“41-bis e Alta Sicurezza non devono essere tatuaggi indelebili nelle vite delle persone” di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2019 “41-bis e Alta Sicurezza non devono essere tatuaggi indelebili nelle vite delle persone”: è a partire da questa affermazione decisa del nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, che vorrei fare il punto su un tema particolarmente spinoso, quello delle declassificazioni. Quando, nel corso di un incontro in cui io rappresentavo la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ho chiesto a Francesco Basentini se non gli sembrasse davvero pericolosamente bloccata la situazione dei circuiti, con più di 9000 persone detenute da anni, da decenni nelle sezioni di Alta Sicurezza, la risposta non è stata evasiva: Basentini si è detto convinto della necessità di rivedere i meccanismi di assegnazione ai circuiti di Alta Sicurezza, ma anche della collocazione al 41-bis, portandomi un esempio personale che ha dato concretezza alla sua risposta. Ha cioè raccontato di essere stato di recente al 41-bis all’Aquila, e di aver ritrovato un detenuto, per il quale lui stesso, da magistrato, aveva chiesto molti anni fa l’assegnazione a quel regime, e che fra due mesi finirà di scontare la pena, quindi uscirà direttamente dal 41.bis alla libertà, e questo significa una sconfitta per quelle Istituzioni, che non hanno saputo accompagnare l’uscita del detenuto in modo graduale. Ma le cose come stanno andando davvero? In realtà, le declassificazioni sono sempre poche, e quello che le frena è che ancora incidono tantissimo le informative delle Direzioni Distrettuali Antimafia e incide invece pochissimo il percorso fatto dalla persona detenuta, la sua presa di distanza dalle organizzazioni criminali a cui apparteneva. Francesco Basentini è stato un magistrato dell’Antimafia e oggi è Capo del DAP: avrà voglia e riuscirà finalmente a mettere mano a quelle informative che arrivano dalle procure antimafia? informative troppo spesso stereotipate, ferme alla fotografia del detenuto al momento dell’arresto, legate a formule poco credibili come quella che “non si possono escludere collegamenti con le organizzazioni di appartenenza?”. Perché per dare un senso ai percorsi di autentico cambiamento di tante persone detenute, per fargli capire che le Istituzioni sono davvero interessate al fatto che anche dal carcere si possa lottare contro la criminalità organizzata, bisogna cominciare a togliere quelle stesse persone dalle sezioni “blindate” dell’Alta Sicurezza e permettergli di confrontarsi con la società, di sperimentarsi in percorsi di reinserimento veri. Nella circolare sulle declassificazioni del 5 maggio 2015 si legge che “Altrettanto impulso alle procedure in esame dovrà esser garantito dalle Direzioni per i detenuti che da lungo tempo permangono nel circuito soprattutto in costanza di un’adesione a programmi di trattamento avanzati”. A Francesco Basentini chiediamo: le Direzioni hanno davvero dato impulso alle declassificazioni per i detenuti che aderiscono a programmi di trattamento avanzati? A noi sembra, per esempio, che a Padova i detenuti che partecipano ai lavori della redazione e al progetto scuole/carcere siano dentro un programma di straordinario trattamento avanzato, e crediamo che vadano declassificati per riconoscere il loro impegno serio, importante nel prendere le distanze dalla criminalità organizzata. E crediamo anche che il Capo del DAP debba garantire che davvero le Direzioni si muovano in questo senso, e debba promuovere un confronto serio con le Direzioni Antimafia, i cui pareri non possono più essere un “copia e incolla” delle vecchie vicende processuali del passato, ma devono semmai esprimere “l’attualità delle esigenze che rendono opportuna la permanenza nel circuito Alta Sicurezza”. * Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia “Marcire” e morire in galera di Fabio Tonacci Venerdì di Repubblica, 12 aprile 2019 Mai stati così allarmanti i numeri sui suicidi in carcere. Eppure non allarmano quasi nessuno. L’anno scorso 64 detenuti si sono uccisi in cella. E altri 1.200 ci hanno provato, senza riuscirci. Quarantasette giorni e sarebbe uscito. Fine pena. Quarantasette giorni, e l’egiziano Hassan Sharaf avrebbe ripreso la sua vita esattamente li dove l’aveva lasciata un anno e mezzo prima, al momento della condanna per spaccio. La data della rinascita l’aveva incisa sul muro della cella, nel carcere Mammagialla di Viterbo: 9 settembre 2018. Quel giorno, per lui, non è mai arrivato. Il 23 luglio, infatti, due ore dopo essere stato sbattuto in isolamento per una perquisizione a cui si era opposto, Hassan Sharaf, 21 anni, di costituzione sana e robusta, nessun problema psichiatrico conclamato, ha sfilato i lacci neri dalle scarpe, li ha legati alla grata d’areazione del bagno, ha formato un cappio delle dimensioni del suo collo. Suicidio numero 29 dell’anno 2018. Il secondo in pochi mesi al Mammagialla. Alla fine diventeranno più di sessanta, i detenuti che, nel corso del 2018, si sono uccisi impiccandosi o tagliandosi le vene all’interno dei 191 istituti penitenziari italiani. Era dal 2011 che non si vedeva una cifra così alta. 74 morti in 16 mesi - Quel che è capitato a Sharaf è il punto di partenza per addentrarsi nel “male oscuro” che opprime sia i carcerati sia, in misura minore, chi quei carcerati è chiamato a sorvegliare ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. Sharaf non doveva essere a Viterbo, e non doveva essere messo in isolamento. La sua pena per un reato commesso da adulto l’aveva già scontata. Gli rimanevano quattro mesi di condanna per droga, esito di un processo iniziato quando era un adolescente. “Avrebbero dovuto trasferirlo in un istituto minorile, e comunque non era consigliabile sottoporlo al regime di isolamento”, ragiona Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private di libertà. “Certo, il suo è un caso limite. Ma è anche la spia di qualcosa che non funziona”. Sulla scrivania, nella palazzina alle spalle di Regina Coeli a Roma, Mauro Palma ha 74 fascicoli: 64 sono riferiti allo scorso anno, 10 ai primi mesi del 2019. Se si fa la media, sono più di uno alla settimana. Ogni pratica un nome, un numero di matricola, una storia che non doveva finire com’è finita: Pier Carlo Artusio, 48 anni, morto suicida il 24 marzo 2019, Milano San Vittore; Michele Spagnuolo, 78 anni, morto suicida il 17 febbraio 2019, Taranto; Adelaja Aboduruin, 40 armi, morta suicida il 7 febbraio 2019, Verona; Andrea Di Nino, 36 anni, morto suicida il 21 maggio 2018, Viterbo, lo stesso carcere e la stessa sezione di isolamento di Sharaf. Già di fronte a questa micro-statistica, si rileva pigra e assai poco solida la correlazione diretta tra tasso di suicidi e sovraffollamento. Che pure esiste, non è una fake news: siamo tornati a superare le 60mila unità, vale a dire 13.608 detenuti in più dei posti disponibili. Il caso Viterbo - Ma Sharaf e Di Nino non si sono tolti la vita perché gli mancavano metri quadrati vitali nella stanza. Né perché erano matti. C’è da chiedersi, piuttosto, se non esista un “caso Viterbo”, visto l’esposto che il Garante regionale Stefano Anastasia ha inviato ai magistrati viterbesi: “Un certo numero di detenuti ha riferito di essere stato vittima di violenze per mano dei poliziotti”, ha scritto Anastasia. “Alcuni mostravano segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul corpo”. Anche Sharaf gli aveva confidato di aver paura di morire. Accuse rigettate sia dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sia dagli agenti. “Si sono uccisi per cause ancora da accertare”, ribattono. Non più tardi di un mese fa, però, anche gli ispettori del Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa si sono affacciati al Mammagialla, per cercare risposte. Ma che sta succedendo? Viterbo è davvero il sintomo di un’anomalia di sistema, che le istituzioni non vedono, o non vogliono vedere? Luoghi comuni da sfatare - Per quanto insondabile sia l’essere umano quando sceglie di farla finita, bisogna sbarazzarsi di alcuni vetusti luoghi comuni. Prendiamo le cifre riportate dal Garante nell’ultima relazione al Parlamento. Sono riferite al 2018: i suicidi sono stati 64 (il ministero della Giustizia ne conta però 61), ed erano 50 nel 2017, 40 nel 2016, 39 nel 2015; i tentati suicidi sono stati 1.197; gli atti di autolesionismo sono cresciuti esponenzialmente, passando dai 6.889 del 2014 ai 10.368 dello scorso anno. A Napoli Poggioreale il record di decessi (5), seguito dalla casa circondariale di Cagliari (4) e da quelle di Civitavecchia e Verona (3 in entrambe). Nessuna di queste si trova in cima alle classifiche del sovraffollamento, per dire. Altro dato inaspettato è quello che misura la distanza temporale tra il gesto e il fine pena. Contrariamente a ciò che si può pensare, i più fragili non sono coloro che hanno davanti l’ergastolo o condanne lunghissime. Un terzo dei casi (20 su 64) riguarda chi era sul punto di uscire: a 17 detenuti mancavano meno di due anni, addirittura per tre di loro era questione di mesi. “Soffrono la paura del rientro in società, soprattutto quando sono indigenti, non hanno nessuno che li aspetta e l’unico orizzonte è una vita da reietto”, ipotizza il Garante. L’età media è intorno ai 37 anni, altro dato che merita una riflessione. “Oggi i più giovani sono meno capaci di affrontare la prigione, sentono di finire in un buco nero di inessenzialità sociale. Sensazione che aumenta perché di carceri e di carcerati la politica non parla più. Dopo gli Stati Generali indetti dall’ex ministro Andrea Orlando e gli annunci di riforma del codice, il tema è scivolato via dalla discussione pubblica”. Italia peggiore d’Europa - Probabilmente è il punto chiave per spiegare l’impennata dei suicidi: il senso di abbandono che si trasforma in ozio, l’ozio in disagio, le corde del “niente importa” che prendono a vibrare. Ai reclusi è consentito usare la penna, e più di 400 lettere di reclamo sono state spedite nel 2018. Voci da Ariano Irpino: “Mi trovo da mesi in una cella senza attività sportiva ed educativa. È morta mia madre, mi sento solo, non posso uscire pazzo”. Voci dall’isola di Gorgona: “Mi sto portando da solo alla depressione acuta, mi sto creando da solo un mare di problemi con l’ufficio di giustizia”. Voci da Sulmona: “Non riesco a completare gli studi: mi fanno iniziare un corso, poi mi spostano altrove”. Voci da Verbania: “Siamo sette reclusi e denunciamo pessime condizioni di vita, anche due guardie sono con noi”. Sono prigioni, del resto. Nessuno si aspetta che siano parchi giochi. Solo che in Italia è peggio che altrove: abbiamo un tasso di suicidi tra i detenuti che è venti volte superiore a quello della popolazione libera, e solo noi, in Europa, abbiamo un rapporto così sbilanciato. In Francia è 12,6 volte superiore rispetto all’esterno, in Svezia 9,3, in Spagna appena il 4,7. Con un’indagine durata un decennio e conclusasi nel 2014, l’ex senatore del Pd Luigi Manconi è stato tra i primi a criticare il sistema italiano. “La frequenza maggiore si riscontrava nella fase immediatamente successiva all’ingresso, o comunque nell’arco dei primi sei mesi”, ricorda. “Il principale fattore incentivante, soprattutto tra quelli di prima carcerazione, era l’impatto, l’incontro con un universo sconosciuto di cui non conosci regole, rapporti di autorità, linguaggio”. Il ministero della Giustizia qualcosa ha fatto. Ha siglato accordi con le Regioni, fino a prevedere piani locali, istituto per istituto, per arginare il fenomeno. Esistono delle linee guida per il trattamento dei soggetti a rischio: vanno seguiti da un’équipe multidisciplinare e devono vedere uno psichiatra entro le prime 12 ore di permanenza. Hanno celle prive di finestre in vetro e di grate, sono affiancati a detenuti “anziani” e monitorati a vista. L’amministrazione penitenziaria può inoltre valutare di incrementare i colloqui col personale e le chiamate ai familiari. Ma sono linee guida, appunto. E qui la teoria sbatte spesso con la realtà. Lo psichiatra c’è. Per 4,8 minuti - La realtà è il carcere di Taranto con il suo tasso di affollamento del 204 per cento (la media è 129), che sale fino al 291,3 per cento nella sezione circondariale ordinaria: ha una capienza di 92 posti, ci vivono, o meglio sopravvivono, 268 persone. La realtà è Messina, dove in cinque celle per il regime di semilibertà non ci sono i tre metri quadrati di spazio a persona, soglia sotto la quale si parla di tortura. La realtà sono quei 23 istituti, su 83 ispezionati dall’Associazione Antigone, in cui non esiste uno spazio verde dove incontrare i familiari nel periodo estivo, i 15 (tra cui il Piazza Lanza a Catania, il San Vittore a Milano, l’Ugo Caridi di Catanzaro) dove non sono garantiti a tutti i tre metri quadrati, la bolgia di Taranto dove c’è un solo educatore ogni 205 detenuti, Gorgona dove c’è una guardia ogni 4,3 detenuti (la media nazionale è 1,8). “Sono campanelli d’allarme”, commenta Michele Miravalle, che per Antigone coordina l’Osservatorio detenzione. “Come può il sistema prevenire efficacemente il rischio suicidario quando in media cento persone hanno a disposizione uno psichiatra otto ore alla settimana, quindi 4,8 minuti a testa?”. Sindrome da burnout - Una domanda che si fanno anche nel Corpo di polizia penitenziaria, perché il carcere è carcere per tutti. Per i ladri ma anche per le guardie. Ogni anno si tolgono la vita sette agenti, un tasso doppio rispetto a quello nazionale. “Siamo lasciati da soli, senza paravento né tutele”, protesta Donato Capece, segretario del sindacato Sappe. “Siamo 41.250 agenti, ma in servizio effettivo 35mila, e ciò implica negare al personale i riposi, le ferie, la dignità del posto di lavoro”. È la sindrome da burnout: colpisce le “professioni dell’aiuto”, come i poliziotti, vigili del fuoco, medici, insegnanti, infermieri. Esplode quando non si riescono ad ottenere risultati proporzionati allo stress patito. Quando passi la tua vita in carcere, e non vedi migliorare niente. Malattia psichica in cella: aspettando la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2019 La Corte costituzionale si esprimerà su un quesito della Cassazione. È questione di giorni e la Consulta depositerà la sua pronuncia sulla legittimità costituzionale del 47ter, nella parte in cui non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena. La legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Cassazione il 23 novembre del 2017, anno in cui si stava discutendo sull’attuazione della riforma penitenziaria che avrebbe, appunto, risolto il nodo della mancata equiparazione dell’infermità psichica con quella fisica. Ma tutto ciò si è infranto poi con l’approvazione della riforma, tagliando fuori tutta quella parte che riguardava proprio la salute mentale in carcere. Sta di fatto che, al di là delle vicende legislative, l’ordinanza della Cassazione ha realizzato un ampio percorso di sostegno a tale ipotesi, muovendo dal raffronto tra la regolamentazione attuale della condizione e il sistema di tutela dei diritti fondamentali della persona, costituzionale e convenzionale. Muovendo dalla constatazione di inapplicabilità della previsione di legge - pur mai espressamente abrogata - dell’art. 148 cod. pen., la Cassazione evidenzia come la condizione dei soggetti colpiti da infermità psichica sopravvenuta sia caratterizzata da una sorta di “regresso trattamentale” e di “sostanziale degiurisdizionalizzazione” non esistendo - allo stato - reali alternative alla allocazione in strutture interne al circuito penitenziario. Da un lato c’è l’impossibilità di allocare i detenuti nelle Rems (altrimenti rischierebbero di diventare dei mini Opg), dall’altro c’è lo sbarramento legislativo che, per la corrente interpretazione delle relative disposizioni, esclude la patologia psichica dall’ambito di applicazione dell’art. 146 (differimento obbligatorio della pena), 147 (differimento facoltativo) del codice penale e 47- ter (detenzione domiciliare) dell’ordinamento penitenziario. Sia la questione specifica, ma anche il disagio psichico in generale, è stata anche affrontata dall’ultima relazione al Parlamento del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. “La mancata inclusione dell’infermità psichica - si legge nella relazione - insieme