La vita nel post carcere. La difficoltà di ricostruire le reti della propria vita di Maria Rosaria Mandiello ildenaro.it, 13 aprile 2019 Carlo, nome di fantasia, aveva meno di trent’anni quando è entrato in uno dei tanti penitenziari italiani, lasciando a casa una moglie malata di cancro e un bambino di diciotto mesi. Quando ne è uscito con una qualifica da cuoco ed una da panettiere, con dentro il mondo sommerso del carcere, si è ritrovato compagno di vita di una donna cambiata e segnata dalla malattia e dalle difficoltà, e padre di un ragazzino poco più che adolescente. Il carcere ha segnato Carlo quanto la sua famiglia. Li incontro in un colloquio di servizio sociale, sono spaesati e quasi spaventati dalla nuova vita da ridisegnare e ricostruire. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le spalle di un detenuto e si riacquista la tanto desiderata, sognata e sperata “libertà”, è un argomento complicato, dove risulta facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del “problema dei problemi”, la carcerazione. Il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma può rappresentare anche l’inizio di un altro momento buio. I problemi che franano addosso ad una persona che esce dal carcere sono molti: la mancanza di affetti, le amicizie perse, i legami familiari da riconquistare e la difficile ricostruzione dei rapporti sociali; poi i problemi pratici, come la perdita della residenza, in molti, infatti, hanno dimora presso l’istituto di pena; alcuni ex detenuti hanno anche la difficoltà di trovare un luogo dove dormire. Ma anche la mancanza di un minimo di disponibilità economiche per le prime necessità e per gli spostamenti, a volte si lascia l’istituto di pena con un sacchetto, quelli neri che contengono i propri effetti personali. Si scontrano con la mancanza di un lavoro, anche le persone in affidamento ai servizi sociali con un discreto lavoro, si vedono messi “alle strette” da quelle cooperative che danno lavoro solo a detenuti e non anche ad “ex”. Difficile anche l’assistenza medica, che a volte viene a mancare, se la persona perde la residenza che aveva fuori dal carcere. Infine, la crisi d’identità, non solo per chi è senza rapporti affettivi, lo scontro non è solo con un ambiente fortemente critico per i suoi trascorsi, ma anche con se stessi: gli incubi notturni, la difficoltà a ritrovarsi in un ambiente che per quanto dovrebbe essere familiare e proprio, fatica a diventare il proprio ambiente. Il carcere segna, lascia dentro paure, difficoltà, ed una volta fuori è difficile lasciarsi tutto alle spalle e paradossalmente il carcere sembra per molti un luogo “sicuro” rispetto a tutte le insicurezze del dopo. La galera, quella che piega la roccia, è lo stare esposti alle domande, reggere l’urto del passato senza defilarsi: “non potevi pensarci prima”, gli sguardi della gente, le loro attenzioni, i rimpianti: una galera personale che tortura dentro. Situazioni e mancanze che incidono in modo indelebile sulla psiche dell’ex-detenuto. Carlo, mi racconta che quasi ha dimenticato cosa significhi amare, mostrare atteggiamenti affettuosi, e seppur si senta padre, oggi nella vita di suo figlio si sente un perfetto sconosciuto: un rimprovero sembra inascoltato, un abbraccio quasi impossibile: il carcere lo ha reso anaffettivo. Il solo sostegno emotivo e morale non basta a Carlo e alla sua famiglia, prima di tutto Carlo ha bisogno di ritrovare se stesso, superando gli incubi, i ricordi del carcere, le mancanze e le difficoltà, con un percorso di sostegno psicologico che nel tempo si integrerà al figlio, perché padre e figlio devono avere il tempo ed il modo di costruire un rapporto mai esistito e sarà possibile partendo dalle basi: accompagnarlo a scuola, una passeggiata in bici, un semplice abbraccio sul divano durante una serie televisiva. Un percorso non semplice, che certo incontrerà ostacoli e difficoltà, che si scontrerà con la diffidenza, ma è un percorso umano e familiare che serve a rinascere, perché il fine pena è un inizio di pene nuove, come nel gioco dell’oca, si torna indietro, si ricomincia, si riparte da zero. Ma serve un percorso parallelo fatto di una giustizia umana fatta di accompagnamento nel fine pena, gli sforzi umani e solidali delle tante associazioni - poche e con pochi mezzi - che supportano gli ex detenuti, aiutandoli a reinserirsi nella società, sono una goccia nel mare, anche perché il volontariato è spesso “sbilanciato” all’interno delle carceri molto più che sul territorio. L’accompagnamento deve confrontarsi anche con l’aspetto morale e materiale, sarebbe opportuno all’uscita del carcere fornire uno zainetto con i primi oggetti specie per le emergenze, utilissimo anche se un po’ deprimente, bisognerebbe intensificare i colloquio nei mesi che anticipano l’uscita, monitorare i bisogni e attrezzarsi sul territorio, per rendere più efficace il sostegno. Urge e potrebbe diventare un obiettivo futuro, uno sportello che si occupi attivamente delle persone che stanno per finire la loro pena. Una rete di sostegno forte che individui i bisogni di queste persone, dall’affiancamento ai primi autonomi passi fuori dal carcere: la ricerca di un alloggio, l’aiuto quando piombano addosso multe, divieti, cancellazioni di residenza e tutto quello che somiglia al “dopo carcere” dove sembra un percorso ad ostacoli e sembra più semplice sfracellarsi che superare le tante barriere che si incontrano “Una seconda possibilità”, il bando per il reinserimento dei detenuti talentilucani.it, 13 aprile 2019 La Fondazione “Con il Sud” promuove una nuova iniziativa per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro. A disposizione 2,5 mln di euro per interventi in grado di dare una “seconda possibilità” ai detenuti degli istituti penitenziari del Sud. Per affermare il principio del fine rieducativo della pena, la Fondazione “Con il Sud” promuove “E vado a lavorare”, la seconda edizione del Bando per il reinserimento sociale dei detenuti, attraverso il lavoro. A disposizione 2,5 milioni di euro di risorse private per progetti capaci di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione nelle regioni del Sud Italia. L’invito è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia, che possono presentare proposte di progetto che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti nella comunità, anche con il fine di ridurre i tassi di recidiva. Le proposte dovranno prevedere l’avvio, durante il periodo della detenzione, di esperienze lavorative in grado di favorire l’integrazione socio-lavorativa del detenuto, ritenendo il lavoro una componente fondamentale del processo rieducativo. L’inserimento lavorativo potrà avvenire all’interno o all’esterno delle carceri in realtà già consolidate oppure attraverso la costituzione di nuovi soggetti di imprenditorialità sociale. Inoltre, grazie al protocollo di intesa che sarà sottoscritto dalla Fondazione “Con il Sud” con il Ministero della Giustizia e con l’Anci, le proposte potranno prevedere il coinvolgimento dei detenuti in progetti di pubblica utilità e di volontariato, sempre ai fini del perseguimento dell’obiettivo di integrazione socio-lavorativa del reo. Le proposte dovranno essere formulate da partenariati che comprendano almeno una struttura penitenziaria e almeno un partner del Terzo Settore. Gli altri soggetti componenti la partnership potranno appartenere al mondo delle istituzioni, delle università, della ricerca e del mondo economico. Tutti i dettagli sono disponibili nella sezione bandi e iniziative. È possibile partecipare tramite il portale Chàiros entro il 19 giugno 2019. “È di pochi giorni fa la notizia del secondo rapporto “Space” del Consiglio d’Europa, che definisce la situazione delle carceri italiane tra le più drammatiche del continente - dichiara Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione “Con il Sud”. Al centro c’è la questione del sovraffollamento, ma è inevitabile che questo tema si intrecci con quello dei servizi e delle opportunità offerte ai detenuti per compiere un vero percorso rieducativo, così come previsto dalla nostra Costituzione. Con questo bando, vogliamo riaffermare il diritto di ogni persona ad avere una seconda possibilità vera. L’abbiamo chiamato “E vado a lavorare” con l’auspicio che il lavoro possa essere davvero uno strumento di evasione dalle criticità della vita”. Sul tema delle carceri, la Fondazione ha già sostenuto oltre 20 iniziative, tra programmi di volontariato e progetti selezionati con il primo Bando Carceri. Il contesto - L’articolo 27 della Costituzione italiana sancisce il principio del finalismo rieducativo della pena, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà, possa commettere nuovi reati. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n.354/75, e le successive modifiche, hanno dato attuazione a tale principio costituzionale, individuando e disciplinando norme, strumenti e modalità per garantire l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo dei condannati. La situazione attuale nelle carceri italiane, ben fotografata dall’Associazione Antigone nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, è ancora lontana dal garantire ai condannati un adeguato ed efficace percorso di integrazione sociale e lavorativa. Ad oggi, il lavoro ha sofferto nella prassi di una carenza di effettività risultando solo parzialmente efficace. Se da un lato il numero dei detenuti lavoratori è leggermente cresciuto negli anni - passando dai 10.902 (30,74%) del 1991, ai 18.404 (31,95%) del 2017 - dall’altro oltre l’85% dei lavoratori è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo spesso mansioni che non richiedono competenze specifiche e con elevate turnazioni (per permettere a più persone di lavorare). Al Sud tale situazione è ancor più accentuata: solo il 3,7% dei detenuti lavora per soggetti privati esterni. In conclusione, rispetto alla possibilità di formarsi e di lavorare in carcere vi sono ancora elevate possibilità di miglioramento - a partire da un maggior impegno da parte di tutti gli attori coinvolti - ma anche ostacoli da superare per poter efficacemente favorire un reinserimento dei detenuti ed evitare un aumento del rischio recidiva. Carceri sovraffollate: un’efficace soluzione di don Gigi Gatti* Avvenire, 13 aprile 2019 Tra poco la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, principale strumento di tutela della grande Convenzione siglata dalle 47 nazioni del Consiglio d’Europa, ammonirà e forse multerà di nuovo l’Italia per il sovraffollamento nelle carceri. Lavoro come cappellano da 15 anni al carcere di Lodi e frequento le due comunità di recupero esistenti nella mia parrocchia. Poiché in carcere ci sono molti detenuti legati all’uso o allo spaccio di droga, credo che la comunità possa essere una fruttuosa pista alternativa alla detenzione, e a maggior ragione della detenzione in condizioni disumane. La prova che questa è una strada più educativa ed efficace sta anche nel fatto che non pochi dalla comunità passano al carcere perché mentre nella comunità di recupero c’è un lavoro di responsabilizzazione, il carcere invece “deresponsabilizza”. Su tutto questo bisogna ragionare seriamente. Andando in questa direzione, si risolverebbe, almeno parzialmente il ciclico problema del sovraffollamento delle celle, risparmiando anche tanto denaro pubblico, in quanto un detenuto costa alla fine circa 150 euro al giorno mentre una persona accolta in comunità circa 52. Ovviamente quello economico non è e non può diventare l’unico criterio, ma anche questo dato dovrebbe far riflettere. *Cappellano nel carcere di Lodi Falcone e il coraggio di restare isolati anche sulla separazione delle carriere di Errico Novi Il Dubbio, 13 aprile 2019 Si può parlare di separazione delle carriere? Da un po’ di tempo sì. E lo si deve all’Unione Camere penali. Alla serietà con cui ha condotto la propria campagna. Prima nei dibattiti e in tutte le possibili occasioni di confronto. Quindi nel corso della raccolta firme condotta due anni fa sulla legge d’iniziativa popolare ora all’esame del Parlamento. E ancora adesso con le considerazioni espresse proprio alla Camera, per spiegare le ragioni della proposta di legge costituzionale alle commissioni impegnate sul provvedimento. Tre giorni fa è toccato, oltre che al presidente del Cnf Andrea Mascherin, a Beniamino Migliucci. Fino all’ottobre scorso presidente dell’Unione Camere penali, mercoledì interpellato dalla commissione Affari costituzionali in qualità di presidente del Comitato promotore costituito dalla stessa Ucpi sulla proposta di legge. Migliucci si è permesso di introdurre la sua relazione