La vergogna delle carceri italiane. Il Papa: i detenuti non sono scarti di Gianni Spartà Gazzetta di Mantova, 14 aprile 2019 Il Garante dei detenuti italiani ha messo le mani avanti in vista dell’estate quando i penitenziari bollono: dietro le sbarre abbiamo sessantamila ospiti e c’è posto per quarantasette mila. Significa che la differenza (tredicimila) non vive, vegeta, non sta in un luogo di recupero, ma di agonia. E infatti i suicidi da prigione nel 2018 sono raddoppiati: sessantaquattro. Ma nessuno ha fatto una piega. Si consoli il Guardasigilli Bonafede: chi era al suo posto in governi progressisti fece lo stesso quando Pannella con i suoi scioperi delle fame e della sete teneva su la notizia nelle pagine dei giornali. Morto lui, silenzio totale e non c’è più nemmeno Giovanni Paolo II che rivolse un’inascoltata richiesta di clemenza a deputati e senatori in seduta comune nella sua storica visita al Parlamento. C’è però Papa Francesco che ogni giorno invita a superare la feroce cultura dello scarto. Già, lo scarto nel quale non è difficile individuare anche persone che se stanno in galera hanno sbagliato, ma non è detto che lì dentro debbano marcire. Persino Salvini ha chiesto scusa avendo usato questa espressione in uno dei suoi monologhi giustizialisti. L’Italia è recidiva: più volte l’Unione Europea l’ha condannata per il trattamento riservato ai carcerati. Stipare cinque o sei detenuti dove ce ne possono stare tre significa imitare gli scafisti del Nord Africa. Dovevamo costruire nuove carceri e non è stato fatto. Dovevamo inventarci strutture leggere per far scontare pene minori: è fuori dal mondo che il piccolo ladro sia in cella con il serial killer. Niente. Dovevamo, infine, cancellare lo schifo dei processi eterni. Non s’è mossa una foglia. Il carcere di uno Stato di diritto dovrebbe avere porte girevoli: tanti ne entrano, altrettanto ne escono. Invece il senso di marcia è unico. Ciò si spiega con il clamoroso fallimento dei riti alternativi, processo abbreviato, patteggiamento, eccetera. Non se li fila nessuno per una serie di ragioni: scarsa conoscenza di quanto la legge prevede proprio per tagliare la giacenza, mancanza di fiducia nel funzionamento dei tribunali dove la linea più breve tra due punti è un arabesco, basso profilo sociale ed economico della maggioranza degli imputati, privi di mezzi per farsi difendere da professionisti preparati e corretti. In questo ingorgo il sovraffollamento diventa pena aggiuntiva. Soprattutto quando si legge che muffe, infiltrazioni, vecchiume rendono insopportabile la permanenza in camere che continuano a essere celle. Il disastro carcerario, mai affrontato, rotea come un boomerang sulla scena del Paese, piegato e distratto dalla crisi di quanti stanno al di qua del muro. E che non sempre sono migliori di quelli al di là. Risolviamo tutto con una bella amnistia o un proficuo indulto? No. Paradossalmente funziona lo scolmatore delle prescrizioni. E comunque nel giro di un anno saremmo punto e a capo. Piuttosto lo Stato non si volti dall’altra parte se un garante gli fa presente che al di là che muro la misura è colma Premio Carlo Castelli per la solidarietà. La speranza dietro le sbarre Avvenire, 14 aprile 2019 È stato presentato in una conferenza all’Università Europea di Roma il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, concorso letterario riservato ai reclusi delle carceri italiane, organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. L’incontro, sul tema Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova, ha messo in evidenza il valore dell’accompagnamento e dell’accoglienza delle persone che hanno vissuto l’esperienza della detenzione. Attraverso le testimonianze del presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, Antonio Gianfico, e del delegato nazionale carceri Claudio Messina, è stato presentato l’operato dell’associazione, diffusa in tutto il mondo, che ha scopo principale quello di aiutare le persone più sfortunate: i bisognosi, gli ammalati, gli anziani soli, chiunque si trovi in difficoltà. E tra questi ci sono i detenuti. “I volontari della Società di San Vincenzo De Paoli - ha sottolineato il presidente Gianfico - non si preoccupano soltanto di visitare i detenuti ed offrire loro un aiuto per ritrovare un giusto ruolo nella società, perché si fanno anche promotori di un impegno nella ricerca della riconciliazione tra vittime e colpevoli. Dove alla violenza si risponde con il perdono, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere riappacificato”. E questo incontro tra perdono ricercato, perdono offerto e perdono ricevuto è la miglior garanzia che chi ha raggiunto la consapevolezza del proprio errore, che non vi ricadrà in futuro. “Perché la vera libertà - ha osservato Messina - è quella che si ottiene dentro di sé, indipendentemente dalle sbarre di una cella”. Si può essere “liberi dentro” e vivere responsabilmente il carcere, come si può continuare a vivere come “prigionieri in libertà”, incapaci di reinserirsi nella società, se non si è portato a termine un processo di riconciliazione con se stessi e con gli altri. “È per questo - prosegue il volontario - che è indispensabile coinvolgere i detenuti in attività formative accompagnate e supportate da una rete di volontari ed esperti. Dove questo viene applicato si può assistere ad una sensibile riduzione del tasso di recidiva nei reati”. Un approccio positivo, quindi, dove non è solo importante la detenzione, ma l’inclusione e il reinserimento. E il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, nella sua formula che prevede un doppio riconoscimento in denaro per le opere vincitrici, si è rivelato un valido strumento per trasformare il detenuto stesso in un testimone di legalità. È lo stesso autore infatti, a dover decidere a quale associazione od opera di beneficenza destinare l’altra parte del premio. Chi ha sbagliato ha così la possibilità, facendo del bene, di riscattarsi almeno parzialmente. Nel suo intervento Carlo Climati, direttore del Laboratorio “Non sei un nemico!” ha ricordato: “Ogni essere umano ha un valore. Incontrarlo e ascoltarlo significa aprire il proprio cuore a una comunicazione autentica, alimentata da un sereno dialogo. Ma per fare questo bisogna, prima di tutto, vincere la non-cultura del pregiudizio. È quella sensazione che ci spinge a non comunicare con gli altri perché, dentro di noi, li abbiamo già giudicati, catalogati, scartati, messi da parte. Il pregiudizio è una cosa terribile perché, come dice la parola stessa, è un giudizio dato prima. Prima di conoscersi realmente, di abbracciarsi e guardarsi negli occhi. Questo, purtroppo, può accadere anche quando incontriamo le persone che hanno vissuto l’esperienza del carcere e che cercano di cominciare una nuova vita. Vincere i pregiudizi significa ritrovare la nostra più autentica natura di esseri umani, pronti all’accoglienza e al dialogo con tutti”. Durante l’incontro è stata presentata anche la coinvolgente testimonianza di Roberto Giannoni che, dopo aver conosciuto il carcere da innocente, vittima di un errore giudiziario, ha scoperto la bellezza del volontariato ed ora presta servizio nelle carceri con la Società di San Vincenzo De Paoli, dimostrando così che anche dal male può nascere il bene. I volontari della Società San Vincenzo de’ Paoli. A fianco ai carcerati di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 14 aprile 2019 Lo faceva già san Vincenzo de’ Paoli nel 1600 nelle carceri di Francia, di cui era cappellano generale. Dopo di lui tanti altri religiosi e laici. Oggi, in Italia, la Società San Vincenzo de’ Paoli grazie a una rete di volontari penitenziari svolge mansioni specifiche, come distribuzione di vestiario, organizza numerose attività, tra cui corsi di cultura religiosa e animazione della messa. Particolare attenzione è rivolta anche alle famiglie dei detenuti, che vivono situazioni di disagio. “Povertà tra le povertà, il carcere rappresenta un impegno di carità tra i più difficili e coinvolgenti” ha dichiarato Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società San Vincenzo dè Paoli, nel corso di un convegno dal titolo: “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova”, promosso dall’Ufficio formazione integrale dell’Università Europea di Roma. “L’aiuto dei volontari - ha detto - non si riduce a una visita fine a se stessa, ma coinvolge il detenuto in un percorso di recupero e di prevenzione. Ed è per questo che offriamo non solo un sostegno materiale, ma soprattutto attenzione umana, amicizia, aiuto a redimersi, a ritrovare se stessi e un giusto ruolo nella società”. Il volontariato in carcere è una realtà importante, che in parte sopperisce alle carenze dell’amministrazione penitenziaria, svolgendo una funzione di collegamento col mondo esterno, di umanizzazione, e incentivando percorsi di reinserimento. “Rinascere per affacciarsi a una vita nuova, in quella cultura dell’incontro che il Papa ci invita a fare. È questo quello che cerchiamo di fare supportando i detenuti e le famiglie. Con una presenza costante e un aiuto spirituale cerchiamo di non lasciarli soli” ha detto Claudio Messina, delegato nazionale carceri della San Vincenzo de’ Paoli e volontario penitenziario da oltre 20 anni. “In galera - ha aggiunto - non ho mai trovato mostri, ma tanta umanità che è quella che ci unisce e per questo dobbiamo crederci. Occorre saperla riconoscere in sé e negli altri per una nuova convivenza”. L’associazione si preoccupa anche della cura delle famiglie che hanno congiunti in carcere, accompagnandole in un cammino di educazione alla legalità per scongiurare il fatto che i figli possano ricadere negli stessi errori dei genitori. “Cerchiamo di dare sostegno economico e accoglienza. L’affettività, la separazione forzata dalla famiglia, dalle persone care, soprattutto dai figli - ha spiegato Messina - è una nota dolente, che può incidere in modo determinante sulla tenuta della famiglia stessa e sulla psiche della persona reclusa”. Specialmente nei casi di lunga detenzione, i legami con la famiglia possono perdersi. Per questo “è importantissimo il sostegno ai familiari soprattutto con una vicinanza e un accompagnamento nei momenti più critici, quando anche la società si mostra ostile e si chiude nei confronti di chi ha un congiunto in carcere”. Altro aspetto cui i volontari guardano con attenzione è quello della formazione e del lavoro. Spesso le persone detenute non hanno qualifiche professionali ed esperienze lavorative. La loro vita può aver seguito percorsi criminali, favoriti da condizioni economiche e socioculturali di degrado. “Perciò, se la persona si convince di voler cambiare e imparare un mestiere che possa servirgli una volta espiata la pena - ha proseguito Messina - può partecipare a corsi, attività e progetti. L’attenzione al lavoro e alla formazione professionale è una nostra priorità. I volontari si danno da fare anche per alleggerire il peso di certe situazioni, per ricercare alloggi e inserimenti lavorativi”. La San Vincenzo de’ Paoli svolge un’attività di comunicazione rivolta ai soci e alle persone interessate ad approfondire la conoscenza di questo “mondo”, considerato a torto un mondo separato, escluso dalla vita della comunità, dove vivono persone che meritano di stare lì. “Lo stigma della colpa rende difficile poter distinguere la persona dal suo reato, tanto da far ritenere che con la libertà personale il detenuto abbia perso anche la sua dignità di persona. Non solo questo sentimento è contrario al senso di umanità e alla morale cristiana - ha spiegato Messina - ma contrasta con i principi laici dell’etica e delle regole del vivere civile”. Dello stesso avviso Carlo Climati, direttore del laboratorio “Non sei un nemico”, il quale ha rimarcato che “ogni essere umano ha un valore. Incontrarlo e ascoltarlo significa aprire il proprio cuore a una comunicazione autentica”. Di Maio: “La legittima difesa sia per le forze dell’ordine” di Emanuele Buzzi Corriere della Sera, 14 aprile 2019 Il leader M5S irrompe sul terreno di Salvini: servono aggravanti per chi compie violenze contro le forze di polizia e militari, insomma verso chi opera nel comparto sicurezza. Uno sfogo. Forse qualcosa di più. La sparatoria e la morte del maresciallo Vincenzo Di Gennaro a Cagnano Varano ha colpito Luigi Di Maio. Il vicepremier pentastellato ricevuta la notizia si è fermato, ha chiamato il suo ministro della Difesa Elisabetta Trenta, ha preso informazioni, e ha sentito Conte. Poi ha sbottato: “Ora basta, non è la prima aggressione che fanno contro un servitore dello Stato. Quel che è accaduto a Cagnano Varano non può restare impunito. Quel criminale deve pagare ma anche il governo deve dare una risposta e la deve dare subito”, ha detto il leader Cinque Stelle. E precisa: “Qui abbiamo parlato tanto di legittima difesa ma la vera legittima difesa serve per le nostre forze di polizia. Per i nostri carabinieri, poliziotti, militari e per chiunque svolga una funzione a tutela della sicurezza dei cittadini. Ne parlerò con il ministro della Giustizia Bonafede e anche con il Viminale”. Di Maio - da quello che trapela dalle indiscrezioni - anticipa le sue intenzioni già al presidente del Consiglio: “Non è la prima volta che accade. Già a Roma con quei balordi che assalirono in pieno centro un nostro carabiniere, in quel momento il suo comportamento fu esemplare, ma ci è mancato poco - dice a Conte -. Poi ci sono stati i nostri militari di Strade Sicure aggrediti nei pressi di piazza San Pietro da un folle che gli tirò contro della benzina. Non se ne può più, dobbiamo rispondere con tutta la forza dello Stato”. Nella testa del vicepremier - che ieri ha presentato le cinque capolista per le Europee di maggio - prende corpo l’idea di inserire delle aggravanti per chi compie violenze contro le forze di polizia e militari, insomma verso chi opera nel comparto sicurezza, inclusi vigili del fuoco. Misura che potrebbe già trovare spazio in un provvedimento che Bonafede sta mettendo a punto con il ministro Grillo sulla violenza contro medici e funzionari degli ospedali. Non a caso nel pomeriggio intervengono i deputati Cinque Stelle della commissione Difesa alla Camera. “L’intervento dello Stato sui territori preda delle organizzazioni criminali sarà immediato e deciso”. “Quel maresciallo è uno di noi e dobbiamo far passare un messaggio chiaro: lo Stato non si tocca”, ha ripetuto più volte di Maio. Il vicepremier nel prendere informazioni ha chiesto di approfondire la valutazione degli aspetti tecnico giuridici delle potenzialità delle forze di polizia in questi contesti, quelli in cui vengono aggrediti. “Legge più severe per chi li insulta, servono aggravanti anche in questo senso - ha detto all’inner circle. Penso a quel delinquente di Verona che è andato testa a testa con la poliziotta. Dobbiamo dotarci di nuovi strumenti giuridici. Ripeto: la vera legittima difesa serve alle nostre forze di polizia”. Parole che ovviamente fanno pensare a tutte le polemiche e le frizioni che ci sono state negli ultimi mesi tra Movimento e Lega per la riforma sulla legittima difesa voluta dal Carroccio (e diventata legge a marzo). Un modo anche per compattare i Cinque Stelle su un argomento, quello della sicurezza, dove non sono mancate le ruggini. Il vicepremier pentastellato - che oggi partirà per la tre giorni con le imprese negli Emirati Arabi, primo tassello della strategia per il rilancio dell’export - non ha intenzione di far cadere il discorso e probabilmente lo inserirà tra i temi da trattare nei vertici a tre di Palazzo Chigi, summit che saranno nei prossimi mesi a cadenza settimanale. Carabiniere ucciso. Salvini posta la foto del killer ed evoca la pena di morte di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 14 aprile 2019 Le parole del ministro scatenano un dibattito social. Il cordoglio per la morte del carabiniere Vincenzo De Gennaro il vicepremier Matteo Salvini lo esprime a modo suo, postando su Twitter e poi su Facebook la foto dell’assassino con il volto insanguinato e ben visibile, al momento dell’arresto, mentre viene tenuto a terra sull’asfalto da un agente che lo blocca con un ginocchio. Sotto un commento che evoca la pena di morte: “Io sono contro la pena di morte, ma un infame che ammazza un uomo che sta facendo il suo lavoro, non merita di uscire di galera fino alla fine dei suoi giorni”, twitta Salvini sul suo profilo, scatenando un acceso dibattito. I post precedenti erano stati più misurati. Commentando la notizia e formulando un pensiero alla famiglia della vittima, Salvini si era limitato ad impegnarsi affinché il pregiudicato che ha sparato al militare adesso sconti il carcere a vita. Poi quell’accenno alla pena di morte che ha di fatto posto la questione sul tappeto della politica, nonostante il vicepremier abbia premesso di essere contrario. Molti dei suoi followers, invece, a quanto pare non ne sarebbero affatto turbati. Anzi, la pena capitale la invocano a gran voce. “Sono d’accordo. Se uccidi con intenzione devi essere eliminato”, dice Folgore. “No galera, si vendetta!”, ribatte Enrico. Anche Pierluigi è dello stesso avviso: “Io in questo caso conclamato opterei sicuramente per la pena di morte”. “Impalato o impiccato, purché vengano eliminati tutti gli assassini e i criminali: tolleranza zero”, rincara la dose Gigi. In tanti sollecitano invece una pena esemplare, che sia tale, però, non un ergastolo solo sulla carta, pronto per essere trasformato in altro da sconti di pena o perizie psichiatriche. Le dichiarazioni di Salvini accendono subito i toni. “Foggia ha bisogno di sicurezza, di più uomini e mezzi per le forze dell’ordine, non dei tweet di Salvini o dei post su Facebook di Di Maio”, attacca il deputato del Pd Ubaldo Pagano. “Meno propaganda sui barconi, più contrasto alla criminalità”, twitta invece il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova. Il capo dello Stato Sergio Mattarella esprime il suo profondo dolore per la morte del carabiniere in un messaggio inviato al comandante dell’Arma Giovanni Nistri. Il premier Giuseppe Conte è stato a Foggia per incontrare i familiari del carabiniere e visitare in ospedale il collega ferito. “Un servitore dello Stato colto di sorpresa e caduto in servizio, nel pieno esercizio delle sue funzioni. Il governo, l’Arma e il Paese intero gli sono debitori”, commenta. Il vicepremier Luigi Di Maio scrive su Facebook: “Questo omicidio non ha colpito solo due servitori dello Stato, ma l’intero Stato. Chi tocca un carabiniere, tocca lo Stato, tocca ognuno di noi. Ora basta, ci sarà una reazione!”