a quella fisica tra le cause di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (articolo 147 c. p.) e l’eliminazione della norma che, modificando l’attuale articolo 65 o. p., avrebbe introdotto negli Istituti penitenziari sezioni a gestione sanitaria destinate alle persone che hanno elaborato disturbi di natura psichica durante la detenzione in carcere, hanno privato dei necessari interventi un’area fortemente critica”. È appunto l’area del disagio psichico, “la cui entità si manifesta in una quotidianità segnata da difficoltà relazionali che possono talvolta essere lette alla base dell’elevato numero annuale dei suicidi”. Il Garante nazione delle persone private della libertà sottolinea che “la scelta operata dal governo appare incompleta anche nell’ottica di una visione di politica giudiziaria centrata sulle condizioni all’interno e non proiettata verso il fuori”. Il Garante ne affida, pertanto, la riconsiderazione al Parlamento perché provveda, con “l’urgenza dettata dalla situazione attualmente riscontrabile negli Istituti penitenziari, a definire organicamente la materia del disagio psichico in carcere”. Ma se non si muove la politica, forse ci penserà la Consulta. Firmato accordo Italia-Kosovo per trasferimento detenuti di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 12 aprile 2019 Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, e il ministro della Giustizia della Repubblica del Kosovo, Abelard Tahiri, hanno firmato oggi in via Arenula l’Accordo bilaterale sul trasferimento dei detenuti. Per il ministro Bonafede il testo sottoscritto costituisce “un altro, significativo tassello nell’impegno dell’Italia per una intensa collaborazione sia nel settore civile sia in quello penale e per l’ulteriore rafforzamento di un rapporto già solido tra i due Paesi”. Tahiri ha ricordato come il Parlamento kosovaro abbia approvato recentemente una legge in tema di confisca dei beni criminali, manifestando la volontà di “lavorare a stretto contatto con le autorità italiane per la formazione dei giudici, essendo l’Italia un Paese modello nella lotta alla criminalità organizzata che proprio nella confisca ai clan ha ottenuto risultati importantissimi”. Sono già diversi i progetti di collaborazione avviati nel campo della giustizia e della lotta alla criminalità organizzata tra Italia e Kosovo, Stato proclamatosi indipendente dalla Serbia nel 2008 e, da allora, riconosciuto da 113 dei 193 Paesi membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) e da 23 dei 28 Paesi membri dell’Unione Europea, tra cui l’Italia. Il Guardasigilli, in particolare, ha ricordato la collaborazione nell’ambito di una missione Onu, di Fabio Pinzari, ispettore superiore della Penitenziaria che fornisce consulenza alle autorità kosovare impegnate nel contrasto alla radicalizzazione nei centri detentivi delle città di Pristina e Podujevo. L’Italia è, inoltre, impegnata, attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura, nel progetto di gemellaggio tra Unione Europea e Kosovo per il consolidamento dello Stato di diritto nel Paese balcanico. Sempre in materia di cooperazione giudiziaria, Italia e Kosovo hanno già stipulato due accordi bilaterali, firmati a Pristina nel 2013, in tema di estradizione e assistenza giudiziaria penale. Sono stati ratificati da entrambe le parti e sono entrati in vigore nel 2016. La firma dell’Accordo odierno sul trasferimento delle persone condannate completa il quadro della collaborazione giudiziaria che, a ratifica avvenuta, consentirà un significativo avanzamento dei rapporti tra Roma e Pristina in materia di giustizia Ordinanza anti-balordi, da Trieste a Benevento i sindaci si dividono Corriere della Sera, 12 aprile 2019 L’ordinanza anti-balordi piace ai sindaci d’Italia, ma anche no. La direttiva del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, rivolta ai prefetti affinché si creino “zone rosse” nelle città, là dove adesso regnano incontrastati spacciatori di droga, ubriaconi molesti e le ghenghe dei parcheggiatori abusivi, convince parecchi amministratori (i sindaci Pd di Bologna e Firenze, Virginio Merola e Dario Nardella, hanno già dato la loro approvazione) ma riscuote pure qualche perplessità. Perfino da parte di sindaci leghisti come Salvini: “Ma cosa mettiamo? I cartelli con la scritta “Vietato spacciare” all’ingresso dei centri storici? - si chiede Nicola Ottaviani, sindaco di Frosinone, già Forza Italia dal mese scorso passato alla Lega - Qui servono misure concrete, noi per esempio abbiamo appena adottato una delibera di giunta che impedisce la frequentazione di parchi pubblici dove siano presenti aree ludiche a soggetti maggiorenni che noi siano accompagnatori diretti di minori. L’ordinanza della discordia - L’ordinanza è stata molto criticata, ci hanno accusato di creare in questo modo discriminazioni etniche, ma intanto abbiamo ottenuto l’effetto di tenere alla larga i malintenzionati. Purtroppo, l’individuabilità dei soggetti non è semplice: in queste zone rosse poi cosa facciamo? Andiamo a chiedere in giro il certificato penale a chiunque? Allora concludo: bene la direttiva di Salvini, ma servono subito nuove assunzioni, investire risorse per incrementare il numero dei poliziotti di quartiere, loro sì sono telecamere umane capaci di riconoscere a prima vista le persone da allontanare. E infine attenzione: perché tutelare i centri storici va benissimo, ma ormai il problema si è spostato nelle grandi periferie urbane. I controlli vanno intensificati là...”. “Basta con gli spacciatori” - Il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, 66 anni, di Forza Italia, invece non ha dubbi: “Qualsiasi direttiva mi vede favorevole - esclama - Perché qui bisogna tornare nella legalità, ormai siamo impotenti davanti a posteggiatori, spacciatori! Parlavo con dei poliziotti tempo fa in piazza Unità. Mendicavano degli spacciatori che loro avevano arrestato la sera prima ma erano già stati scarcerati. Incredibile! I poliziotti pensavano che fossero evasi nottetempo. Basta, bisogna ripristinare le regole”. La parola alla Corte - Il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, 72 anni, già ministro della Giustizia nel secondo governo Prodi, storico esponente della Dc e oggi con Forza Italia, suggerisce invece cautela: “Prima di applicare la direttiva sarebbe auspicabile trovare una concordanza con la Corte Costituzionale. Allontanare da una piazza una persona che è stata soltanto denunciata, potrebbe presentare poi un problema di congruità del diritto. Si sa come vanno queste cose: una persona condannata in primo grado, poi magari finisce assolto in Cassazione e i comuni si troverebbero poi invischiati in mille controversie e mille ricorsi. Meglio chiarire prima con la Corte anziché dopo...”. Fuori dall’emergenza - Stefano Balloch, sindaco di Cividale del Friuli (Udine), non vive invece l’emergenza delle grandi città: “Noi contiamo 11 mila abitanti, siamo una città d’arte, onesta, piccola. Un’isola felice, un paradiso. Più in generale, però, credo che misure del genere siano necessarie perché in tanti posti la criminalità ormai la fa da padrona. Purtroppo é vero che in certe città, in certi quartieri, diventa sempre più difficile pensare di farsi una passeggiata la sera dopo una certa ora...”. Parchi e metro a rischio - Angelo Rocchi, sindaco leghista di Cologno Monzese, 50 mila abitanti a un soffio da Milano, invece certi problemi li ha: “Abbiamo un paio di parchi, un paio di bar e tre stazioni della metropolitana frequentati da vera brutta gente, la zona rossa sì che servirebbe da quelle parti. Abbiamo già telecamere montate ovunque, poliziotti e carabinieri in pensione che ci danno una mano ogni giorno per la sicurezza. Perciò la direttiva di Salvini sarà un’arma in più ben accetta e non lo dico perché leghista: mi ero trovato, per esempio, molto d’accordo anche col ministro Minniti sui migranti”. La cautela dei Cinque Stelle - Anche dai sindaci del Movimento5Stelle arriva una cauta apertura: Francesco De Pasquale, sindaco di Carrara, racconta che il degrado è un problema molto sentito nella sua città, “tra ubriachi e movida serale, anche se l’insicurezza è più percepita che reale”. Ritiene la direttiva di Salvini un potenziamento del Daspo urbano ma sottolinea il rischio dell’incostituzionalità: “Fino a prova contraria si è innocenti”, sottolinea. Il problema, aggiunge, è che quelli che spacciano o disturbano la quiete pubblica, una volta cacciati dalle zone rosse si sposteranno altrove. “Speriamo - conclude fiducioso - che con il reddito di cittadinanza in arrivo riusciremo a reinserire molti di questi soggetti che conosciamo bene, aiutandoli a riappropriarsi di quel senso civico di appartenenza che oggi hanno smarrito”. “C’è già il daspo” - Andrea Cozzolino, sindaco M5S di Civitavecchia, invece è tranchant: “C’è già il daspo urbano, non vedo la necessità di replicare norme già esistenti. Non ci serve aumentare il numero delle leggi, ma di rendere applicabili quelle che abbiamo. Io non ho ancora letto la direttiva del ministro Salvini, se introduce strumenti nuovi rispetto al Daspo ben venga. Di certo, so che ai sindaci - che sono la prima linea - servono fondi. E per questo ringrazio il ministro Riccardo Fraccaro (M5S, ndr) che con un decreto ha appena riconosciuto ai comuni 500 milioni di euro per ristrutturare edifici pubblici, riqualificare aree dismesse eccetera. Il degrado si vince anche così”. La società miope non vuol vedere l’avanzata della camorra di Antonio Mattone Il Mattino, 12 aprile 2019 Un uomo viene ucciso mentre accompagna il nipotino a scuola tenendolo per mano. Viene investito da una raffica di colpi di arma da fuoco mentre il bambino resta miracolosamente illeso. Intorno ci sono gli altri alunni che stanno entrando in classe accompagnati dai loro genitori che restano esterrefatti e impietriti per poi fuggire e portare in salvo i loro figli. Questa scena di una gravità inaudita è avvenuta a Napoli nel quartiere di San Giovanni a Teduccio. Ebbene, di fronte a un fatto così drammatico e violento ci si sarebbe aspettata una grande reazione da parte della città. Ma dopo un accenno di indignazione sui social, qualche presenza di circostanza di qualche politico, resta solo qualche polemica. E niente più. Tutti sono rimasti chiusi nelle proprie case come se nulla fosse successo, come se l’agguato al rione Villa fosse un avvenimento estraneo al corpo della città. O forse si pensa che a Napoli non esiste una emergenza criminalità. Gli abitanti del quartiere vivono tra rassegnazione e attesa. Assuefazione e sfiducia di fronte all’inerzia delle istituzioni, all’abbandono di questa periferia urbana, un tempo vivace zona produttiva piena di importanti fabbriche che davano lavoro a migliaia di persone. E poi c’è chi aspetta. Un segnale di cambiamento promesso, ma soprattutto le future mosse dei due clan rivali che si contrappongono. Dopo il braccio di ferro dalle stese che rappresentavano una sfida e una prova di forza verso gli avversari, con l’omicidio di martedì si teme che scoppi la guerra. Oggi a San Giovanni non ci sono più gli operai, né le sedi sindacali e di partito che fungevano da punti di aggregazione e di discussione. Molte fabbriche sono dismesse e restano solo gli scheletri, edifici dall’aspetto spettrale a testimonianza della desertificazione industriale. È la camorra che fa campare tante famiglie con le attività illegali: lo spaccio della droga, il racket, i negozi commerciali aperti per riciclare denaro illecito, dove alcuni residenti lavorano come commessi. Di fronte a questo vuoto le speranze degli abitanti di San Giovanni sono affidate alla chiesa e alla scuola. I preti della zona si sono interrogati su cosa fare di fronte al degrado e alla violenza che si respira nel quartiere. Una esperienza collettiva dove non c’è un sacerdote leader, un “prete anticamorra”, ma è tutta la comunità sacerdotale che si muove assieme. I sacerdoti sono diventati gli interlocutori che danno voce alle attese della gente presso le istituzioni. Ma la risposta è sempre la stessa: mancano i soldi. Per pulire i giardini dall’incuria come per garantire qualche pattuglia di vigili urbani. E anche quando hanno chiesto che si facessero degli eventi culturali a costo zero all’interno dei circuiti già collaudati, per dare un po’ di risalto a questa zona periferica, il responso è stato sempre negativo. Dopo l’azione coraggiosa della preside della scuola dove è avvenuto l’agguato mortale, che nello scorso aprile organizzò una marcia per chiedere attenzione e sicurezza, non è successo più nulla. Gli alunni raccontano di finestre delle loro abitazioni andate in frantumi per i colpi di pistola, di proiettili conficcati nei balconi, di motorini che passano con gli occupanti che sparano all’impazzata. Questa denuncia rappresenta una domanda a cui non possiamo non dare una risposta. C’è una coscienza pubblica collettiva da ricostruire, un senso di giustizia che deve rappresentare un patrimonio comune, come ha sottolineato ieri Piero Sorrentino sulle pagine di questo giornale. Non possiamo lasciare soli i preti, i docenti e gli abitanti della zona orientale. La città non può disinteressarsi di quello che avviene nella sua periferia. Né si possono invocare soluzioni taumaturgiche come cento poliziotti in più, l’esercito o altre cose di questo genere. Come ha giustamente detto il questore De Iesu oltre le divise c’è bisogno di un esercito di operatori sociali per cercare di sottrarre spazi alla devianza e alla criminalità. Negli anni 80 dopo l’omicidio di Mimmo Beneventano, consigliere comunale di Ottaviano, fu organizzata nella cittadina vesuviana una grande marcia a cui parteciparono migliaia di persone, soprattutto studenti. Quell’evento rappresentò una grande presa di coscienza contro la camorra. A guidare il corteo c’erano don Riboldi, Luciano Lama e Antonio Bassolino. Un vescovo, il leader del più grande sindacato italiano e colui che sarebbe diventato sindaco di Napoli. Oggi la città attende nuovi interpreti che sappiano mobilitare e appassionare cittadini rassegnati e impauriti dalla violenza criminale. “Lucano favorì i clandestini”. Il sistema Riace a processo di Silvio Messinetti Il Manifesto, 12 aprile 2019 Locri. Inaspettatamente, rinviato a giudizio il sindaco sospeso. Due su quindici i capi d’accusa rimasti in piedi. L’11 giugno a Locri la prima udienza. Il Viminale ha annunciato che si costituirà parte civile. Un rinvio a giudizio del tutto inatteso. Al termine dell’arringa difensiva i legali di Mimmo Lucano, Andrea Daqua e Antonio Mazzone, parevano soddisfatti per l’esito dell’udienza preliminare. La camera di consiglio era pronta a riunirsi di lì a poco per decidere se il sindaco sospeso di Riace, non presente in aula, andava mandato a processo oppure no per un’ipotesi accusatoria costruita nell’ottobre scorso dalla procura di Locri ma già smontata pezzo per pezzo prima dal Gip e poi anche dalla Suprema corte. Erano questi i motivi di fiducia della difesa. Se per la procura locrese, infatti, c’era un vero sistema criminale incentrato sull’accoglienza e sull’integrazione dei migranti, finora nessun altra toga aveva accolto tale tesi. Non lo aveva fatto, primo fra tutti, il gip Domenico di Croce opponendosi alla richiesta di arresto avanzata dagli inquirenti e, al contempo, cassando quattro quinti delle accuse mosse dai pm. Dei 15 capi d’accusa contestati il giudice nativo di Vasto (che, chissà perché, dopo qualche giorno sarebbe stato trasferito altrove), in effetti, ne aveva mantenuti appena due: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e irregolare gestione degli appalti della raccolta differenziata. Il resto del castello accusatorio era stato demolito dal Gip che nell’ordinanza scriveva di “congetture, errori procedurali grossolani, inesattezze”. Tutto ciò, ad ogni modo, non valse ad evitare a Lucano la custodia cautelare ai domiciliari. La misura restrittiva venne poi derubricata dal Riesame di Reggio Calabria in divieto di dimora a Riace. Un provvedimento, quello dell’esilio dal borgo della Locride, che a fine febbraio era stato a sua volta rivisto dalla Cassazione che aveva annullato con rinvio l’ordinanza in quanto “mancano indizi di comportamenti fraudolenti messi in atto da parte del sindaco Lucano per assegnare appalti”, si legge nelle