticità nell’organizzazione del lavoro, legate in particolare alla mobilità interna e all’iniqua distribuzione dei turni di servizio. “Clima e modalità organizzative - ha riferito Lillo Italiano, delegato nazionale Cosp - sono cambiate da quando è subentrato il nuovo direttore. Il personale ha problemi con i superiori, ispettore e comandante, che prediligono i rapporti disciplinari e l’imposizione di decisioni che a volte ledono i diritti dei lavoratori. Vengono assegnati turni massacranti senza intervalli; agenti liberi dal servizio sono richiamati per coprire turni scoperti e se rifiutano, perché fuori sede, devono provarlo fino a subire ripercussioni con permessi e ferie negate”. Della difficile situazione della Casa circondariale ha parlato anche Antonio Solano dell’Ugl, che ha ricordato come la carenza di personale riguardi anche Gazzi, a Messina. Francesco Fucile e Francesco Spanò Bascio, segretario generale e coordinatore provinciale della Fp Cgil, hanno invece ribadito che nella città del Longano serve una nuova pianta organica. “Non c’è - hanno detto - un protocollo firmato tra Amministrazione penitenziaria, Asp e Assessorato regionale alla Salute per la gestione dell’Articolazione di salute; manca la presa in carico da parte del Dsm, essenziale per un percorso terapeutico e a causa dei posti limitati nelle Rems, gli internati continuano a essere assegnati in questa sezione, la cui gestione, viste le poche figure sanitarie presenti, è quasi totalmente affidata all’esiguo personale di Polizia penitenziaria”. Pippo Insana, presidente dell’associazione Casa di accoglienza e solidarietà di Barcellona, ha sottolineato come emerga poco dalle cronache la situazione in cui vivono gli oltre 60 detenuti psichiatrici. “Scontano la pena - ha evidenziato - e la cura alle loro patologie non può essere la sola assunzione di psicofarmaci. Dovrebbero avere un sostegno riabilitativo e di socializzazione. I detenuti restano abbandonati, in situazione di promiscuità da cui derivano aggressioni tra compagni e verso operatori. Ogni appello alla sanità regionale è rimasto inascoltato”. Palermo: dalle terre confiscate alla mafia al laboratorio artigianale del carcere minorile alqamah.it, 15 aprile 2019 Oggi lunedì 15 aprile alle 18.00, presso la Bottega dei Saperi e dei Sapori della Legalità di Palermo, il Consorzio Libera Terra Mediterraneo e “Cotti in Fragranza” presenteranno questo nuovo prodotto Libera Terra, nato dalla collaborazione tra le cooperative sociali che, sotto il segno dell’associazione Libera, gestiscono terreni confiscati alle mafie e il laboratorio artigianale di prodotti da forno dentro il carcere minorile Malaspina di Palermo. Il Consorzio Libera Terra Mediterraneo che riunisce le cooperative Libera Terra, e Cotti in Fragranza, il laboratorio di prodotti da forno dentro il carcere minorile di Palermo che promuove una stabile inclusione nella società e nel mondo del lavoro dei giovani del Malaspina, presenteranno i “Cecireddi Libera Terra”. I nuovi gustosissimi biscotti artigianali salati, nati dalla collaborazione tra le due realtà del terzo settore e dalla sapiente, e molto originale, unione di alcuni pregiati ingredienti frutto del lavoro delle cooperative Libera Terra. All’evento parteciperanno, oltre ai rappresentanti del Consorzio e di Cotti in Fragranza, anche lo chef Giovanni Catalano, che ha ideato la ricetta, e il direttore del carcere minorile Malaspina di Palermo Dottoressa Clara Pangaro. Napoli: la favola di Umberto, dal carcere al pianobar di Antonio Folle Il Mattino, 15 aprile 2019 “Ecco come ho detto no per sempre alla criminalità”. Mostra con orgoglio una penna stilografica, donatagli da quelle stesse persone che lo hanno aiutato a risollevarsi dopo circa 12 anni di carcere continuativi passati nel penitenziario di Secondigliano. La storia di Umberto Brusciano, 52 enne nato e cresciuto nel quartiere a nord della Napoli turistica, si può riassumere tutta in quella penna che l’uomo esibisce come un trofeo. La cultura come mezzo di redenzione per una esistenza sfortunata. A 14 anni la prima detenzione con l’accusa di aver rubato un’auto. Poi i primi furti e le prime rapine insieme a un gruppo di amici - una baby gang ante litteram - che, come ha raccontato lo stesso Umberto, ormai non vede più da anni perché o condannati a lunghe pene detentive o morti durante la faida che ha insanguinato Secondigliano nei primi anni 2000. “Il quartiere non offriva niente a un giovane come me, che avevo avuto una esperienza in carcere - spiega - e così sono precipitato in un brutto giro. Ho spacciato droga e sono stato arrestato molte volte. Poi sono scappato all’estero, tra il Belgio e la Spagna