con un richiamo impegnativo: e cioè con l’intervista rilasciata da Giovanni Falcone a Repubblica nell’ottobre del 1991. Un unicum. Non perché il giudice ucciso dalla mafia non avesse mai affrontato la questione delle carriere di giudici e pm: proprio Migliucci ha citato in audizione un altro scritto meno conosciuto in cui il magistrato esprimeva lo stesse valutazioni, “La lotta alla criminalità organizzata e il nuovo modello processuale”. Il dato irripetibile è che Falcone è tra i pochissimi magistrati ad essersi espressi per la “separazione”. A suo giudizio, il “nuovo processo”, basato sul “sistema accusatorio”, richiedeva che il pm non avesse “alcun tipo di parentela col giudice”, e che non fosse una specie di “para giudice”. Già per Falcone, il modello accusatorio era contraddetto dal fatto che “avendo formazione e carriere unificate con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm” fossero “in realtà indistinguibili gli uni dagli altri”. Fino all’amara conclusione: “Chi come me ritiene invece che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. Il giudice ucciso a Capaci rimase isolato anche in questa sua valutazione, come quando il Csm gli preferì Antonino Meli alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo, e come avvenne in tante occasioni in cui altri magistrati marcarono apertamente la distanza da lui. Insegna qualcosa questa diversità rappresentata da Falcone anche sul tema delle carriere? Sì: ci dice che per avere uno sguardo non iconoclasta sull’idea di separare giudici e pm, Csm dei magistrati giudicanti da quello dei requirenti, per accettare questa specie di rivoluzione copernicana si deve per forza essere anticonformisti. E se è così, viene per forza il sospetto che il no indiscriminato della magistratura - almeno di quella associata e rappresentata nell’autogoverno - alla proposta di riforma delle Camere penali sia un no “coattivo”. Nel senso che anche tale chiusura, tale contrarietà assoluta, rifletta l’angoscia di sentirsi minoranza. Corrisponda cioè al timore di trovarsi esposti con la platea della magistratura, con l’elettorato che fra un anno sarà chiamato a eleggere i nuovi componenti dell’Anm. Nessuna corrente vuol correre il rischio di trovarsi superata a sinistra dalle altre. Il senso del paradosso è nella sua quasi perfetta sovrapponibilità a certe preoccupazioni dei partiti in materia di politica giudiziaria. Anche le forze parlamentari - quelle dell’attuale maggioranza ma non solo - sembrano spesso esitare di fonte a opzioni almeno un po’ garantiste, persino quando, almeno in via riservata, lasciano trapelare di condividerle. Anche i partiti temono di essere superati a sinistra dalla piazza. Dalla grande onda giustizialista. E giocano in difesa come le correnti dell’Anm: scelgono il giustizialismo per cautelarsi. Una resa della politica di fronte al vento che soffia. Falcone non lo ha mai fatto e ha pagato con la vita. Non si chiede questo, né al legislatore in campo penale né all’Anm sulla separazione delle carriere. Ma almeno, Migliucci e quelli che con lui hanno promosso questa riforma si aspettano un approccio liberale, così come liberale dovrebbe essere l’idea di giustizia nel nostro ordinamento. Quel timore, raccontato anche da Falcone, di un pm pericoloso perché rafforzato dalla sua separazione, e magari incorporato dal potere esecutivo, potrebbe essere superato se si desse un po’ più di ascolto ai penalisti. A quanto detto da Migliucci in audizione: e cioè che già ora, a carriere unificate, le Procure hanno assunto un peso predominante rispetto al giudice, ormai parte debole del processo. Con le carriere separate sarebbe casomai la magistratura giudicante a ritrovare forza. Basterebbe riconoscerlo per non dare l’impressione che, di fronte a una possibile rivoluzione copernicana, si voglia rifare la santa inquisizione. Cafiero de Raho: “Lotta alle mafie, con la crisi l’Italia ha perso gli anticorpi” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 13 aprile 2019 Mafie che sparano di meno, mafie mimetizzate, mafie nascoste su tutto il territorio nazionale. L’osservatorio di Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia, è privilegiato nell’analisi di questa realtà. Procuratore Cafiero de Raho, perché le mafie sparano di meno? “Gli episodi violenti nascono quando esplodono contrasti tra gruppi per la supremazia sul territorio o la gestione di affari. Sono espressione di una fase patologica negli equilibri criminali”. La diminuzione di episodi di sangue, quindi, significa che le mafie gestiscono i loro affari senza frizioni? “In un certo senso, significa che ci troviamo di fronte a strutture mafiose di grande forza economica e di capacità nel gestire i diversi traffici illeciti, primo fra tutti quello degli stupefacenti”. Partiamo da Napoli. Le stese sono gesti di piccoli gruppi di giovani, o nascondono dell’altro? “Ci si è soffermati molto sulle stese, come episodi di gruppi camorristici deboli. Il territorio cittadino napoletano è sempre occupato da clan storici come i Mazzarella o i gruppi di Secondigliano. Lo stesso avviene in provincia con altre famiglie. I veri affari sono gestiti da questi clan storici”. Gli omicidi a Napoli sono espressioni di nuovi clan che si affermano su altri? “Spesso sono manifestazioni di frizioni episodiche. Le repressioni giudiziarie sono efficaci e qualche gruppo, come la famosa paranza dei bambini, ha avuto vita breve rispetto ai clan storici che hanno continuato a gestire i loro sostanziosi affari mentre gli altri si contendevano piccole aree di spaccio di droga”. Nella provincia di Caserta, un solo omicidio in dieci anni. I Casalesi sono scomparsi? “Difficile che un sistema economico che, sull’illegalità, aveva monopolizzato un’intera provincia, gestendo e infiltrandosi nei grandi appalti, sia scomparso. La parte militare di un clan si sostituisce con facilità, di giovani disperati ce ne sono ancora tanti. È la struttura economica, alimentata dall’attività di insospettabili, è invece il nocciolo duro nella persistenza dei clan. E su questo, ci sono ancora inchieste in corso”. Dalla Campania al resto dell’Italia. Le mafie sono assenti in qualche regione? “Non esiste più, purtroppo, una zona d’Italia dove le mafie siano completamente assenti. La `ndrangheta, Cosa nostra, i gruppi camorristici hanno esportato modelli colonizzando nel tempo molte regioni. Il primo passo è stata sempre l’infiltrazione in attività economiche riciclando denaro. Poi, si sono consolidati interi gruppi con metodi mafiosi”. In che modo? “Oltre al riciclaggio di denaro sporco, sono stati offerti servizi a costi minori, manodopera, false fatture diventate lo strumento per legare alle mafie decine di soggetti economici su più territori. Questa è l’infiltrazione più pericolosa, perché nasce dal calcolo di convenienza che altera il mercato. È questa la mafia silenziosa, con cui molti fanno affari per interessi economici”. Perché tra le prime attività di riciclaggio c’è la ristorazione? “Perché rappresenta un modo di inserirsi sul territorio. Con bar e ristoranti si intrecciano relazioni, si stringono rapporti sociali. Alla fine, diventano una facciata di credibilità che può servire a favorire affari nascosti”. Eppure, si sentono pochi omicidi mafiosi rispetto al passato. Come mai? “I morti creano allarme sociale, spingono a reazioni nell’informazione e nella politica. Ma i morti non significano maggiore presenza mafiosa. Il contrario. La mafia è forte quando non ammazza. Gli agguati sono semplici spie di qualche frizione, come nel caso del tentato omicidio di queste ore a Milano che dimostra come il capoluogo lombardo sia centro di spaccio internazionale di droga controllato da gruppi mafiosi”. Ci sono state, negli ultimi mesi, scoperte di insospettabili presenze mafiose? “In provincia di Venezia, si è scoperto che da 20 anni erano presenti gruppi di Casalesi che ottenevano appalti e lavoravano con la pubblica amministrazione. Ma diverse presenze mafiose sono emerse in indagini a Milano, Torino, Genova, Aosta. Sono venute fuori attività ‘ndranghetiste di non poco rilievo”. È possibile fare oggi una mappa di mafie nascoste? “Solo indagini aggiornate momento per momento possono farla. Di sicuro, si può affermare che le mafie nascoste sono presenti un po’ ovunque”. C’è meno attenzione sulle mafie rispetto al passato? “Sì, non si parla molto di mafie. L’informazione scatta quando si verificano fatti di sangue che creano allarme, ma sono le spie e gli anticorpi nella società che mancano”. Cosa intende dire? “C’è poca voglia di insospettirsi, e penso al mondo dell’economia, quando ci si trova di fronte a qualcuno con enorme e improvvisa disponibilità finanziaria. Prevale l’interesse a fare affari e meno a verificare con chi si fanno. Vedo, su questo, una situazione di grande rischio per il nostro sistema economico”. Occorre più rigore nel controllo dei flussi finanziari? “Le norme sono sempre più rigorose sulle transazioni, specie nel sistema bancario. Ma il problema, in questa fase di difficoltà economica, resta l’affievolirsi degli anticorpi sociali”. Violenza di genere: stop alle morti annunciate di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 aprile 2019 Dietro all’omicidio di una donna da parte di mariti o ex c’è quasi sempre una storia di minacce e botte. A volte già denunciate. Ma le risorse a disposizione sono poche e lo Stato è impotente. Ormai capita spesso che le indagini sugli omicidi di donne si chiudano in poche ore. Anche quando il marito o il fidanzato non si suicida, basta poco tempo per individuare il colpevole, per scoprire che lei è stata uccisa per vendetta, perché lui covava rabbia per essere stato lasciato o una gelosia morbosa. E capita ancor più spesso che appena poche ore dopo la tragedia, parlamentari e ministri promettano “interventi adeguati” a proteggere chi viene minacciata fisicamente ma anche psicologicamente, chi rischia la vita ogni giorno soltanto per aver deciso di lasciare un uomo che non amava o con il quale non voleva comunque più condividere la vita. Vere e proprie vessazioni che nella maggior parte dei casi potrebbero essere evitate se esistesse un sistema di protezione reale. Accade raramente che una donna venga uccisa all’improvviso. In genere il delitto è l’epilogo di soprusi che vanno avanti per mesi, addirittura per anni, senza che la vittima trovi la forza di denunciare per paura di subire conseguenze peggiori. Proprio su questo bisogna lavorare e impegnarsi. Perché è indispensabile individuare misure di prevenzione davvero efficaci, varare provvedimenti che facilitino il percorso di chi vuole ribellarsi al proprio aguzzino, anziché renderlo complicato. Gabriella Carnieri Moscatelli guida il Telefono rosa da oltre trent’anni ed è una delle massime esperte nell’affrontare queste situazioni. Soprattutto è una donna pratica, concreta. La sua associazione conta su volontarie specializzate nell’affrontare gli aspetti legali e quelli psicologici che riguardano le donne e i loro figli, ma anche pronte ad assistere chi è in pericolo offrendo appoggio e assistenza, e un rifugio sicuro dove potersi trasferire. Quando sollecita il governo “a mettere a disposizione di questo settore risorse adeguate” si riferisce al minimo indispensabile per poter andare avanti. Ma poi dice qualcosa di più: “Chiediamo di riflettere seriamente e di ascoltare chi ogni giorno si trova in prima linea. Non servono proclami e annunci, o ancora peggio proposte di legge o disegni di legge devastanti e anacronistici”. Riflettere e ascoltare. Ecco, questo sarebbe indispensabile prima di agire. Il giro di vite sul mobbing: dalle multe fino al carcere di Emilio Pucci Il Messaggero, 13 aprile 2019 Alla Camera iniziativa dei Cinque Stelle: pene più dure per le vessazioni sul lavoro. In arrivo un giro di vite sul mobbing. Alla Camera una proposta di legge targata M5S punta a multe fino a 100 mila euro e carcere. Non è prevista una disciplina organica a tutela del lavoratore mobbizzato e ora M5S torna all’attacco - nella scorsa legislatura ci aveva provato la senatrice Taverna - per punire “chiunque, nel luogo o nell’ambito di lavoro, si rende responsabile di atti, omissioni o comportamenti di vessazione, discriminazione, violenza morale o persecuzione psicologica” che provochino “un degrado delle condizioni di lavoro tale da compromettere la salute fisica o psichica della lavoratrice o del lavoratore”. La proposta di legge depositata a Montecitorio avrà comunque un iter non semplice, dal momento che non tutte le forze politiche accettano l’approccio giustizialista dei pentastellati. Il testo prevede la reclusione da sei