motivazioni. La Suprema corte ha precisato come a Riace non ci siano stati mai né ruberie, né malversazioni, né matrimoni di comodo. E l’appalto per la differenziata, scrivono gli ermellini, “è stato affidato in modo perfettamente regolare e non ci sono elementi per addebitarlo al solo sindaco perché frutto di una decisione collegiale di giunta e consiglio comunale, deliberata dopo aver chiesto pareri tecnici agli uffici competenti”. Certo è vero - sostiene la Cassazione - il sindaco ha aiutato la compagna etiope Lemlem nel (fallito) tentativo di portare il fratello di lei in Italia. Ma non si trattava affatto di un metodo o di un “sistema”. E la procura - sottolinea ancora la Suprema corte - sebbene più volte abbia evocato i cosiddetti “matrimoni di comodo” come escamotage per garantire documenti regolari ai migranti non ha elementi solidi per avvalorare tale accusa. Per cui il verdetto del tribunale di Locri pareva orientato in direzione favorevole al sindaco, ovvero verso il non luogo a procedere. Questo, almeno, era l’auspicio del pool difensivo. Ma come un Giano bifronte, quella stessa “giustizia” che poco prima aveva “riabilitato” Lucano e il “modello Riace” dopo appena una settimana, e quattro giorni di udienze, ha spedito il sindaco sospeso di Riace nelle forche caudine di un processo lungo e tortuoso. Perché, alla fine, dopo 7 ore di camera di consiglio, il sindaco è stato infatti rinviato a giudizio assieme ad altri 26 indagati nell’ambito dell’inchiesta denominata “Xenia”. La decisione è stata letta dal Gup del tribunale di Locri, Amelia Monteleone. Il processo è stato fissato, per l’udienza di comparizione, l’11 giugno a Locri. La posizione di altri tre indagati dovrà essere valutata in quanto stralciata dal troncone principale del procedimento per un difetto di notifica. Lucano e gli altri coimputati sono, dunque, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e abuso d’ufficio. Sarà, così, il pubblico dibattimento a stabilire se Riace era l’epicentro di un sistema criminale oppure no. Intanto, il Viminale e il suo ministro ossessionato da Lucano la propria sentenza l’hanno già emessa nel corso dell’udienza preliminare: si costituiranno parte civile. Il contrappasso di Mimmo Lucano, il Robin Hood calabrese che divide di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 aprile 2019 Le montagne russe della vicenda giudiziaria dell’ex sindaco radicalizzano gli animi: per molti è un eroe da osannare, per altri un politico che supera i limiti consentiti dalle leggi. Astenersi dal tifo. Se una cosa ci insegna il nuovo giro di montagne russe nella vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano è che servirebbe testa fredda. Perché, sia santo o imbroglione, riabilitato cum laude o scaraventato alla sbarra quale presunto capo di una repubblica autonoma di furbacchioni, l’ex sindaco di Riace ha invece il potere di radicalizzare il tema già più divisivo di questi tempi cupi: l’accoglienza dei migranti; avendo fatto del suo paesino sulle montagne calabresi il modello planetario di un sostanzialismo che travalica forme e leggi ed è dunque ontologicamente destinato a osanna o vituperio. Lui stesso del resto si è sempre a suo modo “autodenunciato”, persino nella scelta del proprio eroe d’infanzia, Cosimo ‘U Zoppu, l’antico ciabattino di Riace spesso incarcerato perché, regalando le scarpe ai poveri era “costretto” a rubare ai ricchi per campare. Sulle orme di Cosimo ‘U Zoppu - “Da bambino ne ero affascinato, mi pareva che Cosimo desse un suo originale contributo alla costruzione d’una società più giusta”, ha detto in un’intervista che chiude il libro di un altro ex sindaco calabrese, Ilario Ammendolia (“La ‘ndrangheta come alibi”), papà di uno dei coimputati di Lucano. Il sugo di tutta la storia, con questo mito della sinistra radicale di mezzo mondo che salutava a pugno chiuso dagli arresti domiciliari, è sempre stato proprio qui: nella sua lunga serie di confessioni stragiudiziali. Perché Lucano non ha mai negato nulla, essendo convinto di aver ragione. E c’è da credergli quando sostiene che tutti i soldi che ballano a Riace abbia inteso spenderli per i migranti. Il problema sta nell’arbitrio. Nell’idea bislacca di battere moneta. Nel sogno onnipotente di “acconciare” le vite degli altri. “Non può gestire la cosa pubblica né danaro pubblico, mai e in alcun modo. Egli è totalmente incapace di farlo (…) e, in nome di principi umanitari (…), viola la legge con naturalezza e spregiudicatezza allarmanti”, scriveva di lui il Tribunale del Riesame. Più del processo, il vero contrappasso per l’ex sindaco sta così nel suo essere involontariamente complementare a Matteo Salvini: se dai 35 euro per migrante avanzava tanto da costruire a Riace una città del sole fuori dai libri contabili, pare difficile contestare l’idea del ministro degli Interni di tagliare di netto i fondi dell’accoglienza. Come se Cosimo ‘U Zoppu si fosse accorto, alla fine della carriera da Robin Hood, che i suoi poveri erano più scalzi di prima. Patteggiamento possibile anche per nuovi reati contestati in dibattimento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2019 Più spazio al patteggiamento. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 82 depositata ieri, ha ritenuto illegittima la mancata previsione, nell’articolo 517 del Codice di procedura penale, della possibilità di chiedere l’applicazione della pena concordata al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e oggetto di nuova contestazione. A sollevare la questione era stato il tribunale di Alessandria che aveva messo in evidenza la ingiustificata compressione del diritto di difesa e la lesione del principio di uguaglianza, per effetto del diverso trattamento dell’imputato al quale da subito sono stati contestati tutti gli addebiti, con possibilità di scegliere un rito alternativo, e l’imputato che invece, per carenza di indagini o altra causa, si è visto elevare una imputazione incompleta. La Corte costituzionale ricorda innanzitutto che la possibilità di nuove contestazioni in dibattimento ha rappresentato da sempre uno dei punti dolenti del nuovo Codice di procedura, per gli attriti con il diritto di difesa e con le possibilità di scelta sui riti alternativi che del diritto di difesa sono parte essenziale. E così, la stessa Consulta da un orientamento di maggiore severità, fondato sulla rilevanza data al tema della formazione della prova nel dibattimento e quindi alla “naturale” possibilità di modifica dei capi d’imputazione, si è andata via via orientando in direzione diversa e più aperta alle istanze della difesa. A questa ultima linea interpretativa appartiene la sentenza di ieri che non può che confermare l’approdo raggiunto in precedenza per quanto riguarda la possibilità di accesso al patteggiamento per quanto riguarda la contestazione “patologica” di una circostanza aggravante (sentenza n. 184 del 2014) e, ma sul rito abbreviato, per la contestazione “fisiologica” del reato commesso (sentenza N. 237 del 2012). Innesto del rito abbreviato che, oltretutto, ricorda la Corte, è più problematico nel dibattimento. E dove, comunque, la linea di confine tra patologia e fisiologia sta nell’attribuzione o meno della responsabilità del ritardo al pubblico ministero. Niente visite della fidanzata e rapporti intimi per il detenuto ai domiciliari quotidianogiuridico.it, 12 aprile 2019 Cassazione penale, sezione V, sentenza 11 marzo 2019, n. 10657. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva confermato la ordinanza del GIP che aveva respinto l’istanza di un indagato, sottoposto al regime degli arresti domiciliari, il quale aveva chiesto di essere autorizzato a ricevere le visite della propria fidanzata per poter avere con lei dei momenti di intimità, la Corte di Cassazione (sentenza 11 marzo 2019, n. 10657) - nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui erronea era la decisione del tribunale di privarlo senza ragioni del diritto di coltivare rapporti affettivi ed intimi, come del resto raccomandato da fonti internazionali vincolanti per l’ordinamento italiano - ha invece precisato che gli artt. 15 e 28 della legge di ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) che riconoscono al detenuto il diritto a coltivare in carcere relazioni affettive, non sono suscettibili di travaso nella diversa materia delle misure cautelari personali, posto che queste rispondono a finalità ed a modalità attuative diverse rispetto a quelle che informano l’esecuzione della pena. Quando la nomina implicita del difensore può ritenersi sussistente Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2019 Difesa - Nomina del difensore di fiducia - Nomina per facta concludentia - Ammissibilità - Limiti. In ragione della serietà e pluralità di conseguenze che la nomina del difensore di fiducia ha in termini di comunicazioni, notificazioni e conseguenti oneri, una nomina implicita del difensore si può ritenere sussistente se tale nomina possa univocamente ed evidentemente essere ricollegata a un comportamento processualmente riscontrabile da parte dell’imputato tale da evidenziare in modo incontrovertibile il conferimento da parte dello stesso del mandato fiduciario. Ne consegue che in tutti i casi in cui non sia possibile individuare all’interno del fascicolo processuale una condotta inequivocabilmente espressiva di tale volontà non può in alcun modo esserci nomina implicita. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 marzo 2019 n. 12684. Difesa e difensori - Di fiducia - Nomina del difensore di fiducia - Formalità di cui all’art. 96 cod. proc. pen.- Necessità - Esclusione - Condizioni - Fattispecie. La nomina del difensore di fiducia, pur se non effettuata con il rispetto delle formalità indicate dall’art. 96, comma secondo, cod. proc. pen., è valida purché ricorrano elementi inequivoci dai quali possa desumersi, per “facta concludentia”, la designazione del difensore e il conferimento del mandato fiduciario. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto la nullità assoluta delle sentenze di primo e secondo grado per mancata notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari al difensore di fiducia dell’indagato, disponendone l’annullamento senza rinvio). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 luglio 2017 n. 36885. Difesa e difensori - Di fiducia - Nomina effettuata senza il rispetto delle formalità previste dall’art. 96 cod. proc. pen. - Validità - Ragioni. È valida la nomina del difensore di fiducia, pur se non effettuata con il puntuale rispetto delle formalità indicate dall’art. 96 cod. proc. pen., in presenza di elementi inequivoci dai quali la designazione possa desumersi per “facta concludentia”. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto viziata la sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto da un difensore già incaricato formalmente della difesa dell’imputato in altro processo penale per i medesimi fatti dinanzi allo stesso Ufficio giudiziario). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 agosto 2016 n. 34514. Difesa - Nomina del difensore di fiducia - Nomina per facta concludentia - Ammissibilità - Limiti. Quando un imputato, fisicamente non presente in giudizio, sia stato assistito durante una o più fasi procedimentali da professionista non ritualmente investito della funzione difensiva e l’opera del quale non sia stata mai contestata, ma anzi ratificata con il conferimento di specifico mandato a impugnare, viene in evidenza una situazione di fatto che, per essersi protratta per lungo tempo, non può non essere sintomatica dell’esistenza di un rapporto fiduciario tra il professionista e il cliente. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 giugno 1999 n. 7962 Veneto: Intesa per garantire istruzione e formazione a tutti i detenuti di Franco Pozzebon lazione.it, 12 aprile 2019 Regione Veneto, Ufficio scolastico regionale e Amministrazione penitenziaria hanno sottoscritto un protocollo riguardanti i detenuti adulti e i minori. Alleanza “educativa” tra Regione Veneto, Ufficio scolastico regionale del Miur, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto e Ufficio Interdistrettuale del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità per assicurare a tutti i detenuti la possibilità di studiare in carcere. Ierii a Padova l’assessore all’Istruzione e formazione della Regione Veneto Elena Donazzan ha firmato con la titolare dell’Ufficio scolastico regionale Augusta Celada, il Provveditore regionale per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige del Dap Enrico Sbriglia, e la direttrice dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna Antonella Reale, una intesa istituzionale che garantisce a tutti i detenuti, adulti e minori, la possibilità di accedere, in qualsiasi momento dell’anno, ad un percorso scolastico o formativo e di conseguire un diploma. Il “cuore” dell’intesa tra Regione, Ufficio scolastico, Amministrazione penitenziaria e Ufficio di esecuzione penale esterna del Nordest sono gli interventi per gli adulti, sia detenuti, sia un uscita dal sistema penitenziario. Le direzioni penitenziarie si impegnano a favorire interventi di orientamento scolastico per i detenuti e a coinvolgere i Centri provinciali per l’educazione degli adulti nell’attivare corsi di istruzione o di formazione all’interno degli istituti penitenziari o nel costruire percorsi formativi per i detenuti in uscita, avvalendosi della collaborazione delle scuole e degli organismi di formazione professionale del territorio veneto, in modo di poter offrire continuità alla esperienze iniziate nel periodo di detenzione. Il Protocollo prevede anche l’istituzione di un tavolo tecnico interistituzionale, che dovrà favorire il dialogo e la collaborazione tra le diverse istituzioni, monitorare le esperienze in atto e consentire ad ogni persona sottoposta a misure penali di ricevere una proposta “su misura” per ritornare a studiare e acquisire nuove conoscenze e nuove competenze. Viterbo: ora conosciamo l’orrore del carcere, non possiamo chiudere gli occhi di Valerio Renzi roma.fanpage.it, 12 aprile 2019 “Non ci è mai capitato di avere così tanti messaggi che raccontano violenze e abusi in un così breve tempo da un solo istituto penitenziario”. A raccontarlo ai microfoni di Fanpage.it è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone che proprio di carcere e diritto si occupa. Le missive dei detenuti del carcere di Viterbo contengono il racconto di un orrore quotidiano: percosse, arbitrio, isolamento, insulti (anche a sfondo razzista). Le interrogazioni parlamentari, le denunce del Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasia e di quello nazionale Mauro Palma, stanno alzando il velo su quanto accade tra le mura del Mammagialla. Due storie su tutte. Quella di Hassan Sharaf, cittadino egiziano di 21 anni, che il 23 luglio del 2018 si è tolto la vita impiccandosi nella cella di isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, neanche due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Invece non ha retto la pressione di quel luogo. “Ho paura di morire”, aveva riferito al Garante in visita nel carcere. All’avvocata Simona Filippi aveva mostrato segni di percosse in diversi punti del corpo raccontando di essere stato picchiato dalle guardie penitenziarie. Il Garante ha presentato un esposto alla Procura competente. L’altra vicenda emblematica è quella di Giuseppe De Felice che ha denunciato di essere stato massacrato di botte da dieci agenti con il volto coperto, che hanno utilizzato anche una mazza per picchiarlo. Portato in infermeria per qualche ora nessuna si è occupato di lui. Un racconto constatato ancora una volta dal Garante dei Detenuti e dal consigliere regionale di +Europa Alessandro Capriccioli, e amplificato dalle parole della moglie del 31enne, che si è rivolta a Rita Bernardini del Partito Radicale. Giuseppe e Hassan sono solo la punta dell’iceberg di una violenza quotidiana e sistematica, secondo quanto emerge dalle dieci lettere arrivate nel 2018 ad Antigone. Tanto che Stefano Anastasia non esita a parlare del Mammagialla di Viterbo come di un carcere punitivo, in un paese “dove il carcere punitivo non esiste”. Qui verrebbero destinati detenuti riottosi o che hanno creato problemi in altri istituti di pena. Quel che è certo