. Il presidente del Parlamento Europeo e vicepresidente azzurro Antonio Tajani stigmatizza il fatto che le forze dell’ordine rischino quotidianamente la pelle per quattro soldi. Parole di dolore e di vicinanza ai familiari arrivano anche da Ilaria Cucchi: “Che le istituzioni siano loro vicini e che questa morte nell’adempimento del proprio dovere non venga dimenticata”. La zona rossa della nostra insicurezza di Carlo Bonini La Repubblica, 14 aprile 2019 Tra Milano e Cagnano Varano ci sono ottocento chilometri e tre o quattro Italie. E la stessa distanza vale per misurare i gradi di separazione tra la vita storta di Enzo Anghinelli e quella dritta del maresciallo dei carabinieri Vincenzo Carlo Di Gennaro. E tuttavia i colpi esplosi nell’arco di sole quarantotto ore per giustiziare l’uno e l’altro raccontano la medesima catastrofe di un Paese compulsivamente prigioniero di una remunerativa parola d’ordine della Politica - sicurezza - eppure smarrito nel sentirsene regolarmente orfano. La verità è che, stordito da una propaganda che semplifica con ferocia e rozzezza ciò che semplice non è, il Paese ha perso di vista quello che il sangue di Milano e di Lagnano Varano ci dicono. Che la Sicurezza di una collettività, delle sue strade, delle sue piazze, delle sue case, è nella consapevolezza piena della realtà dei territori in cui vive. Nella convinzione che affidare una ordinata convivenza civile a dieci, cento, mille poliziotti, carabinieri o magistrati in più, o armare per legittima difesa i padri di famiglia con diecimila o centomila fucili in più, equivale a decidere di svuotare il mare con un secchiello. Dunque, a dichiarare bancarotta dell’intelligenza. Chi oggi cade dal pero per l’esecuzione di Anghinelli, già in carcere per narcotraffico, dovrebbe fare mente locale al fiume di cocaina che ha reso Milano, non da ieri, uno dei più grandi mercati della droga d’Europa. E, in generale, alla piaga del ritorno dell’eroina, delle pasticche vendute a prezzi da dumping di fronte alle scuole elementari e medie nelle grandi città, ma anche in provincia. Nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze (2018), si legge: “Sulla base di quanto rilevato nel 2017, circa 4 milioni di italiani hanno utilizzato almeno una sostanza stupefacente illegale e, di questi, mezzo milione ne fa un uso frequente”. E ancora: “Il mercato delle sostanze stupefacenti pesa per lo 0,9% del Pil”, più o meno quattro volte la crescita stimata della nostra economia per l’anno in corso, e “il loro consumo è calcolato valere 14,4 miliardi di euro, il 40% del quale per il solo acquisto di cocaina”. Siamo dunque il Paese che mentre si pippa 6 miliardi di euro l’anno in cocaina, inveisce contro “i negri che spacciano” e immagina grottesche “zone rosse” nei centri storici, confondendo, con tutta evidenza, la causa con l’effetto. Pensando che spostando la coca più in là, occhio non veda e cuore non dolga. O che ripulita una piazza di spaccio (come evidentemente è giusto ma non sufficiente fare) quella piazza, prima o poi, non torni a riempirsi. Fino a quando, appunto, una mattina come le altre, nella civile via Cadore, gli attori feroci e famelici di quel mercato da 14,4 miliardi di euro non piantano una pallottola in testa a un cristiano. Non è molto diverso da quello che non abbiamo e continuiamo a non voler vedere in quell’angolo di Italia chiamata Capitanata, settemila chilometri quadrati che comprendono Foggia e la sua provincia (la seconda più estesa di Italia) e i comuni del vicino Promontorio del Gargano. Cagnano Varano, appunto. Dimenticata da Dio, ma soprattutto dagli uomini, la si riscopre ad anni alterni. Nell’agosto 2017, fu la strage di San Marco in Lamis. Oggi, il maresciallo Di Gennaro. Tralasciando, per dire, la banale circostanza che negli ultimi 30 anni, in quella terra, ci sono stati 360 omicidi, l’80 per cento dei quali è rimasto irrisolto. O ancora, sempre per dire, che la questura di Foggia, ancora fino a due anni fa considerato ufficio di “seconda fascia” nelle griglie del Viminale, sia l’unica, in Italia, dove le tabelle statistiche dei reati commessi hanno una colonna dedicata alla voce “stragi”. L’Arcivescovo di San Giovanni Rotondo, monsignor Franco Moscone, arrivato da soli tre mesi e mezzo in quella terra, che fu di Padre Pio oltre che del premier Giuseppe Conte, ha detto ieri: “Io reagisco con il Vangelo, ma qui sembra di stare in America Latina”. E nel suo stupore c’è la verità dell’ennesimo buco nero della nostra consapevolezza e la vacuità di una Politica che parla di sicurezza senza avere la più pallida idea, evidentemente, di cosa sia. All’indomani della strage di San Marco in Lamis, l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e il governo Gentiloni produssero uno sforzo straordinario che ha portato in Capitanata centinaia di uomini delle forze dell’ordine, creato un nuovo reparto dell’Arma (“i Cacciatori di Puglia”) e dato sostegno a quei magistrati silenziosi della Direzione distrettuale antimafia di Bari e della Procura di Foggia che con formidabile coraggio, ogni giorno, combattono a mani nude. Ci vorrebbe magari anche un po’ di politica. Possibilmente non solo ai funerali di Stato e non ossessionata dalla cinica costruzione di leadership. Certo, sul Gargano, barconi di migranti non se ne avvistano. Ma scafi con la marijuana albanese, rifiuti tossici, cocaina campana, quanti se ne vuole. Dimenticavamo: anche i negri di Borgo Mezzanone”, per dirla alla pugliese. Gli schiavi del caporalato in mano ai clan. Che muoiono andando o tornando dai campi dove raccolgono pomodori a due euro l’ora. Da Napoli a Milano, cosa è la vera insicurezza di Adolfo Scotto di Luzio Il Mattino, 14 aprile 2019 Martedì scorso, di prima mattina, nell’ora in cui i bambini vanno a scuola, un uomo è stato ucciso in un agguato camorristico a San Giovanni a Teduccio, nel rione Villa di Napoli. Pochi giorni dopo, il 12, a Milano, in una strada molto trafficata del centro, alle otto del mattino, quando il capoluogo lombardo si muove per andare al lavoro e per portare i figli a scuola, un uomo è stato colpito in pieno volto da due sicari a bordo di uno scooter. In mezzo alla folla, tra i passanti. In passato era stato condannato a 11 anni per traffico di cocaina. Il giorno prima dell’agguato di Milano, il ministro dell’ Interno, Matteo Salvini, in un’intervista a questo giornale, ha elencato i dati e le cifre della politica dell’ordine pubblico, quante telecamere, quanti poliziotti, quanti arresti, quanti sgomberi. Venerdì mattina, nelle pagine della cronaca di Milano del Corriere della sera, si potevano leggere dichiarazioni analoghe del responsabile del Viminale. Ancora una volta cifre, numeri. Quanti reati in calo, quanti militari in più, quanti soldi spesi per la videosorveglianza e quanti per la sicurezza di periferie e provincia. A Giuseppe Crimaldi che gli chiedeva quando sarebbe tornato a Napoli, il ministro Salvini ha assicurato: “Prima dell’estate. Stavolta penso di visitare la provincia”. Ci sono momenti, nella storia di un lettore di giornali che sta a cavallo di due mondi, in cui la cronaca per quanto tragica offre di queste possibilità. Di toccare con mano lo scarto che c’è tra la molteplicità degli accadimenti e la stereotipia della comunicazione politica. Qualunque cosa succeda e quale che sia il luogo del suo accadere, lo schema è sempre lo stesso. Ma se le cose stanno così, ed è evidente che stanno così, questo vuol dire solo che la risposta precede il fatto, esiste indipendentemente dal suo accadere, è già bella e confezionata e pronta all’uso alla prima occasione buona. Il linguaggio smette di essere uno strumento per penetrare conoscitivamente la realtà e diventa una forma di camuffamento. La questione diventa rilevante perché di fronte ai due fatti di Napoli e Milano, di fronte alla loro occasionale concomitanza, diventa legittimo chiedersi se quello che sta succedendo nel nostro paese possa essere ricondotto alla categoria “ordine pubblico” e non sia invece l’affiorare di un fenomeno differente di natura politica e come tale più profondo. Il ministro dell’Interno dà l’idea di un uomo, come si dice, “sul pezzo”. Nell’intervista al Mattino, ai napoletani dichiara: “Ho il quadro completo della situazione”. All’allarme dei milanesi oppone “puntualizzazioni” suffragate dai dati. Ma dati di cosa?, questo è il punto. La risoluzione di un fenomeno sociale nella forma di una superficie di dati classificati se è funzionale al bisogno di accreditare un pieno controllo sulla realtà, lo è molto meno dal punto di vista della comprensione. Un conto infatti è stilare il rapporto delle attività di contrasto alla criminalità, scippi, rapine, furti, irruzioni nelle abitazioni, e così via. Un altro è essere messi di fronte ad episodi di violenza pubblica che per la loro natura eccedono il quadro della normalità sociale. Non c’è infatti società complessa che non conosca il fenomeno criminale, ma la violenza urbana in pieno giorno, in concomitanza di riti che sono fatti apposta per dare ad una comunità la percezione dello svolgimento routinario della sua esistenza quotidiana costringono la politica a fare i conti con una questione fondamentale qual è l’esercizio efficace del monopolio della violenza. Lo Stato si afferma disarmando le fazioni, riportando cioè la violenza dei gruppi particolari dentro limiti che non ne compromettono l’esercizio della sovranità. Il luogo principale della sua manifestazione sono strade e piazze. Ed è lì che storicamente ha difeso l’ordine politico contro i suoi nemici. Abbiamo imparato a considerare il Sud un’eccezione, ma che ne è di un Paese in cui a Milano, in una città che si vuole moderna, ben collocata in uno degli snodi della nuova economia globale, si rischia di restare sotto il fuoco di un gruppo armato che irrompe sulla scena dell’ora di punta? Si resta sempre sul terreno della gestione dell’ordine pubblico o si entra in una dimensione di natura diversa? Le grandi città europee hanno conosciuto in questi anni rotture traumatiche del tessuto della vita quotidiana. Parigi, Bruxelles, Londra, Madrid. Ma il terrorismo è al tempo stesso una categoria conoscitiva e un codice esorcistico. Cattura il fenomeno traumatico e lo congela in una sorta di eccezionalità, così neutralizzandolo. Al contrario, l’agguato camorristico o mafioso che sia dice di una intrinsichezza del criminale al tessuto della società che aggredisce di un grado maggiore di quanto non sia nel caso del terrorismo che appunto, a sottolineare l’estraneità culturale del fenomeno, abbiamo imparato a definire “islamico”. Per questo i colpi sparati a Napoli, davanti ad una scuola, e a Milano in mezzo al traffico dell’ora di punta, sono così inquietanti. Perché non li possiamo collocare in nessuno spazio a parte. La concomitanza degli accadimenti di Napoli e di Milano mette il ministro Salvini dinanzi ad un problema che non può pensare di affrontare contando poliziotti e carabinieri. Si tratta di una sfida all’ordine politico della società e come tale mette direttamente in gioco il problema della legittimazione dello Stato. Riguarda la sua autorità oltre che la sua forza. Su questo aspetto è raro ascoltare dichiarazioni da parte del ministro dell’ Interno. Nella sua semplicità ha ragione il bambino che, al presidente Mattarella in visita a Napoli, ha detto che spera di camminare per strade dove non si spari. La questione, infatti, sta tutta qui. Caso Cucchi, chi è il magistrato che ha svelato la partita truccata di Floriana Bulfon L’Espresso, 14 aprile 2019 Salentino, silenzioso, riservato. Prima Giovanni Musarò è stato in Calabria, a indagare sui boss della ‘ndrangheta. Ora è alle prese con l’inchiesta più delicata che mette sotto accusa la catena di comando dell’Arma dei Carabinieri. “Anime salve in terra e in mare, / sono state giornate furibonde”. La voce di Fabrizio De André filtra da una porta chiusa, facendo scorrere lungo il corridoio deserto l’inno agli spiriti solitari, liberi e diversi per scelta. È tarda sera e negli uffici grigi della procura di Roma il freddo comincia a farsi sentire: dopo le cinque il riscaldamento si spegne e molti ascensori si fermano. Orari di un’altra epoca, quando questo palazzo era chiamato “il porto delle nebbie”, dove le indagini svanivano nell’ombra del potere. Altri tempi, altri ritmi. Come testimoniano i versi di De André. Provengono da due altoparlanti incastrati tra lo schermo di un pc e i faldoni pieni di carte che fanno sembrare la scrivania una trincea. Dietro c’è Giovanni Musarò, il magistrato che ha risollevato da un destino ormai già scritto la storia di Stefano Cucchi: quella di un ragazzo morto nelle mani dello Stato e sepolto dalle menzogne di un sistema rivelatosi omertoso. Un pubblico ministero ancora giovane (46 anni, cinque più di Cucchi), che con il suo lavoro sta scuotendo le gerarchie dell’Arma, portando alla luce manipolazioni e depistaggi. Anche questa sera è qui fino a tardi, impegnato a cercare le anomalie nella montagna di fascicoli alterati per sotterrare la verità sulla fine di quel detenuto troppo fragile: sottolinea con l’evidenziatore giallo relazioni modificate, confronta documenti e testimonianze per scoprire parole, opere e omissioni, per smascherare il gioco falso e feroce di appuntati e ufficiali. Non lo fa per ostinazione, ma per senso dello Stato. “È il mio mestiere”, ripete spesso quasi sentisse l’obbligo di una giustificazione. Un mestiere che non ammette deroghe: l’obbligatorietà dell’azione penale implica il dovere della verità, sempre e comunque. Anche a costo di mettere in discussione la credibilità della gerarchia dei carabinieri pur di capire cosa sia successo al corpo martoriato di un cittadino, considerato solo “un drogato de merda”. Musarò si stringe nella giacca blu. La indossa sempre, persino quando è alla tastiera sotto il gagliardetto della Juventus, esposto in un ambiente pieno di tifosi della Roma: ha una venerazione per Dino Zoff, lo vorrebbe conoscere. Non sa quando ci riuscirà, come se il suo tempo fosse sospeso dentro quelle carte. Che gli raccontano una storia diversa da quella che si voleva far credere a un intero Paese e lo portano ad accusare coloro che avrebbero dovuto stare dalla sua stessa parte. E invece hanno tradito la legge e la lealtà ai valori dell’Arma. Lui li conosce bene quei valori. Su una mensola del suo ufficio c’è una scarpetta di cuoio. È la prima che ha indossato il suo unico nipote, quella con cui ha compiuto il primo passo il figlio di suo fratello, sottufficiale proprio dei carabinieri. L’altro