e per alcuni anni mi sono dato alla latitanza. Sono ritornato solo quando mio padre, che stava per morire, espresse il desiderio di rivedermi per l’ultima volta. Sono stato fermato alla frontiera tra Francia e Italia e sono stato immediatamente arrestato”. Il transito in diverse carceri italiane e poi l’arrivo al carcere di Secondigliano, dove Umberto ha scontato 12 anni di carcere continuativi. Pena che, sommata agli arresti degli anni precedenti, lo hanno portato a totalizzare quasi 20 anni di carcere in tutto. Una carcerazione, come spiega l’uomo, che non è stata vissuta “passivamente” ma che è servita a Umberto per ripartire da zero. Corsi di canto, recitazione e regia hanno aiutato Umberto a dare un’altra prospettiva alla sua vita. Una volta uscito dal carcere, infatti, Umberto ha preferito un lavoro umile, umilissimo, piuttosto che ritornare nel giro della criminalità organizzata. “Vendevo fazzolettini ai semafori - spiega - e racimolavo qualche spicciolo con il quale tirare avanti insieme alla mia famiglia. Una volta uscito dal carcere non ho trovato niente intorno a me, solo una bella ragazza che mi voleva sposare e che poi mi ha dato due splendide figlie. Poi ho lavorato come bancarellaro e come spazzino volontario nel quartiere. Ho fatto tutto - prosegue ancora - per non riprecipitare nel mio vecchio mondo. E devo dire grazie anche a mia moglie che mi è stata vicino e che mi ha sostenuto nei tanti momenti di sconforto”. Poi l’era della grande faida di Secondigliano, con i clan che si affrontavano armi in pugno per il predominio del territorio. Una guerra che per Umberto è stata una vera e propria occasione. I commercianti di Secondigliano - i veri angeli custodi, come li chiama lo stesso Umberto - gli chiesero di improvvisare qualche spettacolino canoro all’esterno delle loro attività per attirare la clientela messa in fuga dalla camorra. E da allora quella è l’attività principale di Umberto, di sua moglie e, qualche volta, delle sue stesse figlie. “Non ho mai chiesto un centesimo per questo lavoro - afferma - ma sono stati i commercianti a chiamarmi e a chiedermi di dare un po’ di allegria alle loro attività. Oggi tutti mi conoscono come il cantante del quartiere e, quando non posso, anche mia moglie e le mie figlie mi danno una mano. Mi sono lasciato alle spalle una brutta pagina della mia vita e ne ho cominciata una nuova insieme alle persone che amo e per le quali farei qualsiasi cosa”. Quando parla di Valentina e di Melania, le sue due figlie, a Umberto brillano gli occhi: “Hanno sofferto e soffrono tanto a causa mia - racconta - qualche volta sono state vittime di atti di bullismo da qualche giovane ignorante che le accusa di essere figlio di un uomo che fa il “buffone” nel quartiere per vivere. Ma io ho insegnato loro ad essere orgogliose del loro papà che accetta qualsiasi tipo di lavoro per portare a casa qualche soldo onestamente. Oggi tutti mi rispettano e mi vogliono bene - continua - anche perché io non disdegno nessun tipo di lavoro onesto e sono sempre pronto a rimboccarmi le maniche”. Un grandissimo aiuto, come ha raccontato Umberto, è arrivato dal presidente della VII Municipalità Maurizio Moschetti che di tanto in tanto gli affida qualche commissione per la Municipalità o gli chiede di presenziare come fotografo a qualche manifestazione. “Maurizio è una persona dal cuore generoso - le parole di Umberto - e ha sempre aiutato e sostenuto la mia famiglia. Pur sapendo che non sono un fotografo professionista mi affida qualche piccola commissione e, anche se il lavoro non è perfetto, chiude un occhio. Insieme ai commercianti di Secondigliano è la persona che più mi ha aiutato a venire fuori dal mio brutto passato e a lui deve andare la mia gratitudine eterna”. Poi i progetti per il futuro: “Io ho 52 anni - spiega ancora Umberto Brusciano - la gran parte della mia vita è passata. So che non riuscirò mai ad avere un lavoro stabile e che dovrò sempre vivere alla giornata. Ma voglio continuare a farlo onestamente e serenamente. La mia speranza - conclude - è di veder realizzati i sogni delle mie figlie e dei tanti figli di questo quartiere abbandonato dove c’è tanta gente poverissima che, però, quel poco che ha lo divide con chi, come me, dimostra di voler riscattare una vita di errori e di vivere onestamente”. Una realtà difficile quella di Secondigliano. Un quartiere dalle tante anime dove la componente “buona” - la stragrande maggioranza - ancora non riesce a scrollarsi di dosso l’ingombrante etichetta di Gomorra. “Anche il mondo dell’associazionismo può far poco - dichiara il presidente del Laboratorio di Riscossa Secondiglianese Vincenzo Strino - perché le stesse