è che il Mammagialla in questo momento è un punto cieco della nostra democrazia su cui al più presto è necessario fare luce. Un luogo oscuro su cui è necessario si accenda l’attenzione delle istituzioni, della politica della società civile. Quando lo Stato sospende ogni diritto dei cittadini che si trovano inermi nelle sue mani siamo di fronte a un’emergenza democratica. “Se il carcere si chiude diventa un posto dove è difficile controllare cosa accade, per questo bisogna fare in modo che le strutture siano sempre più attraversate dall’esterno”, suggerisce Anastasia. Dopo le denunce, le testimonianze, le interrogazioni nelle aule parlamentari nessuno potrà fare più finta di niente. Sta a noi tutti vigilare affinché le cose cambino davvero. Livorno: forse finire a Gorgona non vale più la pena di Marco Sarno Venerdì di Repubblica, 12 aprile 2019 Il direttore Carlo Mazzerbo: “Il nostro idealismo? Sconfitto da lassismo e burocrazia”. Pochi fondi, meno lavoro, più detenuti. Così va in crisi la colonia penale nata 150 anni fa sull’isolotto toscano. Era un modello. Adesso rischia di diventare peggio di una galera. Z. è un ex ufficiale dell’esercito russo. È accusato di omicidio. Uscirà nel 2033. Quando può lavora in falegnameria. Ed è particolarmente bravo. Si lamenta: “Qui non ci voglio più stare”. Dice che non gli pagano tutte le ore lavorate. “Meglio tornare in carcere. Anche duro”. B., dodici anni nella legione straniera. Anche lui ha un appuntamento con il 2033, data del suo fine pena. Sconta condanne per violazione della legge sulle armi e molti altri reati. Ma preferisce non parlarne. Non si lamenta. Sa aspettare. Fa della pazienza la sua via di fuga. Quando G. è arrivato, molti operatori hanno cercato di aiutarlo. Vedovo con due figlie da crescere... È stato lui ad uccidere la moglie. C’è un uomo che abita in mezzo al mare. Misura il tempo in miglia marine (18, l’equivalente dei 34 chilometri, che si percorrono in 40 minuti, ma dipende dalle condizioni atmosferiche) e le vite degli altri seguendo il ritmo lento delle stagioni. Inverni interminabili e freddi, estati estenuanti per il caldo e l’umidità. La vita è così sull’isola di Gorgona nell’Arcipelago Toscano, dove nei giorni di grazia si scorge la linea di costa di Livorno. Da lì partono e tornano le motovedette della polizia penitenziaria. L’unico collegamento con questi tre chilometri di lunghezza per due di larghezza. Due sono anche i viaggi al giorno: al mattino e al pomeriggio. Dal mare si posso apprezzare i 225 metri di altitudine che nascondono le bellezze di questo ecosistema con il nulla intorno. Un solo residente stanziale: Luisa Citti, 92 anni, che qui ci è nata. Gli altri 20-25 che risultano sono ciò che resta della storia: nuclei familiari che conservano, con concessione demaniale, l’uso delle case appartenute alla loro famiglia per generazioni, abitate per brevi periodi all’anno, soprattutto in estate. Fine: non c’è un bar, un negozio, un ufficio postale. Solo un presidio medico (aperto in base alle esigenze) e una chiesa dove si dice messa la domenica alle 11. Benvenuti nell’ultima isola colonia penale d’Italia, che compie 150 anni. Lo divenne ufficialmente nel 1869. Da qui non si scappa. Si lavora e si produce, almeno secondo le intenzioni. È il piccolo mondo di Carlo Mazzerbo e delle sue 26 guardie penitenziarie, che controllano i 96 detenuti che scontano in questa presunta oasi gli ultimi anni di (fine) pena. Mazzerbo ci è tornato dopo esserne stato responsabile dal 1989 al 2004, e poi dal 2008 al 2010. In mezzo gli incarichi ricoperti a Porto Azzurro, Massa Marittima. Ma Gorgona ritorna sempre. Oggi Mazzerbo è direttore della casa circondariale di Livorno di cui l’isola è una sezione distaccata: è considerata un modello detentivo e ad esso lui ha legato il suo nome. L’unità di misura della gioia è il mare calmo che consente sbarchi regolari ai familiari dei detenuti e agli approvvigionamenti. L’isolamento è contemplato (sempre) e costa. In termini economici (il gasolio, la manutenzione delle strutture abitative) e di sopravvivenza. Mazzerbo sorride: “Noi un modello?”, e parla sempre al plurale: “Abbiamo solo applicato quello che la legge prevede. Niente di più. È ciò che chiamiamo recupero”. Ma non è stato sempre così. Quel modello va in crisi nel 2004, l’Annus Horribilis: due omicidi infrangono il mito. Forse Gorgona non è proprio un esempio di regime detentivo alternativo. “Bisogna prendersi dei rischi” spiega Mazzerbo. “E avere il coraggio di porsi una domanda: che me ne faccio di un buon detenuto, se poi torna a essere un pessimo cittadino?”. Di certo non sembrano aiutare tempi come questi, dove il buonismo suona come una bestemmia quando lo si coniuga all’idea di sicurezza. Non le sembra un ragionamento un po’ azzardato? “Va di moda il concetto che ai detenuti non spetti nulla più del vitto e dell’alloggio. Bisogna buttar via la chiave. Problema risolto. Il nostro difetto? Siamo idealisti frenati dal lassismo e dalla burocrazia”. E il modello di carcere buono lo diventa sempre meno. Lo sbarco è alle 9.30: sul molo la garitta assicura i controlli. Sull’imbarcazione c’è un detenuto che torna da un permesso; con lui, un nuovo arrivo dal carcere di Livorno. Il punto di raccordo è lo spaccio, una terrazza vista mare dove gli agenti trascorrono la maggior parte del tempo quando non sono di turno. Qui tutto è diverso. Bisogna fare l’abitudine non ai rumori, ma ai suoni. Il vento, la risacca, il frastuono provocato dallo stridio dei gabbiani interrotto solo dai motori dei trattori guidati dai detenuti che arrancano su sentieri dissestati a precipizio sul mare che portano nelle aree-lavoro dislocate lungo l’isola. In alto c’è l’azienda agricola dove si producono formaggi, ricotta e ortaggi. Ancora più su ci sono le stalle con gli animali da accudire. A Gorgona si comincia presto: alle 5.30 del mattino. Una pausa a mezzogiorno per il pasto da consumare in mensa. Poi di nuovo al lavoro fino alle 16. “La vocazione di Gorgona è stata sempre quella di permettere di lavorare”, sostiene Mazzerbo, “nessuno deve starsene in disparte. Ma i fondi sono ormai insufficienti e cresce il malcontento. D’altronde la possibilità di guadagnare qualcosa da mandare magari a casa costituisce pur sempre un incentivo. Se viene a mancare anche questo...”. Le aree dei detenuti sono delimitate e i controlli rappresentano una sorta di patto non scritto. Un reciproco rispetto per evitare guai. È il modo con cui le guardie penitenziarie mantengono l’ordine a dispetto di un organico piuttosto modesto. I detenuti sono aumentati, mentre parte del personale è andato in pensione o, trasferito, e non è stato rimpiazzato. “Fino al 2013 un agente poteva chiedere di prestare servizio sull’isola”, racconta uno di loro, “in palio c’era la possibilità di vedersi riconosciuto un bonus di 4 punti aggiuntivi in graduatoria”. Oggi non funziona più così. Il paradosso? Da meta desiderata, Gorgona è diventata un posto da cui tenersi alla larga. “E consideri anche la vita privata... Licenze brevi, magari una volta al mese, per raggiungere paesi in Campania o in Sardegna. È così che le famiglie si sfasciano”. Eppure qui i buoni (le guardie) e i cattivi (i reclusi) mischiano le rispettive esperienze. Studiare insieme per la licenza media, allestire una band musicale o un armo di canottaggio. È il “volto umano” della detenzione che ormai fa a pugni con la crisi. Un tempo i detenuti venivano scelti con grande attenzione: buone condizioni di salute, nessun legame con la criminalità organizzata, e un occhio alle competenze lavorative. Oggi c’è un po’ di tutto: romeni, polacchi, tunisini che riproducono in piccolo la vita del clan. “Senza lavoro, resta solo il tempo. Non passa mai” dice M., detenuto dell’area Articolo 21, un padiglione separato dove abitano i buoni che si autogestiscono, a cominciare dai pasti che si cucinano da soli. “Ce facímm’ e fatt nuosr ma è dura. È vero, molti vorrebbero tornare in carcere perché hanno paura che a stà senza fa’ niente a capa non l’aiuta...”. Perché Gorgona assomiglia a un videogioco che riproduce sempre lo stesso meccanismo. Giornate tutte uguali. Come le facce che si incontrano, i percorsi fatti migliaia di volte, i gesti sempre identici. A un certo punto finiscono anche le storie da raccontarsi. L’unica cosa in cui si spera è andar via. Presto, prima che si può. Lo fanno anche i familiari dei reclusi che si imbarcano per tornare verso Livorno dopo la visita. E non si voltano a guardare il molo che si allontana. Proprio come ho fatto io. Sant’Angelo Lombardi (Av): “Libere... di”, nel carcere un progetto di aiuto per le donne Il Mattino, 12 aprile 2019 Lunedì 15 aprile, alle ore 12, presso la Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi “Famiglietti, Forgetta, Bartolo” si svolgerà la presentazione del progetto “#libere…di”, con l’apertura dello sportello Concilia Point. Per la Regione Campania interverrà l’assessore alla formazione e alle pari opportunità Chiara Marciani. Il Consorzio dei Servizi Sociali Alta Irpinia, in qualità di partner di progetto in A.T.S. con il Capofila e Mandatario Consorzio Tekform e i partner Casa di reclusione Sant’Angelo dei Lombardi, associazione Galea e Confcooperative Campania, presenterà il progetto che prevede l’erogazione di buoni servizio rivolti alle donne con figli di età compresa tra i 3 e i 12 anni e /o figli di età compresa tra 0-36 mesi, della durata complessiva di 18 mesi. Destinatarie dell’intervento sono donne in età lavorativa, occupate, inoccupate o in cerca di occupazione residenti o domiciliate nei Comuni aderenti l’Ambito Territoriale A03 e/o madri di figli di detenuti della C.R. di Sant’Angelo dei Lombardi, con minori a carico di età compresa tra 0 mesi e 12 anni. Oltre all’assessore Marciani, alla presentazione interverranno Giulia Magliulo, direttore della Casa di reclusione; Francesco Mancini, del Consorzio Tekform; Stefano Farina, del Consorzio Alta Irpinia; Rino Morra, dell’associazione Galea; Antonio Borea, di Confcooperative Campania; Fiorenza Taricone, docente dell’Università di Cassino; Giuseppe Martone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania; Rosa D’Amelio, presidente del Consiglio regionale della Campania; Francesco Basentini, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Modera la giornalista Barbara Ciarcia. Milano: Ylenia, studentessa-tutor tra i detenuti. Un ponte tra Università e carcere di Veronica D’Uva bnews.unimib.it, 12 aprile 2019 Dal 2013, l’Università-Bicocca entra in carcere tramite i suoi studenti. Con il progetto “Adotta un detenuto per studiare insieme”, l’Ateneo ha avviato un’azione di tutoraggio all’interno delle Case di reclusione di Opera e Bollate. Si tratta di un servizio di accompagnamento allo studio per i detenuti iscritti all’Università fornito da studenti selezionati annualmente attraverso un bando. Ylenia Cavallo, iscritta al terzo anno di Giurisprudenza, ci ha raccontato la sua esperienza presso il carcere di Bollate. La studentessa, che da grande sogna di diventare avvocato e avere uno studio tutto suo, spera anche di continuare a occuparsi dei diritti dei detenuti. Ylenia, perché hai deciso di partecipare al progetto? Ho deciso di partecipare perché nel momento in cui mi è stato presentato ho pensato fosse un’ottima opportunità per conoscere una nuova realtà, quella carceraria, che molto spesso viene trascurata da chi non la vive in prima persona. Quali sono i tuoi compiti all’interno del carcere? Il mio lavoro si svolge all’interno della casa di reclusione di Bollate, una o più volte a settimana, in spazi adibiti allo studio. In particolare, la mia figura è quella di intermediario tra studente/detenuto e la nostra università. Mi occupo principalmente di fornire loro materiale didattico e di gestire la prenotazione degli esami. Fornisco loro un sostegno durante lo studio, perché ad alcuni non è concesso avere un confronto diretto con il professore. La durata degli incontri varia da una a due ore. Cosa stai imparando da questa esperienza? A livello professionale, mi ha dato l’opportunità di accrescere le mie conoscenze in merito al diritto penale, alla procedura penale e al diritto penitenziario, materie presenti nel mio piano di studio. A livello umano, mi ha permesso di approfondire la conoscenza dello studente/detenuto al di là della ragione per la quale si trova all’interno delle mura carcerarie. Mi ha aiutato inoltre ad apprezzare di più i legami che coltivo quotidianamente nella mia vita. Trieste: Lella Costa porta la cultura in carcere con il progetto “A tu per tu”. radiofragola.com, 12 aprile 2019 Più che in ogni altro luogo, la cultura diventa in carcere un bene prezioso anzi necessario. “A Tu per Tu” è un laboratorio di scrittura dove i detenuti della Casa Circondariale di Trieste possono raccontarsi ed esprimersi attraverso le parole, scrivere diventa uno strumento terapeutico. Il progetto è guidato da Lucia Vazzoler nella sezione femminile e da Giuliano Caputi in quella maschile, con la supervisione di Pino Roveredo e della cooperativa sociale Reset. All’interno di questo percorso si svolgeranno anche una serie di incontri con grandi protagonisti della scena nazionale per arricchire ulteriormente l’esperienza. Lella Costa è un’importante attrice italiana che ha avuto una carriera di grande successo recitando in molti teatri italiani, facendo apparizioni cinematografiche e in tv; e sarà proprio lei la prima ad aprire questa serie di incontri. Pino Roveredo ci racconta di come è nata questa idea “La nostra intenzione è trasmettere la cultura perché in carcere è salvifica ed essenziale, non è un semplice contorno. Ho pensato a Lella Costa perché conoscevo bene il suo impegno per i diritti e per la parità di genere. E poi… è una che scrive maledettamente bene!” Questo importantissimo confronto si è strutturato in due momenti, prima con un incontro con i detenuti della sezione femminile e poi uno con quelli della sezione maschile. L’attrice ci ha raccontato di come è stata una giornata di forti emozioni, lo scambio con le donne è iniziato con una riflessione sulla stesura di una lettera; è una pratica che come società abbiamo abbandonato e prevede un altro rapporto con il tempo. Esiste il tempo della sedimentazione, della scrittura e della ricezione. La reinterpretazione delle lettere dopo che sono passati tanti anni non è mai uguale, soprattutto per noi donne. In un luogo così delicato come il carcere le parole scelte hanno un grandissimo peso e anche implicano un grandissimo senso di responsabilità nel pronunciarle. Insieme alle detenute Lella Costa ha toccato moltissimi temi, si sono soffermate sul valore del perdono, sull’ironia e sulle differenze tra uomini e donne. Ma anche sul teatro. “Ogni volta che mi viene chiesto di fare qualcosa nelle carceri rispondo di sì, senza esitazioni ci rivela Costa -. Credo che nelle relazioni, negli incontri e nei linguaggi che si sovrappongono si possa trovare una delle possibili strade per cui il carcere ha un senso. Se esso è recupero e reinserimento, allora tutti gli incontri contano”. Genova: “L’isola dei sogni”, detenuti s-catenati sul palcoscenico di Donata Bonometti Il Secolo XIX, 12 aprile 2019 Nel carcere di Marassi a Genova c’è un vero e proprio teatro da anni. E centinaia di detenuti nel tempo sono saliti, senza catene, sul palcoscenico trovandovi piacere e successivamente, scontata la pena, anche lavoro. Attorno ai detenuti un mondo di volontariato, supporto finanziario e pragmatico, ma anche il mondo della scuola, insomma un grande fervore per una iniziativa che dà respiro ai protagonisti, agli attori. Nonostante la fatica di vivere dentro una cella. Il nuovo spettacolo si chiama “L’isola dei sogni”, però a Marassi il teatro non è un sogno, è una realtà: perché è l’unico esempio in Europa di un vero edificio teatrale costruito all’interno della cinta carceraria. Si chiama Teatro dell’Arca ed è stato inaugurato nel 2016. Una sala da 200 posti con l’anima nel legno che riveste la facciata, fa risuonare il palcoscenico e struttura la classica graticcia, immancabile in un teatro, per i movimenti dall’alto dei fondali, delle scene e delle macchine sospese. “Realizzarlo è stato quasi un miracolo, ci siamo riusciti con fruttuose alleanze fra pubblico e privato e anche Dario Fo ci