Suicidi, sovraffollamento e pochi fondi, viaggio nel girone infernale delle carceri di Fabio Tonacci La Repubblica, 11 aprile 2019 I detenuti hanno superato di nuovo quota sessantamila. Il Garante: “Una volta fuori temono una vita da reietti” Mai stati così allarmanti i numeri sui suicidi in carcere. Eppure non allarmano quasi nessuno. L’anno scorso 64 detenuti si sono uccisi in cella. E altri 1.200 ci hanno provato, senza riuscirci. Sul Venerdì di Repubblica, in edicola domani, raccontiamo quello che sta accadendo nelle nostre prigioni, ripercorrendo la storia di reclusi come Hassan Sharaf, 21 anni, morto a Viterbo dopo essere finito in isolamento, quando mancavano 47 giorni alla fine della pena; o come quella di Pier Carlo Artusio, 48 anni, Milano; di Michele Spagnuolo, 78 anni, Taranto... Colpa del sovraffollamento? In parte sì, visto che i detenuti hanno di nuovo superato quota sessantamila, cioè 13.608 in più di quelli per cui ci sarebbe posto. Ma un dato fa riflettere: i più fragili non hanno davanti condanne lunghissime, anzi. “Soffrono la paura del rientro in società, perché spesso l’unico orizzonte che li aspetta è una vita da reietto” dice Mauro Palma, Garante dei diritti dei detenuti. Fuori, un mondo di incertezze; dentro, condizioni insopportabili. L’isola toscana di Gorgona, per esempio, una volta era considerata un carcere modello, “a misura d’uomo”, mentre oggi - come racconta Marco Sarno nel suo reportage - è una struttura in declino, dove ci si aggrappa alla speranza che il mare sia calmo, altrimenti la visita mensile dei parenti salta, e dove la mancanza di fondi ostacola ogni progetto di lavoro, sicché “resta solo il tempo” dice un detenuto, “che però non passa mai”. Uno dei problemi “è attirare l’attenzione all’esterno, suscitare empatia” dice l’ex direttore del New York Times Bill Keller, ora alla guida del Marshall Project (una ong la cui missione “è creare un senso di urgenza nazionale sullo stato del sistema di giustizia criminale”). Nell’intervista di Riccardo Staglianò, Keller racconta quello che accade negli Stati Uniti, dai costi fuori controllo alle condizioni agghiaccianti dei migranti arrestati nell’era Trump. Ma ricorda anche che il numero degli ergastolani è raddoppiato all’epoca di Clinton. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2019 I detenuti al 41bis lamentano l’inosservanza delle ordinanze dei giudici di sorveglianza. Accade spesso, esclusivamente quando sono ordinanze che hanno accolto i ricorsi dei detenuti al 41bis, che le direzioni delle carceri non ne danno esecuzione. Su Il Dubbio abbiamo parlato del caso emblematico di Viterbo. A denunciare l’accaduto è stata l’avvocata Francesca Vianello, riferendosi al reclamo vinto dal suo assistito, Salvatore Madonia - figlio dello storico boss di Cosa Nostra Francesco Madonia, che si trova in carcere dal 1991 e condannato al 41bis dal 10 luglio del 1992. “Abbiamo vinto un reclamo dinanzi il Tribunale di sorveglianza di Roma - spiegò l’avvocata Vianello a Il Dubbio - che ha ordinato di disapplicare la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nella parte in cui dispone lo spegnimento della tv dalle 24 alle 07 ma, nonostante questo, non stanno eseguendo l’ordinanza e hanno detto al detenuto di fare richiesta di ottemperanza”. Alla fine è riuscito ad ottenere ciò che gli spettava, ma solo dopo la richiesta di ottemperanza. Accade dappertutto, così come il discorso delle ore d’aria. Nonostante la sentenza della cassazione sull’aria d’aria sottratta, diversi istituti penitenziari che ospitano il 41bis non applicano ciò che ha deciso la corte suprema. La sentenza, resa pubblica ad ottobre del 2018, nel respingere un ricorso del ministro della Giustizia avverso un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari in tema di fruizione di ore all’aperto, ha chiaramente affermato che in esito a una lettura sistematica delle norme in materia “la sovrapposizione della permanenza all’aria aperta e della socialità costituisce un’operazione non corretta”. Sì, perché molti istituti penitenziari che ospitano il 41bis, hanno interpretato, in senso restrittivo, la circolare del Dap che ha uniformato le regole del carcere duro. Come? Il detenuto nel regime duro può usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative- sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Il detenuto deve, quindi, scegliere come impiegare le due ore massime di accesso all’aria aperta. Fino a poco tempo fa permaneva l’interpretazione restrittiva che non coglie le riflessioni prospettate di recente da parte della dottrina e di una parte della giurisprudenza di merito, che - in presenza di