associazioni sono poco seguite e poco sostenute dalle istituzioni. Mancano gli spazi, mancano le attrezzature e mancano i fondi. Le storie di riscatto come quelle di Umberto - prosegue Strino - sono ancora poche, ma possono e devono rappresentare un segnale di speranza per l’intero quartiere”. Varese: 14mila euro per la Cappellania del carcere Miogni di Massimo Pavanello chiesadimilano.it, 15 aprile 2019 Uno stanziamento proveniente dall’8x1000, in attesa di reperire i fondi richiesti per l’intervento di consolidamento strutturale necessario per la cappella, chiusa da tre anni. Una parrocchia dove il 40% dei residenti frequenta la Messa è senz’altro una rarità. Degna di essere esposta in vetrina. L’occhio attento del Sovvenire l’ha scovata. E ha deciso di sostenerla. Si tratta della cappella del carcere di Varese, presso la quale circa la metà dei 90 detenuti si raduna con regolarità. O, meglio, potrebbe radunarsi - come un tempo - con regolarità. È chiusa, infatti, da tre anni. Inagibile a causa di alcune pesanti infiltrazioni e di una lunga crepa che ne minaccia la stabilità. Il restauro di consolidamento è in carico all’Amministrazione, che deve affrontare non solo questa emergenza. I fondi sono scarsi. E, a oggi, l’intervento non ha ancora un calendario certo. Sicuri sono invece i 14 mila euro provenienti dall’8×1000 della Chiesa cattolica, destinati - su indicazione del Vicario episcopale di Zona, monsignor Giuseppe Vegezzi - per l’attività della Cappellania del Miogni. Una somma utilizzabile pure per l’acquisto delle panche, delle suppellettili sacre e degli arredi di sacrestia, non appena tutto ciò sarà reso allocabile. Il cappellano del carcere, don Giuseppe Pellegatta, così racconta: “Da tre anni si celebra la Messa nella sala ricevimento parenti. Portiamo un tavolo posticcio come altare. Di volta in volta bisogna spostarlo. Quando ci sono i colloqui, ovviamente, lo spazio è occupato”. Le pertinenze comuni, in questo istituto di pena, sono poche. Le aule di scuola sono tre. E l’edificio sacro risulta il locale più capiente. Ora precluso. I detenuti hanno scritto persino in Vaticano, lamentando la situazione. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, si è incaricato di sollecitare i vertici penitenziari affinché si giunga a una pronta soluzione dell’emergenza. L’assistenza religiosa - in carcere, come altrove - non si ferma certo alla sola celebrazione della Messa. Ci sono iniziative di preghiera diverse, attività di catechesi, momenti di convivialità. “Il cappellano è cercato - conferma don Giuseppe -. Qui si recuperano tante cose. La fede, talvolta sotterrata nella vita precedente, riemerge. E si cercano un confronto e un conforto. Il riferimento all’Assoluto è occasione pure di solidarietà tra credi differenti. Nella circostanza della morte di un congiunto o di una persona cara, per esempio, i detenuti potrebbero radunarsi per una preghiera anche interconfessionale. Era divenuta tradizione, inoltre, la maratona spirituale “24 ore per il Signore”. Ma senza la cappella tutto diventa più difficoltoso”. Un aspetto, quello della solidarietà spirituale, che anche monsignor Mario Delpini ha percepito visitando lo scorso anno il Miogni in occasione della Pasqua (la foto si riferisce alla circostanza): “Questo è luogo di prova, difficoltà e dolore - aveva detto l’Arcivescovo di Milano - ma anche di amicizia”. Il Cappellano del carcere è un punto di riferimento per tutti, non solo per i detenuti. Anche per gli agenti di polizia penitenziaria, per i volontari e gli amministrativi. Così come lo è la cappella: sempre accogliente. A patto che sia aperta. Napoli: “note di speranza”, un concerto nel carcere di Poggioreale linkabile.it, 15 aprile 2019 La musica entra nel carcere di Poggioreale per suscitare emozioni, riflessioni, bellezza. “Note di speranza” come antidoto alla violenza. Ieri mattina nel cortile del carcere di Poggioreale il coro giovani del teatro San Carlo di Napoli, diretto dal maestro Carlo Morelli, si è esibito per i detenuti dei padiglioni Firenze e Livorno. “Cerchiamo di portare la musica nei luoghi di disagio della nostra città. Napoli è di una straordinaria bellezza però ha delle zone di enorme difficoltà: Barra, Ponticelli, San Giovanni, Scampia, i Quartieri Spagnoli, la Sanità, non tutti nasciamo fortunati. Il problema del lavoro in questa città crea delle grandi sacche di povertà”, commenta il Maestro Morelli. Un concerto emozionante organizzato dal Garante per i Diritti dei Detenuti in Campania Samuele Ciambriello ed il “Lions Club” di Pomigliano che ha insignito Morelli del premio “Melvin Jone Fellow”, per l’alto valore artistico ed il suo impegno. “Speriamo di aver