aveva aiutati molto, regalandoci diversi suoi disegni e stampe che abbiamo poi messo all’asta per raccogliere fondi” ricorda Mirella Cannata, presidente dell’associazione Teatro Necessario che d’intesa con la direzione della Casa Circondariale guida l’Arca e le attività teatrali con le persone detenute. L’Arca è stata inaugurata nel maggio 2016, esattamente 10 anni dopo il primo spettacolo messo in scena con i detenuti di Marassi. Si intitolava Scatenati, diventato poi il nome della Compagnia che con persone recluse e attori professionisti dà vita ogni anno a nuove produzioni. In tredici anni sono stati più di 300 i detenuti protagonisti delle attività teatrali, come attori, ma anche come autori dei manifesti per le rappresentazioni e tecnici, macchinisti, fonici, addetti alle luci. Qualcuno è anche stato inserito con borse lavoro nel montaggio e smontaggio delle scene al Teatro Nazionale di Genova, una persona dopo il carcere ha iniziato la propria attività come tecnico nell’allestimento dei concerti e segue diverse tournee e tornato libero un attore degli Scatenati è stato poi scritturato per uno spettacolo della compagnia di Jiurj Ferrini. “Per le persone recluse - dice Maria Milano, direttore della Casa Circondariale - essere protagoniste del teatro, veder crescere insieme il loro spettacolo, interpretare sé stessi dentro e fuori dalle parti, dentro e fuori dalle mura del carcere, è un’esperienza straordinaria di vita che alimenta anche il loro diritto di ripartire, rafforza le opportunità e libera nelle relazioni con gli altri la dignità, la responsabilità e la capacità di credere in sé stessi per affrontare il futuro”. Allo spettacolo di quest’anno, l’Isola dei Sogni, partecipano venticinque detenuti fra attori e tecnici teatrali. Quasi tutti sono allievi dei corsi di grafica pubblicitaria dell’istituto scolastico Vittorio Emanuele II - Ruffini, attivo da vent’anni nella Casa Circondariale di Marassi e grazie ad altri finanziamenti europei (PON per le scuole) con lo stesso istituto sono stati aperti altri laboratori per la recitazione, la musica, la scenotecnica. Con la presidente Mirella Cannata, professoressa di storia dell’arte, il direttore artistico e regista Sandro Baldacci, il responsabile amministrativo Carlo Imparato, anche lui professore, nell’associazione Teatro Necessario ci sono insegnanti, operatori culturali, artisti come il musicista Bruno Coli, il drammaturgo Fabrizio Gambineri, la scenografa Laura Benzi. Gli spettacoli della Compagnia Scatenati diretti da Sandro Baldacci attraversano spesso le sbarre. Perché la vita teatrale è anche un ponte culturale e civile sempre più robusto fra il carcere e la città. Per questo, nell’intesa con il Teatro Nazionale di Genova, la Corte mette in scena per sei giorni, dalla prima del 9 aprile sino al 14 il nuovo spettacolo, prima della rappresentazione all’Arca di Marassi il 18 aprile. L’Isola dei Sogni elabora in una contaminazione artistica originale e quasi magica ispirazioni da La Tempesta di Shakespeare, dalla sua traduzione in napoletano secentesco di Eduardo De Filippo e dal film La Stoffa dei Sogni di Gianfranco Cabiddu. Un postale pieno di camorristi destinati al carcere dell’Asinara imbarca segretamente anche una compagnia teatrale. Una tempesta fa però naufragare la nave e sulle coste dell’isola si ritrovano insieme attori e detenuti, senza più i documenti perduti in mare e senza possibilità di distinguersi. I camorristi minacciano il capocomico della compagnia perché dichiari al direttore del penitenziario che tutti i naufraghi sono attori. Il funzionario però non si fida e vuole mettere alla prova la capacità di recitare di tutti. Il resto lo racconta la Compagnia Scatenati e lo spettacolo (teatronecessariogenova.org) è tutto da vedere e gustare. Con il Teatro Necessario la nuova sala nella Casa Circondariale di Marassi si anima sempre di più. L’associazione ha dato vita nel 2018-19 alla rassegna Voci dall’Arca aperta nell’autunno scorso da eventi musicali e dopo l’Isola dei Sogni in scena con la Compagnia Scatenati nel teatro del carcere genovese arriveranno spettacoli come fra gli altri Il Figlio della Tempesta con i detenuti della Fortezza di Volterra, La Favola Bella dal carcere di Saluzzo, l’Ernest Shackleton di Igor Chierici, Città Inferno diretta da Elena Gigliotti. Ricordiamo che per il teatro interno al carcere Fondazione Carige e Compagnia di San Paolo hanno finanziato tutta la struttura esterna, mentre l’interno è stato allestito dalle persone detenute, formate prima nei corsi in falegnameria e scenotecnica sostenuti da fondi europei gestiti dalla Regione nel Bando Inclusi e poi seguite nel loro prezioso lavoro dall’associazione specializzata Fuoriscena. L’amministrazione penitenziaria ha finanziato gli impianti di sicurezza e antincendio e le poltroncine sono state donate dal cinema Mignon di Chiavari. Salerno: il teatro arriva in carcere con “Mi Girano le Ruote” acli.it, 12 aprile 2019 Tre appuntamenti che puntano sull’azione educativa e formativa del Teatro quale potente strumento di espressione, condivisione e comunicazione di valori. Una iniziativa speciale, che nasce da un’idea dell’Associazione di Promozione Sociale “Mi girano le ruote”, affiliata alle Acli di Salerno, impegnata in diverse collaborazioni con l’Icatt, l’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli. La rassegna porterà tra le mura del carcere tre spettacoli. Si inizia il 12 aprile con “‘Na Storia Antica” dell’attore e regista valdianese Enzo D’Arco. Seguirà il 3 maggio lo spettacolo di Domenico Monaco “Contastorie” di Trentinara. La terza ed ultima commedia teatrale vedrà in scena alcuni ragazzi detenuti all’Icatt con un loro spettacolo dal titolo “Il Nuovo Aggiunto”. Lo scopo è quello di raccogliere i fondi necessari per avviare un corso di formazione teatrale, curato da un attore e regista professionista, rivolto agli ospiti dell’istituto penitenziario, che culminerà in uno saggio finale aperto al pubblico. “Obiettivo del progetto è quello di riconfigurare la struttura detentiva attraverso la cultura e la bellezza. All’interno di un’istituzione “totale” come il carcere, dove le mura e i cancelli delineano perfettamente i confini e le barriere, il teatro assume una caratteristica di assoluta libertà essendo una forma d’arte che ha un enorme potere trasformativo su ogni essere umano”, spiegano i promotori. Gli spettacoli in cartellone affrontano temi e utilizzano linguaggi che parlano di una visione inclusiva della società, per abbattere distanza e pregiudizio, che sono spesso la causa della recidività, e per costruire un ponte di comunicazione fra il dentro e il fuori, che consenta ai detenuti di pensare ad un “dopo” fuori dal carcere, che sia una nuova e possibile opportunità di vita. Katya Maugeri: “Oltre le sbarre ci sono persone che cercano un percorso di redenzione” di Salvatore Massimo Fazio sicilymag.it, 12 aprile 2019 La giornalista catanese ha pubblicato “Liberaci dai nostri mali”, testo nato da un’inchiesta giornalistica su detenuti e droga: “Ho collaborato con il carcere di Augusta e lì ho capito che volevo raccontare le storie dei detenuti. Oltre gli errori. Lette insieme sembravano una preghiera che esortava al perdono”. Sabato 13 aprile la presentazione a Catania “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento” è un libro che Katya Maugeri, giornalista catanese, studiosa di fenomeni sociologici, ha pubblicato per Villaggio Maori Edizioni, e che fonda parte delle sue radici nell’inchiesta Detenuti e droga: le loro storie, pubblicata sul quotidiano telematico Sicilia Network, realizzata con i giovani del Centro di solidarietà Il Delfino di Cosenza, nel quale a tutt’oggi cura il laboratorio di lettura e scrittura autobiografica. Il libro vanta la prefazione di Claudio Fava, giornalista e deputato regionale, presidente della Commissione regionale Antimafia, la postfazione del giornalista Salvo Palazzolo, le attente note di Mario Conte, consigliere della Corte d’Appello di Palermo, e diversi importanti contributi negli argomenti trattati da Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, associazione che si batte per i diritti e le garanzie del sistema penale, e infine, il contributo, sul tema delle tossicodipendenze, di Salvatore Monaco, responsabile della Comunità Il Delfino di Cosenza diretta da Renato Caforio, nel quale a tutt’oggi la Maugeri cura il laboratorio di lettura e scrittura autobiografica. Sabato 13 aprile, alle ore 18.30, il libro sarà presentato all’Ostello degli Elefanti di Catania. Katya Maugeri si confronterà con Claudio Fava e con Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto del tribunale di Catania e componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Quanto e cosa ti ha mosso dentro questo tema, un lungo percorso che vede la luce nel libro? “Ho collaborato con la casa di reclusione di Augusta anni fa con il progetto teatrale curato dal magistrato e scrittrice Simona Lo Iacono e da quel momento non li ho più abbandonati. Insieme al direttore del carcere, Antonio Gelardi, abbiamo pensato a un nuovo progetto, un reportage, e lì ho capito che erano le storie che volevo raccontare, le loro. Oltre gli errori, gli sbagli, i macigni. Parlare del detenuto e non solo del reato ma del cambiamento che aveva scelto di attuare. Le storie erano interessanti, diverse tra loro e lette insieme sembravano una preghiera, un coro che esortava al perdono: liberaci dai nostri mali”. Cosa ti aspetti da questo messaggio importante che hai lanciato, assieme al bravo fotografo Alessandro Gruttadauria? “Liberaci dai nostri mali è un viaggio introspettivo all’interno di una realtà spesso emarginata, come quella carceraria. Vorrei che imparassimo a guardare oltre l’apparenza, al di là dei pregiudizi e delle facili conclusioni che ci allontanano da un valore inestimabile: l’umanità. Servirebbe più curiosità, meno fanatismo social nei confronti di tematiche che ci limitiamo di conoscere da un titolo o da un “sentito dire”. In carcere c’è gente che ha compiuto gesti gravissimi, il mio libro non li giustifica chiaramente, ma tra loro ci sono uomini che credono e cercano di attuare un percorso di redenzione”. Tu racconti le debolezze, che sfociano in malesseri psichici che si spingono sino al cambiamento comportamentale tout-court di un carcerato: le sue aspettative, i suoi progetti, magari interrotti dall’errore che lo ha portato dietro le sbarre... la fine della vitalità, l’inizio dell’esser zombie. Poi la volontà di persone che vogliono riabilitare queste persone, quasi a non dar conto al pregiudizio, ricordando loro che sono esseri umani. Ma come si fa ad infondere questa fiducia? “Racconto le loro debolezze legate al macigno che portano addosso, loro non raccontano di essere distanti dai loro sbagli, descrivono quegli errori come zavorre dalle quali è impossibile liberarsi. La fiducia, è chiaro, non possono conquistarla con una semplice chiacchierata. Molti di loro, durante anni e anni di detenzione, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con il mondo esterno (attraverso i lavori gratuiti presso enti, grazie all’articolo 21) attraverso impieghi mai conosciuti, ben lontani dal loro modo di vivere, che li ha ridimensionati. Non accade a tutti, è chiaro, ma il cambiamento esiste e il carcere ha il dovere di rieducare i detenuti affinché possano ritornare nella società pieni di vita e progetti da realizzare. Quei macigni non li lasci dietro le spalle, loro ne sono consapevoli”. Emarginazioni che fanno male all’animus, che creano distinzione, allontanamento, dolore, malessere e appunto pregiudizio. Ti chiedo Katya, perché si continua a creare barriere ed annullare il dialogo creando carceri virtuali? “Le carceri virtuali sono le più pericolose: creano inevitabilmente dei fanatici pronti a danneggiare la persona attaccata. Il pregiudizio nasce dall’ignoranza, dall’incapacità di voler conoscere cosa c’è al di là di un campo tracciato da abitudini e luoghi comuni. La discriminazione porta addosso il marchio che altri hanno scelto perché incapaci di confrontarsi con una prospettiva diversa dalla loro. Il pregiudizio è un limite gravissimo che emargina e lascia fuori l’essere umano alimentando solo odio e il distacco, dalla vita stessa”. Sino a che punto un carcerato riesce a spingersi oltre la voglia di mettersi nuovamente in gioco? “Un carcerato che ha pagato i propri errori, anche gravi, può aver maturato durante i lunghi anni di detenzione, la consapevolezza che l’aver intrapreso una strada fatta di sangue, compromessi e malavita ha solo inaridito gran parte del suo vissuto, quindi potrebbe desiderare un riscatto sociale. Alcuni dei detenuti intervistati hanno continuato gli studi in carcere, hanno imparato dei mestieri che serviranno a integrarsi nuovamente nella società. Ma è proprio fuori le sbarre la vera prova: vivere in quel cambiamento, nonostante le tentazioni di quelle scorciatoie che conoscono bene, vivere il secondo capitolo della loro vita onestamente. La società dovrebbe scardinare il pregiudizio nei confronti di un ex detenuto e dare la possibilità di rimettersi in gioco”. Tu hai raccontato l’uomo oltre il reato, e questo è ciò che più mi ha emozionato e commosso, posso permettermi di dire che solo l’uomo libero da appartenenze politiche è un uomo che della filantropia e del benessere ne riesce a sviluppare realmente un codice etico che potrebbe salvare dai malesseri sociali? “Un uomo libero è colui che pensa e che vive senza etichettare, giudicare e condannare nessuno. La libertà è un dono prezioso e a perderla non sono solo i detenuti, anche chi rinuncia alla propria personalità per seguire un gregge mediatico è prigioniero di sé stesso”. Hai detto che Liberaci dai nostri mali non è un libro che giustifica i reati, ma porta in auge le abitudini, i drammi che diventano patologia psichica, con l’intento di riaffermare l’uomo e non lasciarlo marcire nello stigma. “L’empatia, l’umanità e la consapevolezza di essere storie. Storie diverse, più o meno dolorose, lacerate da azioni compiute con lucidità, siamo storie e dovremmo ascoltare le altre storie, quelle che riteniamo distanti da noi e invece di diverso hanno solo le scelte prese, sono quelle a tracciare inevitabilmente i destini di alcuni. Lo stigma ci rende prigionieri, delle persone circondate da sbarre in quelle “carceri virtuali”. Dovremmo imparare ad ascoltare la vita degli altri, servirebbe molto per comprendere meglio la nostra”. Disobbedire è una virtù repubblicana di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 12 aprile 2019 Rispettare le leggi è un obbligo. Sempre? Anche quando violano principi costituzionali e sono in gioco valori ultimi come la vita e la dignità delle persone? Dai tempi della rivolta dell’Antigone di Sofocle è il grande dilemma del diritto. Ma senza il coraggio non può esserci libertà. Appellarsi alla legge è, di norma, la difesa contro l’arbitrio, la violenza e la paura. Le leggi, dicevano gli antichi, sono mura che proteggono la città. Perciò, alle leggi si deve ubbidire. Lo dice, come cosa ovvia, anche l’articolo sempre si discute del rapporto tra 54 della Costituzione. Ubbidire sempre? Anche quando la legge legalizza arbitri, violenza e paura? Davvero la Costituzione immagina, come ideale, una massa d’individui passivi, marionette mosse dai fili tenuti in mano da un burattinaio. La questione - non in astratto ma secondo il vigente ordinamento giuridico - non è nuova. Si è affacciata numerose volte, di fronte all’eventualità di leggi che volessero imporre ai medici l’obbligo di segnalare all’autorità di P.S. gli stranieri che richiedano assistenza sanitaria alle strutture ospedaliere; oppure, di fronte ad analoga imposizione ai presidi di scuola, per i figli di genitori irregolari. In questi casi, la sollevazione preventiva contro una sorta di caccia al clandestino aveva fatto recedere il legislatore dai suoi propositi. In altri casi, la disobbedienza pubblica, rivendicata anche per mezzo di autodenunce, ha riguardato il servizio militare, e ha condotto dopo tante polemiche all’abolizione dell’obbligatorietà; l’indiscriminata punizione penale dell’interruzione volontaria della maternità, e ha portato alla legge194; la criminalizzazione dell’aiuto all’eutanasia, e ha portato a una decisione della