determinate condizioni soggettive e alla luce di fattori ambientali favorevoli - ha ribadito l’importanza di concedere al detenuto in regime di 41bis la possibilità di accedere all’aria aperta per due ore al giorno, senza con ciò penalizzare eccessivamente lo stesso, scomputando da tale soglia i servizi “rieducativi” garantiti dall’istituto penitenziario. Ma, come detto, i detenuti, singolarmente, per ottenere ciò che i magistrati hanno ordinato, devono fare sempre ottemperanza, perché l’amministrazione penitenziaria non esegue. I problemi legati all’osservanza effettiva delle ordinanze della Magistratura di sorveglianza, competente a regolare le modalità applicative del regime speciale e a decidere sui reclami a esse inerenti, proposti dalle persone detenute ai sensi dell’articolo 35bis dell’ordinamento penitenziario e che hanno per oggetto la lamentata violazione di diritti, è stato evidenziato anche dall’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. “Il profilo di criticità - si legge nel rapporto del Garante - si è rivelato all’osservazione diretta e concreta della mancata esecuzione di tali provvedimenti giudiziari da parte delle Direzioni degli Istituti, destinatarie delle ordinanze e chiamate, pertanto, a rispettarle e a darvi esecutività: l’effettiva esecutività degli ordini disposti dall’Autorità giudiziaria per porre rimedio alle violazioni dei diritti riconosciute si persegue, in buona parte dei casi, soltanto attivando il giudizio di ottemperanza”. Per questa ragione il Garante nazionale, che ha avuto modo di rappresentare il problema anche al Csm, confida nell’intervento del Parlamento per la verifica dell’operato degli Organi amministrativi rispetto alle pronunce giurisdizionali e per l’eventuale revisione della procedura del reclamo giurisdizionale in termini di rafforzamento dell’esecutività immediata delle ordinanze giurisdizionali. Circolare Inps. Ambiti ristretti per il lavoro dei detenuti di Vittorio Spinelli Avvenire, 11 aprile 2019 Dare lavoro a un detenuto o ad altre persone carcerate - una finalità di diverse cooperative anche di ispirazione religiosa-viene premiato con lo sgravio del 95% dei contributi complessivamente dovuti all’Inps. L’evidente funzione sociale di questa agevolazione (avviata sin dal 2014 col decreto 148) è tuttavia circoscritta, per motivi di sicurezza e di controllo, al settore delle cooperative sociali che si occupano dell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate e che, in questo ambito, assumono persone detenute in semilibertà oppure ammesse al lavoro esterno. Il beneficio punta anche a favorire l’occupazione degli ex degenti dimessi dagli ospedali psichiatrici ed è esteso alle aziende pubbliche e private che operano all’interno delle carceri e di altri ambienti penitenziari. Tutti gli enti interessati possono utilizzare lo sgravio dei contributi previa un’apposita convenzione con l’amministrazione penitenziaria centrale o periferica. Dal 2019 tuttavia devono presentare ogni anno una formale domanda di ammissione al beneficio sia per i rapporti di lavoro già in corso o precedentemente autorizzati sia per le nuove assunzioni. La richiesta viene accolta rispettando l’ordine di presentazione all’interno della disponibilità dei fondi. Sono ammesse le assunzioni con contratto a tempo oppure indeterminato, anche part time, compresi i rapporti di apprendistato. L’Inps precisa tuttavia che “in considerazione della particolare natura del rapporto di lavoro e delle modalità di svolgimento della prestazione, non è possibile riconoscere il beneficio per rapporti di lavoro domestico” (circ. 27/2019). Si tratta tuttavia di una interpretazione dell’Istituto di previdenza che non trova una espressa preclusione nelle norme di riferimento. L’esclusione dell’Inps per il lavoro domestico (che si presume ispirata dalla cautela per possibili abusi) sembra contraddire la finalità dell’agevolazione sui contributi. A maggior ragione, a motivo del severo filtro all’ammissione delle domande, che a partire da quest’anno è stato imposto alle organizzazioni che si dedicano al recupero sociale dei detenuti. Non ultimo, la preclusione ricade sulle cooperative specializzate nell’inserimento lavorativo, le più diffuse del settore, con una presenza per oltre 1’86% sull’ultimo campionamento nazionale (rilevazione Istat 2017). Islam e carcere: la fede un possibile antidoto alla radicalizzazione di Simone Disegni reset.it, 11 aprile 2019 Quanto fa la somma di Islam + carcere? Nell’immaginario collettivo d’Europa, specie dopo la lunga scia di attacchi compiuti o tentati da “lupi solitari” freschi di detenzione, l’associazione delle