portato una piccola gioia in un luogo di dolore”, dichiara il presidente del Lions, Luigi Delle Cave. La direzione del San Carlo ed il Maestro Morelli da anni collaborano infatti con il Garante per portare all’interno degli istituti penitenziari di tutta la regione Campania la bellezza del canto. Ultimamente anche nel carcere di Aversa e in quello minorile di Airola. Presente anche la direttrice del carcere di Poggioreale Maria Luisa Palma: “Queste sono occasioni bellissime, importanti, e di riflessione”. Il concerto si è chiuso sulle note della canzone di Pino Daniele, “Napul’è”, tra la commozione e gli applausi dei detenuti. “Sono sicuro che quest’iniziativa regalerà a tutti i presenti un momento di riflessione oltre che di intrattenimento culturale. Promuovo iniziative per creare un ponte con l’esterno, per andare oltre le mura dell’indifferenza, per passare dalla reclusione alla inclusione”, conclude il garante Ciambriello. Ad allietare la mattinata la pasticceria Zio Savino Qualità di sant’Antonio Abate che ha deliziato i presenti con tante colombe tradizionali e al cioccolato. Noi, il Paese che odia lo straniero di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 15 aprile 2019 Vi sembrerà strano che la maggioranza delle popolazioni dei Paesi a più alta attrazione di migranti sostenga che gli immigrati sono una forza per il loro Paese in termini di lavoro e di talenti. Vi sembrerà strano, perché in Italia non è così. Accade, secondo una interessante ricerca del Pew Research Center, in vari Paesi avanzati: Usa, Australia, Francia, Germania, Regno Unito. Ma non nel nostro. C’è dell’altro. L’Italia è uno dei Paesi che più considera l’arrivo dei migranti un rischio per il terrorismo (60%). Eppure non abbiamo avuto attentati terroristici sul nostro territorio. La Francia ne ha avuti non pochi, ma questa percezione di rischio è più bassa (39%). Ma allora che cosa può aver contribuito a questa così diversa percezione? E proprio nel Paese che trae origini dall’Antica Roma che faceva suo punto di forza l’integrazione delle popolazioni conquistate, seppur così diverse da quella romana! Che cosa è successo in questo Paese che fino a pochi anni fa si distingueva per la sua apertura ai migranti e per la diffusione della cultura civile e cristiana dell’accoglienza? Ci sono vari elementi che vanno considerati insieme. Primo. L’Italia è un Paese di più recente immigrazione rispetto a Francia, Regno Unito, Usa, Canada, ed ha anche meno immigrati in proporzione. L’inserimento dei migranti è avvenuto nei settori meno qualificati e in molti lavori che gli italiani normalmente non vogliono fare. Si è creato un mercato del lavoro duale e i migranti si sono inseriti in lavori svalorizzati, con livelli di sfruttamento elevati, quasi invisibili e poco considerati dagli italiani. Ciò ha contribuito a non far percepire il valore del loro contributo al nostro Paese. Secondo. Non è secondario valutare quando questo sentimento di chiusura è cresciuto. È aumentato proprio negli anni di una crisi che è stata più intensa e più lunga di quella dei Paesi citati. Anche dopo l’uscita dalla recessione il Pil è cresciuto in media di 0.3% a trimestre e non ha ancora raggiunto il livello pre-crisi. A ciò va aggiunto il fatto che la crisi sociale permane, e dopo aver portato il raddoppio dei livelli di povertà nel 2012 non è mai più diminuita, anzi. Una crisi che perdura provoca forte aumento di incertezze e paura del futuro. Terzo. L’aumento degli arrivi di immigrati e richiedenti asilo si è inserito in questo contesto. Ampi segmenti di popolazione che avevano visto la loro situazione peggiorare si sono spaventati di fronte all’arrivo di altre persone bisognose di aiuto e di lavoro, non vedendo contemporaneamente miglioramenti nella loro situazione. E così il sentimento di incertezza e di paura prodotto dalla forte crisi si è ulteriormente accentuato. Quarto. Le forze politiche che governavano non si sono rese conto della grande sofferenza prodotta dalla crisi, non hanno agito tempestivamente per contrastare la povertà e il peggioramento della situazione di strati ampi di popolazione. Ciò ha accentuato la sfiducia e ha aperto la strada all’affermazione di forze che hanno alimentato la paura dell’immigrazione, mostrandola come causa della sofferenza sociale e della mancanza di sicurezza. In tali condizioni non c’è da aspettarsi una inversione di tendenza nell’opinione pubblica se non si aggrediscono le cause del malcontento e della sfiducia. Se non si mette in campo una straordinaria mobilitazione della società civile e di risorse per ricostruire una struttura sociale inclusiva e sostenibile, la chiusura verso i diversi si