Corte costituzionale che, rivolgendosi al legislatore, ha prefigurato, in mancanza di una legge nuova, la dichiarazione d’incostituzionalità di quella vigente. Recentemente, si è discusso della registrazione allo stato civile di bimbi come figli di coppie omosessuali, dell’adozione da parte di singoli, eccetera. Infine, la polemica è scoppiata di fronte al rifiuto di diversi sindaci di applicare norme sul respingimento di persone salvate dal naufragio nel Mare Mediterraneo. Come si vede, niente di nuovo sotto il sole. Ma l’ultimo caso ha fatto scandalo, quasi che si tratti di un unicum, di un atto insurrezionale. Come considerare questi casi secondo il sistema costituzionale in vigore? Innanzitutto, il citato art. 54 prescrive bensì l’osservanza della legge, ma anche della Costituzione, innanzitutto della Costituzione e poi della legge. Se la legge è conforme alla Costituzione, tutto bene. Ma se non lo è? Sarà prevedibilmente dichiarata incostituzionale. Ma qual è la situazione della legge incostituzionale prima del suo annullamento? Si è molto discusso. Si dice da taluno: solo alla Corte costituzionale spetta il giudizio in proposito. Perciò, fino a quando non vi sia dichiarata incostituzionale, della legge si deve presuppone la validità e quindi l’obbligatorietà. L’espressione “legge incostituzionale” prima della relativa decisione della Corte costituzionale sarebbe un non-senso. Vera la premessa, falsa tuttavia è la conseguenza. Vediamo. Colui il quale ha contestato la legge violandola incorrerà nelle sanzioni previste, ma contro di esse si potrà aprire un giudizio durante il quale è possibile sollevare una questione d’incostituzionalità sulla norma che prevede la sanzione, questione che sarà decisa dalla Corte. Se la legge è incostituzionale, sarà annullata e non potrà essere applicata contro tutti coloro che l’abbiano violata. Anche qui, niente di nuovo: la prima decisione della Corte costituzionale è stata promossa precisamente in questo modo, per iniziativa di trenta disobbedienti che invocavano il diritto di libera espressione a mezzo stampa. È evidente che ciò si svolge sotto il segno dell’incertezza: non si può sapere a priori se il giudice solleverà la questione di fronte alla Corte costituzionale, né se questa annullerà la legge. Coloro che si assumono la responsabilità di attivare questo meccanismo non sanno se l’esito sarà favorevole o sfavorevole. Agiscono in nome di un valore più alto della mera legalità accettando una scommessa che può essere perduta. Il che è quanto dire che la legge può essere trasgredita, ma a proprio rischio e pericolo. Il violatore apparirà, ma solo ex post, o come un “fuorilegge”, oppure come un benemerito della Costituzione. La disobbedienza consapevole è dunque una possibilità implicitamente prevista per promuovere il controllo di costituzionalità delle leggi. Se tutti osservassero pedissequamente, passivamente, tutte le leggi che prescrivono o vietano determinati comportamenti, non si aprirebbero procedimenti giudiziari e, quindi, non si avrebbe l’occasione di attivare il giudizio di costituzionalità. Potrebbero rimanere in vigore indefinitamente leggi incostituzionali, poiché tutti vi si adeguano. Questa conclusione potrà non piacere a chi, in nome dell’autorità e della certezza del diritto, pensa alla legge come nomos sovrano assoluto che non ammette replica. Ma la legge, da quando è stata collocata sotto la Costituzione, può essere contestata. La sua validità è esposta alla critica da parte di coloro che una volta i giuristi, con un’espressione ciceroniana, chiamavano servi legum, espressione oggi impropria, essendo i servi diventati custodi della Costituzione in alleanza con i tribunali. Il giudizio di costituzionalità delle leggi, al quale i cittadini possono accedere nelle forme previste, non è dunque un freddo meccanismo giuridico. Implica un ethos pubblico che investe la responsabilità diretta dei cittadini nel difendere i principi della Costituzione. Perfino la disobbedienza alle leggi, nei casi estremi in cui sono in questione valori ultimi come la vita, la libertà, la dignità delle persone, è una virtù repubblicana, quando significa rifiuto di convalidare l’ingiustizia con la propria ubbidienza. Tutte le volte che ubbidiamo alla legge, infatti, la fortifichiamo con la nostra acquiescenza: se la legge è giusta, fortifichiamo la giustizia, ma se è ingiusta fortifichiamo l’arbitrio. Si dirà: ma tutto ciò implica coraggio, presuppone che ci si metta in gioco e si assumano rischi. Sì. E con ciò? La libertà non sa che farsene degli imbelli, dei paurosi, di coloro che pensano solo alla propria tiepida sicurezza. E gli imbelli e i paurosi, a loro volta, non sanno che farsene, della libertà. Il decreto insicurezza di Vittorio Lingiardi* La Repubblica, 12 aprile 2019 Psicologi e psicanalisti denunciano gli effetti delle nuove misure. Il clima “spaventante” colpisce í più vulnerabili. “Aprite le finestre dei vostri studi”. Seguendo la storica esortazione di James Hillman, gli psicoanalisti (freudiani, junghiani) e gli psicologi (clinici e sociali, sperimentali e dello sviluppo) sono usciti dai loro studi e dai dipartimenti universitari e hanno scritto con l’inchiostro della preoccupazione e del dissenso. Stiamo parlando delle lettere che la Società psicoanalitica italiana (Spi) e l’Associazione italiana di psicologia analitica (Aipa) hanno indirizzato al presidente Mattarella, dell’appello lanciato dal Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) e del documento da poco apparso sul sito dall’Associazione italiana di psicologia (Aip), la società scientifica dei ricercatori e professori di tutti i settori della psicologia. Quattro documenti nel giro di un paio di mesi sono il manifesto di un’unione di intenti inedita. La preoccupazione nasce dal decreto Sicurezza che, a dispetto del suo nome, “sta rendendo la condizione dei migranti e, consequenzialmente quella italiana, sempre più “insicura” (Spi) e rischia di “distruggere l’integrazione di soggetti socialmente vulnerabili, in primo luogo i minori non accompagnati e le donne, spesso vittime di tratta e ridotte in schiavitù, al tempo stesso minando l’impianto dei diritti fondamentali su cui si basa la nostra Repubblica” (Aipa). Emerge una visione critica di ogni logica che additi “un nemico nel diverso, diffondendo una “cultura” razzista e xenofoba che si incunea nello spaesamento, nello sconcerto, nella paura” dei cittadini (Cipa). Non si tratta di sottovalutare le complesse trasformazioni sociali prodotte dai fenomeni migratori, ma di mettere in discussione “la conversione di oggettivi elementi di criticità sociale in rappresentazioni simboliche ostili”, con “ricadute negative sulla convivenza civile” (Aip). Ai rischi della disumanizzazione vengono contrapposte la finalità del lavoro clinico, cioè l’accoglienza, e l’affidabilità dei risultati delle ricerche sul campo. “È proprio l’esperienza quotidiana di contatto con il disagio psichico profondo e con la sofferenza legata a traumi, sradicamento e lutto migratorio che ci spinge ad assumere una posizione critica, ritenendo che non si possa tacere sulle condizioni in cui versano i migranti in Italia” (Spi). Il decreto Sicurezza porta un nome significativo per le scienze della psiche ma rischia di contribuire a instaurare nel nostro Paese un “clima spaventoso e spaventante” (Cipa). Se da un lato la Legge 132/18 si prefigge di rispondere al “bisogno di sicurezza dei cittadini”, dall’altro finisce per affrontare tale bisogno “non tanto ribadendo la giusta e doverosa rigorosità nelle procedure di accoglienza” bensì “assecondando e alimentando”, senza elaborarle, “reazioni viscerali che generano ulteriori insicurezze” (Aip). L’effetto collaterale è l’aumento delle marginalità. Non solo, tale marginalità “avrà un impatto dannoso sulla loro salute psicofisica, con maggiore incidenza di malattie, disagio psicologico, disturbi mentali, condotte autolesive e suicidarie” (Aip). Il messaggio della comunità “psy” italiana è: restiamo umani. Concordi nell’individuare pericoli e oscurità delle attuali politiche migratorie, questi documenti condividono la stessa idea di cittadinanza costruita sul riconoscimento reciproco, in cui l’altro da sé non è etichettato come nemico ma - come accade per la figura dell’Ombra nell’analisi junghiana - è integrato e accolto nel proprio mondo psichico e sociale. Nel discorso di fine anno, il presidente Mattarella ha affermato che “la vera sicurezza si realizza preservando e garantendo i valori positivi della convivenza”. Gli psicoanalisti riprendono le sue parole, ben sapendo che l’accoglienza è una prova nobile e difficile e la convivenza è “una paziente tessitura da costruire nel quotidiano, sfidando paure e diffidenze reciproche inevitabili” (Spi). *Professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma Stati Uniti. Sbatti il carcere in prima pagina di Riccardo Staglianò Venerdì di Repubblica, 12 aprile 2019 Un quarto della popolazione carceraria mondiale è negli Usa. Com’è potuto accadere lo abbiamo chiesto a Bill Keller. Che dopo il New York Times va a Sing Sing. Nella classifica dei tanti possibili sinonimi di “inferno in terra”, l’A.D.X. Florence si piazza discretamente bene. La specialità del penitenziario di massima sicurezza del Colorado è l’isolamento fino a 24 ore al giorno contro le sole 23 degli altri supermax. Ma se questo trattamento è riservato all’élite criminale, anche gli altri carcerati americani non se la passano troppo meglio. Per cominciare sono tantissimi: 2,2 milioni nel 2016, poco meno dell’1 per cento della popolazione, a cui vanno sommati quasi altri cinque in vari regimi di libertà vigilata. Così, con solo il 4 per cento della popolazione mondiale, gli Stati Uniti conquistano il triste record di averne un quarto di quella al gabbio. Com’è stato possibile? Ne abbiamo parlato con Bill Keller che, dopo la direzione del New York Times, ha fondato e dirige (ancora per poco) il Marshall Project, una ong la cui missione è “creare un senso di urgenza nazionale sullo stato del sistema di giustizia criminale”. Vasto programma. È raro leggere di carcerati sui giornali. Come le è venuto in mente di occuparsi di loro? “È vero, i pubblicitari stanno alla larga dai carcerati e quindi anche i giornali. Quindi la gente non presta loro attenzione. Noi abbiamo provato a contrastare questo stato di cose e devo dire che qualcosa è successo se, nella pletora di candidati presidenziali democratici, sia Kamala Harris che Amy Klobuchar che Cary Booker si vantano tutti dei loro risultati nel settore della giustizia criminale. Non sarebbe mai successo prima. Non è tutto merito nostro, ovviamente, ma abbiamo dato una mano”. Come si convince un lettore a interessarsi a come vengono trattati omicidi e stupratori? “Mettendo una faccia sugli enormi numeri che citava. È l’unico modo per innescare l’empatia. La via più facile è trovare un innocente che magari si è fatto 10-15 anni dentro. Per i colpevoli, la stragrande maggioranza, è più difficile, ma pensi cosa può fare un bravo scrittore nel descrivere l’isolamento in una cella 3 metri per 2. Una rubrica molto popolare sul nostro sito è Life inside, ovvero la vita raccontata da prigionieri, secondini, familiari. E poi hanno creato dibattito alcuni nostri servizi sulle prigioni tedesche e norvegesi che, in confronto alle nostre, sembrano dormitori universitari. Costano meno e funzionano molto meglio”. La popolazione carceraria è quadrupla rispetto a quella dei primi anni 80. Cosa ha determinato il big bang? “L’inizio lo anticiperei alla war on drugs inaugurata da Nixon nel 1971. Prendersela soprattutto con i consumatori di crack voleva dire mirare ai neri e agli ispanici, cosa che è valsa importanti dividendi elettorali. In “The New Jim Crow” Michelle Alexander sostiene che il sistema carcerario è una nuova forma di schiavismo”. Ma l’aberrante regola dei threestrikes you’re out, per cui bastava compiere tre reati perché buttassero la chiave, è del 1994, epoca Clinton, e ha raddoppiato il numero degli ergastolani. “È senz’altro vero. Per molti osservatori, Clinton è il principale colpevole in questa storia”. E Donald Trump come si comporta? “Da una parte ha passato il First Step Act, che apporta alcuni miglioramenti nelle condizioni dei condannati. Dall’altra, ha creato un sistema detentivo parallelo, quello dei migranti arrestati, che è agghiacciante e peggiora il sovraffollamento che già lamentavamo”. Tra l’altro, come il vostro sistema sanitario, ha il doppio svantaggio di essere carissimo e con risultati pessimi. “Il bilancio ufficiale è di 80 miliardi di dollari all’anno. Ma i costi sociali complessivi, compresi i sussidi a chi esce e non trova lavoro o gli istituti per i figli dei detenuti, sono stati quantificati in un trilione di dollari”. Se diventasse segretario alla giustizia, che farebbe? “Partirei dai procuratori. Il pallottoliere del loro valore è il numero di condanne e la loro durata. Unità di misura sbagliate. Cambierei le leggi sul mandatory minimum sentencing che obbligano i giudici a infliggere pene troppo alte. Bisognerebbe riscrivere la giustizia minorile e rivedere le pene sulla droga”. Sta per lasciare il Marshall Project: che farà? “Credo che scriverò un libro. Terrò un corso a Princeton. E dovrei insegnare nel carcere di Sing Sing: sono stati cinque anni appassionanti e non intendo chiudere con le prigioni. Lascio una redazione di quaranta persone, giovani e altamente motivate. Addirittura in espansione: cercano quattro giornalisti”. Stati Uniti. “Dagos did it”: emigrati, italiani, linciati di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 12 aprile 2019 Una vicenda dimenticata della storia dell’emigrazione italiana negli Usa: 14 aprile 1891, strage di 11 immigrati nella capitale del jazz. Oggi, 128 anni dopo, le “scuse” del primo sindaco donna e afroamericana di New Orleans, la democratica LaToya Cantrell. È una vicenda dimenticata, se non del tutto sconosciuta, della storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti. Oggi, il primo sindaco donna e african-american di New Orleans, la democratica 47enne LaToya Cantrell, presenta alla comunità italo-americana le scuse ufficiali per il più grave ed efferato linciaggio di massa della storia americana. Nell’Ottocento, richiamati dai posti di lavoro lasciati dagli ex schiavi afroamericani, migliaia di meridionali italiani raggiungono la capitale del jazz. La notte del 15 ottobre 1890 viene ucciso il capo della polizia, David Hennessy, figlio di un poliziotto assassinato nel 1869 da un poliziotto. Famoso per aver catturato e consegnato all’Italia (che lo condanna all’ergastolo) nel 1881 il brigante Giuseppe Esposito, scappato a New Orleans. Nel 1882, processato per aver assassinato un poliziotto rivale, è assolto. Nel 1888 il sindaco Joseph Shakspeare lo nomina capo della polizia. Il 6 aprile 1890 - nella faida per il controllo dei commerci tra i Provenzano, eredi degli Esposito, e i Matranga, alleati con Macheca, ricco commerciante di agrumi siciliani - i Provenzano freddano due uomini dei Matranga. Hennessy incarcera sei Provenzano ma poi incrimina i Matranga e annunzia la sua testimonianza a favore dei Provenzano, dei quali è amico. Hennessy risponde sparando, ma non vede gli aggressori. Lo scontro è dovuto a contrasti che si trascinano da 30 anni dalla Sicilia tra la mafia e Stoppaglieri: a New Orleans le due famiglie rivali hanno ognuna tra i 200 e i 300 membri. Per la stampa l’assassinio è opera della “mafia, misteriosa setta siciliana, che qui esiste da parecchi anni”. Ricorda la sparatoria dei mafiosi, i sei morti e i quaranta omicidi. Un accusato è ucciso in carcere. La città vive nella paura, l’arrivo di un piroscafo carico di emigrati - considerati turbolenti e assassini - “desta grande emozione: si discute se non si debba opporsi colla forza allo sbarco di questi emigrati”. Il poliziotto O’Connor dice che Hennessy ha detto: “Dagos did it”, “Sono stati i latini”, ovvero della “bassa Italia”, senza dire i loro nomi. Dubbia, vaga e incerta, l’indicazione porta all’arresto degli italiani e scatena una vasta campagna razzista ed xenofoba. L’America, impaurita dal “fattaccio” ingigantito ad arte, blocca l’emigrazione della “feccia dell’Europa”. Al processo Emanuele Polizzi, sconvolto, in preda