mesi a quattro anni e multe da 30.000 a 100.000 euro. Pena aumentata di un terzo se gli atti sono commessi dal “superiore gerarchico”, della metà se avvengono nei confronti di una donna in stato di gravidanza o nel corso dei primi quattro anni di vita del figlio. Il pentastellato Davide Galantino si definisce il primo militare graduato eletto in Parlamento in epoca repubblicana. “Io dopo il Duce - scherza - tanti anni fa fui costretto a pulire con lo spazzolino da denti”. Ma l’idea di depositare, insieme al suo collega Rossini, una proposta di legge gli è venuta quando è stato tempestato di messaggi intimidatori dopo essere intervenuto nell’Aula della Camera per ricordare Casamassima, “il carabiniere, che ha avuto il coraggio di rivelare l’illecito pestaggio di Stefano Cucchi e poi punito dopo la sua deposizione”. E ora denuncia “1’ inadeguatezza nella repressione dei fenomeni di mobbing”. Non basta la legge del 14 luglio 2017 con la norma sul whistleblowing (autrice l’attuale capogruppo in Commissione Giustizia, Businarolo). La Pdl introduce l’articolo 610 bis del codice penale perché’ ora “la mancata previsione di una precisa fattispecie incriminatrice fa apparire la via della sanzione punitiva come non preferibile”. Intanto si definisce quando e in che modo avviene “la molestia morale e la violenza psicologica”. Ovvero attraverso la rimozione da incarichi, l’esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendale, la svalutazione sistematica dei risultati (“fino a un vero e proprio sabotaggio del lavoro”), “il sovraccarico di lavoro o l’attribuzione di compiti impossibili o inutili”, l’attribuzione di “compiti inadeguati rispetto alla qualifica e preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute”, l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di “azioni sanzionatorie”, quali “reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti”, tutte finalizzate “alla estromissione del soggetto dal posto di lavoro”. Ed ancora: gli atti persecutori e di grave maltrattamento, “la squalificazione dell’immagine” personale e professionale e le “offese alla dignità”, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro”. Ed è proprio il datore di lavoro ad essere chiamato maggiormente in causa dai 5 Stelle: in caso di “denunce di molestie morali e violenze psicologiche” deve accertare tempestivamente i comportamenti e “prendere provvedimenti per il loro superamento”, disciplinando “le azioni di tutela giudiziaria” e stabilendo che “il risarcimento del danno dovuto al lavoratore comprenda in ogni caso anche una somma a titolo di indennizzo del danno biologico”. Qualora il lavoratore mobbizzato ne faccia richiesta il giudice può disporre che del provvedimento di condanna o di assoluzione venga data informazione ai dipendenti, mediante una lettera del datore di lavoro. Se poi il colpevole - o complice - è proprio il datore di lavoro, il giudice può disporre “la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani”. Si punta a contrastare soprattutto il “mobbing orizzontale”, dove “il datore di lavoro evita di intervenire per porre fine a comportamenti mobbizzanti”. Si prevede anche che ogni regione istituisca “un centro regionale per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dei disturbi da disadattamento lavorativo”. Si ricorda infine che la Corte di Cassazione ha riconosciuto una forma attenuata di mobbing, denominata “straining” che porta ad “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro”. Rovigo: nel carcere la prima Sezione di assistenza intensiva ortopedica del Veneto agenpress.it, 13 aprile 2019 Il nuovo carcere di Rovigo ospiterà la prima Sezione di assistenza riabilitativa per i detenuti degli istituti penitenziari del Veneto che necessitano di trattamenti fisiatrici per patologie ortopediche. Lunedì 15 aprile l’Assessore Regionale alla Sanità e al Sociale Manuela Lanzarin e il Sottosegretario di Stato per la Giustizia Jacopo Morrone, insieme al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Pres. Francesco Basentini, al Provveditore Regionale Enrico Sbriglia e ai vertici della Regione del Veneto, inaugureranno alle ore 14.30 la nuova sezione di assistenza intensiva - S.A.I. all’interno del complesso penitenziario, che sorge a poca distanza dalla cittadella sanitaria. La sezione, nella quale presteranno servizio un medico fisiatra e due fisioterapisti del servizio sanitario regionale, è attrezzata per accogliere detenuti con patologie ortopediche e per fornire cure fisiatriche e riabilitative ambulatoriali fino a 15 utenti al giorno. La nuova struttura specializzata della sanità penitenziaria regionale consentirà di rispondere in modo appropriato ai bisogni di riabilitazione fisiatrica degli oltre duemila detenuti nei nove istituti penitenziari del Veneto, evitando i disagi e i costi delle traduzioni delle persone recluse presso strutture ambulatoriali esterne al carcere, con effetti positivi anche sulle liste di attesa dei cittadini veneti. Laureana di Borrello (Rc): Antigone “nel carcere assistenza sanitaria carente” Corriere della Calabria, 13 aprile 2019 “Se il lavoro, nel carcere di Laureana di Borrello, assolve certamente al compito di favorire la rieducazione del condannato e il suo reinserimento sociale, si discostano invece dai principi costituzionali le prestazioni sanitarie assicurate alle persone detenute, che risultano nei fatti fortemente carenti”. È quanto riportato in un comunicato della “sezione calabrese dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone” dopo la visita alla struttura penitenziaria del reggino dello scorso 8 aprile. Ad ispezionare l’istituto - nato come casa di reclusione sperimentale nel 2004, è stato convertito in istituto a custodia attenuata nel 2016 dopo una contestata chiusura ed una conseguente mobilitazione popolare per la riattivazione - sono stati incaricati gli avvocati Francesco Alessandria, Brunella Chiarello e Giuseppe Chiodo. Ad accoglierli, quattro detenuti di rientro dall’attività di pubblica utilità svolta per il comune di Laureana. “Le ampie aree verdi - si legge ancora - attrezzate per i colloqui e l’imminente installazione di Skype allo stesso fine contribuiscono a rendere subito evidente lo “spirito” di questa struttura. Qui il lavoro rappresenta indubbiamente un elemento fondamentale di un trattamento penitenziario concertato con la persona detenuta, che gli consente di vivere la reclusione in modo umano e dignitoso”. L’ICAT di Laureana rappresenta, in tal senso, una delle poche strutture nell’intero panorama nazionale, attrezzate al fine di garantire un trattamento penitenziario che possa correttamente adempiere alla sua funzione “rieducativa” come prescrive l’art. 27 della Costituzione. Tuttavia - aggiunge l’associazione - “L’impegno profuso dalla Direzione e dal personale per fare dell’ICAT di Laureana di Borrello un “modello” nel trattamento penitenziario fa quotidianamente i conti con una presenza a singhiozzo dell’ASL, che si manifesta nelle forme di un’assistenza medica erogata per sole 18 ore settimanali. Si registrano, inoltre, preoccupanti problemi di gestione legati ai trasferimenti dei detenuti verso i più vicini presidi ospedalieri, anche per un semplice malore o per una visita specialistica. L’assenza in loco di un nucleo traduzioni della Polizia Penitenziaria aumenta, se possibile, le complicazioni”. Viene inoltre constatato come le aree interne destinate all’assistenza sanitaria avanzata, pur dotate di alcuni strumenti diagnostici, risultano chiuse, perché mai utilizzate per l’assenza di personale idoneo e soffrono di una cronica scopertura, paradossalmente, anche il settore educativo e la Polizia Penitenziaria: “quanto al primo, stupisce che in una struttura così peculiare, che - letteralmente, attraverso un “Patto di responsabilità” - fonda il proprio trattamento penitenziario sulla cooperazione del detenuto alle iniziative che gli vengono offerte, siano in servizio solo due educatori. La seconda può contare su 21 unità a fronte delle 37 previste nella pianta organica, di cui appena 16 assegnate e 5 in distacco; manca, inoltre, la presenza stabile di una figura di comando, alla quale si tenta di sopperire con l’istituto della missione”. Problemi, questi, cruciali nell’analisi del delicatissimi temi del sovraffollamento carcerario e quello speculare del trattamento penitenziario. “Trasformare la pena in un’occasione di cambiamento è una sfida importante da vincere: è questo il principale messaggio che viene fuori dall’istituto di Laureana di Borrello. Tuttavia, un carcere che non può garantire il diritto alla salute alla persona detenuta è lontano dall’esecuzione penale per come disegnata dalla carta costituzionale e dalla legge. Questo deve essere garantito a tutti, soprattutto in quei contesti in cui la persona, per l’ovvia privazione della libertà personale, non ha la possibilità di spostarsi nelle regioni più virtuose per curarsi”, è quanto rimarca l’associazione auspicando che l’Asl 5 e l’amministrazione penitenziaria possano venire a capo di queste problematiche e predisporre tutte le azioni e cautele necessarie a salvaguardare e garantire, anche in termini di maggiore umanità, il percorso di reinserimento sociale dei detenuti. Forlì: carcere coinvolto in progetto europeo contro la radicalizzazione forli24ore.it, 13 aprile 2019 Il progetto F.A.I.R. associa dieci partner di nove nazioni europee ed è finanziato dal programma europeo “Justice”. C’è anche il carcere di Forlì fra le strutture penitenziarie italiane coinvolte da un importante e originale progetto europeo, che si occupa di un tema estremamente delicato: la deradicalizzazione all’interno delle carceri. Il progetto si chiama “F.A.I.R. - Fighting Against Inmates Radicalisation”, associa dieci partner di nove nazioni europee ed è finanziato dal programma europeo “Justice” per un milione di euro. Ne è ideatrice e lead partner la Fondazione Nuovo villaggio del Fanciullo di Ravenna, e il responsabile del progetto è il direttore della Fondazione, Patrizio Lamonaca. Dopo oltre un anno di lavoro, il progetto ha già dato risultati interessanti messi a fuoco, fra l’altro, da due recenti convegni che la Fondazione ha coordinato a Brescia 8coinvolgendo 70 imam, guide spirituali che svolgono una funzione di primaria importanza all’interno del sistema penitenziario) e a Torino. Appuntamenti molto partecipati e con ospiti importanti, fra cui l’ex-estremista Oomar Mulbocus che vanta un’esperienza formativa a livello internazionale sulle tematiche della radicalizzazione violenta. Da poco si è concluso, con il supporto di un manuale realizzato con la supervisione dell’Università di Malta, un programma di formazione gratuita che oltre a Forlì ha interessato anche Torino, Firenze e Brescia, coinvolgendo oltre 150 operatori della società civile che operano all’interno degli istituti circondariali. I percorsi di formazione hanno avuto lo scopo di incrementare le competenze e conoscenze sul processo di radicalizzazione violenta anche attraverso testimonianze di familiari di estremisti. Obiettivo finale del progetto Fair è di realizzare uno studio di fattibilità di un centro di detenzione alternativa per persone detenute vulnerabili alla radicalizzazione violenta, finalizzato al reinserimento sociale. Il convegno finale, in programma a Bologna entro la fine del 2019, illustrerà i risultati finali del progetto alla presenza di tutti i partner europei. “Siamo molto soddisfatti perché l’Unione Europea ha riconosciuto l’interesse della nostra proposta e l’ha inserita fra i progetti da finanziare - sottolinea Paola Morigi, presidente della Fondazione nuovo Villaggio del Fanciullo. Inoltre, anche grazie a Fair la Fondazione allarga la sua attività in ambito internazionale, che già ci vede da tempo impegnati in Senegal, a dimostrazione di uno sforzo costante per crescere negli interventi di sostegno nei confronti di categorie svantaggiate di utenti. Brescia: terza Giornata dell’esecuzione penale socialmente responsabile lavocedelpopolo.it, 13 aprile 2019 Martedì 16 aprile si terrà la terza Giornata dell’esecuzione penale socialmente responsabile presso l’aula 4 del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia. Centrale sarà il tema dei percorsi rieducativi: prenderà parte all’evento anche una delegazione di detenuti degli istituti di pena bresciani attivi per la tutela dei diritti dell’uomo. Martedì 16 aprile alle 16.30, nell’aula 4 del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia (via San Faustino 41), l’Ufficio dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Brescia organizza la Terza Giornata dell’Esecuzione Penale