due sfere riporta di regola alla mente lo scenario da incubo della radicalizzazione: la disperazione, la rabbia, l’indottrinamento, la fine della pena come via libera per portare a compimento azioni distruttive, piuttosto che traguardo di reinserimento nella società. E se invece il rapporto tra fede (islamica) e permanenza in carcere avesse il volto opposto? È la direzione cui invita a guardare un nuovo rapporto pubblicato dal Grist, il Gruppo Italiano di Studio sul Terrorismo, al termine di una lunga indagine sul campo in una delle case circondariali più grandi del Paese, quella delle Vallette di Torino. Il pericolo jihadista - Il rischio che le carceri europee sfornino ridde di aspiranti “combattenti” per la causa islamista, ben inteso, è concreto e pressante. Da Mehdi Nemmouche, l’autore dell’attacco al museo ebraico di Bruxelles del 2014 costato la vita a quattro persone, a Benjamin Herman, il killer islamista che terrorizzò Liegi lasciando a terra tre vittime lo scorso maggio, la storia degli ultimi anni è troppo piena di fallimenti per non porre la questioni in termini d’emergenza per i servizi di giustizia e intelligence del continente. Senza contare le schiere di foreign fighters formatisi all’ideologia jihadista nei “buchi neri” delle città, e spesso in carcere, prima di partire per il fronte siriano - il cui destino toglie ora il sonno ai governi europei. Se Francia, Belgio e Germania sono indubbiamente i Paesi più tormentati dalla questione, anche l’Italia non è immune dal germe della radicalizzazione. Un pericolo evidenziato dalla vicenda di Anis Amri, l’attentatore dei mercatini di Berlino consolidatosi nelle proprie convinzioni jihadiste nelle prigioni siciliane, ma anche dai numeri del ministero della Giustizia. Secondo l’ultimo rapporto annuale, i detenuti nel cosiddetto “circuito di Alta sicurezza 2” per reati legati al terrorismo islamico internazionale erano a ottobre 2018 66. Cui vanno aggiunti i 478 detenuti segnalati per radicalizzazione jihadista in prigione: 233 di livello alto, 103 di livello medio e 142 di livello basso. Dall’esperienza multiforme delle carceri italiane, suggerisce ora lo studio del Grist, potrebbero emergere però delle indicazioni interessanti, anche in chiave europea, sul ruolo della fede dietro le sbarre: come antidoto alla rabbia e alla radicalizzazione anziché come loro benzina. Terapia spirituale - Analizzando la correlazione tra adesione alla propria fede, sintomi di depressione ed estremismo di matrice islamica, gli autori della ricerca, coordinata dall’ex presidente della Società Italiana di Psichiatria Carmine Munizza, giungono a due importanti e distinte conclusioni sulla funzione della religione in carcere. Da un lato la sua funzione “terapeutica” per combattere la depressione, una piaga che colpisce in maniera significativa i detenuti: la misura del benessere psicologico - osserva il rapporto - mostra una forte correlazione positiva “con l’adesione alle pratiche, l’internalizzazione, l’introiezione, l’esclusivismo e l’universalità dell’Islam”. Dall’altro, e in forma strettamente connessa, il suo ruolo di prevenzione e contenimento di derive fondamentaliste. Non è un caso, naturalmente, che le indicazioni dei ricercatori emergano da uno studio di dettaglio svolto tra i detenuti di un carcere molto particolare: in base a un protocollo d’intesa firmato tra lo Stato e l’Ucoii - l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia - la Casa circondariale Lorusso e Cutugno è una delle prime in Italia a garantire ai propri detenuti musulmani l’esercizio regolare della fede sotto la guida di imam garantiti dall’Ucoii. Preghiere e conforto religioso regolari, insomma, senza il rischio di imam fai-da-te e proseliti senza controllo. “In questo modo - sottolinea l’ex magistrato Francesco Gianfrotta - non solo si garantisce un diritto costituzionale fondamentale come quello al culto, ma si abbatte la tensione e si diminuiscono i conflitti”. Il timore di preghiere, sermoni e momenti di approfondimento spirituale, sembra suggerire il rapporto, non solo non ha senso di essere, ma dovrebbe essere rovesciato. “La religione rappresenta un mezzo importante attraverso il quale sopravvivere all’esperienza della detenzione”, scrivono ancora i ricercatori sulla base delle interviste e dei dati raccolti: anche riconnettendo il detenuto schiacciato dal peso della propria colpa con la famiglia, la terra d’origine, le proprie radici, tradizioni e valori. Presumere di avere individuato la ricetta perfetta per contrastare la radicalizzazione sarebbe eccessivo, insomma, ma - sottolinea un altro dei coordinatori del gruppo di ricerca, lo