accentuerà e sarà sempre più difficile recuperare un clima sociale di serena convivenza. Un monito per tutti. Un monito per l’Europa che verrà. Migranti. Scatta la nuova stretta sulle Ong di Marco Conti Il Messaggero, 15 aprile 2019 Un’altra direttiva, la terza in un mese, e un altro giro di vite per le Ong. D’altra parte ieri è ripartita la nave Mare Ionio, di Mediterranea saving humans, per una nuova missione di soccorso e la situazione in Libia non migliora mentre aumenta il numero degli sfollati. Nella nuova direttiva promessa per oggi dal ministro Salvini, si ribadisce che i salvataggi non coordinati dall’Italia non possono concludersi sulle nostre coste e che le Ong non devono entrare nelle acque italiane senza autorizzazione. Un tentativo, da parte del titolare del Viminale, di rinforzare i paletti di un possibile esodo di profughi da un paese in guerra. “Cuori aperti per chi scappa dalla guerra ma porti chiusi per Ong e trafficanti”, aveva però più volte sostenuto il vicepremier nelle scorse settimane. L’esistenza di un conflitto, che spinge i migranti a scappare, è il problema con il quale rischia di confrontarsi a breve il titolare del Viminale e tutto il governo. Per evitare l’ondata di profughi occorre quindi fermare il conflitto libico. Il presidente del Consiglio Conte e il ministro degli Esteri Moavero ci stanno provando e oggi incontreranno il vicepremier e ministro degli Esteri qatarino Mohammed Al Thani e il vicepresidente del Consiglio presidenziale e ministro dell’Interno del governo di Tripoli, Ahmed Maitig. Salvini incontrerà quest’ultimo nel tentativo di capire se il governo Serraj è in grado di controllare i centri libici dove sono ospitati i migranti e, soprattutto, riprendere del tutto il controllo di Tripoli in modo da far rientrare gli sfollati. Per Salvini e il governo i problemi che potrebbero scaturire dal caos libico, dalla perdurante tensione con la Francia e dal sostanziale disinteressamento americano, potrebbero non essere pochi. Senza contare che alle numerose fazioni libiche la guerra costa e il traffico di migranti rende, ed è quindi possibile che con l’approssimarsi del bel tempo possano riprendere gli sbarchi. Mentre il premier Conte e il vice Di Maio ieri l’altro si interrogavano su cosa fare di fronte ad una pesante crisi umanitaria, Salvini non sembra avere dubbi e tiene la linea. Ma se l’esodo cambia segno - per via del conflitto in atto - e dovesse andare sott’acqua un barcone con il suo carico, potrebbe non essere facile offrire una spiegazione plausibile alla comunità internazionale e, soprattutto, a qualche magistrato. Il gabinetto di crisi, istituito da Conte a palazzo Chigi, punta a contenere il leader della Lega nel tentativo di ricostruire quelle relazioni internazionali compromesse negli ultimi mesi e che oggi l’Italia paga. Tra amicizie pericolose (Lega-Mosca e M5S-Maduro), incontri sbagliati (M5S-gilet gialli) e accordi discutibili (Italia-Cina, via della Seta), il lavoro della Farnesina somiglia alle fatiche di Sisifo. Mentre palazzo Chigi è al lavoro, ed ha di fatto avocato la questione libica nel tentativo di sfilarla dalla contesa Di Maio-Salvini, quest’ultimo da buon sovranista, non sembra interessato ad allacciare rapporti internazionali. Anche perché sul conflitto libico gli interlocutori principali sono i francesi e il leader della Lega non ha voglia di cercare accordi con il governo di Macron proprio mentre l’alleata Marine Le Pen esalta “la politica italiana dei porti chiusi”, che però chiusi non sono mai stati. Malgrado i tentativi di Conte e il silenzio di Di Maio, che anche ieri ha evitato di replicare alle punzecchiature dell’alleato, anche sui migranti che scappano dalla guerra lo scontro nella maggioranza è solo rinviato alla prima occasione. Nel frattempo Salvini ha fiutato l’aria anche su un altro avversario (il mondo cattolico tradizionalmente aperto all’accoglienza), quando dice che “nessuno può avere l’arroganza di dire o Cristo o la Lega”. Migranti. La sfida di Di Maio sui porti: “chiuderli misura occasionale” di Emanuele Buzzi Corriere della Sera, 15 aprile 2019 Il leader del M5S: serve senso di responsabilità. Sarebbe utile se Salvini convincesse Orbán ad accettare le quote di migranti. Luigi Di Maio è in viaggio verso gli Emirati Arabi per lanciare il suo piano per l’export, ma l’attenzione del vicepremier è sulla Libia. La situazione è drammatica. Un dossier degli 007, come rivelato dal Corriere, parla di seimila profughi pronti a partire. “C’è una crisi in corso, è vero. Il governo la sta monitorando giorno dopo giorno. L’obiettivo è garantire la sicurezza del nostro Paese e dell’area, delle aziende italiane e dei nostri