Socialmente Responsabile. Dopo i saluti istituzionali del presidente del Consiglio Comunale Roberto Cammarata e l’introduzione di Luisa Ravagnani, garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale, interverranno Monica Lazzaroni, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia; Francesca Paola Lucrezi, direttrice degli Istituti Penali di Brescia e dell’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Brescia; Alberta Marniga, delegata alla legalità e alla responsabilità sociale per Associazione Industriale Bresciana; Carlo Alberto Romano, per il Comitato Sicurezza e Legalità del Comune di Brescia; Andrea Cavaliere, per la Camera Penale di Brescia e Giorgio Zubani, della società Valledoro Spa. La data scelta, come già sottolineato per le scorse edizioni, commemora la nascita dell’on. Mario Gozzini, padre dell’omonima, illuminata legge che, con fiducia e coraggio, contribuì nel 1986 a rafforzare l’idea già anticipata dalla riforma del 1975 che le alternative al carcere potessero essere la via privilegiata per l’abbattimento della recidiva e per un efficace reinserimento sociale. Oggi più che mai si sente il bisogno di ribadire con forza l’importanza e l’attualità di questi percorsi rieducativi, impossibili da realizzare senza un contributo costante, consapevole e maturo del territorio. Come lo scorso anno parteciperà all’evento una delegazione di detenuti degli istituti di pena bresciani da tempo attivi, all’interno delle mura del carcere, per la tutela dei diritti dell’uomo attraverso la partecipazione al gruppo P4HR - Prison for Human Rights. In questa occasione verrà pubblicamente consegnato alla scuola Nikolajewka l’importo raccolto da parte dei detenuti durante la colazione solidale organizzata nel mese di marzo 2018 presso la Casa Circondariale Nerio Fischione. Al termine dei lavori verrà consegnata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo a tutte le realtà che, nel corso del 2018, hanno supportato le attività dell’Ufficio del Garante in favore dei detenuti. Isernia: detenuto morto in cella, parte il processo per omicidio teleregionemolise.it, 13 aprile 2019 Cosa successe nella cella 110 del penitenziario isernino di Ponte San Leonardo la sera del 5 novembre 2014? Entra nel vivo il procedimento penale partito a seguito del decesso di Fabio De Luca, il detenuto 45enne che perse la vita a seguito dei traumi riportati nel carcere dove da qualche tempo era confinato. Per quella morte sono stati accusati di omicidio volontario tre uomini, all’epoca detenuti nella struttura del capoluogo pentro. E ora a loro carico partiranno i processi. Dopo il rinvio a giudizio, Francesco Formigli (difeso dai penalisti di Termoli Nicola Bonaduce e Roberto D’Aloisio) e Elia Tatangelo (rappresentato dal penalista Marcovecchio) saranno giudicati davanti alla Corte d’Assise di Campobasso e la prima udienza è fissata per il prossimo 24 ottobre. L’altro imputato, Aniello Sequino (difeso da Carla Maruzzella), ha scelto invece di essere giudicato con rito abbreviato e tornerà davanti al Gup del tribunale di Isernia Michaela Sapio il prossimo 2 luglio. “Per Formigli - hanno spiegato i legali - avevamo richiesto il rito abbreviato condizionato da una perizia che non è stata accolta e, quindi, si procederà con rito ordinario”. Un caso complesso e difficile da ricostruire per gli inquirenti. Fabio De Luca giunse in gravi condizioni al Cardarelli il 5 novembre del 2014 dove morì dopo otto giorni di agonia. All’inizio l’ipotesi più accreditata fu quella di una caduta accidentale dal letto a castello dove il 45enne salì per recuperare un oggetto. La Squadra Mobile di Campobasso, che condusse le indagini su delega della Procura di Isernia parse scettica fin da subito rispetto alla versione della caduta accidentale. L’autopsia, eseguita due giorni dopo il decesso, certificò infatti che le ferite sul corpo di De Luca erano incompatibili con una caduta accidentale. “Trauma cranico multifocale”: fu il responso contenuto nella relazione del medico legale Vincenzo Vecchione. Morte indotta, dunque, forse a seguito di un pestaggio in cella. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili. Per gli investigatori le lesioni sul corpo della vittima erano incompatibili con una caduta accidentale in quanto oltre al colpo alla nuca si è stabilì con certezza che De Luca venne colpito al cranio in più punti con un corpo contundente, a superficie liscia, forse ricoperto da un panno. La Mobile visionò i filmati registrati sia prima dell’aggressione, sia nell’immediatezza dell’evento, analizzando in particolar modo il comportamento di un gruppo di detenuti campani. Fabio De Luca venne descritto come una persona particolarmente litigiosa. Il 45enne romano era stato arrestato per rapina ed era in carcere dopo aver aggredito la madre. Intanto, la famiglia del De Luca, assistita l’avvocato isernino Salvatore Galeazzo, si è già costituita parte civile e continua a chiedere verità e giustizia. Torino: “LiberAzioni”, arti in festival dentro e fuori dal carcere comune-info.net, 13 aprile 2019 LiberAzioni è un festival nazionale che si svolge dentro e fuori dal carcere. La prossima edizione ci sarà dal 18 al 20 ottobre 2019 a Torino ma il percorso è lungo e articolato e coinvolge in modi diversi persone libere e detenute. Tra i testimonial Paolo Rossi, che interpreterà un’opera originale (in doppia replica per i detenuti e per il pubblico). Lungo l’arco di un intero anno LiberAzioni promuove infatti laboratori di progettazione culturale, scrittura creativa e autobiografica, arte, musica, fotografia e video partecipativo, a beneficio dell’intero quartiere Vallette di Torino, nel quale sorge il carcere della città. L’obiettivo è creare una relazione più solida tra carcere e territorio (Vallette è da sempre etichettato come quartiere difficile e la convivenza con la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno è talvolta problematica) e una collaborazione tra i giovani tramite allestimenti, convegni, reading, proiezioni, spettacoli teatrali, concorsi nazionali in ambito artistico. Da alcuni giorni sono sono aperte le partecipazioni a tre concorsi, tutti senza limiti di età. Il Concorso nazionale di cinema prevede tre premi da 1.000 euro lordi ciascuno (il primo premio è assegnato da una giuria di professionisti del settore e da detenuti, il premio cinema giovani, da giovani autori e critici e detenuti, il premio diritti globali è invece deciso da una giuria di esperti su tematiche legate ai diritti umani). Il Concorso nazionale di scrittura prevede tre premi da 1.000 euro lordi ciascuno ma è esclusivamente destinato a detenuti (il primo premio è assegnato da una giuria di esperti dell’editoria, scrittori e giornalisti e detenuti, il premio giuria popolare deciso da abitanti del quartiere delle Vallette, il premio diritti globali è assegnato da una giuria di esperti su tematiche legate ai diritti umani). Infine, il Contest di musica sul quartiere della Vallette prevede un premio da 300 euro lordi per la miglior traccia musicale originale che diventerà la colonna sonora del video-promo del festival. Le giurie dei concorsi sono formate da professionisti del settore cinematografico, artistico e letterario (parteciperà anche la redazione di Comune-info) e dai detenuti del carcere di Torino (Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Vallette). Il progetto ha per capofila l’Associazione Museo Nazionale del Cinema in partenariato con Antigone Piemonte, Cooperativa Eta Beta, Lacumbia film, SaperePlurale, SocietàINformazione (responsabile dell’annuale Rapporto Diritti globali), Quinto Polo e con la collaborazione per i laboratori di formazione dentro e fuori dal carcere di Agave. Agency of video empowerment. Questi i contatti del coordinamento progetto LiberAzioni: liberazioni.torino@gmail.com oppure il numero 3395675026. Spoleto (Pg): i tre giorni di Ascanio Celestini tra i detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 aprile 2019 È stata “un’adozione condivisa” tra la casa di reclusione di Spoleto e il liceo artistico Sansi Leonardi Volta quella che ha visto protagonista Ascanio Celestini, una delle voci più note e irriverenti del teatro di narrazione italiano che per tre giorni, dal mercoledì a oggi, è stato nel carcere umbro, secondo quanto stabilito dal programma “Adotta uno scrittore” del Salone Internazionale del Libro di Torino che prevede incontri senza filtri e censure tra un autore e gli studenti di una scuola superiore. Trenta gli istituti e altrettanti gli autori ospitati tra i banchi, ma Ascanio Celestini e altri nove colleghi hanno voluto essere presenti in sezioni di scuole carcerarie. Per la sua diciassettesima edizione la rassegna, grazie alla collaborazione del CESP (Centro Studi per la scuola pubblica e la rete delle scuole ristrette), ha incluso dieci sezioni penitenziarie di cui tre al di fuori dei confini del territorio piemontese. Tra queste Spoleto e il liceo Sansi Volta dove è nata una delle compagnie ormai storiche di Teatro - carcere, la #Sinenomine diretta da Giorgio Flamini, organizzatore dell’evento assieme alla direzione dell’istituto. Celestini non è nuovo dell’ambiente: per scrivere Pro Patria, che ha tra i protagonisti “un detenuto condannato alla reclusione fino al giorno 99 del mese 99 dell’anno 9999… come una ghigliottina al rallentatore”, nel 2012 visitò diversi istituti. A Spoleto ha proposto “Barzellette” (Einaudi, Stile libero), raccolta antologica del meglio (o del peggio) della produzione mondiale in materia, reinventata e reinterpretata dall’autore. Tema leggero solo all’apparenza. “L’incontro è stato intenso, profondo nel trattare vizi e devianze con una forma breve come la barzelletta - racconta Flamini -. Ascanio Celestini ha espresso tutta la sua abilità di attore e di narratore nel dialogo con i circa cinquanta detenuti coinvolti tra quanti frequentano il liceo artistico, l’università e il laboratorio teatrale di #Sinenomine”. I risultati di tre giorni di confronti, curiosità, stimoli ed emozioni varie saranno presentati nel corso di un convegno del Cesp che si terrà al Lingotto di Torino il 13 e il 14 maggio 2019 in cui si confronteranno le esperienze delle altre scuole inserite nel progetto. I detenuti della compagnia hanno donato a Celestini un costume di Pulcinella realizzato per lo spettacolo “A Città ‘e Pulecenella”, inserito nel cartellone del festival dei Due Mondi nel 2016 diretto da Giorgio Flamini, che prima di insegnare nel liceo artistico “ristretto” dell’istituto di Spoleto (“una scelta”, tiene a precisare), frequentato già da anni come volontario, ha lavorato a lungo come architetto e scenografo teatrale, per poi passare alla regia. “Adotta Ascanio Celestini - aggiunge - è il secondo appuntamento del progetto Matera 2019: Con lo sguardo di dentro - Diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità, presentato a Rebibbia il 29 marzo scorso. Un programma coordinato dal Cesp e creato sulla base della circolare del 5 gennaio scorso, del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, con la quale si invitavano i Prap (i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria), i direttori e i comandanti delle istituzioni penitenziarie, a dare forte impulso alle attività culturali degli istituti in occasione di Matera 2019, capitale europea della cultura. Un’iniziativa che ha dato a noi e ad altri operatori culturali penitenziari un’importante opportunità di prendere contatti con personaggi del mondo dello spettacolo e dell’arte e di coinvolgerli in eventi all’interno degli istituti”. Piacenza: fiaccolata alle Novate, il vescovo Ambrosio “stiamo vicino ai carcerati” Libertà, 13 aprile 2019 Non solo sorvegliare per punire, ma soprattutto accogliere per integrare. È unanime e abbraccia in un solo momento le comunità religiose, da quelle cristiane a quella musulmana, unitamente ad una vasta rappresentanza laica, il messaggio di sostegno che la fiaccolata organizzata dalla Diocesi di Piacenza e Bobbio dedica per il quarto anno alla popolazione carceraria. Facendo proprio il versetto biblico “Ricordatevi dei carcerati, come foste loro compagni di carcere”, la silenziosa processione che da Galleria Alberoni si è diretta fino alle porte della Casa Circondariale Le Novate, ha voluto ricordare che il carcere non è un luogo di confino che azzera le speranza. “L’aspetto più bello e al contempo difficile - ha commentato il vescovo Gianni Ambrosio - è proprio quello della reintegrazione, una volta usciti. Credo che diverse persone, anche passando dalla sofferenza del carcere, abbiano ritrovato la gioia di vivere bene in società. A loro e a