fratello è nell’Esercito, spesso in missione in zone di guerra. Tre maschi, tutti “servitori dello Stato”. Oggi Musarò incarna lo Stato che processa lo Stato. Avvista depistaggi e coperture e non si ferma di fronte al rischio di urtare sensibilità, perché in gioco c’è molto di più. Il caso Cucchi è la contraddizione e l’incoerenza di quello Stato. Che finisce tra i ripetuti “non ricordo” e “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” delle alte gerarchie dell’Arma, dopo dieci anni di relazioni di servizio modificate su richiesta dei “superiori”. Relazioni dove le fasi dell’arresto non sono più concitate e i malori spariscono. (“Meglio così”, commentano in una mail). Dove Cucchi è epilettico, anoressico, peggio, malato di Hiv. Documenti in cui i carabinieri riescono a dichiarare le cause della morte di Stefano prima della scienza, quando ancora non è stata condotta alcuna perizia, anzi quando i periti non sono nemmeno stati nominati. Dopo, i consulenti della procura, quelli che ancora non erano stati scelti, scriveranno le stesse cose. Ma per i carabinieri era già tutto chiaro subito, a pochi giorni dalla morte: “non attribuire il decesso a traumi”, di più “non rilevati segni macroscopici di percosse”. Una macchinazione che porta a mentire l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano davanti al Parlamento e a scaricare le responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria che sono costretti ad affrontare tre gradi di giudizio per essere assolti. Dopo dieci anni dal mancato foto-segnalamento nella caserma dove avvenne il violentissimo pestaggio confessato ora da Francesco Tedesco, uno dei carabinieri presenti, Musarò vede “la partita truccata” e avverte: “arrivati qui non è più una questione di ricerca della verità doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo. A questo punto è in ballo la credibilità dell’intero sistema”. Quella democrazia tradita e minacciata nelle sue fondamenta, con il mancato rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. Con le intimidazioni per chi si ribella al sistema malato, a una catena di comando che nasconde la verità. Musarò è cresciuto nel Salento, all’ombra di enormi e contorti ulivi. Allevato dal nonno adorato e da una zia da cui ha imparato l’ostinazione da applicare sul lavoro. Una famiglia del Sud, il padre impiegato in banca, la madre insegnante. Che quel figlio promettente lo fanno studiare all’università di Roma. Si trasferisce così in un appartamento con altri studenti proprio nella prima periferia della Capitale, nei quartieri dove comandano i Casamonica: il clan rom su cui poi indagherà. Supera rapidamente l’esame da magistrato nel 2002 e sceglie la sede di Reggio Calabria. Si occupa prima di reati sessuali e anche in questo caso lo fa senza occhi di riguardo per nessuno: indaga, e fa condannare, un maggiore della Guardia di finanza a capo del reparto investigativo che, abusando del ruolo, molesta giovani coppie. Quando arriva a Reggio il procuratore Giuseppe Pignatone lo vuole nella squadra dei suoi più stretti collaboratori e lo affida al suo vice Michele Prestipino. Lavorare con i colleghi provenienti da Palermo è una grande scuola, soprattutto per chi come lui è cresciuto negli anni delle stragi e adesso può imparare dagli inquirenti che ne hanno svelato le trame. Con Prestipino riescono a ottenere dalla Cassazione una sentenza storica: il riconoscimento dell’unitarietà delle varie forme di ‘ndrangheta, sancendo il disegno mafioso unico che mette insieme clan sparsi in diverse province. Un verdetto pari per rilevanza a quelli nati negli anni Ottanta dal maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra. L’indagine reggina si chiamava “Crimine”. Il giorno degli arresti 500 carabinieri indossavano una maglietta nera con quel nome stampato sopra. Una gliel’hanno regalata e Musarò l’ha incorniciata nel suo ufficio accanto alla foto del collega Antonio De Bernardo, immortalati insieme il giorno della requisitoria davanti al tribunale di Locri. Quell’esperienza calabrese si tramuta nell’approccio innovativo con cui il pm affronta la questione dei clan capitolini, sostenendo la caratura mafiosa dei Casamonica. Dando consistenza alla “condizione di assoggettamento e omertà” - come recita l’articolo 416 bis del codice penale - che loro esercitano nelle strade della capitale. Per concludere senza un filo di dubbio: la brutalità e gli affari del “padrino” Giuseppe e dei suoi parenti, il raid con le cinghiate dentro a un bar di periferia, quella testata degli Spada di Ostia al cronista televisivo, tutto questo è mafia. Quella che a Roma per decenni nessuno ha voluto vedere. Questo magistrato però parla solo con i provvedimenti: mai un’intervista, né un commento sui social. Evita la mondanità romana e i salotti che contano. “Lo fa per non rischiare cattivi incontri e per via della sua ironica sottile malinconia”, sostiene chi lo conosce bene. Si concede solo qualche serata con pochi, fidati amici, e una passeggiata con la fidanzata per il quartiere dove abita. Un lusso per chi vive da anni sotto scorta per le minacce della ‘ndrangheta. La tutela è al massimo livello ma non è bastata a proteggerlo dall’ergastolano Domenico Gallico. Intercettando la posta e i colloqui in carcere, Musarò ha disposto l’arresto di tutta la rete familiare. Il boss vuole essere interrogato e lui non si può rifiutare. Nel carcere di massima sicurezza chiede però la presenza di due agenti per difesa personale: “Se questo detenuto avrà la possibilità di colpirmi, lo farà”. Quel giorno nemmeno lo storico avvocato dei Gallico si presenta, arriva soltanto un giovane difensore che non conosce il detenuto. Nella saletta sono soli. Gallico entra, gli va incontro col passo sostenuto e dice “procuratore, finalmente ci conosciamo, posso stringerle la mano?”. Lui gliela porge e quello gli sferra un pugno in piena faccia, un sinistro che gli rompe il naso. Cade tra la sedia e il muro e allora ancora calci e pugni fino a che non arrivano i poliziotti e a fatica glielo staccano di dosso. Può denunciarlo, togliersi da una situazione pericolosa, ma significherebbe astenersi dal processo. Preferisce invece continuare la sua battaglia. “È il mio mestiere”, taglia corto. I colpi della ‘ndrangheta non si arrestano, arrivano anche in modo più subdolo. Maria Concetta Cacciola è una giovane donna che decide di diventare testimone di giustizia, collaborando con le sue indagini. Maria Concetta muore per ingestione di acido muriatico. Uccisa in quel modo atroce per cancellare la volontà di parlare. Musarò svela le violenze che subisce, la vita da segregata e umiliata che il sistema mafioso le impone e da cui prova a fuggire. A quel punto entra in azione la strategia diffamatoria della famiglia, millanta un inesistente stato depressivo, un’alterazione psichica. A tre giorni dalla morte Maria Concetta viene uccisa un’altra volta. I Cacciola, con un esposto, accusano i magistrati di aver estorto le dichiarazioni. Il tutto anche tramite la complicità di due avvocati che poi saranno condannati per questa calunnia. Dietro alla testa di Musarò ci sono la mappa del Salento e la foto con le colleghe con cui ha condiviso gli anni di Reggio Calabria. Sorride insieme a Beatrice Ronchi, il pubblico ministero che ha svelato la presenza della ‘ndrangheta in Emilia, la sua migliore amica. Un ufficio arredato con le cose preziose che fanno compagnia nel silenzio rotto solo dai tasti e dalla musica di sottofondo. Lui sogna di guidare ancora l’auto, nella sua Squinzano: la libertà di una birra con gli amici d’infanzia e di un tuffo nel mare del Salento. Ma è un sogno impossibile, c’è sempre la scorta. In compenso quando parte per Roma la madre, come se fosse ancora studente, gli prepara una borsa con taralli, pasticciotti e altre prelibatezze: da dividere con i collaboratori nella cancelleria, tra stampante, timbri e cartelline. Un momento di familiarità che termina troppo rapidamente perché il telefono squilla. “Gianni ti dobbiamo parlare”. Il procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino lo attendono giù al primo piano. Loro l’hanno visto crescere e lo conoscono bene. Sorridono quando si tocca la testa, perché sta riflettendo, alla ricerca di una soluzione al problema del momento. Scende le scale con una borsa stracolma di carte da cui sporge una copia di “Conversazione nella Catedral” di Mario Vargas Llosa. Un romanzo sulla dittatura e sull’abuso di potere, capace di infettare come un’epidemia ogni fascia sociale. Qualcosa di simile, seppur in dimensioni diverse, a quello che ha incontrato nelle sue indagini romane, con quel senso di impunità che sembra avere unito criminali di periferia e ufficiali dei carabinieri. E che lui non intende accettare. Viterbo: le lettere che ci arrivano dai detenuti raccontano di violenze agghiaccianti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2019 Esistono carceri che sono considerate punitive. Esistono da sempre, ricordo che se ne parlava da quando ho cominciato a occuparmi di questi temi. Si sa, così come chi ha fatto il militare di leva in altri anni sapeva che esistevano caserme punitive. Negli ultimi mesi l’associazione Antigone ha ricevuto varie lettere - rigorosamente di carta: il carcere è il solo posto in Italia dove ancora girano francobolli - che provenivano da detenuti nel carcere di Viterbo e denunciavano maltrattamenti e violenze. “Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una ‘cella liscia’ e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici”, si legge in una delle lettere. La cella liscia è la cella svuotata di tutto, quella che in teoria viene usata per alloggiare chi ha intenti autolesionistici e potrebbe farsi del male con oggetti di uso quotidiano. In pratica capita che sia usata per isolare e punire chi si considera fastidioso. È quella logica della sottrazione di cui ha parlato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti nella sua relazione annuale al Parlamento di qualche giorno fa: per risolvere i problemi si sottraggono oggetti, spazi, pezzi di esistenza. Invece di aggiungerne, di pensare che chi si vuole suicidare in carcere potrebbe essere aiutato dal beneficiare di maggiori contatti con lo psicologo, di maggiori telefonate con i genitori, di maggiori attenzioni dell’istituzione. Tre i suicidi avvenuti nel 2018 dentro il carcere di Viterbo: il 9 gennaio, il 21 maggio e il 30 luglio. In uno di questi casi, il ragazzo era stato incontrato tre mesi prima da operatori del Garante regionale dei diritti dei detenuti, che avevano trovato sul suo corpo gravi segni di percosse. Un esposto era stato inviato alla procura. “Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato forte da farmi perdere la vista all’occhio destro”, si legge in un’altra delle lettere ricevute da Antigone. “Un trauma alla testa per le pizze e pugni che ho preso senza motivo perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai… Io gli rispondo che fate i mafiosi con me senza motivo… Passano quattro o cinque minuti e mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo”. È un racconto agghiacciante, che spesso si ha paura a ripetere apertamente: “Se dico qualcosa qua mi menano”. Sono in corso tanto un’indagine penale quanto una amministrativa. Speriamo che siano rapide ed efficienti. Possibile che serva la tenacia di una donna che ha perso suo fratello, come è capitato a Ilaria Cucchi, affinché si dia attenzione alle violenze compiute verso persone che si trovano in custodia dello Stato? Certo, il carcere è un ambiente opaco e omertoso, perciò non facile da indagare. Ma è pur sempre un luogo che coinvolge solo poche centinaia di persone. Fortunatamente i nostri inquirenti hanno risolto casi ben più complicati di questi. I tanti episodi tragici del carcere di Viterbo fanno purtroppo pensare a un carcere punitivo. Saremmo ben lieti se fossimo smentiti. La sola punizione legittima da dare a un detenuto è il carcere in sé, non questo o quel carcere particolare e la violenza che esso copre. Stiamo rendendo pubbliche denunce di episodi che, se confermati dalle indagini, sono gravissimi. Nessuna potrà dire che non lo sapeva. *Coordinatrice associazione Antigone Milano: tavolini, letti, sedie. Il design al servizio dei carcerati di Chiara Marsilli Corriere del Trentino, 14 aprile 2019 A San Vittore il prototipo. “Rieducazione, lavoro e socialità: il nostro sogno”. Solo nel 2018 nelle carceri italiane i suicidi sono stati 63, un numero che non si vedeva da otto anni e Trento si è aggiudicato un triste primato: l’ultimo detenuto che si tolta la vita in cella a dicembre è stato nella casa circondariale cittadina. Sovraffollamento, isolamento, la difficoltà di mantenere rapporti con le famiglie e di vivere in una situazione dignitosa il periodo di privazione della libertà sono le ragioni di questa tragedia. I dati dell’associazione Antigone parlano chiaro, le carceri in Italia sono in costante emergenza con 60 mila detenuti, 9.500 in più della capienza ufficiale. Si calcola che servirebbe un miliardo per uscire dalla crisi, ammodernare le strutture esistenti e costruirne di nuove. Nell’attesa dell’intervento della politica, qualcuno ha deciso di studiare e progettare qualcosa che potrebbe migliorare le case circondariali, a beneficio del processo di riabilitazione del detenuto. Un gruppo di architetti e designer ha infatti dato vita al progetto Stanze Sospese e dopo una serie di incontri con gruppi di carcerati ha realizzato mobili pensati per facilitare l’uscita dall’isolamento, fisico e mentale. Nelle celle di nove metri quadrati (a volte anche meno) letti, tavolo, sedie diventano infatti un lusso. Ora questi mobili essenziali, di plastica riciclata, sono installati in una cella di San Vittore, all’interno di un braccio inutilizzato. Un prototipo che Stanze Sospese vorrebbe trasformare in realtà ed è stato oggetto di un sopralluogo nei giorni della Design Week di Milano. Nel team anche la giovane trentina Giulia Menestrina, ventinove anni quest’anno. “Stanze Sospese nasce dalla consapevolezza che lo spazio in cui si vive determina la qualità della vita stessa - spiega Menestrina - Molti detenuti italiani scontano la pena in celle di nove metri che ospitano almeno tre persone e sono dotate di mobili che non rispettano le normative in termini di spazio vitale e sicurezza. Per questo in molte celle i detenuti “lungo-stanziali” si sono ingegnati costruendo La cella-pilota Stanze Sospese ha progettato gli arredamenti creati con i tappi delle bottiglie riciclati e li ha installati in un braccio chiuso di San Vittore. A sinistra, le sedie che si trasformano in un tavolino mensole con scatole di cartone o porta carta igienica con pacchetti di sigarette vuoti”. Il team è andato alla scoperta di quello che può essere utile per la vita quotidiana in condizioni di detenzione incontrando, appunto, i carcerati. Architetti e designer si sono quindi confrontati per capire come trovare un equilibrio tra norme, esigenze dei detenuti e alcune delicate questioni morali. “Sappiamo di lavorare anche per persone che hanno commesso reati gravi - continua - L’etica e la legge italiana prevedono che una persona possa sbagliare, essere punito per i propri errori ma non per questo perdere il diritto alla propria dignità. Trattare in maniera inumana chi sta già scontando una pena non solo non permette di migliorare, ma peggiora ulteriormente la situazione”. Il punto di equilibrio è stato trovato nella progettazione di arredi essenziali ma funzionali. C’è la sedia “faccia a faccia”, accostandone due si forma un tavolino da usare come un mini spazio per le relazioni: mangiare guardandosi negli occhi, condividere un libro, giocare a scacchi, o semplicemente parlare. Tutto è realizzato con un materiale plastico riciclato dai rifiuti di uso comune, principalmente tappi di bottiglie. Un processo rinominato “dal rifiuto al riuso”: “Una metafora della possibilità di riabilitazione e ritorno alla vita civile della persona carcerata”. Nei giorni scorsi, a un gruppo di persone è stato permesso di accedere alla cella-pilota di San Vittore. Superati i rigidi controlli di sicurezza, i visitatori sono entrati nel quarto braccio della struttura, da anni inutilizzato perché da ristrutturare, dove hanno trovato spazio un letto a castello, due sedie e alcuni armadietti per oggetti personali e di uso comune. Alle pareti, le sbarre diventano luoghi in cui riporre i libri, appendere utensili o vestiti. Ma non c’è solo la cella-prototipo di San Vittore. Stanze Sospese si è confrontato anche con l’Istituto