militari che svolgono un lavoro straordinario a sostegno della popolazione locale. Bisogna avere testa in questi momenti e lavorare con responsabilità. Quel che sta accadendo non è un gioco, non è Risiko in cui uno si diverte a fare il duro con l’altro. Le parole hanno un peso”. Si riferisce alle dichiarazioni di Salvini contro la Francia? “Ma no, dico solo che se non si ponderano i toni il rischio è incrementare le tensioni. E di fronte a un inasprimento sul terreno la possibilità che possano riprendere gli sbarchi verso le nostre coste c’è, non è un mistero. Quindi i primi ad essere colpiti saremmo noi, come Italia. Ripeto: ci vuole responsabilità, non è uno scherzo quello che sta succedendo. Dobbiamo fare squadra e giocare da squadra. La Libia non può essere trattata come un tema da campagna elettorale, la Libia è un interesse strategico del nostro Paese”. Teme che la Francia sulla Libia voglia adottare una linea autonoma? “La Francia è un Paese amico con cui ci parliamo schiettamente e da un Paese amico mi aspetto correttezza e coerenza, fermo restando che l’obiettivo di tutti a mio avviso deve essere quello di avviare un processo di riconciliazione nazionale che sia innanzitutto inclusivo e intra-libico. No ingerenze, ma sostegno alla pace. Non saranno ripetuti gli errori del passato. La soluzione in Libia non è l’uso della forza. Non è un altro intervento militare”. Ma avete intenzione di chiudere i porti a chi scappa dalla guerra? “Vede, chiudere un porto è una misura occasionale, risultata efficace in alcuni casi quando abbiamo dovuto scuotere l’Ue, ma è pur sempre occasionale. Funziona ora, ma di fronte a un intensificarsi della crisi non basterebbe, quindi bisogna prepararsi in modo più strutturato, a livello europeo, nel rispetto del diritto internazionale. Occorre pianificare e prevenire, perché la sola reazione ha i suoi limiti”. Cosa dirà a Salvini? Ne avete già parlato? “Certamente, ne stiamo parlando insieme al presidente Conte e ai ministri competenti. Sarebbe utile, indipendentemente dagli sviluppi in Libia, se convincessero Orbán e i suoi alleati in Europa ad accettare le quote di migranti che arrivano in Italia, visto che il sud Italia è frontiera europea. Il problema è proprio questo. Sento tanto parlare di sovranisti, ma è troppo facile fare i sovranisti con le frontiere italiane. Così non va bene, qui ci vedo un po’ di incoerenza. Non ci si può lamentare dei migranti se poi si stringono accordi con le stesse forze politiche che ci voltano le spalle”. A proposito del leader della Lega: vi pungete su tutto ma sembrate non volervi lasciare... “Quando lavoriamo sul contratto di governo lavoriamo bene. Io sono un uomo di parola e l’ho dimostrato. Poi non nego che ci sono delle differenze enormi tra il M5S e la Lega, ad esempio anche sul 25 aprile. Per me la Liberazione è un giorno da ricordare, così come gli anni subito dopo. Fa parte della storia del nostro Paese, non possiamo fregarcene della nostra storia. Col menefreghismo non andiamo da nessuna parte”. Ma non ritiene un po’ stucchevole questo continuo battibeccare con la Lega? “È un naturale confronto, tra due forze politiche diverse, l’importante è portare a casa o risultati. Io sono una persona pacifica, non mi piace discutere, preferisco lavorare con serenità”. Non è che tra i due litiganti il terzo gode...ossia il Pd di Zingaretti? “Guardi, per ora l’unica proposta che ho visto avanzare da questo nuovo Pd è l’aumento degli stipendi dei parlamentari, faccia lei, mentre sul salario minimo fanno orecchie da mercante. E poi c’è un tema, che per me è centrale: la questione morale. Noi abbiamo avuto un singolo a Roma ed è stato cacciato in 30 secondi, al Pd hanno dimezzato il partito in Umbria e sono ancora tutti lì. La questione morale è una cosa seria, non è che la risolvi incorniciando una foto di Berlinguer nella sezione di partito”. In Umbria Salvini vuole elezioni anticipate. E lei? “Gli umbri meritano un’amministrazione diversa e più limpida, ma questo gridare al voto dopo cinque minuti mi sembra un po’ strumentale. Quando ho appreso degli arresti ho pensato che è gravissimo che ci sia qualcuno che specula sulla salute dei cittadini. Ho pensato che bisogna fare subito una legge per togliere la sanità dalle mani dei partiti. Più che le urne mi preoccupano le persone che per andare a un pronto soccorso devono farsi 50 km di macchina”. La sanità rimane un vulnus per gli scandali. Sarà oggetto di trattativa sull’autonomia? “La sanità è un tema centrale sul quale non accettiamo compromessi. Non lo infiliamo dentro una trattativa. Ovviamente, sull’autonomia, anche in vista degli scandali emersi, bisogna andarci con cautela. È