coloro che vivono la realtà quotidiana del carcere va il nostro messaggio di vicinanza e fraternità”. Milano: nel carcere di Opera alla scoperta del Cenacolo di Leonardo mi-lorenteggio.com, 13 aprile 2019 Poteva Leonardo essere dimenticato, nell’anno del cinquecentenario, dentro le mura di carcere? No di certo. A ricordare il grande e poliedrico artista nella Casa di reclusione di Milano Opera ha provveduto Luca Frigerio, giornalista, scrittore (suo il bel libro “Il Cenacolo di Leonardo”, uscito col marchio di Ancora Editrice) e divulgatore culturale. La narrazione è ruotata intorno all’ Ultima Cena che Gesù consumò insieme ai discepoli alla vigilia della sua Passione, uno dei momenti più intensi e drammatici nel racconto dei Vangeli. Ma è anche il fulcro della fede cristiana. “Per questo gli artisti, nei secoli - ha esordito Luca Frigerio - hanno riprodotto innumerevoli volte questo mistico banchetto di duemila anni fa, sottolineandone ora il significato sacrificale, ora la rivelazione del tradimento di Giuda, ora il momento esatto dell’istituzione dell’eucaristia… Ma spesso riunendo tutti questi aspetti in un’unica immagine di forte impatto visivo e di profonda valenza simbolica. Capolavoro assoluto del genio del Rinascimento italiano, quel Cenacolo nel Refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano che già Goethe aveva definito come “il vertice insuperato dell’arte di tutti i tempi” è stato analizzato nei suoi molteplici aspetti. Rispondendo fondamentalmente, in modo semplice e con taglio divulgativo, adatto a tutti - ad alcune domande fondamentali: Cosa ha voluto rappresentare Leonardo in quest’ultima Cena?; Che tecnica ha usato? E perché quest’opera oggi appare così rovinata?; Perché è stata così ammirata e celebrata in tutte le epoche?; Qual è il suo significato religioso? Un percorso per immagini affascinante ed emozionante, dove l’arte si intreccia con le Sacre Scritture, la storia si incrocia con la teologia, l’umano incontra il divino. In una scoperta continua di simbologie oggi per lo più dimenticate, ma che ci riportano nel vivo della spiritualità medievale e della cultura rinascimentale. Perché la rivoluzionaria impostazione spaziale dell’Ultima Cena di Leonardo, il muto linguaggio dei corpi che si fa espressione dei “moti dell’animo”, la sua altissima qualità artistica sono tutti elementi eccezionali, ma che da soli, lo intuiamo, non sono infine sufficienti a giustificare il rapimento estatico che ogni volta e per chiunque si ripete davanti a questa pallida immagine divorata dal tempo. E che proprio in questo suo svanire fisico e materiale pare invece svelarsi agli occhi del cuore. Un racconto affascinante che i ristretti presenti hanno mostrato di apprezzare, non mancando di formulare delle puntuali domande, alle quali Luca Frigerio - ringraziato per questa sua performance dalla Casa di reclusione- non ha mancato di rispondere. L’incontro ha dimostrato una volta di più come l’arte riesca a superare barriere come quelle del carcere regalando momenti di autentico piacere per le cose belle e momenti di riflessione. Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2019 Il trattamento sanitario obbligatorio da misura eccezionale diventa pratica normale. era seduto sulla sua panchina preferita in piazza Umbria, a Torino, ed è stato avvicinato dal suo psichiatra, accompagnato da un’ambulanza e tre vigili urbani. Per costringerlo a ricoverarsi lo ammanettano, lo stringono per il collo e lo caricano a pancia in giù sulla barella. Muore soffocato prima di arrivare in ospedale. Accade il 5 agosto 2015 e parliamo di Andrea Soldi, 45 anni, un “gigante buono” con una mente schizofrenica, che con i suoi oltre 100 chili di peso si rifiutava di salire sull’ambulanza che lo avrebbe portato in ospedale. Lì lo attendeva il ‘ Trattamento sanitario obbligatorio’, concordato il giorno prima dalla famiglia con lo psichiatra. Così, per vincere la sua resistenza, mentre due vigili lo immobilizzavano, il terzo lo cingeva con forza al collo. E quella stretta - così ha svelato l’autopsia - gli fu fatale. Qualche mese prima, nel salernitano, era toccato a Massimiliano Malzone, deceduto in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, cioè l’unità di ricovero dei reparti di Psichiatria) a causa dei neurolettici che gli erano stati somministrati durante il ricovero. Senza dimenticare Franco Mastrogiovanni, chiamato dai suoi alunni il “maestro più alto nel mondo”, deceduto a Vallo della Lucania nel 2009, dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta. Tre anni prima, un giorno d’estate, un’ambulante sardo di nome Giuseppe Casu viene raggiunto da un Tso attivato d’ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell’ordine a causa dell’ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Muore dopo sette giorni di contenzione. A fine marzo di quest’anno è stato rinviato a giudizio un poliziotto che ha ucciso a colpi di pistole un ragazzo ecuadoregno di 22 anni. Si chiamava Jefferson Tomalà ed era stato raggiunto da un Tso. L’episodio è complesso e controverso e la versione dell’accaduto è cambiata più volte con le testimonianze delle numerose persone che quel giorno erano presenti a casa di Jefferson (otto agenti, almeno quattro familiari, personale medico non specificato). Siamo a giugno del 2018, è una domenica pomeriggio e la madre di Jefferson è preoccupata: vede che il ragazzo è in uno stato alterato, agitato e confusionale, che brandisce un coltello da cucina con il quale lei teme si possa ferire e infatti alcuni tagli auto- inferti sono stati rivenuti sul suo corpo dal medico legale. I carabinieri erano già intervenuti la sera prima a causa di una lite molto accesa tra Jefferson e la madre, in seguito alla quale la compagna del ragazzo aveva deciso di andarsene momentaneamente insieme alla loro figlia di due mesi. La donna chiama quindi il 118, convinta che sarebbe accorso solo del personale sanitario, senza forze dell’ordine: “Chiedevo l’intervento di un medico, invece sono arrivati i poliziotti. Aveva preso un coltellino dalla cucina e avevo paura che si facesse male. Ma io non temevo per me, lui era un bravissimo ragazzo”. Nel corso della trattativa, stando a quanto riferito dagli agenti, il 22enne estrae un coltello e si scaglia su uno due poliziotti, che prova a fermarlo spruzzando lo spray al peperoncino in dotazione. A quel punto Tomalà si sarebbe avventato contro il sovrintendente ferendolo al torace: è a quel punto che il collega più giovane estrae la pistola e spara, colpendo diverse volte il ragazzo. Un proiettile è fatale: Jefferson muore tra le mura di casa, mentre il poliziotto ferito viene portato in gravi condizioni all’ospedale San Martino, dove qualche giorno dopo incontrerà anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che in visita a Genova deciderà di andare a trovarlo per manifestargli solidarietà. Sono casi di cronaca ovviamente eccezionali, ma sono possibili conseguenze di un trattamento, quello forzato, che teoricamente dovrebbe essere una misura eccezionale, mentre in realtà viene considerata pratica normale. Ma non solo. Teoricamente la contenzione non ha niente a che fare con il Tso, tuttavia è molto diffusa non solo nei servizi di salute mentale, ma in tutto il sistema sanitario e sociale: i pazienti vengono legati nelle comunità terapeutica, nelle Rsa, nelle strutture per anziani, nelle comunità per minori. Di fatto si parla della privazione della libertà delle persone e gli interventi coercitivi sono molto diffusi nel nostro Paese, sebbene le leggi neghino la possibilità di procedere in tal senso e sebbene l’Italia abbia sottoscritto protocolli internazionali sul rispetto dei diritti umani. Un trattamento che viene utilizzato, non di rado, anche nei confronti dei detenuti che rifiutano la terapia psichiatrica. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha attivato da tempo un monitoraggio e la questione è stata affrontata anche dall’ultima relazione al Parlamento raccomandando innanzitutto la predisposizione di un Registro nazionale dei trattamenti sanitari obbligatori nel quale annotare ogni informazione circa il ricovero in Spdc, la modalità in cui si sviluppa, gli eventuali passaggi da situazione volontaria a obbligatoria, la durata del ricovero stesso con suo inizio e fine e tutte le altre informazioni già ampiamente elencate nelle sue precedenti relazioni al Parlamento. Spetterebbe, infatti, a un’Autorità centrale la competenza per le procedure di controllo in collaborazione con il Garante nazionale. L’ulteriore traguardo che il Garante nazionale auspica venga raggiunto - e per il quale chiede l’impegno, a diversi livelli di chi ha responsabilità amministrativa e operativa - riguarda l’iter procedurale che dà luogo all’emissione del provvedimento del ricovero e, più in generale, del trattamento non volontario. Riguarda la parte relativa alla convalida della proposta di Tso fatta da un primo medico, nei casi in cui il secondo parere è espresso da un altro medico appartenente alla stessa struttura operativa: è opinione del Garante nazionale, che ha riscontrato, con seria perplessità, tale prassi in più strutture visitate, che questo modo di procedere mini il significato di “pareri indipendenti” che la norma richiede. Cosa accade, di fatto, con questa diminuita indipendenza dei pareri? Nella relazione, l’autorità del Garante spiega che ciò crea un rischio elevato di un utilizzo del trattamento non volontario come modalità prevalente e a volte routinaria nell’affrontare situazioni di difficoltà, “facendo cadere quella connotazione di eccezionalità che tale trattamento deve avere”. Emerge, quindi, che a 40 anni dalla legge Basaglia, la salute mentale continua ancora ad essere gestita in chiave emergenziale. Il Tso non è un mandato di cattura, non è un fermo di polizia e non è nemmeno il ricovero coatto dell’epoca manicomiale. Quindi si rischia di concepire il Tso come se fosse una misura per arginare la pericolosità sociale di un soggetto e non, come dice la legge, un dispositivo di tutela per il paziente. Per questo motivo c’è da tempo un progetto di legge promosso dai Radicali Italiani, che mira - così scrivono i promotori - “a ridurre il potere assoluto (e arbitrario) che l’attuale normativa delega alla psichiatria, garantendo una difesa legale e obbligatoria (quindi anche d’ufficio) a quanti vengano fatto oggetto di provvedimenti di limitazione della libertà personale e di imposizione coatta di cure”. Occidente e islam. Urgenza di umanità di Paolo Branca Avvenire, 13 aprile 2019 Una polarizzazione fondata sulle ideologie e le contraddizioni: l’integralismo critica il consumismo ma ne usa le logiche. E la democrazia è solo conquista recente Il dialogo deve riscoprire le vere esigenze dell’uomo perduto nel deserto, a causa di un’avaria del suo aereoplano, Antoine de Saint-Exupéry rischiò di morire di sete per la mancanza di un bene semplice ed essenziale a cui dedicò questa breve e pregnante riflessione, riportata nel suo Terra degli uomini: “Sei la massima delle ricchezze che esista al mondo, e sei anche la più delicata, tu così pura nel ventre della terra. Si può morire su una sorgente d’acqua magnesiaca. Si può morire a due passi da un lago d’acqua salata. Si può morire nonostante due litri di rugiada in cui siano, in sospensione, alcuni sali. Tu non accetti la mescolanza, non tolleri l’alterazione, sei una divinità ombrosa...”