a una violenta emozione, senza essere interrogato, parla in siciliano e alle intimazioni del giudice non tace. Ottenuto un interprete confessa e accusa gli altri di essere stati pagati. Antonio Abbagnato, Antonio Scafidi, Emanuele Polizzi, Bastiano Incardona, Antonio Marchesi, Pietro Monasterio, Giuseppe Macheca e Carlo Matranga, si dichiarano innocenti. Li difende Thomas Semmes e lo fa quando è certo dell’innocenza dei clienti. Nonostante la forte e chiara volontà di incastrarli, gli imputati - dopo 25 giorni - sono assolti, tranne tre per i quali i giurati non si accordano sulla pena. Il giudice Baker è ritenuto intelligente, imparziale e onesto ma per una leggenda i giurati sono stati pagati. Nessuno si domanda né come, né dove dei poveri emigrati possano aver trovato le ricchezze necessarie. Gli imputati rimangono a “disposizione” della legge per verificare se hanno altri reati e, con una forzatura giuridica, sono rinchiusi nel carcere. Non si capisce perché degli imputati assolti finiscano in carcere. lo sceriffo Gabriel Villère, con un bando, convoca per sabato 14 marzo 1891, alle 10, i “bravi cittadini”, chiedendo di essere “pronti all’azione”. Venti minuti dopo una folla inferocita, “dalle dodicimila alle ventimila persone”, precisò il quotidiano Harpès Weeklg del 28 marzo 1891, stranamente già organizzata e armata per una reazione così immediata, abilmente aizzata e incitata, comandata dall’avvocato William Parkerson e Wickliff, assale la prigione, sfonda le porte a colpi d’ascia e i custodi consegnano le chiavi. Il console italiano Pasquale Corte segue con preoccupazione la riunione e con il procuratore generale chiede invano l’intervento della polizia. Il primo fucilato è Antonio Scafidi. Il minorenne Aspero Marchesi, risparmiato per l’età, è travolto e schiacciato. Giuseppe Macheca è il secondo. Sei - tra i quali Antonio Marchesi, il padre di Aspero - scappano per una scala ma sono bloccati nel cortile e fucilati. Il calzolaio Pietro Monasterio, gravemente ferito, li supplica di ucciderlo e lo accontentano. Antonio Abbagnato è impiccato ad un ramo. Emanuele Polizzi, balbetta frasi sconnesse, è legato con una corda al collo a un lampione. Si arrampica ed è ucciso in un orrendo tiro al bersaglio. Sono undici le persone uccise. Otto, nascosti sotto le ampie gonne delle prostitute, si salvano. Una folla inferocita di duecentocinquantamila persone sfila per cinque ore davanti ai cadaveri: le donne inzuppano il fazzoletto nel sangue e strappano lembi dei vestiti per trofei e macabri ricordi. Ai bar si celebra e si brinda alla “giustizia” sommaria del popolo inferocito. Parkerson, portato a spalle in trionfo, congeda la folla esaltata: “Ora tornate e casa e Dio vi benedica”. Poi negherà di aver partecipato al linciaggio: “la legge aveva traviato” e ha ubbidito alla folla gridando: “Andiamo!”. Sa che non ci vuole coraggio ad assalire uomini inermi ma erano “rettili velenosi”. Conclude: “Non rimpiango l’accaduto. Finché la mafia si contentò di ammazzare i propri membri noi non siamo intervenuti; ma l’uccisione di Hennessy colpiva le istituzioni americane alla radice. Le intimidazioni della mafia e la corruzione dei giurati domandavano misure rigorose. Non riconosco nessuna autorità superiore al popolo”. Per il sindaco hanno “agito bene”. Aggiunge: “Sono cittadino americano, non ho paura neppure del diavolo. Questi uomini meritavano di essere impiccati. Quando sentii che erano stati assolti, rimasi paralizzato sulla sedia. Sono stati puniti con mezzi legali da pacifici cittadini, ossequienti alla legge. Si è ripetuto qui quello già fatto in Italia. La mafia colà era diventata troppo forte e il sovrano vi ha posto rimedio. Qui pure il sovrano - il popolo - ha provveduto. Sono pronto a difendere i pacifici italiani, non costoro… Essi inalberarono la bandiera siciliana sopra l’americana, uno fu visto calpestare la nostra bandiera”. Legale il linciaggio e pacifici cittadini ossequienti alla legge?! I responsabili non saranno mai perseguiti. Per la Giuria, il popolo “agì in modo che è difficile determinare la colpa”, la città simpatizza e non è possibile sanzionare gli imputati. Per il console Corte si è sparso sangue innocente e le autorità non l’hanno impedito. La stampa sollecita e incoraggia le rappresaglie contro gli italiani, insultati e percossi. Alla Camera dei deputati, il 16 marzo 1891, Di Rudinì risponde a Giovanni De Breganze e a Maggiorino Ferraris accennando alle promesse americane di punire i responsabili: per Ferraris sono indegni di un popolo civile e gli emigrati erano stati dichiarati innocenti. Il 30 aprile 1891 Di Rudini presenta il Libro Verde sui fatti. Il 14 maggio Angelo Quintieri, deputato calabrese, denunzia che la vertenza si trascina da due mesi in trattative diplomatiche, che allontanano da una riparazione pronta ed efficace. L’eccidio, “atto inumano”, è grave: per i cittadini, sotto la vigilanza e la protezione della legge, stigmatizza la giustizia a furor di popolo. Per Di Rudinì non bisogna esagerare, è questione giuridica. Il New Yorh Herald manda un giornalista in Sicilia. A Caccamo (Pa) incontra la moglie e la madre di Monasterio, che, abbracciandosi e piangendo, mostrano i figli orfani e le lettere ricevute dalla prigione e giura di essere innocente. Per i paesani era un onestissimo calzolaio andato in America per lavorare, per i debiti e la famiglia. Non sono mafiosi e non chiedono vendetta, ma giustizia e verità. La Gazzetta Piemontese - l’odierna La Stampa - dell’11 maggio 1891 sottolinea il contrasto tra un’azione brutale di chi a sangue freddo assale una prigione, trucida barbaramente uomini inermi dichiarati innocenti dalla legge e l’assoluta sicurezza di un “mezzo concittadino dei linciatori”, tra le montagne della Sicilia, tra i parenti che - invece di vendicare i loro cari minacciando il giornalista - lo commuovono coi loro pianti e uno spettacolo straziante. Gli emigrati protestano. Imponente il meeting di New York con oltre ottomila persone. Da New York, G. P. Morosini invia un assegno di 25 dollari al direttore del Progresso Italo-Americano, scrive: “la protesta contro il barbaro macello dei nostri fratelli sia calma e dignitosa, onde gli americani apprendano che mentre noi italiani, in questi paesi, siamo rispettosissimi delle leggi ed anche della libertà e della gloriosa bandiera stellata, pur nondimeno vogliamo essere rispettati e trattati da eguali e non come negri o cinesi”. L’americano George Francis Train telegrafa al presidente Benjamin Harrisson: “Pagate danni indennizzando italiani assassinati prima che l’Italia faccia rappresaglie”. Si sfiora la crisi diplomatica: a Washington, l’ambasciatore Francesco Saverio Fava protesta: le autorità non hanno impedito la riunione, l’assalto e il massacro. Chiede di proteggere gli italiani sempre minacciati, di consegnare i responsabili del massacro alla giustizia e invoca un’energica repressione e provvedimenti per tutelare la colonia italiana. Richiamato in patria presenta le dimissioni. Quando il presidente Harrison definisce l’assassinio collettivo di New Orleans “un’offesa alla legge e un crimine contro l’umanità”, il Congresso protesta per incriminarlo con l’impeachment. La proposta di indennizzare le famiglie delle vittime con 2 mila e 500 dollari cadauna è accolta a suon di fischi. 128 anni dopo il sindaco di colore di New Orleans LaToya Cadrell tenterà di cancellare una brutta pagina di storia. Italia esporta in Messico “modello Roma”, lavori pubblici per detenuti onuitalia.com, 12 aprile 2019 Il modello italiano di lavori di pubblica utilità per i detenuti “Mi riscatto per Roma” sarà trasferito al sistema penitenziario messicano. L’impegno è stato confermato dai rappresentanti delle delegazioni di Italia, Messico e Unodc (l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine) nel corso della Conferenza sui programmi di reinserimento sociale e sulle buone pratiche internazionali, che si è svolta nell’Aula del Senato della Repubblica messicana. “La nostra esperienza parla di reinserimento sociale ma soprattutto di un nuovo modello di sicurezza. Vogliamo partecipare insieme al Messico a un programma che può essere replicato in tutte le carceri del mondo”, ha detto il coordinatore nazionale della task-force per il lavoro di pubblica utilità del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Vincenzo Lo Cascio, invitato dal rappresentante Unodc, Antonino De Leo, a parlare alla conferenza. Il Rappresentante Unodc in Messico, da parte sua, ha definito il progetto italiano “un modello vincente, che permette concretamente il riscatto della persona”. Parole raccolte favorevolmente da Francisco Garduño, Capo dell’Amministrazione penitenziaria messicana, e dalla senatrice Patricia Mercado, che ha presieduto l’assemblea. Perché l’impegno nato in questi due giorni di incontri fra le delegazioni di Italia, Messico e Unodc si trasformi in realtà l’Ufficio delle Nazioni Unite metterà a punto un documento per organizzare le forme di collaborazione e assistenza più adeguate a una prima sperimentazione in uno o più istituti penitenziari messicani. Gran Bretagna. Assange in arresto a Londra su richiesta americana di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 aprile 2019 Ha gli occhi sgranati di chi non crede a ciò che sta succedendo e parla in modo concitato, mentre viene portato fuori dall’ambasciata dell’Equador a Londra da sette poliziotti in borghese. Julian Assange, capelli lunghi legati a coda e barba bianca, è trascinato quasi di peso per le braccia e le gambe, poi caricato su un furgoncino e portato via. Finisce così - con l’esecuzione di un mandato d’arresto britannico del 2012 per violazione delle regole della cauzione - l’asilo politico del fondatore di Wikileaks. La notizia si rincorreva da alcuni giorni, da quando il ministro degli Esteri dell’Equador, Josè Valencia, aveva fatto sapere che il governo stava riesaminando la richiesta di asilo del giornalista e così è avvenuto. L’Equador gli ha revocato l’asilo, per questo l’ambasciata di Quito a Londra ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine britanniche e lo ha espulso dall’edificio dove risiedeva come ospite dal 2012, per evitare l’estradizione in Svezia per un caso di violenza sessuale (dopo che la sua accusatrice aveva richiesto la riapertura dell’inchiesta). “la trasgressione delle convenzioni internazionali, hanno portato la situazione in un punto in cui l’asilo è insostenibile e impraticabile”, è stato il commento di Valencia. Nelle ore concitate dopo l’arresto, due sarebbero le notizie ufficiali. Una, proveniente dall’Equador, secondo cui Assange avrebbe violato più volte le regole dell’asilo e delle convenzioni internazionali, per questo il paese sudamericano “ha agito nell’ambito dei suoi diritti sovrani”, ha affermato il presidente ecuadoregno Lenin Moreno, sostenendo anche di aver ricevuto garanzie dal Regno Unito che Assange non verrà estradato in un paese dove rischia la pena di morte. La seconda, invece, arriva da Washington, confermata da Scotland Yard: ad Assange è stato notificato “un ulteriore mandato d’arresto a nome della autorità Usa alle 10.53, dopo il suo arrivo alla sede centrale della polizia di Londra”, e si tratta di “una richiesta di estradizione sulla base della sezione 73 dell’Extradition Act”. Dopo l’arresto, Assange è stato portato in commissariato “dove resterà, prima di essere portato di fronte alla corte di Westminster”, hanno fatto sapere le autorità locali. Il suo avvocato, Barry Pollack, ha confermato che l’arresto è avvenuto “in relazione di una richiesta di estradizione degli Stati Uniti”, sottintendendo dunque che la vera ragione della misura cautelare non sia l’esecuzione del vecchio mandato di arresto ma l’intenzione degli Stati Uniti di processarlo per spionaggio e diffusione di segreti di Stato per lo scandalo Wikileaks (con cui diffuse centinaia di documenti segreti del Pentagono, inviatigli dall’ex analista Chelsea Manning), per cui rischia 5 anni di carcere. “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati”, ha aggiunto, affermando che il suo cliente non ha fatto altro che rendere pubbliche informazioni: “Se l’atto di accusa reso pubblico parla di partecipazione ad un complotto per commettere reati informatici, le vere accuse però si riferiscono all’azione tesa ad incoraggiare una fonte a fornirgli informazioni e a sforzarsi di proteggere l’identità di una fonte”. Immediate reazioni sono arrivate in particolare dalla Russia, con la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha definito l’arresto “La mano della democrazia che strangola la gola della libertà”. Su Twitter è arrivato anche il commento del whistleblower americano Edward Snowden, che ha parlato di “momento buio per la libertà di stampa”. Anche il Movimento 5 Stelle si è espresso contro l’iniziativa britannica e il sottosegretario all’Interno, Carlo Sibilia, si è attivato per verificare la possibilità (per ora improbabile) di concedere ad Assange l’estradizione in Italia. Gran Bretagna. Arresto di Assange: governi vigliacchi contro chi rivela i loro crimini di Daniele Archibugi Il Manifesto, 12 aprile 2019 Occorre difendere Julian Assange per proteggere le nostre libertà. I giornalisti e gli editori mostrino coraggio e scioperino a difesa di un loro collega. Se avessero tenuto fede alla propria natura democratica, i governi lo avrebbe dovuto ricoprire di encomi perché il meccanismo da lui creato rende più facile individuare i reati di chi, incaricato di agire nell’interesse pubblico, opera contro i cittadini. Julian Assange è responsabile di una sola cosa: aver permesso, tramite WikiLeaks, di esporre i segreti custoditi dai governi finalizzati a spiare, spremere e opprimere i loro stessi cittadini. Se avessero tenuto fede alla propria natura democratica, i governi lo avrebbe dovuto ricoprire di encomi e di premi, perché il meccanismo da lui creato rende più facile individuare i reati di chi, incaricato di agire nell’interesse pubblico, opera contro i cittadini. Un governo democratico dovrebbe incoraggiare la trasparenza e proteggere gli organi di stampa che la promuovono giacché la trasparenza è fondamentale per combattere corruzione, abusi di potere e crimini di guerra. Al contrario, chi espone pubblicamente le malefatte e i delitti del regime, viene perseguitato e accusato di essere una spia e un traditore. I governi - siano essi alleati o rivali - si ritrovano oggi stretti in una Santa Alleanza contro gli insubordinati che hanno il coraggio di mostrare pubblicamente i loro crimini. La perenne persecuzione di disobbedienti come Edward (ora Chelsea) Manning, Edward Snowden e Assange, è funzionale per evitare di essere rendicontabili. Chi comanda può avere indulgenza nei confronti dei whistleblower (gli spifferatori) che denunciano i misfatti compiuti dai privati, ma quando è il loro stesso operato ad essere esposto, diventano spietatamente vendicativi. Già nel 2012 la civilissima Svezia aveva incriminato Assange con l’accusa infamante di violenza sessuale senza che le presunte vittime fossero disposte a confermare le accuse. Assange si è dichiarato pronto a farsi processare per questi crimini, a condizione che le autorità svedesi si impegnassero a non estradarlo negli Stati uniti, una assicurazione che non è mai pervenuta, confermando che l’obiettivo della Svezia non era perseguire un presunto stupratore, ma fare un favore agli americani. Quando Stoccolma ha fatto decadere le accuse, Assange non ha potuto riacquistare la propria libertà perché sospettava che il governo inglese lo volesse svendere agli Stati uniti. Rintanato nell’ambasciata londinese del minuscolo stato di Ecuador, si è aggrappato al destino politico del Presidente uscente Rafael Correa. Caduto questo ultimo baluardo, il nuovo Presidente Lenín Moreno ha ben presto deciso di liberarsi dell’ingombrante fardello, certo di ottenere la benedizione americana. Il governo ecuadoregno, dopo essersi tenuto un richiedente asilo per sette anni, ne ha consentito il sequestro, il governo Sua Maestà Britannica ha dimostrato di essere telecomandato da una potenza straniera. Il diritto internazionale è palesemente rimpiazzato dalla legge del più forte. Theresa May, pronta a rinforzare l’asse strategico Anglo-Americano per il dopo Brexit, non ha aspettato un minuto: solo dopo aver sequestrato Assange, il governo inglese ha confermato ciò che fino a ieri nessuno voleva dire, ossia che c’è una richiesta di estradizione da parte degli Stati uniti. Con una faccia di bronzo, Theresa May ha dichiarato che “nessuno è sopra la legge”, senza che abbia detto quali siano i crimini di cui è sospettato. Solo il Giudice della Southwark Crown Court Michael Snow, che sembra debba pronunciare la sentenza il prossimo mese, ha finalmente trovato un capo di accusa, ossia avere “il comportamento di un narcisista che non può andare oltre il proprio interesse egoistico”. Possibile che la giustizia inglese, uno dei più antichi sistemi liberali, non si renda conto di quanto ridicole siano queste accuse? La verità è che i governanti che vogliono avere le mani libere e per farlo devono punire duramente chi ha il coraggio di dire “il re è nudo!”