psichiatra Elvezio Pirfo - “rispondere ai bisogni dei detenuti anche con soluzioni creative resta la strada maestra”. Contesto degradato - Gli “appunti di viaggio” messi insieme dal Grist anche a favore di policy-makers e decisori politici segnalano però anche le troppe lacune che ancora minacciano l’efficacia della “via italiana” al contenimento della radicalizzazione. Prima fra tutte, l’incombenza largamente dominante della dimensione securitaria, pur nella grande varietà degli istituti penitenziari: per troppi detenuti l’esperienza del carcere coincide con “la sofferenza, la privazione della propria dignità, l’umiliazione di essere considerato uno scarto della società”. E non certo con quel percorso di riabilitazione umana e sociale che dovrebbe costituire il cuore della pena. Né il personale carcerario ha nella maggior parte dei casi il tempo e la preparazione per saper contrastare eventuale “germogli” di radicalizzazione, come le recenti direttive europee indicherebbero. In queste condizioni, il rischio di mettere a repentaglio la preziosa esperienza di prevenzione di derive fondamentaliste è forte. Dati alla mano, ora però è impossibile ignorare la via da seguire. Il Viminale: “Via i balordi dai quartieri”. Arriva il mini daspo, basta la denuncia di Cristiana Mangani Il Messaggero, 11 aprile 2019 È una sorta di mini-daspo, qualcosa che tenga lontano da alcune zone della città i malintenzionati: spacciatori, ladri, venditori abusivi, violenti. Le prime ordinanze anti-balordi sono partite da Bologna e da Firenze, dove già in passato i prefetti avevano dichiarato delle zone off limits. E nei giorni scorsi la prefettura del capoluogo toscano ha mostrato il cartellino rosso a chi è stato denunciato in città per spaccio, percosse, rissa, lesioni personali, danneggiamento di beni e commercio abusivo su aree pubbliche. L’iniziativa non sarà circoscritta a Bologna e a Firenze, perché ieri il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha fatto sapere che verrà allargata a livello nazionale. “Darò direttive - ha spiegato - affinché simili provvedimenti scattino in tutta Italia. Nessuna tolleranza per degrado e illegalità”. Le ordinanze si basano sulle disposizioni previste nel decreto legge n.14/2017, convertito in legge n. 48/2017, con il quale vengono stabilite le “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza urbana”. In particolare, all’articolo 9, è disciplinata “la possibilità di sottoporre a tutela determinati contesti urbani compresi nelle tipologie indicate dalla norma, tra i quali le aree adibite a verde pubblico”. Da qui - è scritto nel documento prefettizio - “il divieto di stazionare in determinati luoghi ai soggetti che ne impediscano la accessibilità e la fruizione con comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di tale area”. A Firenze, il “daspo anti-balordi” si applica anche nei confronti di chi abbia soltanto una denuncia per i reati già elencati. E questo vuol dire che la persona individuata dalle forze dell’ordine come” non gradita”, verrà allontanata da determinati luoghi. La stessa cosa varrà per Bologna, dove i divieti riguardano la zona del Parco della Montagnola e l’area del centro storico, dove l’anno scorso si erano verificati incidenti e aggressioni, oltre che lo spaccio di droga. La condizione sarà valida anche nei confronti di chi è in compagnia di persone che hanno precedenti. Insomma, una sorta di black list che verrà continuamente aggiornata e che avrà più che altro un valore di tipo preventivo, perché se uno spacciatore decide di violare la disposizione, non è detto che venga scoperto. Il prefetto gli intima di non andarci, spetta poi alla persona interessata decidere se rischiare o meno di vedere aggravata la sua posizione dal punto di vista penale. La direttiva che Salvini sta preparando suggerisce ai prefetti come modello proprio le due ordinanze e chiederà alle prefetture di irrigidire le posizioni seguendo questa direzione. Del resto, è stato Matteo Piantedosi, all’epoca prefetto di Bologna e attuale capo di gabinetto del ministero dell’Interno, il primo a istituire il divieto di stazionamento in una specifica zona della città a chi era stato arrestato o denunciato nell’ambito dei controlli nell’area. Le applicazioni attuate sono già decine. È previsto che quando una persona viene fermata in un’area in cui era stata colpita da arresto o denuncia per fatti commessi all’interno, viene allontanata. Se poi viola l’allontanamento, la denuncia ulteriore sarà per inottemperanza a provvedimento dell’Autorità. Il Viminale ai prefetti: “Creare delle zone rosse contro spaccio e degrado” di Fabrizio Caccia