. Così come per l’acqua, anche per altre realtà quotidiane di cui usufruiamo, ci manca la consapevolezza di quel complesso di condizioni necessarie a garantircene il pacifico godimento. Libertà, diritti, democrazia non sono meno vitali rispetto al nutrimento per una società che possa dirsi matura e ben sviluppata. Eppure, sorprendentemente, soltanto una piccola parte della popolazione mondiale ne è provvista. La maggioranza degli uomini ne ha una quota molto limitata, mentre ancora troppi ne sono addirittura quasi completamente privi. Basta poi soffermarsi un momento a riflettere per accorgersi di come neppure nei Paesi ricchi e moderni si possa pretendere che i principi dell’uguaglianza e della giustizia siano sempre e completamente rispettati. Un complicato e fragile sistema di pesi e contrappesi, in equilibrio instabile e dinamico, configura questi “beni” come qualcosa che va costantemente difeso e riconquistato, piuttosto che un’acquisizione completa e definitiva che ci sarebbe conferita dall’appartenere a una sorta di casta privilegiata, a una “razza” superiore che si merita per nascita quanto ad altri è costantemente negato. La storia insegna che ci sono voluti conflitti e rivoluzioni per assicurarsi la libertà, che la separazione dei poteri e la distinzione tra religione e politica è una conquista recente anche per noi. Come possiamo pretendere che sia scontato e naturale quanto abbiamo realizzato a così caro prezzo, lungo un percorso secolare e quanto mai accidentato? Davvero crediamo che basti mettere una scheda in un’urna per ottenere magicamente un sistema democratico? Non sono forse stati lo sviluppo della società civile e lo spirito critico che hanno regalato all’Occidente i diritti di cui godono i suoi abitanti? La questione del giusto rapporto che deve sussistere fra religione e politica è invece uno dei temi più dibattuti fra i musulmani, fin dalle origini dell’islam. Ci sono sempre stati quanti intendono tale rapporto in termini di stretta interdipendenza in senso integralista, ma pretendere che vi sia in proposito una visione unica e invariabile è quanto meno azzardato. Una visione statica e monolitica dell’islam è incompatibile con la pluralità di questo mondo che soltanto a fini propagandistici, supportati tanto da zelanti militanti musulmani quanto da occidentali in cerca di un nuovo nemico epocale, può essere sostenuta. Più che a una pretesa natura aggressiva dei musulmani, il fenomeno va fatto risalire alle contraddizioni e alla forte instabilità che da lungo tempo interessano un’area del mondo profondamente in crisi. Eppure qualcuno parla esplicitamente di “scontro di civiltà”. Le modalità con cui i musulmani radicali pretendono di rispondere alla sfida della modernità sono innegabilmente paradossali. Il fondamentalismo, infatti, pur volendosi presentare come l’antagonista assoluto dell’Occidente, ne assume in larga misura le ideologie e la prassi, oltretutto in modo contraddittorio. In apparenza si oppone alla modernità e la rifiuta, mentre in realtà la utilizza in maniera strumentale e acritica. Ne accetta così solo una parte, e non necessariamente la migliore, come denunciano alcuni intellettuali islamici particolarmente acuti: “Se possiamo conciliare islam e rivoluzione, perché non anche islam e diritti umani, democrazia e libertà?”, rivelando come certi concetti tipicamente moderni stiano già operando una subdola mutazione interna dalle conseguenze imprevedibili: “Rivoluzione islamica (o indù, o buddista...): quale dei due termini è il più attivo, il più determinante? Rivoluzione o islam? È la religione che cambia la rivoluzione, la santifica, la risacralizza? O è al contrario la rivoluzione che storicizza la religione, che fa di essa una religione impegnata, in breve, un’ideologia politica? Così facendo, la religione cade nella trappola dell’astuzia della ragione: volendo ergersi contro l’Occidente, si occidentalizza; volendo spiritualizzare il mondo, si secolarizza; e volendo negare la storia, vi si inabissa completamente”. Da queste premesse deriva il successo che, non tanto la prassi, quanto l’analisi dei movimenti islamici radicali incontra soprattutto fra i giovani. La situazione non è molto differente a quella che abbiamo vissuto in Italia durante i cosiddetti “anni di piombo”. Come i brigatisti rossi rifiutavano allora la democrazia in quanto prodotto del capitalismo borghese, così i musulmani radicali la rigettano quale prodotto di una civiltà non solo estranea, ma addirittura ostile alla loro. Un modello di origine divina, proclamato da un profeta, sembra ai loro occhi offrire maggiori garanzie rispetto a un sistema elaborato dagli uomini. Non manca tuttavia chi li mette in guardia a tale proposito: “I fautori di un potere fondato sulla religione rimproverano al sistema democratico di basarsi sulle tendenze le opinioni e le preferenze degli uomini, che sono per natura versatili e fallibili, alle quali essi oppongono la perfezione divina della legge religiosa. Bisogna ribattere loro che è precisamente in questo che risiede la grandezza della democrazia, poiché essa sola permette all’uomo di trarre lezione dai suoi errori... Il potere religioso, benché non sia che un potere umano esposto come tale, a tutti gli errori umani, non riconosce all’uomo questo diritto di imparare dalle sue esperienze: gli impone una tutela a priori e gli impedisce di svilupparsi e di giungere a maturità. Tutte le catastrofi del mondo musulmano, e del mondo arabo in particolare sono frutto di governi militari prodotti da pseudo-rivoluzioni, che stabiliscono con i governati una relazione politica del tipo di quella che gli ufficiali intrattengono con i loro soldati. Molti cittadini dei Paesi arabo- musulmani, sottomessi da lunga data a un regime autoritario, hanno preso l’abitudine, e, se ce n’è, il gusto, a obbedire, e hanno perso le loro facoltà critiche: niente di meglio che il potere degli stivali per preparare al potere dei turbanti”. Il clima esasperato di conflitto che sembra perpetuarsi tra Occidente e islam certo non favorisce il dialogo, ma anzi porta acqua al mulino di una sempre più acuta polarizzazione. Eppure, a volte basta davvero poco per invertire la rotta, specialmente considerando che tra i circa 300 milioni di abitanti che popolano i 22 stati della Lega araba, quasi il 40% ha meno di 14 anni. Il ricordo della dominazione coloniale è ormai sbiadito ai loro occhi, ed è bastata l’opposizione francese alla guerra contro l’Iraq per far sì che Chirac fosse accolto trionfalmente nella stessa Algeri. Un po’ di buona volontà non guasterebbe per rendere credibile la possibilità di un’alternativa a milioni di persone che, a ben vedere, aspirano, come tutti, ad avere una vita almeno decente... Più che a esportare improbabili e semplicistici modelli preconfezionati, dovremmo cercare di favorire dei processi che facciano leva sulle più elementari esigenze dell’umanità. Le armi potranno forse servire a reprimere quanto non si è saputo prevenire, ma un serio lavoro che possa sperare di produrre qualche buon risultato ha bisogno di ben altri mezzi. Se ripartono i flussi migratori di Giampiero Massolo La Stampa, 13 aprile 2019 Una resa di conti definitiva in armi in Libia? La situazione sul terreno non sembra portare a questa conclusione, visto il sostanziale stallo che si è venuto a creare. Ma certamente ce n’è a sufficienza per allarmare la comunità internazionale e per suscitare l’apprensione di chi teme, specie in campagna elettorale, di veder riprendere un imponente flusso migratorio lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Per di più, difficile da invertire mentre sono in corso operazioni militari nell’immediato retroterra dei porti libici. Quanto accade può sorprendere solo in parte. È il frutto di una gestione internazionale della crisi libica molto affidata alle Nazioni Unite, senza che l’azione dei loro rappresentanti fosse davvero sostenuta da iniziative convergenti dei Paesi europei, dei player regionali schierati su fronti opposti e neppure di Stati Uniti e Russia, tutti intenti a perseguire i propri interessi settoriali. Sta di fatto che, se il Generale Haftar si è mosso nel tentativo di risolvere militarmente a suo favore il nodo della leadership in Libia, qualcuno deve pur averlo indotto a ritenere di avere prospettive di successo. Gli eventi sul campo stanno almeno finora dimostrando che egli può aver sopravvalutato la propria forza militare e i propri appoggi e sottovalutato la resilienza e il grado di coesione dello schieramento opposto, sostenuto dalle milizie di Misurata in sostegno del pur fragilissimo Governo del presidente Serraj. C’è da adoperarsi a questo punto perché almeno questa situazione di stallo non precipiti: una per quanto poco probabile vittoria di Haftar, lungi dal rappresentare una soluzione durevole, rischierebbe di provocare, vista la consistenza militare delle forze che gli si oppongono, un conflitto sanguinoso, con buona pace di ogni ambizione di stabilizzare il Paese; come pure poco realistico e fonte di violenza sarebbe fare finta che l’avanzata di Haftar non abbia avuto luogo. Lo stallo, per quanto precario, inoltre, permetterebbe un qualche presidio delle coste libiche, finché perdurino i patti con i gruppi interessati. Sul piano politico e diplomatico, ogni azione, tesa a fare fronte all’emergenza dovrebbe basarsi - invia prioritaria - almeno su di una sostanziale convergenza di intenti tra l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti e la Russia. Con questo, potrebbe difatti crearsi la massa critica necessaria per cercare di influire sui player regionali, quali Turchia e Qatar da un lato e Emirati Arabi, Egitto e Arabia Saudita dall’altro, concretamente in grado di condizionare le parti in causa. Verso un simile urgente obiettivo, essenziale per l’Italia, occorrerebbe non lesinare gli sforzi diplomatici. Certo, a emergenza contenuta, avremo a che fare con uno scenario in parte diverso e più complesso rispetto a quello precedente. Il clima di reciproca ostilità e diffidenza accresciuto, la credibilità del processo a guida dell’Onu ulteriormente compromessa, una presenza di Haftar di fatto territorialmente rafforzata, la crescita obiettiva del peso di Misurata (il cui rappresentante, Maitig, nel governo di Tripoli vede di conseguenza aumentato il suo potere, a scapito di Serraj). Elementi tutti suscettibili di complicare assai la ripresa del processo negoziale. Eppure, tornare a tessere la tela negoziale sarà ad un certo punto inevitabile, ove gli accadimenti sul terreno confermino la difficoltà effettiva di soluzioni militari. A quel punto, toccherà agli Stati nazionali assumersi quelle responsabilità di cui le Nazioni Unite non sono in grado di farsi carico senza il loro convergente sostegno. Vi sarebbe qui uno spazio d’azione anche per ove decidesse di farsi concretamente promotrice, d’intesa con l’Onu, di un meccanismo di gestione della crisi libica. Un meccanismo atto a ingaggiare le grandi potenze, quelle regionali e gli attori libici rilevanti in una più complessiva e verificabile assunzione di impegni e responsabilità, basata sul contemperamento dei rispettivi interessi a favore di una accettabile stabilizzazione della Libia. Non mancano del resto modelli in tal senso nelle crisi internazionali, a cominciare ad esempio dal “gruppo di contatto” che contribuì a risolvere la crisi del Kosovo. Migranti. La rabbia di Salvini: il piano “porti chiusi” adesso rischia di saltare di Francesco Grignetti La Stampa, 13 aprile 2019 I prefetti lo avvertono: “In caso di guerra in Libia la direttiva va congelata”. Era un mese fa, il 18 marzo, quando Matteo Salvini fece un passo mai così esplicito verso la Libia. Quel giorno, il vicepremier leghista emanò una direttiva ministeriale che considerava gli approdi alternativi all’Italia e scrisse: “I porti libici, tunisini e maltesi possono offrire adeguata assistenza logistica e sanitaria”. Non era una dichiarazione di “porto sicuro” per Tripoli dove far sbarcare i migranti, ma vi si avvicinava molto. Ecco, un mese dopo, con l’offensiva di Haftar in atto e i combattimenti che si avvicinano pericolosamente alla città, l’intera architettura di Salvini rischia di franare. E infatti lui è arrabbiatissimo perché non ignora i pericoli che corre la sua politica. Anche ieri si sfogava contro chi sta “giocando alla guerra, che è un gioco molto pericoloso”. I prefetti del ministero dell’Interno hanno messo in fila le novità e hanno dovuto mettere in guardia il ministro. Primo segnale: all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, è stato chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 - disse Salvi - non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”. L’obbligo di intervenire in mare resta dunque un obbligo, pena un intervento della magistratura italiana e in prospettiva anche una sanzione da parte della Corte dei diritti dell’Uomo. E se Salvini sperava in cuor suo di assistere a una progressiva stabilizzazione, un virtuoso processo di pace, quindi alla fine un governo saldo e anche un maggiore coinvolgimento delle agenzie delle Nazioni Unite, beh, le cose stanno andando in direzione opposta. Secondo segnale: il 5 aprile, da Ginevra è arrivata una dichiarazione ufficiale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni in cui si “esprime preoccupazione per la popolazione civile e i migranti tenuti in detenzione in Libia, mentre convogli militari si avvicinano alla capitale Tripoli”. Dichiarava il direttore generale dell’Oim, Antonio Vitorino: “La sicurezza dei migranti detenuti diventerebbe una questione cruciale se dovesse verificarsi un’escalation dell’azione militare. La Libia non è un luogo sicuro dove riportare i migranti che hanno tentato senza successo di raggiungere l’Europa”. Ai piani alti del Viminale, insomma, si sta con il fiato sospeso. Proprio