. Sorprende in queste ore quanto siano deboli le voci di chi si erge a difendere Assage e la libertà di stampa. I governi europei stanno ancora tutti zitti per paura di incrinare relazioni diplomatiche incerte. Sono ancora assenti le reazioni sdegnate degli intellettuali e le manifestazioni dei partiti politici e dei sindacati. L’unico paese che ha avuto il coraggio di dire qualcosa è stato il meno autorevole, la Russia di Putin, che ha sulla coscienza una lunga strage di giornalisti e oppositori. Il nuovo sovranismo si scaglia compatto contro chi gli toglie la maschera: guai eterni a chi osa esporre il volto feroce del potere. Occorre invece difendere Julian Assange per proteggere le nostre libertà. I giornalisti e gli editori mostrino coraggio e scioperino a difesa di un loro collega. Hanno la possibilità di usare i propri strumenti per mettere all’indice le persone di governo, i magistrati, gli avvocati, gli agenti segreti e i poliziotti che agiscono a difesa degli abusi di potere. Se non la combattiamo da soli, la Santa Alleanza dei governi continuerà in grande segretezza a fare i propri comodi calpestando le nostre libertà. Libia. La linea rossa che non può essere varcata di Alessandro Orsini Il Messaggero, 12 aprile 2019 Il generale Haftar ha attaccato la città di Tripoli senza giustificazioni alla sua scelta. Ha semplicemente dichiarato che il governo di Tripoli è nemico della Libia e ha avviato le operazioni militari. Difficile immaginare un’aggressione più smaccata, tanto più che il governo di Tripoli è nato sotto l’egida delle Nazioni Unite e che, proprio mentre Haftar annunciava l’attacco, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si trovava a Tripoli per un incontro con il premier Sarraj. Gli Stati Uniti, Guterres e persino la Nato hanno condannato l’attacco di Haftar, che però non si è fermato. E così il governo Conte si è domandato come sia possibile che Haftar continui ad avanzare, nonostante le più grandi potenze del mondo gli chiedano di arretrare. Per ottenere risposta, il governo Conte ha ideato uno stratagemma diplomatico. Dal momento che sono tutti d’accordo sul fatto che Haftar è responsabile di un’aggressione immotivata, l’Italia ha chiesto all’Unione Europea di approvare un documento di aperta condanna contro l’agguerrito generale ed è poi rimasta in attesa di vedere quale Paese avrebbe eventualmente posto un veto. Quel Paese - salvo ripensamenti successivi - è la Francia. Salvini è giunto così alla conclusione che Macron sta difendendo Haftar e gli ha fatto sapere che, se la Francia vuole giocare alla guerra, l’Italia non resterà a guardare. Molti pensano che le parole del vicepremier Matteo Salvini siano figlie di un “temperamento”, ma non è questione di personalità. Nelle parole di Salvini c’è un discorso sullo Stato. Occorre infatti sapere che ogni Paese ha una propria “linea rossa” che non può essere valicata. Gli americani utilizzano l’espressione “interesse strategico vitale” per indicare i comportamenti che gli Stati stranieri devono evitare per non incorrere nella reazione della Casa Bianca. La Siria è interesse strategico vitale per la Russia; il controllo delle alture del Golan è interesse strategico vitale per Israele; impedire ai curdi di creare uno Stato nel nord della Siria è interesse strategico vitale per la Turchia ed è interesse strategico vitale dell’Arabia Saudita che l’Iran non acquisisca la bomba atomica. Allo stesso modo, Salvini sta chiarendo che la Libia è interesse strategico vitale per l’Italia e questo ci porta all’assedio di Tripoli che, se cadesse, finirebbe sotto il controllo del generale Haftar, a sua volta controllato dalla Francia. Appare evidente, dall’analisi dei combattimenti in corso e delle armi impiegate, che il peso militare ed economico di Haftar è pari a quello di un granello di sabbia. Ne consegue che, una volta conquistata Tripoli, che è addirittura più debole dei suoi assedianti, Haftar non avrebbe alcuna possibilità di governare la Libia in modo libero e indipendente, come invece assicura nei suoi comunicati. Tra Haftar e la Francia si verrebbe a creare lo stesso rapporto che esiste tra Putin e Assad, dove il primo assicura al secondo il diritto di poter dire: “Io sono”. Questo, almeno nel breve periodo, non sarebbe, per forza di cose, un male per l’Italia, verso cui Haftar sarebbe tutt’altro che ostile. Il bisogno di denaro e di sostegno politico per stabilizzare il suo potere traballante lo renderebbero incline a ogni gesto di riguardo verso Roma. Il problema è che la conquista di Tripoli sarebbe un male per la Libia che, con ogni probabilità, non assisterebbe alla fine della guerra civile, ma a una sua prosecuzione con nomi e protagonisti diversi, tanto più che Haftar ha 75 anni: l’inizio della crisi di successione sarebbe questione di ore, non di ere. La politica internazionale è fatta soprattutto di forze oggettive, che sono rappresentate da tutti quegli elementi non modificabili dalla volontà individuale, tra cui figura anche l’età anagrafica. Il segretario generale dell’Onu sta chiedendo insistentemente ad Haftar di fermarsi non perché preferisca Roma a Parigi, ma perché sa bene che le poche forze del generale non sono sufficienti a unificare la Libia, semmai a dividerla ulteriormente. In sintesi, ad Haftar mancano i soldi, un buon esercito e anche buoni protettori. Arabia Saudita. Restano in carcere attiviste: torturate e minacciate di stupro di Michele Giorgio nena-news.it, 12 aprile 2019 Si sperava in altre scarcerazioni. Invece nessuna delle attiviste saudite per i diritti civili delle donne e per i diritti umani a processo la scorsa settimana a Riyadh è stata rilasciata come il mese scorso era accaduto (in via temporanea) per tre di loro: la blogger Eman al Nafjan, la docente universitaria Aziza al Yousef e la predicatrice Ruqayya al Mohareb. Con evidente delusione l’ong saudita “Prigionieri di coscienza” ieri ha twittato: “La terza udienza del processo si è conclusa senza alcun verdetto contro di loro e senza alcun rilascio temporaneo”. La prossima udienza è stata fissata per il 17 aprile. Le attiviste di cui invano i centri per diritti umani e altre parti internazionali hanno chiesto il rilascio, sono state arrestate circa un anno fa, poche settimane prima della revoca del divieto alla guida per le donne. Sul banco degli imputati, tra le altre, ci sono Loujain al Hathloul - Amnesty International denuncia che è stata minacciata di stupro mentre era in detenzione da Saud al-Qahtani, un ex stretto consigliere del discusso erede al trono Mohammed bin Salman - Aziza al Yousef e Hatoon al Fassi, entrambe docenti universitarie, le giornaliste e blogger Eman al-Nafjan e Nour Abdel Aziz, e Samar Badawi che da anni lotta per far annullare il sistema del “tutore maschio” per le donne saudite. Le attiviste sono sotto processo per accuse che includono contatti con media stranieri, diplomatici di altri Paesi ed esponenti dei diritti umani. Le famiglie delle detenute denunciano di essere state intimidite da agenti dei servizi di sicurezza. “Siamo sotto pressione da tutte le parti, voglio farci rimanere in silenzio”, ha scritto su twitter Alia, sorella di Loujain al Hathloul. “Quando siamo rimasti in silenzio - ha aggiunto - sono state praticate le peggiori torture. Resterò zitta solo quando Loujain sarà con noi e coloro che l’hanno torturata saranno messi sotto processo”. La scorsa settimana - ha riferito l’agenzia di stampa Afp - alcune delle donne sono crollate mentre testimoniavano, raccontando di aver subito torture e molestie sessuali in detenzione. Hanno riferito di essere state frustrate sulla schiena e sulle gambe e sottoposte a scosse elettriche da uomini mascherati. Torture e abusi sono avvenuti durante gli interrogatori l’anno scorso a Gedda prima di essere trasferite a Riyadh, dove le attiviste sono state processate. Almeno una delle detenute ha cercato di suicidarsi in seguito ai maltrattamenti subiti. Il governo saudita nega che le donne siano state torturate o molestate. Durante le udienze ai giornalisti che lavorano per media stranieri, ai diplomatici e altri osservatori indipendenti non è stato permesso di entrare in aula. Il processo in corso aggiunge nuove accuse al regno saudita, in particolare principe ereditario Mohammed bin Salman, per gravi violazioni dei diritti umani, dopo l’indignazione globale per l’omicidio, lo scorso ottobre, del giornalista dissidente Jamal Khashoggi compiuto nel consolato saudita a Istanbul da agenti segreti inviati da Riyadh. Sudan. Finisce l’era di Bashir, ma il potere resta nelle mani dei militari di Francesco Battistini Corriere della Sera, 12 aprile 2019 Colpo di Stato a Khartoum, arrestato il presidente. Il ministro della Difesa leader provvisorio. Alle 6 del mattino, sulla tv di Stato va in onda un cartone animato. Di colpo, lo schermo si fa nero. Una scritta: “Tra poco, un importante annuncio delle Forze armate”. Passa qualche istante. Poi, ecco il ministro della Difesa, Ahmed Awad Ibn Auf: “Il regime è finito, il suo capo è in un luogo sicuro”. Lo scarno comunicato dice tutto: dopo trent’anni di regime e quasi quattro mesi di proteste, il primo e unico presidente del Sudan indipendente, il dittatore Omar al-Bashir, è deposto nel tempo d’uno spot. E una nuova alba. Le strade si riempiono subito d’una folla immensa e incredula. Suonano i clacson, si sventolano bandiere. Si chiudono le frontiere e l’aeroporto. S’aprono le galere, escono i prigionieri politici e vi entra un centinaio d’amici del regime. Si ordina di cessare il fuoco nel Darfur e si sospende la Costituzione del 2005. C’è un Consiglio militare di transizione, adesso, e a comandarlo sarà Auf, numero due del regime: resterà in carica due anni, proprio come quella giunta militare che nel 1989 portò Bashir al potere. Un maquillage ai vertici che non piace alle opposizioni e all’Associazione dei professionisti sudanesi, da dicembre il motore delle proteste contro la triplicazione del prezzo del pane e l’azzeramento d’ogni libertà. “Non vogliamo al potere le stesse facce di prima”, avverte Alaa Salah, “la principessa nubiana”, l’universitaria 22enne che nei giorni scorsi ha arringato le folle diventando il simbolo della rivolta: “Vogliamo un governo di transizione civile”. La giunta ha imposto un mese di coprifuoco notturno, dalle 22 alle 4, ma ieri sera i sit-in davanti ai palazzi del potere continuavano: da queste prime notti sarà chiaro se la protesta terminerà con la fine di Bashir, oppure no. Le Primavere africane continuano. Dopo Mugabe nello Zimbabwe e Bouteflika ín Algeria, a 75 anni lascia un altro eterno leader. Travolto dall’incapacità di capire un Paese sfinito da trent’anni di guerre, sanzioni, pugno di ferro: “I topi tornino nei loro buchi”, la sprezzante risposta al malcontento. Ex parà che combatté Israele nella Guerra del Kippur, amico dell’ex leader iraniano Ahmadinejad e di Osama bin Laden che ospitò a Khartoum, impoverito dalla secessione del Sud Sudan (che s’è portata via il 70 per cento delle ricchezze petrolifere), Bashir aveva tentato negli ultimi anni d’uscire dal - l’isolamento internazionale: accusato dal tribunale dell’Afa per il genocidio del Darfur, 300 mila morti e 2,5 milioni di sfollati, s’era unito ai sauditi nell’avventura militare nello Yemen, coltivando rapporti con Assad in Siria, con Mosca, con la Turchia. Non gli è bastato. Raccontava sempre che il suo famoso dente mancante fosse un vezzo: “Non ne voglio uno finto, l’ho perso da bambino quando lavoravo e lo voglio tenere per ricordarmi chi ero, ogni mattina, quando mi specchio”. Il sorriso gli si è spento, specchiarsi sarà più difficile. Sudan. Un golpe “cinese” e la maledizione del greggio di Fabio Carminati Avvenire, 12 aprile 2019 Non lo ammetteranno mai. Ma dietro ci sono loro, i cinesi. Il Sudan, alla fine degli anni Ottanta, è stato il primo approdo africano di Pechino. A caccia dei pozzi di petrolio dell’Upper Nile, delle concessioni e della garanzia della sicurezza con l’invio di detenuti cinesi condannati a morte a guardia dei pozzi in cambio dell’amnistia. Questa è ormai storia, come lo è diventata quella del primo vero golpe certificato “Made in China”, cioè quello dello Zimbabwe nel novembre 2017. Allora i guanti bianchi, con i quali hanno confezionato ieri il benservito a Bashir, non erano ancora in dotazione. I blindati di fabbricazione cinese nelle strade del centro di Harare, mentre il dinosauro Robert Mugabe passava la mano incredulo, li hanno infatti fotografati tutti. Già allora si parlò di una seconda fase della penetrazione cinese in Africa, quella dell’indirizzamento delle politiche locali. Ora il concetto è rafforzato, anche perché tutti sanno da tempo che a reggere le fila e la borsa del Paese è Pechino. Ma dietro alle proteste di piazza, questa volta, c’era ben altro. La crisi economica che ha affamato la popolazione è solo uno degli elementi, non va infatti dimenticato che a dirigere la protesta non era l’inesistente opposizione bensì le classi medie, gli insegnanti, i professionisti. Stanchi di una situazione incancrenita da anni. La piazza che ieri non ha accettato che gli stessi che hanno servito per anni Bashir restino nei palazzi del potere. Per due anni, sospendendo ogni seppur minima garanzia costituzionale. Passando da un regime pseudo-elettorale a un regime tout court. Si arriverà a un’esibizione muscolare degli stessi soldati che si sono rifiutati di sparare sulla folla, lasciando il lavoro sporco ai paramilitari di regime? E la Cina che farà? Dietro c’è sempre la fame di petrolio, la dispnea energetica esistenziale dell’economia di Pechino, povera di risorse e ricca di manodopera. Ma anche il controllo sociale è fondamentale. Qui però la questione si intreccia a filo doppio anche con un altro protagonista, recente, della storia regionale: il Sud Sudan. Buona parte dei pozzi di petrolio della zona di confine tra il Sudan dell’allora dittatore Bashir e il neonato Stato meridionale sono in aree di fatto “non ancora definitivamente assegnate”. Miliardi di dollari che in buona parte spettano al Sud. Da lì le voci sempre più insistenti delle responsabilità esterne nel conflitto che apparentemente oppone il presidente Salva Kiir e il suo attuate primo vicepresidente Riek Machar. Che, ironia della storia, ieri erano entrambi riuniti in Vaticano per incontrare papa Francesco proprio mentre a Khartum andava in onda il più classico dei colpi di stato. Entrambi nei mesi scorsi hanno promesso pace, firmato il sesto accordo di tregua. Ma la situazione resta tesissima: la gente muore ancora di fame e gli sfollati restano centinaia di migliaia. Una situazione che, affermano alcuni analisti locali, con la caduta di Bashir ora potrebbe, paradossalmente, peggiorare. L’uomo che per trent’anni ha passato più tempo a liberarsi dei rivali di corte che amministrare il Paese, il dittatore che in Darfur ha perpetrato le stragi più sanguinose avvalendo si della ferocia di miliziani islamici pronti a tutto, è infatti (anzi era) tra i garanti dell’accordo. Come l’altro dinosauro dell’Africa centrale, l’ugandese Yoweri Museveni, che non ha mai nascosto lo sue mire sul Sud Sudan. Quel presidente che dalla crisi dei Grandi Laghi ha guadagnato ricchezze immani in materie prime con l’occupazione dell’Est del Congo. E che ora, a sua volta, ha perso un altro elemento della stabilità della regione: il super-ricercato dalla Corte penale, Omar Hasan Ahmad el-Bashir.