nel contratto, si deve fare, ma con equilibrio. Se qualcuno pensa di spaccare il Paese in due noi non ci stiamo. Se qualcuno pensa di creare dei malati o degli alunni di serie A e di serie B non se ne parla. Ad ogni modo sul tema non ho ancora capito se ne devo parlare con Salvini o con Zaia”. Avete dei progetti in mente per il sistema sanitario? “Il ministro Grillo sta facendo bene e con coraggio, penso al grande lavoro che sta portando avanti per la riduzione delle liste d’attesa, che in molte Regioni sono una cosa ignobile. E poi stiamo lavorando a diverse misure anche sul piano economico. Un obiettivo che mi sono fissato in questa legislatura è quello di abolire il superticket sanitario. E lo porteremo a casa, le coperture si trovano, parliamo di circa mezzo miliardo o poco più”. Intanto c’è chi evoca la crisi di governo. Meloni ha detto: “Dopo le Europee non credo che questo governo avrà più margini di vita”. “Ci sperano in molti nella caduta di questo governo, ma per quanto mi riguarda va avanti per altri 4 anni. Il voto delle Europee non condizionerà gli equilibri”. Lei ha scelto 5 capolista per le Europee ma questo ha creato molti mal di pancia tra gli eletti e nella base. “Non ha creato nessun malumore, non è vero. È stato un segnale che abbiano voluto dare come M5S. Donne di alto profilo della società civile in corsa per cambiare l’Europa. Nelle scorse settimane c’è stato chi le voleva rinchiudere in cucina, noi le candidiamo”. La “democrazia dei generali” che agita anche il Sudan di Michele Farina Corriere della Sera, 15 aprile 2019 Una nuova puntata della saga dei militari “registi”, dopo i casi di Venezuela, Algeria, Zimbabwe ed Egitto. Con finali diversi. Che cos’hanno in comune Sudan e Venezuela, Algeria e Zimbabwe? La saga dei militari “registi”. L’ultima replica è a Khartoum, dove il presidente Bashir è fuori scena dopo mesi di proteste innescate dal carovita e dalla mancanza di libertà. I generali che per anni sono stati strumenti e beneficiari del regime hanno pensato di risolvere la crisi rimuovendo il vecchio leader e annunciando un periodo di transizione di due anni in vista (lontana) di un governo di civili. I manifestanti, animati dalle associazioni dei professionisti (medici, insegnanti ecc.), non l’hanno bevuta. Hanno tenuto le tende davanti al comando delle forze armate, e nel giro di due giorni hanno forzato l’esercito a cambiare cavallo: via il discusso Ibn Auf, sodale di Bashir e come lui responsabile degli eccidi in Darfur, rimpiazzato dal più “presentabile” generale Burhan. Ma l’opposizione chiede la transizione adesso, e rende nota la lista dei “negoziatori” al tavolo delle trattative. Un segnale di sicurezza, in un Paese dove uscire allo scoperto è sempre stato sinonimo di incarcerazione immediata. Vedremo come evolverà questo braccio di ferro (per ora) dolce. La primavera sudanese ha qualche somiglianza con quella algerina: anche ad Algeri “le Pouvoir” (il potere) che ruota intorno alle forze armate ha messo in soffitta il vecchio Bouteflika. Ma i manifestanti chiedono riforme profonde, non la rimozione di un “presidente invisibile”. C’è da sperare che Algeri e Khartoum non seguano la restaurazione compiuta in Egitto, dove il generale Al Sisi ha ricostruito intorno a sé un sistema illiberale e poliziesco. O la via dello Zimbabwe, con i militari che hanno “mollato” Mugabe per sostituirlo con l’ex braccio destro Mnangagwa. In Venezuela sono sempre i militari a mantenere (per ora) al potere Maduro. Dietro le quinte a Caracas, in prima fila a Khartoum: generali che tirano i fili. E raramente mettono in scena la democrazia. Messico. Le “Guerrieri cercatrici” di fosse comuni dei narcos di Guido Olimpio Corriere della Sera, 15 aprile 2019 Il fenomeno dei gruppi civili a caccia dei “cimiteri” clandestine in cui la criminalità, dilagante nel paese centramericano, sotterra le proprie vittime. Le autorità messicane promettono, ma fanno poco. Quasi nulla. E allora ci pensano associazioni e familiari, un compito angosciante, doloroso, terribile: la ricerca delle fosse comuni dove bande e narcos (ma non solo) gettano le loro vittime. L’ultima scoperta a Cajeme, stato di Sonora, dove sotto uno strato di terriccio hanno individuato i resti di almeno 25 persone. Sono state le “Guerrieri cercatrici” - uno dei gruppi civili che si sono assunti questa missione e fondato da Maria Teresa Valadez - a localizzare le tombe clandestine in una vasta area dove in precedenza erano stati raccolti vestiti, oggetti personali ed altre cose attribuite a scomparsi. Indizi importanti che hanno spinto a condurre ulteriori verifiche con l’aiuto di medici legali e periti. Un lavoro non facile, spesso