milanese per detenute con figli minori, e proprio per le mamme e i bimbi sono stati realizzati uno “sgabello gioco” e una sedia che si adatta alle diverse fasi di crescita del bambino. Bologna: si consolida “Fare impresa in Dozza” farodiroma.it, 14 aprile 2019 È stato un giovane detenuto di fede islamica, Isham, a spiegare a monsignor Matteo Maria Zuppi la filosofia delle Officine Dozza che operano nel carcere di Bologna. “In questa officina - ha detto il giovane accogliendo il presule in visita al carcere - convivono persone di nazionalità e religioni diverse, ci rispettiamo. Stiamo imparando a usare testa e mani in un altro modo. E io sogno, un giorno, di diventare un tutor come i nostri tutor, che ci insegnano la vita oltre la meccanica”. “I detenuti vedono già un pezzo di futuro qui”, ha commentato monsignor Zuppi che ha annunciato l’ingresso nell’iniziativa della Faac, la grande impresa dei cancelli ora di proprietà della sua diocesi grazie a un lascito tesamentario. La Faac diventerà la quarta azienda che varcherà fisicamente la soglia del carcere della Dozza, per affiancarsi a Marchesini Group, Gd e Ima, i tre colossi dell’industria bolognese che, nel 2012, da concorrenti sono diventati soci, dando vita a Fid, Fare Impresa in Dozza. Un’officina meccanica con 37 dipendenti che sta diventando un’occasione di riscatto per i detenuti del carcere, come ha confermato la direttrice del carcere, Claudia Clementi: “questo è un lavoro vero. Un’ampia percentuale di chi ha lavorato in Fid, ha poi trovato un’occupazione anche fuori e questo è l’obiettivo per cui lavoriamo ogni giorno”. Fare Impresa in Dozza - Impresa sociale Srl, è nata nel maggio 2012, all’interno della Casa Circondariale di Bologna, dall’idea del presidente della società Giorgio Italo Minguzzi che è riuscito a mettere in connessione la formazione professionale, le istituzioni e tre giganti della Packaging Valley come G.D., IMA, e Marchesini Group. Si tratta di un’esperienza unica in Italia il cui obiettivo è quello di fornire ad alcuni detenuti, attraverso la realizzazione di lavori di carpenteria, assemblaggio e montaggio di componenti meccanici, una opportunità di lavoro stabile e duraturo, recuperabile una volta concluso il periodo detentivo. La specializzazione dell’azienda riguarda il settore del packaging e dell’automazione industriale, nell’ambito della produzione delle tre aziende sostengono l’iniziativa. Fondazione Aldini Valeriani è coinvolta sia in quanto socia, insieme a GD, IMA e Marchesini Group, che per quanto concerne l’organizzazione della parte formativa propedeutica all’ingresso in azienda, curata nello specifico dall’Area IeFP e Progetti di Inclusione. Un altro aspetto interessante dell’esperienza è stato quello di identificare negli operai in pensione i tutor della formazione per il trasferimento delle conoscenze estremamente specializzate che sono necessarie a svolgere il compito professionale richiesto. Milano: nel carcere di Bollate il riscatto è “taglia e cuci” di Roberta Rampini Il Giorno, 14 aprile 2019 Colpevoli di reati contro le donne, i detenuti hanno realizzato prodotti artigianali per aiutare una onlus che sostiene le vittime di violenze. Da liberi si sono resi colpevoli di reati contro le donne. Ora da reclusi nel carcere di Bollate, una trentina di detenuti hanno scelto di riscattarsi con un’iniziativa di raccolta fondi a sostegno de “L’altra metà del cielo” di Merate (Lecco), onlus che sostiene le vittime di violenza di ogni genere. Una sorta di “giustizia riparativa”, un progetto sociale con una valenza terapeutica che ha visto la partecipazione anche della scuola “Il teatro della moda” di Milano. In questi ultimi mesi, attraverso la collaborazione di alcuni docenti che si sono resi disponibili, i detenuti hanno appreso tecniche di taglio e cucito e realizzato prodotti artigianali con tessuto di vario genere. L’idea è stata di un detenuto che aveva questa passione e gli altri “compagni” del settimo reparto l’hanno seguito con entusiasmo. Risultato? Con ago, filo e tessuto hanno realizzato decine di indumenti, altrettanti accessori come borse, marsupi, foulard, lenzuola e cuscini per la linea camera, tovaglie, grembiuli, presine per la linea cucina, porta oggetti per la linea bagno, linea giardino e altro ancora. Oggi, nell’ambito della seconda edizione del “Mercatino di primavera”, i detenuti venderanno i loro prodotti e con i fondi raccolti daranno sostegno all’associazione “L’altra metà del cielo”. “Molti dei detenuti coinvolti hanno scoperto doti innate nell’utilizzo della stoffa, nella progettazione del disegno, del taglio, del cucito a mano e del cucito a macchina, del montaggio, della rifinitura, piegatura e del confezionamento dei prodotti - spiegano gli organizzatori -. Tutti i prodotti sono stati realizzati artigianalmente, attraverso la programmazione di una catena umana che si è sostenuta con il contributo di ciascuno, anello fondamentale dell’intera filiera”. Raccolta fondi, ma non solo. La collaborazione con “Il teatro della moda” non si conclude, infatti è stata istituita come riconoscimento una borsa di studio in favore di un detenuto che si è distinto durante la realizzazione dei prodotti e che potrà fruire dell’esperienza della scuola per partecipare alle lezioni e ottenere un attestato spendibile all’esterno una volta conclusa l’esecuzione penale. Per le modalità d’ingresso al carcere e per fare acquisti al mercatino è necessario iscriversi sul sito carceredibollate.it. Velletri (Rm): come vive la propria missione il cappellano della Casa circondariale di Gianluca Biccini L’Osservatore Romano, 14 aprile 2019 Un “pronto soccorso caritativo” e spirituale per persone “che hanno bisogno soprattutto di imparare la vita bella del Vangelo”, perché “chi è dentro il carcere e lo conosce” frequenta esseri umani, non animali feroci. Riassume così don Franco Diamante la propria missione di cappellano nella Casa circondariale di Velletri, scelta da Papa Francesco per lavare i piedi ai detenuti durante la messa nella Cena del Signore il prossimo Giovedì santo. Il penitenziario ospita attualmente quasi seicento uomini, molti dei quali di nazionalità straniera, in prevalenza romeni, marocchini, albanesi, tunisini e nigeriani. Diversi sono i tipi di crimini commessi, così come differenti le pene che devono scontare. Sotto la direzione di una donna, Maria Donata Iannantuono, completano la comunità circa 200 agenti di custodia, anch’essi comandati da una donna, Maria Luisa Abbossida, e un centinaio di civili con varie mansioni. In questa intervista all’”Osservatore Romano” il sacerdote parla delle attese dei suoi “parrocchiani” e del loro “bisogno di sentirsi più forti vicino” al Papa. Da quanto tempo si occupa di pastorale carceraria? Sono entrato in questo mondo nell’anno 2000, al mio ritorno da un’esperienza in Messico come prete fidei donum, dove i campesinos, in particolare le anziane donne, mi chiamavano con l’affettuoso diminutivo padrecito. Poi nel 2007 il vescovo di Velletri mi ha chiamato a prendere il posto del cappellano del penitenziario che andava in pensione. Come si concretizza questo ministero “dietro le sbarre”? Nulla di particolarmente diverso rispetto alla vita di una normale parrocchia. Gli antichi romani per definire i territori sconosciuti usavano la definizione Hic sunt leones. Ma chi è dentro il carcere e lo conosce, leoni non ne frequenta. Nel corso della settimana celebriamo l’Eucaristia, chi vuole partecipa alla catechesi e ai molti che chiedono si va incontro nella carità. Il cappellano e i volontari sono al servizio di tutti, senza discriminazioni di nessun genere e senza tentazioni di proselitismo. Anzi, in realtà i più assistiti sono proprio i detenuti stranieri che professano altre fedi, ovviamente perché sono i più poveri. Del resto, la predicazione è il servizio più grande, perché queste persone hanno bisogno soprattutto di conoscere la vita bella del Vangelo. Ci sono altre realtà che la aiutano? Con il cappellano operano diversi volontari, nella liturgia, nella catechesi e nel “pronto soccorso caritativo”. Ci sono altre due associazioni di volontariato con le quali si collabora in modo complementare, in armonia ma anche nella diversità di modalità e di obiettivi prossimi. Quali sono le specificità e le criticità della Casa circondariale di Velletri? A mio parere qui c’è una buona fama di umanità e di moderazione che viene da lontano. I rapporti tra i detenuti e le figure istituzionali, in primis la Polizia penitenziaria, sono improntati al rispetto reciproco e alla comprensione dei problemi degli uni e degli altri. Generalmente i reclusi si esprimono bene sull’operato delle guardie che non solo vigilano, ma ascoltano e si adoperano per le esigenze dei primi. Quanto alle problematicità, sono quelle comuni a tutti i penitenziari italiani. Ne voglio sottolineare una: il difficile accesso ai benefici previsti dalla legge e alle pene alternative alla detenzione. Cosa si aspettano i detenuti dalla visita del Pontefice? Ognuno singolarmente desidererebbe un incontro personale con il Santo Padre per aprirgli il proprio cuore. Sperano di stringergli almeno la mano e ricevere uno sguardo. Non è la vanità di chi ama fotografarsi con i vip, ma il bisogno di sentirsi più forti vicino al Papa, che per i carcerati ha sempre parole incoraggianti. Di certo sarà un giorno di grande festa e tutti potranno assaporare un po’ di gioia, come quando splende il sole e tutti ne ricevono un raggio benefico. Quanto bisogno c’è di festa in questo luogo ove essa è pressoché sconosciuta! Belluno: “Sistema penale e misure alternative”, convegno dell’Associazione Jabar di Alessia Trentin Il Gazzettino, 14 aprile 2019 Fino al 2008 era uno dei carceri più duri d’Italia. Oggi il penitenziario di Baldenich è un modello per tutti. È stato tra primi, dieci anni fa, a portare le aziende al di là del muro, perché dessero lavoro ai detenuti. Oggi sono 9 le aziende che offrono impiego al 65% delle persone rinchiuse. “Una percentuale altissima commentava ieri il garante dei diritti dei detenuti, Emilio Guerra - un numero così alto da rendere Belluno un unicum in Italia”. Tanto che oggi si sta pensando anche a impieghi all’esterno delle mura di cinta, in quella comunità civile dove i detenuti, terminata la pena, dovranno cercare di reinserirsi. E, mentre si programma questo passo in più, nel dicembre scorso l’associazione Jabar ha sottoscritto con la direzione della Casa circondariale un accordo, affinché alle persone che sono agli sgoccioli della loro pena possano essere concessi i cosiddetti permessi premio. Di questo e di tanto altro si è parlato ieri mattina in Sala Bianchi, all’interno dell’incontro “Sistema penale e misure alternative” organizzato dall’associazione Jabar nell’ambito delle iniziative promosse per festeggiare i cinque anni dalla sua fondazione. Il convegno era anche un corso di formazione accreditato per giornalisti, avvocati e assistenti sociali. E infatti, in sala, c’erano numerosi professionisti e diversi rappresentanti della stampa locale. “Dal punto di vista della formazione alla Casa circondariale della città negli anni sono state portate avanti iniziative straordinarie ha sempre spiegato Guerra, il primo relatore della giornata. Ultimamente però prevale il lavoro e non ci sono le ore disponibili per portare avanti la formazione. Per fortuna ci sono i volontari di Jabar con i corsi di informatica e la redazione interna che si occupa di scrivere un periodico”. L’incontro è proseguito con gli interventi di Margherita Benazzato dell’Uepe, Paola Mastrosimone ex Uepe, dell’avvocato bellunese Gino Sperandio e di Chiara Da Ros della cooperativa sociale Società Nuova. Nel complesso i relatori hanno cercato di fornire un quadro preciso dei sistemi di pena alternativi, della vita dentro al carcere e di quella di chi, terminata la reclusione, cerca di tornare ad una vita normale. Ha chiuso i lavori la presidente di Jabar, Elisa Corrà, spiegando la novità introdotta da pochi mesi, quella del permesso premio. Oggi sono 84 gli ospiti del carcere di Belluno, tra questi 6 trans e 6 detenuti psichiatrici ai quali è riservata una speciale area della struttura. Catanzaro: “Memorie dal Carcere”, un progetto che racconta la condizione detentiva di Matteo Brancati catanzarotv.net, 14 aprile 2019 Si chiama “Memorie dal Carcere” ed è un progetto messo in piedi nel 2015 da alcuni ragazzi con la voglia di raccontare, in tutte le sue sfaccettature, la condizione detentiva di chi sta dietro le sbarre. Semplici persone le quali, nonostante i problemi, vogliono voltare pagina. E quattro giovani, con idee “alternative”, attraverso un format TV, la fotografia e il suo linguaggio, sono riusciti a formare un percorso terapeutico di parole e immagini. Una sorta di laboratorio, dove le immagini vengono usate per predisporre, in un certo senso, ragionamenti sui percorsi di vita di ogni detenuto. E il format TV, a tal proposito, è la parte più riflessiva del progetto, con 4 puntate da 50 minuti ciascuna girate in diversi carceri del Paese. Un esperimento, se possiamo definirlo tale, che vedrà protagonisti i già menzionati detenuti, che guarderanno alcune fotografie, per poi commentarle ed esprimere le loro sensazioni. Calabria 7, così, ha intervistato Guido Gazzilli, Elia Buonora, Lorenzo Sorbini e la catanzarese Roberta Gigliotti per conoscere ancora di più il significato di “Memorie dal Carcere”. Com’è nata l’idea di questo progetto? “Il progetto è nato da un’idea di Guido e Iole Calvigioni, operatrice del Sert e psicologa che da anni lavora nelle carceri. L’idea iniziale era quella di raccogliere un grande numero di foto concesse da svariati fotografi conosciuti per organizzare una mostra che andasse ad abbellire le aree del carcere destinate alla socialità e all’incontro con i familiari, solitamente asettiche e grigie. Si è dunque lavorato in un primo piccolo carcere a Civitavecchia con un gruppo ristretto di persone, ma già dal lì si intuiva il potenziale del progetto: infatti ogni detenuto partecipante, stimolato dal potere evocativo delle immagini, si è ritrovato a scrivere lunghe pagine di ricordi. Successivamente abbiamo lavorato in un carcere di Civitavecchia più grande con due gruppi di detenuti, prima maschile poi femminile e infine siamo entrati a Rebibbia per l’ultima parte del progetto. In questi due carceri il lavoro si è consolidato ed ampliato e di fatto è diventato un documentario. Ora stiamo lavorando ad una proposta di format televisivo”. Cosa vi ha insegnato questa esperienza? “Prima di tutto un sentire fisico ed emotivo personale: quando si entra in carcere la sensazione è veramente opprimente, gli spazi sono stretti e chiusi e quando uscivamo tiravamo sempre un sospiro di sollievo. Non abbiamo girato moltissimi carceri ma abbiamo notato una considerevole differenza quando siamo arrivati a Rebibbia, un carcere comunque sovraffollato come tutti in Italia ma dove si svolgono molte attività ricreative e questo si riflette in un clima leggermente più disteso. Gli insegnamenti ricevuti sono tanti ma due forse ci hanno colpito in particolare. Il primo è che difficilmente si riesce a “tendere alla rieducazione del condannato” come sancito nella Costituzione: finire in carcere diventa una macchia sociale che spesso preclude possibilità di un riscatto e diventa l’inizio di un percorso a ostacoli di ricadute ed errori. Il secondo insegnamento è che, con le dovute proporzioni, a chiunque potrebbe capitare: siamo stati testimoni di racconti di vite criminali e omicidi efferati ma anche di episodi di vita che in modo quasi casuale ti portano a trovarti lì dentro”. Cosa volete far capire al pubblico che “guarderà” il format? “L’intento con cui è nato e si è sviluppato questo progetto e che vorremo replicare nel format televisivo è duplice. La nostra intenzione è quella di far vedere il mondo delle carceri e le persone che le vivono sotto una luce differente da quella a cui siamo abituati di solito: infatti non vuole essere un lavoro di denuncia, un reportage giornalistico in cui si elencano le cose che non vanno e si denuncia un problema. Lo scopo è quello di smontare almeno per un attimo la figura sociale che inevitabilmente abbiamo del detenuto e riscoprire la dimensione umana dell’individuo. Una sospensione del giudizio che non vuole essere uno sterile pietismo ma un necessario percorso umanizzante. In questo senso si inserisce il secondo valore del progetto che è quello legato al potere evocativo della fotografia, qui intesa come un’opportunità per generare riflessioni, creare rapporti e reazioni positive”. Milano: il coro di detenuti che cantò alla Scala di Eliana Onofri agi.it, 14 aprile 2019 Ultima tappa del viaggio dei marinai della Nave, i detenuti del reparto del Terzo Raggio di San Vittore fino al loro straordinario appuntamento. Lunedì 8 aprile, ore 6. Una doccia veloce, un paio di jeans e la felpa de La Nave addosso. Il tempo di fare colazione non c’è. Il blindato che li dovrà portare alla Scala già li aspetta. Autorizzati a uscire solo 13 detenuti. Agli altri non rimarrà che intonarla nostalgicamente, dalla cella. Il blindato arriva alla Scala. I marinai sono scortati da molti agenti, tutti in borghese. Devono fare un percorso obbligato per raggiungere la comparserìa, una stanza piena di specchi che riflettono solitamente i volti perfettamente truccati degli artisti. Veniamo tutti chiamati sul palco per la ‘prova di assestamento’. La sensazione che proviamo subito è quella di un teatro che ti abbraccia. Una Madre dolce e accogliente avvolta in un manto scarlatto e dorato. Non dimenticherò mai i volti di quei marinai. Come quando gli astronauti videro per la prima volta dalla Luna lo splendore della Terra nell’universo. “Posso guardare il mondo da un’altra parte perché oggi ho una possibilità”, mi dice uno di loro. Ore 10.30, lo spettacolo inizia. Si celebra il pensionamento di un uomo, Giuseppe Guzzetti, che ha sempre posto al centro la dignità dell’essere umano, in particolare dei più fragili. L’attesa del nostro turno è un coacervo di emozioni. Due parenti per ciascuno. Alcuni hanno voluto la compagna e un figlio, altri i genitori. Scegliere non è mai facile. Dall’amplificatore all’improvviso una voce: “Gli artisti del Coro della Nave si preparino”. Un marinaio esclama stupefatto “Ci hanno chiamati artisti!”