e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 aprile 2019 Aree vietate per chi è stato denunciato. Nardella: sono d’accordo. “Zone rosse” in tutte le città italiane dove sarà vietato entrare a chi è stato denunciato per spaccio di sostanze stupefacenti, reati contro la persona e danneggiamento dei beni. È l’ultima indicazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha annunciato “direttive affinché tutti i prefetti seguano l’esempio dei colleghi di Firenze e Bologna che hanno emanato ordinanze anti-balordi prevedendo l’allontanamento di questi soggetti da alcune aree”. Provvedimenti che si ispirano ai Daspo urbano, ma stanno già suscitando numerose polemiche. Si tratta infatti di misure che non sono personali, ma generalizzate, e già questo suscita perplessità. Ma soprattutto coinvolgono persone che hanno subito soltanto una denuncia e dunque potrebbero essere ritenute incostituzionali perché superano il principio di non colpevolezza. Dal Viminale chiariscono che s i tratta di “interventi eccezionali che mirano a superare il degrado”, ma adesso bisognerà verificare dove e come si deciderà di estendere questo divieto. Il primo a emanare questo tipo di direttiva era stato Matteo Piantedosi, il 17 dicembre 2017, quando era prefetto di Bologna e al Viminale c’era il ministro Marco Minniti. Era stato varato un decreto sicurezza che prevedeva una serie di limitazioni nelle aree ritenute a rischio e dunque sulla base di quella legge c’erano margini di intervento, anche se numerosi giuristi evidenziarono i rischi legati a “una gamma di sanzioni solo nominalmente amministrative ma che si traducevano in realtà in provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale”. Bisognava comunque intervenire nell’aerea del Parco della Montagnola dove stazionavano decine di nigeriani e dunque si decise un intervento straordinario di sei mesi proprio per “garantire l’accessibilità e la fruizione della zona alla popolazione rappresentata da minori e nuclei familiari”. E dunque fu stabilito “il divieto di stazionamento per chi sia stato denunciato dalle forze di polizia per il compimento di attività illegali legate agli stupefacenti, ma anche percosse, rissa, lesioni personali, danneggiamento di beni e commercio abusivo su aree pubbliche”. Il sindaco del Pd Virginio Merola approva e chiede che l’ordinanza sia estesa “anche alla zona universitaria”. Scaduto il periodo di validità, il nuovo prefetto Patrizia Impresa ha deciso di firmare una nuova ordinanza identica alla precedente. Aree interdette sono state decise anche a Firenze. Nell’elenco c’è Fortezza Da Basso, il Parco delle Cascine, via dei Servi, piazza dei Ciompi, ma anche alcune strade del centro storico. Spiega il prefetto Laura Lega: “Il nostro obiettivo è garantire la massima sicurezza e la piena fruibilità del centro storico alla cittadinanza. Firenze è una città sicura e noi vogliamo rafforzare e consolidare l’azione già messa in atto dalle forze di polizia e dalla municipale”, che negli ultimi mesi hanno incrementato i servizi di prevenzione e controllo “per rendere più difficile il radicamento di fenomeni di illegalità e di degrado”. L’ordinanza ha una validità di tre mesi e al termine di questo periodo si dovrà valutare se le misure siano state efficaci o se - come accaduto a Bologna - non siano servite davvero come deterrente. Per ora plaude il sindaco Dario Nardella: “È un provvedimento senz’altro utile che rafforza l’azione che le forze dell’ordine stanno svolgendo nel nostro territorio, nonostante il fatto che siano sotto organico e siano in attesa di agenti che devono venire da Roma come promesso. Noi come Comune abbiamo collaborato attivamente, perché credo che il gioco di squadra possa essere molto utile, anche se è giusto che l’apporto più rilevante per la sicurezza dei cittadini sia dato dallo Stato”. Ernesto Bettinelli, 72 anni, membro dell’Associazione italiana costituzionalisti, professore emerito dell’università di Pavia, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con delega alla Funzione Pubblica) del primo governo Prodi, legge l’ordinanza e la ritiene “non irragionevole”, anche se sottolinea la necessità che il tempo sia “limitato”. “Questo tipo di provvedimenti - chiarisce - non mi scandalizza, anche se incide sulle libertà fondamentali dell’individuo come la libertà di circolare, perché si tratta di una misura che non è permanente, dura solo tre mesi. Direi che ricalca i provvedimenti presi in Francia contro i casseurs. O può essere avvicinata al Daspo, anche se qui considera solo i comportamenti fisici dei danneggianti. È una misura di prevenzione e si riferisce a situazioni che devono