condotto con pochi mezzi e non di rado con sistemi piuttosto rudimentali. I “cercatori” usano delle sottili sonde di metallo che infilano nella terra, poi scavano portando alla luce le prove di massacri. E il settore di Cajeme è purtroppo noto per la presenza di “cimiteri” del crimine. Statistiche imperfette raccontano che dal dicembre 2006 sono scomparsi in Messico oltre 35 mila individui. Cittadini sequestrati, fatti sparire da gang, da cartelli e agenti corrotti. Nel periodo 2006-2016 sono state localizzate più di 2000 fosse comune, un dato largamente superato. Anche perché non tutte i governatori forniscono informazioni dettagliate sui desaparecidos e gli archivi non sono mai aggiornati. In qualche caso sono inesistenti. Alcune delle “buche”, sono create in regioni isolate, ma anche nei pressi di centri abitati. Il flusso di pick up e mezzi sospetti verso un determinato campo o sulla riva di un fiume può rappresentare una traccia. Così come la soffiata di un membro dei cartelli incaricato di far sparire i corpi degli uccisi. Quando hanno tempo, le gang provano a distruggere le salme con il fuoco, con l’acido e altri metodi barbari perfezionati da “specialisti”, il cui unico compito è annientare, cancellare, eliminare. Infatti le fosse contengono solo frammenti di ossa e nulla di più. Iran. Si tolse il velo in piazza: la ragazza-simbolo condannata a un anno di carcere di Giuseppe Gaetano Corriere della Sera, 15 aprile 2019 L’attivista Vida Movahedi giudicata colpevole di “fomentare corruzione e dissolutezza”: il suo gesto scatenò l’effetto emulazione in tutto il paese islamico. Si tolse il velo islamico in piazza Enghelab, nella capitale Teheran, contro l’obbligo di indossarlo. E per questo fu arrestata, nell’ottobre scorso, innescando una serie di proteste, anche internazionali, contro l’imposizione del hijab. Da allora di Vida Movahedi non s’era saputo più nulla: la “ragazza di piazza della Rivoluzione”, com’era stata ribattezzata dai media, era sparita nel nulla. Il timore era che l’effetto emulazione scatenato nella popolazione femminile e la risonanza mediatica dell’episodio avessero spinto le autorità della repubblica islamica a usare il pugno duro. Invece era in prigione, in attesa della sentenza. Già in passato la 30enne, madre di una bimba di due anni, aveva manifestato pubblicamente contro le leggi restrittive per le donne, facendo da esempio per centinaia di connazionali. Lo scatto di lei, nel dicembre 2017, che - salita su una centralina dell’elettricità - sbandierava il velo bianco appena tolto, fece letteralmente il giro del mondo; e per quel gesto venne multata e condannata a cinque mesi di carcere. Dacia Maraini scrisse sul Corriere che l’immagine di quel candido foulard appeso in cima a un bastone era “come una spada, una bandiera”. Ora la notizia del verdetto di colpevolezza per la seconda dimostrazione, emesso il 2 marzo scorso dai giudici con l’accusa di “fomentare corruzione e dissolutezza”, e della condanna a un anno di carcere, di cui si è saputo solo in questi giorni grazie al suo avvocato Payam Derafshan. La ragazza diventata emblema - Dunque Vida si prepara a restare dietro le sbarre per i 7 mesi che ancora le restano in base all’ultima disposizione del tribunale, nonostante abbia diritto all’indulto e il giudice abbia dichiarato di essere favorevole alla libertà condizionale, ha spiegato il suo legale.”Il giudice è stato molto sensibile sul fatto che Mohavedi ha una figlia di due anni e che non ha avuto motivi politici per le sue azioni”, ha aggiunto. La burocrazia, denuncia il suo legale, ha impedito però finora la presentazione della richiesta di scarcerazione: il fatto che le autorità carcerarie non aggiornino il suo status legale le rende impossibile usufruirne. “Abbiamo tentato molte volte di superare questo dilemma burocratico, ma oltre un mese dopo non siamo arrivati a nulla, ecco perché abbiamo deciso ancora una volta di rivolgerci ai media”. Vida è la più nota delle molte piccole eroine che stanno crescendo nel paese degli ayatollah, come la prima pugile Sadaf Khadem e la tifosa di calcio Zahra Khoshnavaz, in una nazione che resta capace tuttavia di verdetti quanto meno singolari ispirati a divieti religiosi, e spietate pene corporali come quella emessa solo il mese scorso contro l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh. I tempi faticano a tornare ai costumi antecedenti la rivoluzione ma secondo un recente sondaggio governativo oltre metà della popolazione, inclusa quella maschile, è contraria all’obbligo del velo in pubblico. Una deroga fu concessa, ad esempio, in occasione della Fashion week del 2015. Ma la battaglia è solo all’inizio.