. Ci incamminiamo tutti verso il palco, in fila, riuscendo a scambiare a mala pena qualche parola. Quei nove minuti di attesa diventano una vita. Alessandro mi dice “Ci sono mia figlia più grande e mia moglie là fuori. I piccoli li ha dovuti lasciare a casa” e gli si illuminano gli occhi di una malinconica e consapevole gioia. Poi si entra in scena, lentamente, su due file. I marinai e i volontari da una parte del palco, i coristi della Scala che hanno sposato il progetto a titolo di volontariato dall’altra, tutti con la stessa divisa, quella degli ultimi. Anche il direttore del Coro scaligero si unisce in un ideale abbraccio d’amore. Nessuno strumento, solo voci. Fra il pubblico, due uomini illuminati: Luigi Pagano, che per primo ebbe l’intuizione di un carcere diverso, e Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore che prosegue la contaminazione tra il dentro e il fuori. Tra i coristi, Graziella Bertelli, la psicologa che dirige il reparto de La Nave, e una parte della sua equipe. Prima di iniziare riecheggiano nella mente le parole del Maestro del Coro, Paolo Foschini, che per tutti è semplicemente Paolo: “Intanto che cantate pensate solo alla nostalgia di casa vostra. Funzionerà”. Ed ecco che il miracolo si compie. “Vaaa pensieeeerooo sull’aliii doraaaatee….”. L’aria del Nabucco di Giuseppe Verdi, che narra la storia del popolo di Israele prigioniero,viene ora intonata da chi la prigionia ce l’ha marchiata sulla pelle. Uno scroscio di applausi emozionati. Qualche marinaio non resiste alla tentazione di salutare con la mano i propri cari che cerca tra i fazzoletti agitati dal loggione. Oggi la fierezza si legge finalmente su tutti i loro volti. Torino: un rap “FuoriLuogo”, trionfa il corto dell’Ipm Ferrante Aporti di Gianfranco Macigno gnewsonline.it, 14 aprile 2019 I minorenni che partecipano al laboratorio di informatica multimediale dell’Istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino hanno vinto il primo premio del Concorso nazionale “OFF del Sottodiciotto Film Festival & Campus”, riservato ai cortometraggi realizzati dagli under 18 in ambito extrascolastico. Il video clip, realizzato dai ragazzi del “Ferrante Aporti” per accompagnare il brano rap “Crazy” scritto da un loro compagno, è stato premiato dalla giuria composta dal regista Enrico Bisi, dalla documentarista Rosa Canosa e da Marco Meccarini, presentatore e autore televisivo, “per la sintonia tra immagini, musica e parole che il cortometraggio riesce a far arrivare al pubblico attraverso uno stile ben calibrato”. Il pezzo presenta un testo esplicito, diretto, sulla base composta da Shot Records, attraverso cui viene espresso un disagio giovanile fatto di solitudine e di nostalgia per gli affetti lontani che può essere lenito dalla prospettiva di fare gruppo: stare insieme, infatti, costituisce per i giovani un modo per rimanere uniti, andare oltre gli errori commessi e superare le difficoltà personali e sociali. Un flusso di coscienza che tocca i luoghi di esperienze personali vissute: muri, strade e panchine sopravvivono nella mente dei ragazzi coinvolti e restituiscono all’ascoltatore un ritratto preciso, tangibile, come nella più classica tradizione del rap underground. Roma: a Rebibbia torneo di calcio tra detenuti, magistrati e agenti Il Messaggero, 14 aprile 2019 Torneo di calcio a Rebibbia tra detenuti, agenti e magistrati. “Confronti senza barriere” è il triangolare promosso dalla Casa circondariale e organizzato dalle associazioni Gruppo Idee e Love Cup. A fare il tifo, questa mattina al campo esterno di Rebibbia, il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Giuseppe Cangemi, il direttore di Rebibbia Nuovo Complesso Rossella Santoro, il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia e il comandante degli agenti di Polizia penitenziaria Luigi Ardini. In campo, dirette dall’arbitro federale e agente di polizia penitenziaria Vincenzo Sangiomo, la Nazionale Rebibbia, formata da detenuti e agenti di polizia penitenziaria allenati dal sostituto Commissario coordinatore polizia penitenziaria Luigi Giannelli; magistrati e avvocati della Rappresentativa Magistrati Italiani, guidata dal presidente Luca Palamara, e la Love Cup, con in squadra dj, proprietari di locali e forze dell’ordine. Love Cup, guidata da Alex Bucci e Marcello Cuicchi, insieme a Gruppo Idee porta il calcio in tour nelle carceri per contribuire alla rieducazione dei detenuti attraverso lo sport. “Il sostegno alle carceri del nostro territorio passa anche attraverso la pratica sportiva - ha detto Cangemi salutando le formazioni in campo - il triangolare di calcio a Rebibbia dimostra ancora una volta la forte valenza sociale dello sport che, come istituzione, dobbiamo incoraggiare e supportare. A cominciare dalla manutenzione del campo di calcio di Rebibbia, non proprio in condizioni ottimali, per il quale solleciterò un intervento con l’assestamento di bilancio a giugno”. Prima del calcio d’inizio, dato dall’attrice Raffaella Camarda, madrina dell’evento, le formazioni si sono raccolte in un minuto di silenzio in memoria dell’agente di Polizia penitenziaria Raffaele Cinotti, ucciso il 7 aprile 1981, al quale è stato dedicato il triangolare terminato con la vittoria della formazione Nazionale Rebibbia. La libertà di stampa diventi valore fondamentale della Ue di Christophe Deloire* L’Espresso, 14 aprile 2019 L’appello del Segretario generale di Reporters sans frontières ai candidati che vogliono entrare a far parte del Parlamento di Strasburgo: “La protezione del giornalismo deve potersi identificare in un individuo. Oggi ci impegniamo affinché la futura Commissione nomini un commissario incaricato di far fronte a questa sfida”. Una persona su due nel mondo non ha accesso ad una libera informazione. Noi, Europei, possiamo considerarci fortunati di godere di questa libertà “che permette di garantire l’esistenza di tutte le altre libertà”. Nella classifica mondiale della stampa elaborata da Reporters sans frontières (RSF), il nostro continente è di gran lunga il migliore in termini di protezione della libertà di stampa. Ma non facciamoci troppe illusioni: negli ultimi anni, una diga è saltata in Europa, e questa colonna portante delle nostre democrazie è oggi seriamente in pericolo. L’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi a Istanbul ci ha fatto intravedere quale tipo di violenza, spesso mostruosa, può essere inflitta ai nostri colleghi nel mondo. Ora, l’Europa non è al sicuro da tutto questo. A Malta, Daphne Caruana Galizia è stata uccisa per aver scoperto ed analizzato un sistema di riciclaggio di denaro sporco. In Slovacchia, Ján Kuciak è stato assassinato per le sue inchieste sulle dinamiche tentacolari di uno scandalo di evasione fiscale. Queste uccisioni sono le violenze più gravi perpetrate ai danni dei professionisti dell’informazione. Ma rappresentano anche il sintomo di un problema di fondo. L’Europa patisce dell’indebolimento del giornalismo dovuto ad una retorica anti-media mantenuta, e a volte amplificata, da alcuni rappresentanti politici al potere o che sperano di conquistarlo. Con la crisi dei Gilets jaunes in Francia, un odio profondo è stato manifestato contro i giornalisti, sono state perfino proferite delle minacce di stupro ai danni di alcuni reporter. Anche il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, strumentalizza la stessa diffidenza anti-media quando evoca la questione delle fake news per giustificare il suo rifiuto di interagire con gli organi di stampa che non sono vicini al suo partito. Non possiamo rassegnarci. Problemi molto concreti sono stati identificati, e l’Europa può agire per affrontarli. Prendiamo, ad esempio, il caso delle vessazioni giudiziarie contro i giornalisti: taluni soggetti aggirano la legge e moltiplicano le procedure civili o penali per esercitare una pressione così forte sui giornalisti da condannarli al silenzio. Questo problema, come quello della deriva di alcuni governi o come quello delle persecuzioni on-line, può essere risolto nel 2019 se una volontà politica emergerà con le elezioni europee per rinforzare la libertà di stampa in tutto il continente. Come tutte le politiche pubbliche, la protezione del giornalismo, della sua indipendenza e del suo pluralismo, deve potersi identificare in un individuo. Oggi ci impegniamo affinché la futura Commissione europea nomini un commissario ufficialmente incaricato di far fronte a questa sfida. Da Bucarest a Madrid, da Nicosia a Stoccolma, da Dublino a Vienna, la società civile ha bisogno di un interlocutore di alto livello a cui rivolgersi ogni qualvolta questa libertà essenziale è violata. Per lanciare un dialogo continuo e forte con gli Stati-membri. Per difendere il diritto ad un’informazione attendibile al di là delle nostre frontiere comuni. Per intraprendere, in tutta l’Unione europea, le riforme legislative necessarie. Potremo valutare il livello di ambizione di questo futuro commissario dal modo in cui adopererà - o meno - tutte le armi politiche a sua disposizione per condurre questa battaglia. Esistono molte possibilità per uscire dagli schemi del passato. Reporters sans frontières propone, ad esempio, di avvalersi della politica della concorrenza che rappresenta uno strumento di azione straordinariamente potente nelle mani della Commissione. È ora di lottare contro i conflitti di interesse spesso legati alle concentrazioni verticali, ovvero quando un uomo o una donna d’affari usano i media d’informazione per metterli al servizio dei loro interessi personali o di quelli dei loro amici al potere. Affinché questa volontà politica affiori ai vertici della Commissione, facciamo oggi un appello a tutti i candidati che vogliono entrare a far parte del Parlamento di Strasburgo. Abbiamo bisogno dei deputati europei per modernizzare il quadro giuridico. Basta pensare alla questione della responsabilità delle piattaforme internet, o meglio della loro irresponsabilità…una questione mai affrontata negli ultimi venti anni! È ora di aggiornare il quadro normativo nel quale queste si muovono - ancora formalizzato dalle direttive relative all’e-commerce -, grazie ad un regolamento europeo in grado di produrre regole del gioco attente alla libertà e all’affidabilità dell’informazione. La libertà di stampa è al centro delle aspirazioni democratiche che unisce gli Stati-membri dell’UE. Difendendole l’Europa protegge il suo modello politico, al suo interno ma anche nei confronti di minacce in provenienza dal resto del mondo. È per questo motivo che deve dotarsi di strumenti concreti ed efficaci per difendere i suoi valori. Offrendo, ad esempio, nuove garanzie democratiche per lo spazio della comunicazione e dell’informazione, la cui organizzazione è oggi, di fatto, delegata alle piattaforme… questo è, ad ogni modo, ciò che auspicano i capi di Stato e di governo europei che, nel mese di novembre 2018, con alcuni loro omologhi internazionali, hanno lanciato un’iniziativa politica ispirata alla Dichiarazione internazionale dell’informazione e della democrazia, elaborata dalla commissione creata con l’impulso offerto da Reporters sans frontières. O creando, ad esempio, alcuni strumenti giuridici sanzionatori nuovi, di tipo amministrativo o finanziario, da usare contro i predatori della libertà di stampa nel mondo… esattamente come ha recentemente richiesto lo stesso Parlamento europeo. Durante questa campagna elettorale europea, si evoca a volte un’”Europa potenza” o una “Europa che protegge”: è giunto il momento di dare veramente corpo e vita a questa ambizione! Dobbiamo al più presto trasformare la libertà di stampa in un valore fondamentale dell’Unione, metterla al cuore stesso dei suoi trattati, al centro della vita delle sue istituzioni, sulla prima linea del fronte di tutte le sue battaglie. *Segretario generale di Reporters sans frontières (Rsf) Non un santo, non un eroe, non un giornalista: cosa significa l’arresto di Julian Assange di Raffaele Angius La Stampa, 14 aprile 2019 “I know nothing about WikiLeaks”: “Non ne so nulla”, ha dichiarato Donald Trump alla notizia dell’arresto di Julian Assange. Che quel giorno l’eccentrico fondatore di WikiLeaks sarebbe stato scortato fuori dall’ambasciata ecuadoriana, dove per sette anni ha goduto dello status di rifugiato politico, non ci credevano neanche le televisioni, che pochi giorni prima dell’evento avevano spento le telecamere considerandolo uno sforzo inutile. Un unico operatore, mandato dalla redazione berlinese di una testata russa, ha filmato l’uscita di Assange, con in mano un libro di Gore Vidal e l’aspetto di un santo caravaggesco. Ma Assange non è un santo, né un eroe. Certamente non per gli Stati Uniti, i cui segreti ha contribuito a svelare, mettendo in grave difficoltà sia l’amministrazione Obama sia quella di Trump. Né per il governo britannico, che per anni ha dovuto tollerare l’invadente presenza del suo ospite australiano proprio nel centro della City. Infine l’Ecuador (Paese di cui Assange ha la cittadinanza dal 2017), che nel 2012 gli concesse l’asilo “per dimostrare che il Paese tiene davvero alla libertà di stampa”, si disse all’epoca. Ma Assange non è un giornalista e WikiLeaks non è una testata. Hacktivista di lungo corso (dalla contrazione delle parole hacker e attivista), è un esperto informatico, la cui intuizione fu quella di realizzare una piattaforma collaborativa nella quale chiunque avrebbe potuto condividere informazioni fino a quel momento segrete. Così sono nati gli scandali, e i membri di WikiLeaks, che in pochi anni ha raccolto migliaia di volontari e adepti, è diventata un problema di sicurezza nazionale e oggetto degli attacchi alternati di una o dell’altra fazione. “Ci sono due livelli di critica possibili nei confronti di Assange: il primo è giornalistico, il secondo politico”, ha spiegato a La Stampa Philip Di Salvo, Ricercatore dell’Università della Svizzera italiana e giornalista. “Dal 2016 l’organizzazione ha pubblicato indiscriminatamente migliaia di file e email private che non avevano alcun reale valore giornalistico e che hanno creato grave imbarazzo all’organizzazione”. Il riferimento è alle mail dei membri del Partito Democratico americano e a quelle che hanno di fatto esposto l’affiliazione politica di migliaia di cittadini turchi. Nel primo caso, Assange è ritenuto responsabile di un’operazione confezionata dal Cremlino e che di fatto ha favorito la corsa di Trump alla Casa Bianca. Nel secondo episodio invece, WikiLeaks si è attirata le ire degli attivisti turchi anti Erdogan e filo-curdi, le cui identità sono state irrimediabilmente esposte a beneficio dei servizi segreti del Paese, che nello stesso periodo affrontava le manovre repressive seguite al tentativo di colpo di stato. “Per difendere il diritto di pubblicazione