quando sembrava che l’Ue e il G7 appoggiassero a tutta forza la politica di “filtro” che sta svolgendo la Guardia costiera libica, sul campo hanno preso a bombardarsi. Così, dicono rassegnati alcuni prefetti, “se le cose dovessero precipitare, è ovvio che la direttiva finirebbe nel freezer in attesa di tempi migliori”. Qualche segnale di quel che sta per capitare. Dai quartieri di Tripoli investiti dai combattimenti sono scappati almeno 9 mila cittadini libici. Altri 1.300 migranti e rifugiati sono rimasti intrappolati nei centri di detenzione e per fortuna Medici Senza Frontiere ieri ha fornito a tutti una minima assistenza. Ma non potrà durare. L’Alto commissario per i rifugiati, Filippo Grandi, ricordando che “queste persone si trovano nelle circostanze più vulnerabili e pericolose” ha chiesto ieri che possano essere evacuati. “Devono essere urgentemente messi in sicurezza. Si tratta di una questione di vita o di morte”. Sta per iniziare un esodo biblico verso l’Italia? “Per il momento, la Guardia costiera libica tiene”, avvertono dallo staff del ministro. Ma domani? Chissà. Un barchino è approdato a Lampedusa qualche giorno fa, con 71 tunisini a bordo, ma questa non è una novità. Dall’inizio dell’anno sono stati 212 i clandestini che sono arrivati alla spicciolata da Tunisi via mare e in genere vengono riportati indietro nel giro di qualche settimana. Per i tunisini e solo per loro, infatti, funziona un accordo bilaterale di riammissione in patria. Altro sarebbe se cominciassero ad arrivare ondate di libici in fuga dalla guerra: per i profughi, i porti sono “aperti” per definizione. E se lungo la rotta di Lampedusa s’aggiungessero anche centinaia o migliaia di migranti, sarebbe impossibile non accoglierli. Ricordava l’Oim nel suo comunicato della settimana scorsa, che durante gli scontri avvenuti tra milizie a Tripoli, nell’agosto 2018, oltre 14.000 civili furono sfollati e 2.000 migranti si trovarono coinvolti dai combattimenti. In quell’occasione, per fortuna, le armi tacquero presto e nessuno o quasi prese il mare. Stavolta però le premesse sono molto diverse. Migranti. Boom delle rimesse verso i Paesi d’origine. Ma scompaiono i cinesi di Vladimiro Polchi La Repubblica, 13 aprile 2019 Dopo anni di calo, i dati della Fondazione Moressa segnalano che nel 2018 il volume del denaro inviato in patria dall’Italia è aumentato del 20%, per un totale di 6,2 miliardi euro. Il Paese del Dragone è precipitato al 38esimo posto: uso di canali informali e maggiori investimenti in Europa. In testa il Bangladesh. I più generosi sono i bangladesi: risparmiano anche gli spiccioli e ogni mese spediscono a casa oltre 460 euro. Dietro di loro, romeni, filippini, pachistani. Dopo anni di secca, torna a ingrossarsi il fiume di denaro che scorre dall’Italia verso i Paesi d’origine dei migranti: ben 6,2 miliardi di euro nel 2018. In media ogni straniero invia in patria poco più di 1.200 euro l’anno. Con un giallo: la Cina. Dopo aver spadroneggiato per anni, oggi il Paese del Dragone scompare tra i primi venti Paesi di destinazione delle rimesse. Il boom di rimesse - A fotografare i movimenti di denaro dei “nuovi italiani” è un’analisi della fondazione Leone Moressa. I risultati: dopo il crollo del 2013 e alcuni anni di sostanziale stabilizzazione, nell’ultimo anno il volume di rimesse ha registrato un improvviso aumento (+20,7%), raggiungendo quota 6,2 miliardi di euro. Nel 2018, per la prima volta, il Bangladesh conquista il primato tra i Paesi di destinazione, con un aumento di oltre il 35% e la bellezza di 730 milioni di euro spediti. Il secondo Paese è la Romania, che tuttavia registra un andamento stabile. Da notare come tra i primi sei Paesi, ben quattro siano asiatici: oltre al Bangladesh, Filippine, Pakistan e India. Il Pakistan ha addirittura registrato un’impennata del 74% nell’ultimo anno. La scomparsa dei cinesi - Stupisce il caso della Cina: fino al 2012 era la prima destinazione delle rimesse, con picchi di oltre 2,7 miliardi di euro nel 2011 e 2012. Nel 2013 si è registrato il primo brusco calo, proseguito negli anni successivi, fino ad arrivare nel 2018 a soli 21 milioni di euro spediti (solo 38esimo Paese di destinazione). Come si spiega? Il denaro avrebbe preso altre strade, lontane dai money transfer e dai controlli, insieme a una sempre maggiore propensione a rafforzare gli investimenti in Italia e in Europa: “Qui in Toscana, come nel resto d’Italia, negli ultimi due anni si è assistito a un crollo clamoroso delle rimesse dei migranti cinesi - conferma Barbara Bonciani, che insegna Sociologia dello Sviluppo a Pisa - e questo nonostante aumenti il numero dei residenti e delle loro attività commerciali sul territorio. Sicuramente i loro risparmi hanno preso a scorrere nei canali informali, in modo da aggirare i costi di commissione e la tracciabilità dalla Banca d’Italia: come il sistema Hawala, con cui si trasferisce denaro attraverso una vasta rete di mediatori”. Non poche sono le inchieste in corso della Guardia di finanza. Come ricostruito nell’ultimo dossier statistico dell’Idos, parte dei flussi verso la Cina sarebbero oggi veicolati tramite “relazioni fiduciarie” (i cosiddetti spalloni), ma anche nei circuiti dei “bitcoin, chat, app telefoniche, carte prepagate”. Record tra i bangladesi - Tornando al quadro generale, “mediamente ciascun immigrato in Italia ha inviato in patria poco più di 1.200 euro nel corso del 2018 - scrivono i ricercatori della Moressa - il record è tra i bangladesi con 5.537 euro, ovvero oltre 460 euro al mese”. Secondi per generosità, i senegalesi: “Nel 2018 hanno spedito a casa 3.675 euro, oltre 300 euro mensili a testa”. A livello locale, le regioni con il maggior volume di rimesse inviate sono Lombardia (1,46 miliardi) e Lazio (953 milioni). Seguono Emilia Romagna, Veneto e Toscana, tutte con oltre 500 milioni di euro in viaggio verso l’estero. Caso Assange, gli Usa riaprono il fronte libertà di stampa di Elena Molinari Avvenire, 13 aprile 2019 Ha sollevato un polverone nel mondo della politica e del giornalismo anglosassone, l’arresto di Julian Assange a Londra. La figura del 47enne fondatore di Wikileaks continua a essere controversa e a sollevare domande etiche delicate e a fare da parafulmine per rivendicazioni di segno opposto e vecchie controverse. La decisione se il Regno Unito debba estradarlo o meno negli Stati Uniti, ad esempio, ha già visto schierati su fronti opposti personaggi come il leader dell’opposizione britannica, Jeremy Corbyn, che, al contrario dell’establishment londinese, considera inaccettabile consegnare l’attivista a Washington. “L’estradizione di Assange per aver rivelato prove di atrocità commesse in Iraq Anche Lenín vuol fare l’americano e in Afghanistan deve avere l’opposizione del governo britannico”, ha scritto su Twitter il numero uno del partito laburista, allegando un video sulla strage di civili di un raid aereo Usa in territorio iracheno portato alla luce da WikiLeaks e costato la vita fra gli altri a due giornalisti dell’agenzia Reuters. Ed è proprio il legame fra il guru delle soffiate via Internet e il giornalismo ad alimentare il capitolo più acceso del dibattito, dove non pochi commentatori (Washington Post in testa) temono che mettere il fondatore di un sito di pubblicazioni di indiscrezioni anonime nelle mani dell’Amministrazione Trump creerebbe un precedente pericoloso che potrebbe aprire le porte alla caccia a qualunque reporter scomodo, colpevole solo di aver reso note informazioni vere sugli Stati Uniti. Intanto Assange resta affidato alla giustizia britannica dopo i quasi sette anni di asilo nell’ambasciata dell’Ecuador revocato dal presidente Lenin Moreno, in attesa di sapere quali accuse deve affrontare. Di certo c’è il reato di pirateria informatica contestatogli dagli Usa, teso a punire la diffusione dal 2010 di documenti riservati del Pentagono, A cominciare da quelli sottratti dall’ex militare Bradley, ora Chelsea, Manning su vari crimini di guerra attribuiti alle forze a stelle e strisce, che potrebbe costare all’accusato almeno cinque anni di prigione federale. Ma torna a farsi sentire anche la minaccia giudiziaria legata a una controversa denuncia di stupro avviata e poi chiusa dalla magistratura svedese. Un fascicolo che la procura di Stoccolma sta ora “riesaminando”, sollecitata dall’avvocato della presunta vittima. Mentre il governo francese dice di essere disposto a considerare di offrire asilo politico al fondatore di WikiLeaks, questi dovrà restare ancora per qualche tempo in una cella del Regno Unito, dove deve scontare una condanna non superiore all’anno per aver violato sette anni fa i termini della cauzione, in seguito a un mandato d’arresto dell’epoca. Ma è chiaro che è la giustizia americana a far paura agli avvocati che assistono Assange, che hanno fatto sapere essere pronti a opporsi - sostenuti dalle proteste di difensori dei diritti umani e della libertà di stampa - all’istanza degli Usa. E certo infatti che i sentimenti ostili del mondo politico Usa nei confronti dell’attivista sembrano essere bipartisan. Secondo la liberai Hillary Clinton, ad esempio, Assange “deve pagare severamente per quel che ha fatto”. Libia e non solo. Non disturbate i generali, stanno lavorando per voi di Alberto Negri Il Manifesto, 13 aprile 2019 È la primavera dei generali, quelli dei golpe e dei colpi di mano. Il ritornello più stucchevole della comunità internazionale udito in questi anni davanti alle crisi mediorientali è il seguente: “La soluzione non è militare ma diplomatica”. Niente di più falso. Lo abbiamo sentito a proposito della Siria per anni, poi le fette di torta le ha fatte con l’intervento militare la Russia di Putin appoggiando Bashar Al Assad. Lo stesso sta accadendo in Libia. Il generale Khalifa Haftar, cittadino americano - che piace all’Egitto alla Francia, alla Russia, all’Arabia Saudita e agli Emirati - da due mesi sta compiendo avanzate militari nel Paese. Forse solo il nostro governo, con l’Onu, non se ne era accorto, pur di blaterare un altro comodo e falso ritornello: “La Libia è un porto sicuro”. Insieme alle ripetute accuse a Parigi, questo slogan ha innescato un puerile coretto governativo. Anche in Sudan la situazione l’hanno presa in mano i militari che vorrebbero sigillare per un paio d’anni il Paese da ogni pulsione democratica. E sono ancora i generali gli arbitri delle proteste in un’Algeria che vorrebbe tanto farla finita con il sistema legittimato dalla lotta anti-francese e poi dalla guerra civile degli anni ‘90. Sono problemi complessi, che si trascinano da decenni, ma i generali, sostenuti dall’Occidente e dalle potenze regionali, offrono soluzioni apparentemente facili brandendo il bastone.Quali sono gli obiettivi? 1) Chiudere i conti con l’Islam politico e la controversa stagione delle primavere arabe. A Tripoli Fratelli Musulmani e jihadisti sostenuti da Qatar e Turchia devono essere fatti fuori: ecco perché il governo Sarraj voluto dall’Italia e riconosciuto dall’Onu non può reggere a lungo. Spingendosi magari anche più in là: anestetizzare ogni alternativa democratica per tornare a plebiscitarie elezioni-farsa. 2) Fermare i flussi migratori e militarizzare le frontiere. I confini devono restare questi, ereditati dal colonialismo, e non si devono cambiare. È la vendetta postuma di Sykes-Picot, l’accordo anglo-francese del 1916. L’unico Paese autorizzato a cambiare le frontiere è Israele che può inglobare territori siriani e palestinesi con l’approvazione americana. Si possono al massimo concedere “fasce di sicurezza”, per la Turchia in Siria, a danno dei curdi, o per l’Egitto in Cirenaica. 