essere protette, zone degradate, parchi con le siringhe che mettono a repentaglio i bambini. Si parla di Firenze e Bologna, ma io che sono lombardo posso dire che anche a Rozzano per fronteggiare lo spaccio sono state prese misure di questo tipo. Non vedo profili di incostituzionalità, mail soggetto colpito, assistito da un buon avvocato, potrà sempre ricorrere davanti al giudice ordinario”. Crollano gli omicidi in Italia. E solo il 5% spara di Lorenzo Mottola Libero, 11 aprile 2019 Rapporto della Polizia: i morti ammazzati sono scesi in un anno da 105 a 89. I numeri sulla criminalità in Italia diffusi da Polizia e Istat dipingono una realtà che fa a sberle con il ritornello cantato quotidianamente dalla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione. Ci raccontano di un’impennata di femminicidi, quando il numero è sostanzialmente stabile. Sostengono ci sia un rapporto diretto tra la diffusione di rivoltelle e i crimini violenti, ma alla fine solo 5 delitti su 100 sono commessi da individui che detengono lecitamente una pistola in casa. Per il resto nel raptus ci si arrangia con quel che c’è: coltelli, soprattutto. Ma siccome diventa difficile pensare di sequestrare tutti i servizi di posate da Siracusa a Bolzano, in maniera un po’ sterile ci si concentra su altri ferri. Lo stesso principio vale per la legittima difesa: da quando la Lega (e pure Libero, nel suo piccolo) ha lanciato la campagna per riformare la legge in materia, i nostri concittadini sono descritti come cowboy psicopatici pronti a sforacchiare il primo poveraccio che imbocca il vialetto di casa, anche se si tratta del garzone del pizzaiolo. In realtà parliamo di episodi assolutamente inconsueti, frazioni infinitesimali: circa lo 0,12% del totale delle morti violente. In generale, è più frequente che sia il rapinatore a uccidere, insomma. Poi c’è un’altra sorpresa. Secondo uno studio dell’Università la Sapienza di Roma, le regioni dove è diffusa “una cultura sportiva armiera” (a tal proposito, suggeriamo di colpire piattelli piuttosto che povere bestie) sono in assoluto quelle dove si spara di meno al prossimo. Le doppiette sarebbero “un efficace deterrente all’abuso”, dice la ricerca coordinata dal professor Paolo De Nardis. In altre parole, se siete cresciuti con la carabina dello zio appesa alla parete della cantina, è statisticamente meno probabile che voi siate un potenziale omicida. Questo perché “l’apprendimento di meccanismi automatici di sicurezza, unito alla consapevolezza della cura e attenzione che il maneggio delle armi richiede, si concretizzano in una vera e propria cultura della sicurezza”. Non c’è quindi da allarmarsi se effettivamente i dati indicano un costante aumento della presenza di prodotti Beretta, Glock e simili. Siamo passati dai 110mila pezzi del 2007 ai 140mila al 2017. E in questo stesso periodo le vittime sono scese da 632 a 357. E anche lo scorso anno i primi dati diffusi dalle questure indicano che la tendenza è sempre positiva: da 105 a 89, per quanto riguarda le indagini effettuate dalla Polizia di Stato. E siccome tutto va bene, l’Europa ovviamente si muove nella direzione opposta. Un paio d’anni fa, sull’onda degli attentati a Parigi, il Parlamento di Bruxelles ha varato una direttiva che limita drasticamente la diffusione di bocche da fuoco. La teoria: meno kalashnikov significa meno terroristi. In pratica, però, è ovvio che i fanatici islamici (come i criminali) non si servono dei negozi, ma seguono canali illegali per rifornirsi e commettere stragi. L’Ue, tuttavia, non sembra considerare questo ragionamento valido, così ha varato una riforma che limita la diffusione di rivoltelle e penalizza pesantemente quei Paesi che, come l’Italia, sono da sempre produttori. Questo settore da noi vale lo 0,5% del Pil. Parliamo di un giro d’affari di circa 7 miliardi l’anno che coinvolge cinquecento imprese e migliaia di dipendenti. Aziende bastonate in nome dell’illusione di vivere più sicuri. Eppure che non sia così lo dimostra un’altra classifica, quella delle nazioni dove in generale circolano più fucili. In Europa in testa ci sono la placida Svizzera e la sonnolenta Finlandia, dove un furto di un portafogli fa notizia quanto lo scoppio di un’atomica. Il Codice rosso già esisteva, inapplicato. Lo strano caso delle norme da “ribadire” di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 11 aprile 2019 Il 3 aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato la legge sul “Codice Rosso”. Tuttavia avendo analizzato il testo, la domanda che sorge spontanea in chi quotidianamente si occupa di queste materie, è se fosse davvero necessaria l’approvazione di un