indiscriminata, Assange ha fatto l’errore di attaccare anche storici oppositori di Erdogan come Zeynep Tufekci, che su Twitter fu definita proprio da WikiLeaks “un’apologeta di Erdogan”“, spiega Di Salvo. A gettare ulteriori ombre sulla figura di Assange ci pensano anche i rapporti con Roger Stone, all’epoca responsabile della campagna elettorale di Trump, e del figlio del presidente, Donald Trump Junior. “Non c’è nulla di giuridicamente rilevante in quei contatti, anche se chiaramente le frequentazioni digitali di Assange hanno sollevato più di qualche dubbio, alimentando le voci su un suo possibile coinvolgimento con i servizi segreti russi”. Dopo l’arresto Assange, il 12 aprile, il Cremlino è stato il primo a sollevare la voce contro gli Stati Uniti, “ma che ci sia stato un rapporto reale tra lui e la Russia non è mai stato dimostrato, dopotutto anche Trump nel 2016 disse “I love WikiLeaks”“ Ma l’arresto di Assange non c’entra nulla né con la Turchia né con le mail di Hillary Clinton. Oggi, l’hacktivista è accusato di aver cospirato contro il governo americano e di aver “incoraggiato” Chelsea Manning (al secolo Bradley Manning, prima di cambiare sesso) a divulgare documenti e video che provavano gli atti disumani compiuti dall’esercito statunitense in Iraq e Afghanistan. Celebre è il video “Collateral Murders”: ripresa in prima persona di un elicottero Apache che spara e uccide dodici persone, tra cui due giornalisti di Reuters. “Il Dipartimento di Giustizia sostiene che parte di quello che Assange ha fatto per giustificare la sua incriminazione - oltre ad aver aiutato Manning a ottenere i documenti - è che avrebbe incoraggiato Manning a ottenerne di più per pubblicarli”, ha scritto su Twitter Glenn Greenwald, vincitore del Premio Pulitzer per aver raccolto e verificato le informazioni fornitegli da un’altra fonte anonima: Edward Snowden. “I giornalisti fanno così con le loro fonti costantemente - prosegue Greenwald -, questo equivale a criminalizzare il giornalismo”. Assange non è un giornalista, ma a volte qualcuno che pensi fuori dagli schemi per costruire nuovi punti di vista. “È innegabile che WikiLeaks abbia cambiato il giornalismo - precisa Di Salvo -: da una maggiore attenzione per la sicurezza delle telecomunicazioni alla capacità di analizzare enormi quantità di documenti come nel caso dei Panama Papers, tutto è arrivato dopo Assange”. Nella lista si annoverano anche le rivelazioni fatte da Snowden nel 2013, quando ha fornito al Guardian e al Washington Post le prove di una massiccia attività di spionaggio internazionale compiuta dai servizi segreti americani dell’Nsa. “Le accuse sollevate oggi dal Dipartimento di Giustizia americano sono le stesse che non volle portare avanti l’amministrazione Obama - ricorda Di Salvo - perché questo avrebbe significato mettere in discussione il rapporto di qualsiasi giornalista con le proprie fonti”. E che le cose stanno così lo dimostra anche il fatto che la disponibilità di Assange ad aiutare Manning nel trovare una password che avrebbe aperto le porte ai segreti militari degli Stati Uniti è un fatto noto dal 2011. Ma in otto anni nessuno ha mai dimostrato che l’hacking sia avvenuto e che Assange abbia realmente contribuito all’intrusione informatica. Reato per il quale Chelsea Manning ha scontato anni di pena in isolamento, prima di venire graziata da Barack Obama, nel suo ultimo giorno da presidente degli Stati Uniti. Oggi Assange attende di conoscere il suo destino, e il sospetto dei suoi avvocati e che sia già stato stampato il biglietto aereo che lo trasferirà negli Stati Uniti. Ad attenderlo dall’altro lato un Donald Trump diverso da quello che disse “Io amo WikiLeaks”. Come scriveva Gorskij, “di tutte le beffe che la sorte serba all’uomo, non ce n’è una più tremenda d’un amore non corrisposto”. Migranti. Quei prigionieri senza colpa di Donatella Di Cesare L’Espresso, 14 aprile 2019 L’internamento dei migranti che non hanno commesso alcun reato è diventato normalità. Come nel buio del Novecento. Ormai si è giunti a credere che sia ovvio, normale, legittimo internare uno straniero - solo perché straniero. Senza che abbia commesso alcun reato. Questa pratica repressiva è un’eredità inquietante del Novecento europeo che l’ha inaugurata. Prima non esisteva. Eppure oggi non si può ignorare a quali crimini sia giunta quella scellerata politica di ecologia della nazione, di pulizia etnica, di detenzione abusiva di esseri umani. Il rapporto offerto dal Garante nazionale Mauro Palma, che fa il punto sul trattamento dei migranti in Italia negli ultimi tre anni, è una lettura raggelante. Ed è lo specchio di quella profonda regressione politica, etica, culturale che non sembra trovare argine. Tutto è peggiorato, in particolare nell’ultimo anno, dopo il cosiddetto “decreto sicurezza”. La detenzione si estende e si moltiplica in uno spazio e in un tempo indefiniti. Ormai sembra lecito trattenere i migranti ovunque, non solo nei famigerati Centri di permanenza per il rimpatrio, ma anche nelle stazioni di polizia, negli hotspot, i punti di smistamento, situati vicino agli sbarchi, nei Centri governativi di prima accoglienza, persino quelli per minori, sui ponti di navi militari, imbarcazioni delle Ong e mercantili, negli ambulatori e nei locali delle forze dell’ordine all’interno degli aeroporti. Non c’è luogo che non sembri idoneo; il giudizio è affidato alle autorità politico-amministrative. Si ammettono così zone buie, sottratte a ogni controllo, nelle quali non giunge lo sguardo dei cittadini. I migranti possono essere esposti a soprusi e vessazioni, senza che nulla trapeli all’esterno. Dove finisce l’accoglienza e dove comincia l’espulsione? In che modo la protezione diventa un alibi per legittimare l’internamento? Certo è che negli hotspot - un termine inglese che tenta ipocritamente di coprire l’oscenità della selezione - si consegnano esseri umani inermi, e spogli di ogni diritto, al potere esercitato dai burocrati della sicurezza. E questi piccoli sovrani possono decidere arbitrariamente grazie all’ambiguità giuridica dei centri di smistamento che ormai assomigliano sempre più sbarrati. A onta della Costituzione italiana, che nell’articolo 13 prevede la libertà di movimento per tutti, e a dispetto della Convenzione europea dei diritti umani. L’Italia è stata già più volte condannata. Ad esempio nel caso di un gruppo di tunisini trattenuti senza motivo nel centro di Lampedusa (“Khlaifia e altri”, 15 dicembre 2016). Insomma chi arriva può essere fatto prigioniero: questa è ormai la legge non scritta. Attenzione, però! Non vale per chi sbarca con le navi da crociera, per gli affaristi russi, per i petrolieri sauditi. Vale per la “subumanità” alla deriva, per i migranti neri, le scorie della globalizzazione, le cui vite di scarto non interessano nessuno. Il Ministro dell’interno Salvini, spalleggiato dai Cinque Stelle, ha ripreso e rilanciato in grande stile la guerra dello Stato contro i migranti. Emblematica è la storia della nave “Diciotti”, il pattugliatore della Guardia costiera italiana che, dopo aver tratto in salvo 177 migranti, è diventata per giorni la loro assurda, illegale prigione. Importante è vedere, dietro l’abuso di potere, la strategia politica che mira a estendere la detenzione degli stranieri perfino in mare. I ponti delle imbarcazioni, che hanno soccorso i naufraghi, diventano, con un rovesciamento ignobile, luoghi di reclusione. Le navi vengono adibite a carceri. Così si favoriscono i respingimenti di massa. Ma c’è di più: quei migranti, prigionieri proprio lì dove avevano scorto la salvezza, sono esseri umani usati come ostaggi per dirimere conflitti che una politica inetta e incompetente non è neppure in grado di affrontare. E quando la politica fa acqua si ricorre alla gestione poliziesca. All’indomani del “decreto sicurezza”, visti gli effetti, si può dire che la detenzione sia diventata l’arma preferita, lo strumento cardine usato dal governo gialloverde contro i migranti. D’altronde che cos’altro resterebbe, una volta smantellato il sistema dello Sprar, quella rete di protezione e accoglienza che aveva appena cominciato a funzionare? Il “merito” di aver buttato per strada migliaia di richiedenti asilo, come se nulla fosse, non va riconosciuto soltanto a Salvini. I cinque stelle hanno fatto la loro parte con gli slogan propagandistici sul “business dei migranti”. Sembrano ancora vantarsene. Il risultato è che, per denunciare singoli casi di corruzione nel bilancio, è stato soppresso direttamente il sistema d’accoglienza. Tanto che importa della vita di quei quattro stranieri? Prima gli italiani! L’unica eccezione sono i Centri per il rimpatrio. Luoghi per eccellenza della detenzione, questi campi di internamento, che prima si chiamavano Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sono stati tollerati e, anzi, avallati dai governi di centro-sinistra. Li ha introdotti la legge Turco-Napolitano il 6 marzo 1998; la Bossi-Fini ha inasprito le misure. Si è trattato da allora di un più e un meno, una battaglia sul numero dei giorni di detenzione, come se questo non significasse già accettare l’obbrobrio. Le cifre del Garante sullo stato attuale dei Centri per il rimpatrio sono molto eloquenti. Nel 2018 sono state internate 4.092 persone; meno della metà, il 43%, sono state rimpatriate. E ancora: per buona parte di loro, cioè il 23%, si è trattato di un errore, perché non avrebbero dovuto essere neppure trattenute. Il “decreto sicurezza” estende la detenzione da 90 fino a 180 giorni. Si prevede inoltre la moltiplicazione di questi centri. Tornerà a funzionare anche la sezione maschile di Ponte Galeria, quelle gabbie immonde vicino all’aeroporto di Fiumicino, dove si può praticare con disinvoltura la zoologizzazione degli umani, la loro trasformazione in bestie, senza alcun rispetto per la dignità. A che cosa servono i Centri per il rimpatrio? A nulla, si vorrebbe rispondere. Eppure questi campi di detenzione, che appartengono già all’universo concentrazionario, hanno un valore simbolico. Chi è dentro, costretto senza alcun processo alla paradossale condizione di espulso-trattenuto, viene condannato all’immobilità e all’invisibilità. Può subire qualsiasi sopraffazione, senza che ciò venga alla luce. Questo riguarda tanto più il rimpatrio di cui poco si sa e che si traduce quasi sempre in una partenza improvvisa, in una sosta indefinita in aeroporto, un volo straziante, con le manette ai polsi, su un charter-prigione. Anche per chi calcola in termini di costi-benefici diventa difficile sostenere l’utilità di tenere in ostaggio pochi migranti capitati nei lacci del poliziotto di turno e nelle maglie della cattiva sorte. Dato che questo dispositivo non ha arrestato la migrazione, non è difficile intuire che si tratta di un messaggio propagandistico tutto rivolto all’interno. Si vuol far credere di difendere così l’ordine pubblico fomentando l’odio, alimentando la paura, spingendo i cittadini a cedere i loro stessi diritti in nome di una fantomatica sicurezza. C’è da chiedersi già adesso quanto tempo sarà necessario per riparare un danno culturale e politico così grave inflitto alla democrazia. I trafficanti di uomini che Matteo Salvini non vuole vedere vengono dalla Russia di Arianna Giunti L’Espresso, 14 aprile 2019 Viaggiano verso l’Italia su insospettabili barche a vela di lusso. Cariche di disperati a cui negano anche il cibo. Ecco chi sono gli scafisti dell’Est, le loro rotte, il business sulla pelle dei migranti. Si confondono fra le imbarcazioni dei turisti: hanno la prua snella e le vele candide. Ma a tradirle, quasi sempre, è il grido di liberazione degli insoliti passeggeri: non appena la barca approda a riva loro scendono di corsa, abbandonano gli abiti fradici d’acqua nelle spiagge e poi scompaiono nel nulla. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ordina la chiusura dei porti, annuncia trionfante che gli sbarchi sono stati azzerati e punta il dito verso le navi delle Ong accusate di essere “taxi del Mediterraneo”, c’è un piccolo e silenzioso fenomeno che sta crescendo intorno alle nostre coste, ma al quale il vice premier non ha mai dedicato nemmeno un tweet. Si tratta del traffico di esseri umani a bordo di insospettabili imbarcazioni di lusso: è il nuovo business sulla pelle dei migranti gestito da potenti clan venuti dall’Est, uniti in un sodalizio criminale con organizzazioni turche. Negli ultimi mesi questi sbarchi sono aumentati a vista d’occhio. E ogni episodio sembra essere la fotocopia di quello precedente: gli scafisti sono di nazionalità russa o georgiana, le navi che trasportano i migranti sono costosi motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana, le fedine penali dei comandanti dell’equipaggio sono rigorosamente immacolate. Per la polizia internazionale si tratta di autentici fantasmi che fanno parte di un rebus criminale ancora tutto da decifrare, riconducibile alla mafia russa, che dopo aver conquistato il monopolio nei furti in appartamento e nel riciclaggio in tutta Europa ora ha affondato le mani anche nel traffico di migranti. Le regole dei padrini dell’Est sono sempre le stesse, applicate in ogni loro settore criminale: silenzio, discrezione e gestione della manovalanza in perfetto stile paramilitare. Una disciplina che anche in questo caso dà buoni frutti, con numeri da capogiro: gli investigatori calcolano che per ogni passeggero gli scafisti guadagnino fino a 10 mila euro a testa, in gruppi di circa 70 persone alla volta per una media di 5 mila viaggi all’anno. Quasi sempre gli scafisti dell’Est percorrono il tratto di mare tra la Grecia e la Puglia, che diventa la scorciatoia per aggirare i “muri” europei. Anche se di recente molti degli sbarchi fantasma sono avvenuti in Sicilia, nella costa del Ragusano, aggirando ogni tipo di controllo. I passeggeri sono spesso curdi o iracheni e la loro fuga verso l’Europa parte dal quartiere Aksaray a Istanbul: è lì che avvengono i primi contatti con queste potenti organizzazioni criminali, come ricostruito da L’Espresso attraverso i racconti dell’orrore fatti dai migranti. Negli ultimi mesi gli episodi hanno avuto un’impennata: se ne sono verificati quasi uno alla settimana, anche per via dell’arrivo del clima più temperato che ha dato inizio a una nuova stagione di sbarchi “fantasma”. E insieme agli approdi arrivano le inchieste, che stanno tenendo occupati i magistrati pugliesi e siciliani. Sotto la lente dei pubblici ministeri di Messina, per esempio, c’è uno sbarco avvenuto alcuni mesi fa a Taormina, al largo della spiaggia di Cantone del Faro. Ad avvisare le forze dell’ordine, allora, erano stati alcuni passanti: avevano visto un gommone che faceva avanti e indietro e che trasbordava a riva alcune persone prelevandole da un’imbarcazione ferma in mezzo al mare in balìa di una tempesta. Con molta pazienza, i Carabinieri della Compagnia di Taormina guidata dal capitano Arcangelo Maiello hanno arrestato uno degli scafisti, mentre la Guardia di Finanza ha messo le manette ai polsi del suo complice, che si trovava in mare intrappolato sulla barca a vela, con le tasche ancora piene di dollari e rubli. Le generalità degli skipper sembrano essere una fotocopia: entrambi russi, trentenni e incensurati. Altra singolare coincidenza, pure stavolta l’imbarcazione risulta immatricolata nel piccolo Stato americano del Delaware, che si trova fra Washington e Philadelphia, famoso per avere uno degli uffici per la registrazione delle barche più attivo di tutti gli Stati Uniti. E dove un motoveliero arriva a costare più di 315.000 dollari. Batteva bandiera americana - sempre immatricolata nel Delaware - pure la barca a vela di 9 metri chiamata “Tefida” che un anno fa ha trasportato una decina di migranti kosovari, fra cui 2 bambini, fino alle coste di Brindisi, in Puglia. I due skipper russi, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e tuttora in carcere, non hanno mai voluto collaborare con gli inquirenti e si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Qualche settimana prima, lo scenario si era ripetuto a largo di Avola, Siracusa: dentro la barca a vela viaggiavano stipati in condizioni disumane 59 pakistani. L’imbarcazione è stata agganciata in mezzo al mare mosso, e trainata a Marzamemi. I militari italiani hanno fermato i due scafisti: anche stavolta russi, incensurati e per niente collaborativi. Molto somiglianti - ma secondo gli inquirenti autentiche - sono anche le testimonianze di chi quelle imbarcazioni le ha prese per necessità, pagando in contanti una cifra salata per raggiungere