3) Imporre un ritorno all’ordine economico precedente le rivolte contro i vecchi regimi, quando le multinazionali potevano con una certa sicurezza estrarre risorse dall’Africa e dal Medio Oriente. La variabile fastidiosa è quella cinese ma a questa ci pensano gli americani con la guerra dei dazi. Poi naturalmente restano le sanzioni, con cui isolare i Paesi più riottosi, come l’Iran o il Venezuela. Il modello è quello egiziano del generale Abdel Fattah al Sisi, dal 2013 lo sterminatore dei Fratelli Musulmani, che come segnalava sul manifesto Chiara Cruciati al vertice euro-arabo di Sharm el Sheikh è stato investito del ruolo di guardiano del Sud, così come Israele è il guardiano del Medio Oriente. Il tutto finanziato dai sauditi: i massacratori dello Yemen e mandanti dell’omicidio Khashoggi un tempo appoggiavano rivolte e terroristi per tenerli lontani da casa loro, adesso portano soldi ai generali e nelle casse dell’industria bellica occidentale. Meglio di così… Ma sia chiaro: ci sono i militari che piacciono e altri definiti terroristi. L’America di Trump, giusto per dare un altro aiutino a Netanyahu alla vigilia del voto israeliano, ha messo in lista nera tra le organizzazioni terroristiche i pasdaran iraniani. Ora l’Iran non è uno stato terroristico più di quanto non lo siano gli Usa, Israele la Russia, anzi forse a volere ben vedere lo è meno degli altri, visto che le milizie sciite al comando del generale iraniano Qassem Soleimani hanno in parte salvato le minoranze cristiane e yazide dalle stragi del Califfato. Certo lo hanno fatto anche nell’interesse di Teheran ma non è colpa sua se Usa, Occidente e Paesi arabi alleati commettono errori strategici madornali, dall’invasione dell’Iraq nel 2003 al tentativo di abbattere Assad usando i jihadisti. A proposito dell’Isis: Francia, Gran Bretagna e Germania hanno rinunciato a processare i loro foreign fighters che insieme a altre centinaia di jihadisti sono nella carceri irachene dove, assicura presidente Barham Salih, verranno impiccati. Per loro non ci saranno tribunali pubblici come per la ex Jugoslavia e imbarazzanti testimonianze sulle complicità internazionali con il Califfato: tutto deve essere sotterrato alla svelta, come fanno i bravi ragazzi. Non disturbate i generali, stanno lavorando per voi. Libia. Doppi giochi e soldi sporchi dietro l’offensiva di Haftar di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 aprile 2019 Il Wall Street Journal svela i dettagli dell’accordo stretto a Ryadh dal generale libico. E Parigi si difende dall’accusa di “ambiguità”. Parigi ieri ha tentato di respingere le accuse di “ambiguità”, o meglio di doppiogiochismo e sostanziale appoggio all’offensiva del generale cirenaico Kalifa Belqasim Haftar per la conquista di Tripoli. Ma il portavoce del Quai d’Orsay lo ha fatto in modo generico, trincerandosi dietro il fronte ufficiale che vedrebbe la Francia collaborare al dialogo promosso dall’Onu insieme all’Italia e agli altri “partner britannici e emirati”, facendo notare come nella sua più recente visita in Libia il ministro Jean-Yves Le Drian, il 18 e 19 marzo, abbia incontrato tanto Haftar quanto il primo ministro, Fayez Serraj. Nessuna smentita dell’arrivo all’aeroporto di Orly di Saddam Haftar, uno dei due figli del generale, per far visionare i piani d’attacco a poche ore dal loro lancio sul campo. Questo sarebbe avvenuto giovedì, secondo i tracciati aerei scoperti da Repubblica, quattro giorni prima dell’invio dell’altro figlio, Khaled a Roma, dove però l’accoglienza non sarebbe stata la stessa. Un altro gioco sporco a favore dell’ex comandante delle truppe gheddafiane in Ciad viene rivelato dal Wall Street Journal. Il quotidiano economico ha pubblicato ieri pomeriggio un articolo nel quale, attraverso fonti saudite e egiziane, si ricostruisce come l’Arabia saudita avrebbe promesso ad Haftar “decine di milioni di dollari per finanziare la sua operazione militare”. L’impegno sarebbe stato preso in diversi incontri con dignitari della corte di re Salman durante la visita a Riyadh compiuta dal generale il 27 marzo, subito prima dell’attacco. È toccato intanto ad Angela Merkel ristabilire un asse europeo favorevole alla pace e all’iniziativa delle Nazioni unite per il dialogo tra le parti nel tentativo di stabilizzare la Libia, e non di farla precipitare in un nuovo bagno di sangue. È stata infatti la cancelliera giovedì sera a imporre all’Europa di uscire da oscure trame intestine per chiedere “l’immediato arresto” dell’offensiva di Haftar su Tripoli, come riportava il quotidiano governativo tedesco Deutsche Welle. E così, a seguire, l’Alta rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini si è pronunciata in questo senso, rompendo gli indugi durati una settimana. Ieri è iniziata la seconda settimana di assedio e i combattimenti sul lato sud-est della cintura esterna della capitale libica si sono intensificati. Il bilancio è arrivato a 76 vittime e 323 feriti, ma l’Oms denuncia anche i primi focolai di epidemie a causa dell’acqua non più potabile e dei danni agli impianti fognari. I profughi dagli insediamenti più bersagliati da ordigni e proiettili sono ancora circa 6 mila ma - è l’avvertimento - potrebbero rapidamente diventare centinaia di migliaia. La Mezzaluna rossa ha salvato un centinaio di famiglie aprendo corridoi per trasferirle fuori dal fuoco incrociato e due ambulanze sono state danneggiate da schegge di granate esplose. La Croce rossa internazionale ha distribuito kit per ferite di guerra all’ospedale di Abu Salim, il principale, e ad altri tre centri medici, ma le scorte di farmaci e sangue tra due settimane al massimo finiranno. E mezzo milione di bambini, secondo l’Unicef, sono in pericolo. Alcuni residenti sull’asse viario per l’aeroporto internazionale di Mitiga, ancora teatro di violenti scontri, si rifiutano di lasciare le proprie case, temendo che vengano saccheggiate e vivono asserragliati. I progressi militari di Haftar non si vedono, mentre le forze di Misurata che combattono per Serraj hanno conquistato l’enclave di Ein Zara, a 15 chilometri dalla città, e imbastiscono una dura controffensiva - “Vulcano di rabbia” - nelle altre aree di sud-ovest dove si concentra il grosso dell’Esercito nazionale libico, la milizia di Haftar. La zona di Wadi Rabie è stata pesantemente bombardata, con decine di case distrutte, e così a Tajura, Yarmuk, Salah al-Din, Suwani. Tutte le linee di rifornimento dell’Lna sono state bersagliate con armi pesanti. La città di Zuara, sulla costa al confine con la Tunisia, dalla quale in mattinata è stato sparato un razzo contro un velivolo dell’esercito di Haftar, è stata bombardata da elicotteri per rappresaglia. Il consiglio della città ha inviato una accorata lettera a Serraj in cui denuncia la “brutale aggressione” e chiede la protezione delle forze del governo di accordo nazionale. Haftar, che ha emesso un mandato di cattura per Serraj e per una serie di capi delle sue milizie, comincia ad avere qualche problema anche nelle retrovie. A Bengasi, capitale della Cirenaica, all’uscita dalla preghiera del venerdì c’è stato un tentativo di attentato a una moschea e forse anche il camion di munizioni saltato in aria due giorni fa non è stato un incidente. Nel Fezzan torna poi a farsi vedere la bandiera nera dell’Isis: a Ghadduwa altri sei morti. Algeria e Sudan, la fine dei due regimi che ci preoccupa per il gas e i migranti di Antonella Napoli Il Dubbio, 13 aprile 2019 Nel giro di poco più di una settimana, due longevi autocrati del mondo arabo sono stati costretti a cedere alla richiesta dei rispettivi popoli di fare un passo indietro. Il primo, Abdelaziz Bouteflika, anziano e malato presidente dell’Algeria si è dimesso in seguito alle proteste di massa che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di algerini. Stanchi dei suoi due decenni di potere contraddistinti da violazioni di diritti fondamentali, di una diffusa corruzione nelle istituzioni e di un livello di disoccupazione giovanile che sfiora il 30%, all’annuncio della sua ricandidatura, ormai ridotto su una sedia a rotelle dopo un ictus, hanno reagito con un’ondata di sdegno che ha infiammato le proteste che già in passato non erano mancate. Più turbolenta la fine del regime del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, sottoposto agli arresti domiciliari dalle autorità militari del paese che dopo quattro mesi di incessanti manifestazioni sono intervenute mettendo in atto un colpo di Stato. Il governo trentennale di Bashir, ex generale giunto al potere proprio in seguito a un golpe da lui stesso animato nel 1989, è finito dunque così come era cominciato. L’uomo forte del Sudan governava nonostante avesse pendente su di sé un mandato internazionale di arresto per crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio perpetrati in Darfur, regione occidentale sudanese che dal 2003 è insanguinata da un conflitto civile che ha causato oltre 300 mila vittime e 2 milioni e mezzo di sfollati. Considerando le differenti vie che hanno portato alla detronizzazioni degli ormai sgraditi capi di Stato, i manifestanti in Sudan e Algeria sono profondamente consapevoli della fragilità dei risultati ottenuti. In entrambi i casi, quelli che erano iniziati come tumulti per ‘ lamentelè socio - economiche si sono trasformati in un clamore di vasta portata per la mancanza di riforme politiche. Seppure le situazioni differiscano, condividono il timore che le vecchie guardie vicine ai regimi destituiti possano svolgere ancora un ruolo fermando l’impulso di quelle che erano nate come rivolte per chiedere libertà e democrazia nell’impronta delle rivoluzioni che hanno stravolto il mondo arabo nel 2011. Per la prima volta da quando le “primavere arabe” hanno lambito senza conseguenze sia Algeria che Sudan, l’assetto degli equilibri nel continente africano ha subito un’importante turbolenza che può avere una ricaduta anche sull’Europa e in particolare sull’Italia. Per quanto riguarda il paese nordafricano, siamo i principali importatori di risorse, in particolare di gas, e i terzi come nazione esportatrice. Due delle più importanti società italiane, l’Eni e l’Enel, hanno progetti e investimenti di lungo corso e rilevanza in Algeria. L’azienda di idrocarburi ha più volte evidenziato il peso strategico delle forniture algerine e dalla vicina Libia, altra realtà che desta enormi preoccupazioni per gli sviluppi dello scontro tra il generale della Cirenaica Khalifa Aftar e il premier della Tripolitania Fayez al Sarra, soprattutto a fronte di mancati approvvigionamenti dalla Russia. Ma le incognite, se non vere e proprie inquietudini, non sono solo di natura commerciale. A non consentirci di restare insensibili a quanto accade dall’altra parte del Mediterraneo sono anche le possibili conseguenze del perdurare delle crisi. In particolare in Sudan. I sudanesi, già prima dell’inizio delle rivolte e della profonda insoddisfazione per la situazione economica, erano i terzi per nazionalità nell’index dei migranti che arrivano sulle nostre coste. Le notizie che ci giungono da Khartoum fanno presupporre che il malcontento della popolazione sia ancora forte. L’Associazione dei professionisti sudanesi, tra i promotori delle proteste che hanno portato alla fine del regime di Bashir, ha respinto la presa del potere da parte dell’esercito e ha esortato i manifestanti a restare in piazza. Per l’opposizione, il colpo di Stato dei militari ha riprodotto le stesse facce e istituzioni contro le quali si era rivoltato il popolo. È iniziata, per questo, dopo la proclamazione dello Stato di emergenza nella Capitale e in tutto il Paese, una nuova resistenza che potrebbe sfociare in repressioni e violenze che se si prolungassero potrebbero determinare nuovi esodi migratori. Pur tenendo conto della “chiusura” dei nostri porti, la questione non è trascurabile. Ma gli scenari sono ancora schermati da varie incognite per poter avanzare previsioni di ciò che realmente possa accadere. Un ruolo chiave può, deve, giocarlo la comunità internazionale. In primis incoraggiando gli attuali poteri esecutivi in entrambi i paesi ad ascoltare le richieste dei loro popoli e consentire transizioni democratiche e progressi autentici nel campo dei diritti umani. È meno chiaro da dove possa venire questo supporto. I leader occidentali vedono la dura lotta in Siria e in Libia e hanno ampiamente accettato il mantra di stabilità predicato dalle monarchie arabe del Medio Oriente, che si sono mosse in vari modi per minare le transizioni democratiche di altri paesi della regione. Anche il presidente Trump ha rifiutato a lungo l’appello della Primavera araba e ha accolto Sissi alla Casa Bianca questa settimana come leader che ha fatto un “grande” lavoro. “I generali sudanesi e algerini probabilmente contano sulla Russia e sui dittatori arabi per sostenerli nello schiacciare i movimenti pro-democrazia, e sulla passività o persino il tacito sostegno da parte dell’amministrazione Trump per ristabilire l’ordine”, ha detto Hawthorne. I movimenti di protesta schierati contro di loro si sono dimostrati resistenti fino ad ora e si sono rifiutati di battere ciglio quando Bouteflika e Bashir hanno tentato di placare le loro richieste con mezze misure. Guardando avanti, i sostenitori della rivolta in Egitto possono solo augurargli buona fortuna. “Il potere del popolo si è dimostrato vivo e il desiderio di avere un presidente che non resti per sempre”, ha detto al New York Times Khaled Dawoud, giornalista egiziano ed ex politico liberale. “Il modello che abbiamo impostato nel 2011 rimane vivo nonostante gli enormi sforzi per schiacciarlo e distorcerlo”.