provvedimento del genere. Non si fraintenda: la ratio del progetto è assolutamente lodevole e lontana dal poter essere bersaglio di qualsivoglia “censura”. Tuttavia, concentrandosi sulle questioni meramente tecniche e mettendo da parte le ragioni politiche sottese all’approvazione della legge, occorre chiedersi se il “Codice Rosso” sposti davvero gli equilibri. Se davvero cioè sia in grado di mettere a disposizione della magistratura e delle vittime nuovi strumenti. La riforma mira a velocizzare l’instaurazione del procedimento e l’adozione di eventuali misure cautelari. In questo senso, il provvedimento prevede che, nei casi di delitti di genere, gli agenti di polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferiscano immediatamente al pubblico ministero, anche mediante comunicazione orale, alla quale seguirà senza ritardo quella scritta. È doveroso evidenziare come, a livello procedurale, tutti gli strumenti disciplinati dalla riforma, vi siano già. Basta solo utilizzarli. In particolare, per quanto riguarda l’iscrizione della notizia di reato, il codice di rito all’articolo 335 prevede già ora che il pubblico ministero iscriva immediatamente ogni notizia di reato che gli pervenga. In questo senso, la riforma non sposta, dunque, gli equilibri formali. Ciò che invece cambia è la classificazione di alcune tipologie di reato secondo un codice di importanza (“rosso”), che velocizzerà il corso delle relative indagini. Ma ragioniamo: è davvero necessario e soprattutto utile per la giustizia italiana creare delle procedure a doppia velocità, senza, peraltro, disciplinarne le modalità in maniera puntuale ed organica? Se, per esempio, alla Procura della Repubblica perviene la notizia di un reato di stalking, questa dovrebbe, secondo la nuova normativa, far accantonare le altre indagini - che magari riguardano un reato di omicidio o di spaccio internazionale di stupefacenti - per dare assoluta priorità, invece, al predetto reato? L’esempio è volutamente forzato ma non pare lontano dalla realtà: chi deciderà quali ipotesi meritano di essere accantonate a favore dei reati di genere? Il rischio è quello di andare a creare non soltanto delle categorie di reati con diverse “velocità” ma addirittura fattispecie penali di “seria a” e “serie b”. Questo fa riflettere. Eppure, come già detto, gli strumenti per contrastare i fenomeni di violenza sulle donne sono puntualmente disciplinati dal codice di procedura penale nel libro quarto, rubricato proprio “Misure Cautelari”. In questo senso, occorre rilevare come il pm, sotto il costante vaglio del gip, possa già adesso immediatamente sottoporre l’ipotetico responsabile ad una misura restrittiva, nelle more del processo, per tutelare la persona offesa. Lo stesso pubblico ministero ha, peraltro, anche la possibilità di convocare immediatamente la persona offesa per sentire le sue dichiarazioni. Forse, anziché ribadire e rafforzare procedure e strumenti già disciplinati, sarebbe stato opportuno agire sul piano dell’organico in forza presso i Palazzi di Giustizia. In tal senso, l’emblema della grave crisi d’organico che stanno vivendo i Tribunali, le Procure e le Corti è il caso di Stefano Leo. Peraltro, lo stesso infortunio valutativo è stato compiuto, a parere di chi scrive, con la legge spazza corrotti, riforma che ha modificato la norma della prescrizione, sancendo che questa sia sospesa dopo la sentenza - di condanna o assoluzione - di primo grado e ritenendo, infondatamente, che questa fosse la via per abbreviare la durata dei processi. È in questo senso che il provvedimento sulla violenza di genere risulta perlomeno incompleto: se da un lato, infatti, l’inasprimento delle pene dal punto di vista del diritto sostanziale ha una sua riconoscibile, seppur assai discutibile “ratio”, dall’altro lato è doveroso, dal punto di vista tecnico, annotare come il ddl “Codice Rosso” porti con sé troppe carenze logico- giuridiche che rischiano di complicare ulteriormente la - già grave - situazione delle Procure e dei Tribunali italiani, a discapito anche delle persone offese e degli avvocati. *Direttore Ispeg - Istituto degli studi politici, economici e giuridici “Carcere per i giornalisti? Follia, decida la Consulta” di Simona Musco Il Dubbio, 11 aprile 2019 Il caso di due cronisti di Salerno accusati di diffamazione. Dopo anni di discussione e dopo i richiami e le multe della Cedu - l’ultima nel 2019 per gli arresti domiciliari inflitti al direttore del Giornale, Alessandro Sallusti - sarà la Corte Costituzionale a dire se il carcere per i giornalisti è una misura legittima. Una possibile svolta, grazie all’eccezione di costituzionalità sollevata