l’Europa. Fra loro c’è quella di Joseph, trentenne iracheno: “Ho lasciato l’Iraq perché mia moglie era in pericolo per via del suo comportamento troppo occidentale. Da Erbil siamo arrivati ad Ankara, da Ankara a Istanbul. Qui, ad Aksaray, siamo stati avvicinati da A. che ci ha trovato il contatto con lo scafista”. Il quartiere di Aksaray nei racconti di questi migranti rimane una costante fissa: è lì che, a distanza di mesi gli uni dagli altri, i profughi vanno a colpo sicuro per organizzare la fuga verso l’Europa. Sono avvicinati per strada o nei parchi da malavitosi turchi che fanno da interpreti e vengono portati a qualche chilometro dal porto della città, da dove partono le imbarcazioni fantasma. Ed è qui che i migranti conoscono gli scafisti russi. Joseph e sua moglie spiegano di aver pagato per il viaggio 26 mila dollari in contanti: “A guidare la nostra imbarcazione erano in due russi: uno più giovane e l’altro più vecchio. Si capiva subito chi dei due fosse il comandante, perché impartiva gli ordini. A noi diceva solo di stare zitti”. “Abbiamo viaggiato per sei giorni interi, chiusi nella stiva”, racconterà ancora alle forze dell’ordine, “durante il lungo viaggio non ci è stato dato cibo, ma soltanto acqua. Loro cucinavano davanti a noi ma non ci davano nulla da mangiare. Potevamo nutrirci solo delle cose che avevamo fortuitamente portato con noi: gallette secche e qualche pezzo di frutta”. Amin, invece, è fuggito dall’Iran e dalla follia religiosa del suo Paese dopo il suicidio della fidanzata, disperata perché la sua famiglia l’aveva promessa in sposa a un altro uomo. Per raggiungere l’Italia, lui ha pagato 12 mila dollari. E prima di partire ha dovuto aspettare 11 giorni chiuso in una stanza: “Fra di noi migranti non parlavamo, abbiamo viaggiato ammassati in condizioni igieniche disastrose”, ha raccontato, “quando un giorno sono salito a fumare una sigaretta e ho tentato di parlare con uno degli scafisti, lui mi ha fatto capire che se tenevo alla mia vita era meglio che non facessi domande”. A fotografare questo nuovo business delle organizzazioni criminali dell’Est Europa è anche l’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia, che nell’ultimo anno registra decine di casi. Fra gli scafisti, inoltre - rimarcano i poliziotti dell’Interpol - si nota un considerevole aumento di georgiani che hanno di recente acquisito la cittadinanza russa. Uno stratagemma, questo, sempre più utilizzato dagli esponenti dai clan di Tbilisi: il Paese governato da Vladimir Putin ha reso le estradizioni negli altri Paesi quasi impossibili e così loro utilizzano il passaporto russo come uno scudo con cui proteggersi in caso di mandato di cattura internazionale. A Bari, per esempio, la città dove ha costruito la sua villa il sanguinario capoclan georgiano Merab Dzhangveladze detto “Jango” e che ormai si è trasformata nel vero quartier generale della mafia russo-georgiana nonché centrale di ricettazione di documenti falsi, si calcola che in soli sei mesi siano arrivati via mare più di trecento immigrati irregolari. Mentre le imbarcazioni sequestrate dalla Guardia di Finanza in pochi mesi sono state più di dieci. Nel carcere della città pugliese, per esempio, si trova da alcuni mesi uno scafista georgiano di 38 anni, che gli inquirenti ritengono essere uno dei tasselli dell’organizzazione criminale: lo scorso agosto ha trasportato fino a Gallipoli un gruppo di migranti iracheni fra cui alcuni bambini. Secondo chi indaga, prima di essere arrestato aveva portato a segno decine di traversate. Fra i mercanti di uomini, poi, ci sono anche molti ucraini. Solo negli ultimi 4 anni sono stati più di 60 gli scafisti arrestati originari di Kiev. Quasi la metà di loro si trova nelle carceri siciliane. Sono gli skipper più resistenti alle tensioni e alla fatica: riescono a condurre le imbarcazioni anche durante le condizioni marittime più critiche e quasi sempre raggiungono il porto senza complicazioni. Prima di partire si allenano per lunghi mesi al largo delle cose di Smirne. Al soldo delle organizzazioni criminali turche, spesso arrivano da cittadine devastate dalla guerra, lavorano come autentici freelance e vengono reclutati per circa 3 mila euro a viaggio. Quasi sempre incensurati, una volta arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina patteggiano la pena e vengono rimpatriati. Poi tutto ricomincia con un nuovo carico di “merce”. La Procura di Brindisi, per esempio, è ora al lavoro sulla vicenda di tre ucraini quarantenni che lo scorso agosto hanno trasportato a bordo di una barca a vela 73 migranti di nazionalità irachena scaricandoli fino al porto della città. “Abbiamo agito per necessità economica”, sono state le uniche parole che hanno detto ai magistrati. Il primo a tracciare l’anatomia di questa nuova tipologia di scafisti mercenari è stato il commissario Carlo Parini, fino a qualche mese fa alla guida del Gicic, Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, team unico in Italia creato nel 2006 dalla Procura della Repubblica di Siracusa e sciolto pochi mesi fa per volere del nuovo governo perché, secondo Salvini, “gli sbarchi in Italia non ci sono più”. Siamo scampati ai lager libici ma porteremo per sempre i segni delle torture di Alessia Candito L’Espresso, 14 aprile 2019 Picchiati, seviziati, umiliati dai carcerieri-trafficanti. In Italia hanno trovato la salvezza. Ora però con la chiusura degli Sprar la loro odissea ricomincia. I racconti dei migranti sopravvissuti all’inferno. Omar e le sue gambe segnate, Lanciné con l’orecchio da cui non potrà più sentire, Ali con il braccio sfregiato, Daouda che ha dovuto scegliere se vivere o camminare. Storie diverse, persone diverse, ma tutte con addosso il marchio degli accordi Italia-Libia. Un Paese in cui non andare e da cui scappare secondo la Farnesina, un porto sicuro per il Viminale di Matteo Salvini. Divisa fra due governi e innumerevoli milizie, per il ministro dell’Interno la Libia continua ad essere il partner più affidabile nel Mediterraneo. Da difendere nei consessi internazionali. Da inondare di denaro. Da supportare con aiuti e mezzi. Con buona pace dei report ufficiali e ufficiosi che documentano le regolari, endemiche torture, il Viminale si limita ad asserire: “L’Italia è impegnata per assicurare da parte della Libia il pieno rispetto dei diritti umani”. Ma fra la propaganda e la realtà ci sono i segni che i sopravvissuti portano sul corpo. Ci sono le storie di quelle cicatrici, che disegnano un atlante dell’orrore che quotidianamente si ripete nei centri di detenzione ufficiali o nei garage, hangar, capannoni che milizie e trafficanti trasformano in prigioni, in cui si stoccano uomini come merci. “Lì un africano è solo un bancomat, la sua vita ha senso fin quando può essere fonte di denaro, poi non serve più”, dice Karim, 19 anni, “anzi - specifica - 20 fra tre mesi”. Li compirà a Gioiosa Jonica in uno degli Sprar che Salvini con il suo “decreto sicurezza” ha deciso di chiudere, ma dove “fino all’ultimo”, promette un’educatrice, “proveremo a dare un futuro a questi ragazzi”. Da fornaio o falegname, sogna Karim, che con lo stesso proposito a 17 anni ancora da compiere è partito dal Senegal, diretto in Libia. “Non sognavo l’Italia”, racconta, “volevo solo trovare un lavoro per aiutare la mia famiglia”. E ci era riuscito, per quindici giorni ha fatto il muratore in un cantiere vicino a Khoms. “La paga non era granché, ma per iniziare poteva bastare”. Poi una mattina all’alba è stato rapito. “È arrivato un camion con degli uomini a bordo, non erano in divisa, ma erano armati. Ci sono saltati addosso, ci hanno picchiati, legati e buttati sul pianale. Devo essere svenuto, non ricordo. Mi sono svegliato in uno stanzone pieno di gente. C’era un odore terribile”. Insieme a più di 50 persone ci ha vissuto per sette mesi. Fra le stesse quattro mura “si dormiva, si andava in bagno, si mangiava le poche volte che ci davano qualcosa. Spesso entrava qualcuno, sceglieva uno di noi, lo ammazzava e lo lasciava lì. “Per farci imparare” dicevano”. Le torture invece erano quotidiane. “Ci pestavano con qualsiasi cosa. Bastoni, calci dei fucili, cavi elettrici. Mentre lo facevano ci costringevano a chiamare casa per chiedere soldi per il riscatto. Se rispondeva qualcuno, picchiavano ancora più forte. Io speravo che mia madre non alzasse mai quella cornetta”. Anche Mutali, 22 anni del Burkina Faso, quando è stato rapito era un ragazzino. “Avevo 16 anni, mi sembra una vita fa”. Dopo aver lavorato in una piantagione di datteri, si è messo in viaggio verso Tripoli, ma non ci è mai arrivato. Un commando lo ha preso e lo ha portato a Bani Walid. “Era notte, non sapevo dove fossi. Ci hanno tenuto per tre giorni senza acqua e senza cibo, poi”, ricorda, “si sono presentati in tre. Chi aveva qualcuno da contattare per il pagamento del riscatto è stato trasferito, noi siamo rimasti all’inferno. Ci pestavano con qualsiasi cosa, per qualsiasi motivo. Abdallah e Yussef”, mormora, “erano i più feroci. Per fare più male usavano sbarre di ferro incandescenti, ci strappavano le unghie con le pinze oppure ci incaprettavano, ci pisciavano in faccia e poi ci esponevano al sole. Non lo sapevo, ma brucia, brucia tantissimo”. Per Omar, ragazzino guineano di 19 anni, la cosa peggiore erano invece “le gare”. “Sceglievano una ventina di noi, ci legavano mani e piedi e ci portavano in cortile. Era di terra battuta, noi eravamo scalzi e scottava da morire. Dovevamo saltare ed essere veloci. Il “canguro” più lento non tornava indietro”. Ha vissuto così per un anno e 7 mesi. “E ogni giorno”, racconta, “mi svegliavo certo che quello sarebbe stato l’ultimo. Che non sarei mai uscito vivo di lì. Non sentivo più niente. Né paura, né speranza”. Se è partito per l’Italia, lo deve solo ad un amico che lo ha trascinato su un gommone. “A metà della traversata ha iniziato a imbarcare acqua. Vedevo la gente terrorizzata e non sentivo niente. Siamo stati salvati da una nave militare. Sul ponte ci hanno dato da mangiare dei biscotti. Non ne ricordavo neanche il sapore, per più di un anno a Bani Walid ci hanno dato solo pane secco. Quando l’ho assaggiato, ho capito di essere vivo, vivo per davvero e che la Libia era lontana”. Lanciné invece forse da lì non è mai riuscito ad andare via. Diciannove anni che sembrano molti di meno, occhi come pozze, parla ancora con difficoltà di quello che ha vissuto. Anche di fronte alla commissione territoriale chiamata a decidere se il carico di sevizie e persecuzioni subite è sufficiente per ottenere protezione o asilo, forse qualcosa ha omesso. “È arrivato qui da noi con un altro ragazzino, guineano come lui. Stessa età, stesse prigioni, stesso sbarco. L’altro ha raccontato subito di essere stato abusato per mesi, lui no”. L’argomento è tabù. L’intero periodo della prigionia è tabù. Ci prova a parlarne, si sforza. Incoraggiato dalla mediatrice che non smette di vezzeggiarlo - “Habibi dai, serve anche a te” - prende fiato, gira la testa un po’ di lato per ascoltare le domande con l’orecchio che le botte hanno risparmiato e comincia. “Eravamo stipati in uno stanzone, eravamo così tanti da non poter dormire sdraiati. Poi arrivavano i carcerieri a svegliarci”, mormora, “a secchiate d’acqua o a schiaffi”. Fa una pausa, lunga. “Avevamo il divieto assoluto di proteggerci il viso, altrimenti picchiavano di più e più forte”, dice mentre unisce le braccia e serra i pugni, rigide e lontane dal viso come era obbligato a fare quando lo pestavano senza che potesse difendersi. “Faceva male, faceva sempre tanto male” aggiunge, poi scuote la testa, chiede scusa e va via, schiacciato da una storia che vuole solo dimenticare. Ester invece ride, ride sempre. Si guarda la pancia che cresce, la misura, la tocca. Si volta verso il marito Jeffrey e ride ancora. Destiny, il loro primo figlio, zampetta per casa. Presto, ne arriveranno altri due, gemelli. “Perché sono viva e sono miei” dice seria. Poi ride ancora. Insieme al marito è scappata dalla Nigeria dove Boko Haram ha distrutto la loro fattoria. “Avevo e ho ancora schegge di proiettili nel cranio. Quelle che si potevano rimuovere”, racconta Jeffrey, “me le hanno tolte qui in Italia quando sono sbarcato”. Con Ester in Libia cercavano cure, hanno trovato prigioni. “La polizia ci ha catturato sulla strada fra Sebha e Tripoli, poi ci ha venduto ai miliziani. Eravamo feriti ma ci hanno massacrati di botte lo stesso e ci hanno portati in una prigione. Una specie di garage”. Lì, ricorda, sono stati divisi. “Non sapevo nulla di Ester ed ero terrorizzato. Un mercante voleva comprarmi come “abid”, schiavo, ma l’ho supplicato di lasciarmi lì, non potevo andarmene senza mia moglie. Mi ha dato del pazzo, ma mi ha assecondato”. È passato quasi un mese prima che Jeffrey avesse sue notizie. “Una guardia me l’ha anche fatta vedere per un momento. Per lei, mi ha raccontato, era già stato fissato il prezzo, 500 dinari, poi un carceriere l’ha scelta per sé. E io ho ringraziato Dio. Perché sarebbe stato solo uno e non cento o mille ad “usarla”. Perché avevo ancora speranza di rivederla”. Speranza, Daouda non sembra averne più. “Da quando sono in Italia mi sembra di non esistere, per la gente noi siamo zero. E io”, dice con quieta rassegnazione”, uno zero senza una gamba”. Da poco è entrato nella squadra locale di basket in carrozzina, in Senegal giocava a calcio. “Non da professionista, ma non ero male. Volevo trovare un lavoro per far stare meglio la mia famiglia e sono partito, ma appena arrivato in Libia mi hanno imprigionato”. È passato di mano in mano, di carceriere in carceriere, fino ad arrivare a Tripoli. “Eravamo in tanti, tutti chiusi in uno stanzone. Ogni giorno arrivava gente a comprarci e ogni giorno speravo che qualcuno mi scegliesse come schiavo. Nel frattempo ci picchiavano, senza alcun motivo e con ogni mezzo. Bastoni, catene, cavi, il calcio del fucile. E un pomeriggio, uno dei carcerieri mi ha sparato ad una gamba”. Non ci sono medici nelle carceri libiche, non esistono cure. “Non devi mostrare neanche di stare male, altrimenti ti ammazzano. I miei compagni hanno fermato l’emorragia, ma lì era tutto lurido e la ferita si è infettata”. Forse qualcuno ha pagato, Daouda è riuscito ad uscire e salire sul gommone, ma non ricorda nulla della traversata. “Appena sbarcato mi hanno portato in ospedale. Io non mi ero neanche reso conto di essere in Italia. Me lo hanno detto circa una settimana dopo, quando ho riacquistato lucidità. Per la gamba, mi hanno spiegato, non c’era nulla da fare, la cancrena era troppo avanzata”. Anche ad Alì hanno sparato. Cinquant’anni, le mani di chi nella vita ha sempre lavorato e in volto le rughe di chi ha visto tanto, è un gigante, con spalle enormi e braccia come tronchi. Sul bicipite del sinistro c’è la cicatrice lasciata da quel proiettile. “È il prezzo di un no”. Era in Libia da 17 anni quando la caduta di Muhammar Gheddafi ha travolto la vita che si era costruito. È stato rapito, imprigionato, torturato, messo all’asta e poi venduto. “Il mercante cercava qualcuno che sapesse governare una barca e io nasco pescatore”. Ma non immaginava che avrebbe dovuto trasportare uomini. “Mi sono rifiutato, mi hanno spaccato i denti con il calcio del fucile e poi mi hanno sparato. Una decina di giorni dopo, quando la ferita si è rimarginata, me lo hanno chiesto di nuovo e quella volta”, ricorda, “la pistola era puntata alla testa”. Non ha potuto far altro che dire sì. E in Italia è stato arrestato come scafista. “Non capivo niente di quello che succedeva, non so neanche il nome dell’avvocato che mi ha assistito. So solo che sono finito in carcere, al Nord”. Quando è uscito, per lui è iniziato il periplo dei braccianti che si spostano secondo i diktat della stagione. Alla fine si era stabilito nel ghetto di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro perché “fra kiwi, agrumi e cipolle, si lavora tutto l’anno”. Tramite i comitati stava cercando di mettere ordine nel caos legale in cui è finito e aveva iniziato a studiare l’italiano in una scuola gestita da volontari. “Per essere in grado di spiegare quello che mi è successo”. Poi lo sgombero del ghetto ha travolto nuovamente la sua vita. E la deve reinventare. Forse in un casolare nelle campagne circostanti, forse in una grande città del Nord. Per lui, il viaggio non è ancora terminato. Libia. Il dossier degli 007: 6mila profughi pronti a partire per l’Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 aprile 2019 Nelle informative consegnate al premier Giuseppe Conte i rischi che il conflitto scateni i gruppi collegati all’Isis. L’intelligence: “Temiamo che diventi una nuova Siria”. La maggior parte vive ammassata nei centri di detenzione dove l’acqua e il cibo sono sempre più scarsi. Altri sono stipati negli edifici e nelle baracche sulla costa. E poi ci sono i detenuti stranieri. Tutti in attesa di riuscire a liberarsi e partire. L’intensificarsi dei combattimenti per la conquista di Tripoli rende più concreto e drammatico il pericolo che la catastrofe umanitaria coinvolga direttamente l’Italia. Perché è nel nostro Paese che i profughi cercheranno di arrivare in qualsiasi modo, con qualsiasi mezzo. I rischi su quel che potrà accadere sono stati più volte evidenziati dall’intelligence nei report riservati consegnati in queste ore al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma anche nel corso dell’audizione di fronte al Copasir del direttore dell’Aise - l’agenzia per la sicurezza all’estero - Luciano Carta. E paventano la possibilità che ci siano almeno 6.000 stranieri determinati a imbarcarsi pur di sfuggire all’inferno libico. Tra loro moltissime donne e bambini. Senza tralasciare i rischi legati al terrorismo, il pericolo che la guerra civile scateni una nuova offensiva dei gruppi legati all’Isis. Gli incontri segreti - Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri tra emissari del governo italiano e le due parti in conflitto. Il dialogo è sempre rimasto aperto sia con il presidente del governo riconosciuto Fayez al Sarraj, sia con il generale Khalifa Haftar in una posizione “dove tutti - viene sottolineato - sono a conoscenza del nostro operato e soprattutto dell’attività di mediazione che cerchiamo di portare avanti, consapevoli che un conflitto provocherebbe conseguenze disastrose non soltanto nell’area, ma anche negli Stati del Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia”. Ecco perché il nostro Paese continua a porsi come interlocutore in un’attività di mediazione che al momento trova “sponda leale nella Germania”. E se il trascorrere delle ore fa aumentare il rischio di guerra, la tela che si sta tessendo serve a tentare di mettere in sicurezza le aziende che operano in Libia, tenendo conto che soltanto alcune hanno deciso di evacuare il personale. Ma soprattutto perché appare più che mai necessaria la protezione dalle interferenze estere. Non a caso durante la riunione urgente che si è svolta venerdì a palazzo Chigi è stata ribadita la volontà di tenere fede a tutti gli impegni presi anche dai governi precedenti, compresa quell’autostrada che deve attraversare la Libia. Un affare che confermerebbe il ruolo chiave dell’Italia nella gestione delle “commesse”. Scafisti e milizie - Con il conflitto in corso e le milizie impegnate a difendere le postazioni, il controllo del territorio inevitabilmente rimane appannaggio della criminalità. Ma è pur vero che senza gli aiuti “esterni” - vale a dire finanziamenti e approvvigionamento dei mezzi - organizzare le partenze in queste ore appare complicato. Ecco perché “i trafficanti di uomini stanno cercando di organizzarsi nel reperimento di barche e gommoni”, in modo da prepararsi al trasporto dei profughi in fuga. Una situazione che lo stesso Conte ha ben presente, non a caso ha ribadito di voler “coordinare ogni iniziativa”, comprese quelle legate all’arrivo delle navi nei porti italiani. Ieri il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha voluto ribadire la “linea dura” ma appare pressoché scontato che - in caso di guerra - potrebbe essere necessario non soltanto autorizzare gli sbarchi e prevedere corridoi umanitari. Ai 6.000 profughi che sono già chiusi nei centri e nelle prigioni, bisogna infatti aggiungere altre migliaia di persone che erano giunte dal deserto proprio per intraprendere il viaggio verso l’Europa. Senza tralasciare - è questa l’altra incognita - la capacità della Guardia costiera libica di tenere sotto controllo quel tratto di mare, ma soprattutto la certezza che Tripoli certamente non possa essere considerato “porto sicuro”. L’esercito e l’Isis - Secondo le informazioni a disposizione dell’Aise, “Haftar può contare su un esercito composto da 25mila persone, tra loro anche molti ragazzini”. Ma con l’avanzare verso la capitale può avere problemi logistici, le ultime informazioni giunte dal campo parlano di “numerose “tecniche” - i pick up utilizzati dai soldati ed equipaggiati con le mitragliatrici - rimaste ferme perché senza carburante”. Proprio su queste difficoltà si cercherà di fare leva a livello diplomatico per cercare di scongiurare il conflitto finale. L’intelligence evidenzia nei dossier “la presenza tuttora massiccia di gruppi presenti nel Paese e direttamente collegati all’Isis, determinati a sfruttare la situazione di caos, pronti a trasformare la Libia nella nuova Siria”. La nostra Libia dimenticata di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 14 aprile 2019 Se il vento bellicoso torna a spirare è perché in Libia ci sono gli interessi petroliferi italiani e soprattutto l’affare criminale, fermare la fuga dei migranti. Giacché siamo stati interessati alla Libia non perché dovesse essere indipendente, unitaria, democratica e pacificata. L’importante per noi è che resti il cane da guarda costiera dei barconi di esseri umani in fuga da guerre e miserie africane. Siamo così impegnati a cercare quello che c’è dietro la crisi libica, che non vogliamo vedere quello che sta davanti ai nostri occhi. Sarà pure colpa del perfido Macron che spalleggia il temibile Haftar e di sicuro dei petrodollari dell’Arabia saudita - nostro privilegiato mercato di armi, subito nel conflitto in Yemen - oppure del cosiddetto “defilarsi” degli Stati uniti che in realtà stanno dietro al ruolo saudita, o di Putin che aspetta, come ha fatto per la Siria, che la frittata dell’Occidente si sia bruciata. Tutto congiura a far dimenticare le responsabilità dei nostri governi, di centrodestra e centrosinistra, che in questi 8 anni si sono succeduti alla guida dell’Italia. Azzerando l’altro piccolo particolare: lì, nel marzo-aprile del 2011 si è consumata la più grande sconfitta storica del Belpaese dopo la Seconda guerra mondiale. Lì abbiamo accettato, nonostante i patti sottoscritti con Gheddafi, una guerra devastante della Nato. Fu colpa dell’ambiguo Sarkozy, geloso degli accordi sul petrolio realizzati dall’Italia e anche per oscurare i finanziamenti ricevuti da Tripoli per la sua campagna elettorale. Certo. Ma l’Italia dov’era? Era in prima fila a rincorrere i cacciabombardieri francesi, a offrire basi e intelligence, a partecipare alla guerra, a chiamare con molti giornalisti quella distruzione come una “rivoluzione”. Una dimenticanza che soccorre, come ogni negazione della memoria, la gestione di un presente squallido, ambiguo e pressapochista. Parliamo dell’attuale governo Conte. Con Salvini e Moavero più volte corso in Libia a sostenere il fantoccio Serraj, del quale continuiamo a sentire la definizione di “riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Onu”: peccato che non sia riconosciuto dai libici. Giacché, abbattuto il “dittatore” Gheddafi, al posto suo abbiamo cercato il fantoccio di turno, quello più accomodante. Un presidente del Consiglio Conte che, a quanto fa sapere lui stesso, non bastassero le foto che lo ritraggono qui e là con Serraj e Haftar insieme, è in contatto con entrambi e che sente ripetutamente il nemico Haftar. Ma non era Conte che doveva essere, con tanto di affidamento di Trump, la “cabina di regia” della crisi in Libia? Chi c’è dunque dietro? C’è l’Italia e la sua meschinità tradizionale. Con l’aggiunta di una incapacità, lampante in politica interna, che in politica estera diventa un horror “luminoso”. Al punto che torna a dividersi il governo sull’ipotesi di un possibile intervento militare. Non bastasse il fatto che abbiamo 400 soldati a Misurata a protezione di un ospedale prezioso, che ora è diventato d’un colpo la retrovia della “nuova” guerra. Nuova è un aggettivo difficile: dalla fine dell’intervento dell’Alleanza atlantica nell’ottobre del 2011, con lo scempio del corpo di Gheddafi raggiunto dalle milizie grazie alle segnalazioni Usa, di tentativi di conflitto armato per cacciare Serraj ce ne sono stati decine. Del resto che potevano fare se non nuove guerre le più di 700 milizie - secondo l’Onu - che tenevano e tengono in mano il Paese che sta dall’altra parte del Mediterraneo, ridotto senza istituzioni politiche rappresentative, in almeno quattro entità separate e contrapposte, Tripolitania, Cirenaica, Fezzan, più le aree di Sirte, Derna e in fondo al Fezzan infestate dall’Isis e da Al Qaeda? “Se qualcuno gioca alla guerra non staremo a guardare”, minaccia il ministro Salvini. Che vuol dire? Vuol dire che il brivido di pensiero di un altro intervento militare italiano sta passando nelle teste dei “nostri” governanti. Senza memoria di quello che abbiamo già provocato. Forse Salvini si fa forte del fatto che quando partì la “Guerra nostra” - così titolò il manifesto il 22 marzo del 2011, e il titolo lo facemmo con Valentino Parlato - la Lega si dichiarò contraria. Ma solo un mese dopo trovò, con Bossi, la quadra per mettersi d’accordo con il presidente Berlusconi per una mozione unitaria che appoggiava la guerra bipartisan: l’opposizione del Pd applaudì. Quattro anni fa l’”innocente” Salvini intervistato da Skytg24 dichiarò: “Chi è quel cretino che ha portato la guerra in Libia?”. Possiamo rispondergli: vieni avanti cretino. Certo, se il vento bellicoso torna a spirare è perché in Libia ci sono gli interessi petroliferi italiani e ormai, soprattutto, l’affare criminale, quello della necessità di fermare la fuga dei migranti. Giacché siamo stati interessati alla Libia non perché dovesse essere indipendente, unitaria, democratica e pacificata. L’importante per noi è che resti il cane da guarda costiera dei barconi di esseri umani in fuga da guerre e miserie africane e dall’inferno dei campi di concentramento, prigioni e torture gestite dalle milizie libiche. Ora c’è chi, come il rappresentante più sovranista che c’è della Lega, l’europarlamentare Marco Zanni, grida al “complotto” per destabilizzare la grande conquista del governo italiano: i porti chiusi. Perché è evidente a tutti che di fronte alla crisi umanitaria in corso, che fa fuggire gli stessi libici e figurarsi quelli che in fuga c’erano anche prima, non possiamo chiudere le nostre sponde all’accoglienza. Niente paura, i porti rimarranno chiusi lo stesso, “menomale” che c’è la strategia di Salvini, fa sapere il governo per bocca del sottosegretario Garavaglia. Mentre l’esecutivo si divide, con la ministra della difesa, la pentasellata Trenta - che non ferma il mercato di bombe per lo Yemen, né l’acquisto egli F35 - che fa sapere che non ci sarà nessun intervento militare. Dimenticando anche lei che i soldati italiani, e in pericolo, in Libia già ci stanno. Turchia. Zülküf e gli altri: morire in cella per non essere più isolati di Laura Sestini Il Manifesto, 14 aprile 2019 Da novembre sono oltre 7mila i curdi che rifiutano il cibo dentro e fuori le carceri turche. Negli ultimi mesi otto detenuti si sono tolti la vita come estremo gesto di protesta. La lettera dei compagni di prigionia alla famiglia di Zulkuf, con il timbro del carcere turco di Kocaeli. Nei giorni subito seguenti le elezioni amministrative turche del 31 marzo, a Diyarbakir, nonostante il risultato vittorioso del partito pro-curdo Hdp, nessun festeggiamento ufficiale è stato indetto e la vita cittadina continua a scorrere uguale a sempre. Niente sembra essere successo, nonostante i risultati elettorali siano abbondantemente a sfavore dell’Akp, il partito di maggioranza del presidente Erdogan che governa con misure sempre più restrittive per i cittadini e la democrazia e si è reso responsabile di una crescente crisi economica che colpisce prepotentemente il Paese e fa aumentare il numero di famiglie in difficoltà. È solo un’atmosfera di facciata. Dietro alla parvenza di normalità tutto è in fermento con premesse che non lasciano presagire segni positivi: a distanza di pochi giorni dalle elezioni sono stati contestati dal governo di Ankara i neo-eletti sindaci di Diyarbakir, cuore del Kurdistan turco, segno di una possibile ripresa dell belligeranza governativa contro l’area curda, non solo qui. Come conseguenza di uno scontro politico che in un paio di anni ha condotto in prigione oltre 10mila membri e sostenitori dell’Hdp, da novembre 2018 è stato lanciato uno sciopero della fame che velocemente si è esteso a circa 7mila adesioni. L’iniziativa è decollata grazie al coraggio di Leyla Güven, deputata Hdp arrestata a gennaio 2018 per aver criticato l’operazione militare turca “Ramoscello d’olivo” contro il cantone curdo di Afrin in Siria del Nord: invasione del territorio e violenti scempi contro i civili. Con lo slogan “La richiesta di Leyla Güven è la nostra richiesta”, lo sciopero attivo dei detenuti politici si è allargato a macchia d’olio anche fuori dagli luoghi di detenzione raggiungendo molte nazioni europee e Stati oltreoceano, dove si contano ormai circa 250 scioperanti, di cui alcuni anche in Italia dal 21 marzo scorso, giorno di Newroz, il capodanno curdo. L’obiettivo primario dello sciopero della fame a tempo indeterminato - per i quali tutti sono pronti a dare la vita - è ottenere la revoca dell’isolamento perpetrato sul detenuto Abdullah Öcalan, leader del Pkk, colui che legittimano come loro portavoce politico e identificato come principale soggetto per una soluzione di pace tra la Turchia e il popolo curdo. A Öcalan viene vietata dal 2011 ogni assistenza legale e dal 2016 ha ottenuto una sola visita di pochi minuti dal fratello. Questo tipo di lotta, silenziosa e piena di disturbi fisici che si generano mentre si procede con l’astensione dal cibo - considerando che oltre il 50esimo giorno si è in pericolo di vita - non è una novità nel panorama delle proteste dei detenuti curdi. Ma se lo sciopero della fame è l’unico metodo di protesta lecito utilizzabile in carcere, porta con sé elementi tristemente differenti: dal 16 marzo scorso otto detenuti e un uomo curdo residente in Germania si sono tolti la vita con l’intenzione di acuire la protesta e lanciare un monito più forte alla società politica occidentale che, inaspettatamente ma senza sorprese, si mostra rinchiusa in un rigoroso silenzio. Questo atteggiamento è attribuibile soprattutto alle istituzioni europee alle quali il popolo curdo si è appellato più volte per la difesa dei diritti umani e anche in virtù delle molte corrispondenze con il governo turco. Il silenzio dell’Unione europea si traduce in una grave responsabilità nei confronti degli scioperanti, con la vita di moltissimi ormai appesa a un sottile filo tra la vita e la morte. Il primo caduto si chiamava Zülküf Gezen, un ragazzone di 28 anni di Diyarbakir. Sono seguiti Ayten Becet, Medya Cinar, Yonca Akici, Ugur Sakar, Siraç Yuksek, Ümit Acar, Zehra Saglam e, l’ultimo, Mahsum Pamay, di soli ventidue anni. Piove a Dyiarbakir, il traffico è intenso e l’autobus, diretto verso una recente periferia di centinaia di palazzoni tutti uguali con cui si è allargata la città, è lento e affollato. La famiglia di Zülküf ha accettato una visita per raccontare la storia del figlio detenuto - il mezzano di tre maschi - che risoluto ha preso per primo la grave decisione di togliersi la vita in segno di protesta. La madre, velo bianco candido in testa, non riesce a trattenere la sua pena - le si legge negli occhi - ma si esprime fiera per questo figlio che non ha avuto paura neanche della morte per la causa in cui credeva. Il tè è obbligatorio e tra una foto e l’altra di Zülküf in tenera età - bambino nato in mezzo a ciò che sembra appropriato definire guerra civile - i parenti chiedono non che sia fatta giustizia, bensì che la scomparsa prematura - insieme agli altri otto caduti - non venga dimenticata, che rimanga la memoria per un gesto che possa almeno risvegliare le coscienze dei governi e spronare alla lotta tutti coloro che credono in un mondo migliore, contro autoritarismi e violazione dei diritti, non solo della resistenza curda. La famiglia di Zülküf non è abituata ad avere giustizia, non l’ha mai nominata e probabilmente neanche presa in considerazione: forse è per questo che non ha altri messaggi da consegnare oltre alla memoria per il figlio e le altre giovani vite perse nelle celle di isolamento delle prigioni turche. Una modalità che non ricorre abituale nella vita dei cittadini occidentali ma, per chi vuole recepire, risulta un messaggio più che esplicito, chiarissimo.