dall’avvocato Giancarlo Visone, del sindacato unitario dei giornalisti della Campania, difensore in un processo per diffamazione davanti al tribunale di Salerno di un ex collaboratore e del direttore del quotidiano “Roma”, per una vicenda risalente al 2012. Il giudice, ritenendo rilevante ai fini della decisione l’eccezione sollevata dal legale, ha disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Consulta, sospendendo il procedimento e i termini di prescrizione fino al pronunciamento dei giudici. Alla base della decisione diversi casi sui quali si è pronunciata la giurisprudenza nazionale e, soprattutto, europea. Secondo la tesi dell’avvocato Visone, “anche la sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa comporterebbe una limitazione eccessiva del diritto convenzionalmente e costituzionalmente tutelato della libertà di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa, previsto dall’articolo 13 della legge sulla stampa e dall’articolo 595, comma tre, del codice penale, violerebbe infatti gli articoli 3, 21, 25 e 27, nonché l’articolo 117 comma 1 della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Convenzione, la libertà d’espressione e d’opinione, nonché quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche, è un diritto. Nel caso Sallusti, arrestato a novembre del 2012 a seguito alla condanna definitiva per la denuncia per diffamazione e omesso controllo presentata contro di lui dal giudice Giuseppe Cocilovo, la Cedu aveva evidenziato come il carcere, nonostante si trattasse di un caso comprovato di diffamazione e violazione dei valori etici e della privacy, fosse una pena eccessiva e sproporzionata, in quanto la pena detentiva può essere inflitta, con le dovute cautele, solo in caso di pezzi che incitano all’odio, anche razziale ed alla violenza. In tutti gli altri casi, dunque, risulta lesiva del ruolo fondamentale che i giornalisti svolgono in una democrazia e della loro libertà di opinione/ stampa. Un caso sulla cui base, ora, la Consulta potrebbe finalmente decidere di dichiarare l’incostituzionalità della detenzione nei casi di diffamazione. “La Cedu non dice che il carcere è illegittimo in astratto, bensì che si tratta di una misura puramente eccezionale - spiega Visone al Dubbio - Quindi l’ordinamento interno può prevederla, ma in casi puramente eccezionali. Quello che abbiamo ritenuto, e che il tribunale di Salerno ha condiviso, era che l’attuale normativa italiana, specie per quanto riguarda l’articolo 13 della legge sulla stampa, relativo alle pene per il reato di diffamazione, non prevede proprio questa alternativa, nel senso che se c’è l’aggravante della diffamazione per mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto specifico, l’unica pena che il giudice applica è quella detentiva, a prescindere dal fatto che si tratti di casi eccezionali. Sotto questo profilo, si è ritenuto che potesse paventarsi un problema di legittimità con l’articolo 10 della Cedu e con l’articolo 21 della Costituzione. L’ordinanza del tribunale di Salerno, condividendo la tesi e allargandola anche al comma 3 dell’articolo 595 del codice penale - in relazione all’attribuzione del fatto determinato ha portato la questione all’attenzione della Consulta, per verificare se effettivamente la normativa italiana è compatibile o meno”. È la prima volta che la questione viene posta sotto questo profilo. “Nei casi Belpietro e Sallusti - aggiunge Visone - la Cedu è intervenuta su sentenze di Cassazione per le quali i giudici avevano ritenuto compatibile con la Costituzione il carcere per i giornalisti. Quindi si riteneva che la normativa italiana fosse compatibile. In realtà, però, la Cedu ha sostenuto il contrario. Ed ecco che si pone un problema di interpretazione della normativa interna, perché effettivamente non c’è sufficiente chiarezza”. L’ordinanza di Salerno, facendo riferimento proprio ai casi Belpietro e Sallusti, ha evidenziato come “la richiamata giurisprudenza di legittimità non possa essere presa in considerazione come parametro di interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata in quanto la stessa si è poi rivelata, a posteriori, contraria all’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte Edu in materia, che nelle due occasioni di condanna a pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa non ha in effetti riconosciuto la sussistenza di nessuna “ipotesi eccezionale”. Secondo il giudice, inoltre, “è già la stessa previsione astratta di una pena detentiva - quindi la comminazione legislativa della stessa ad essere eccessivamente limitativa del fondamentale diritto di manifestazione del pensiero”, ma anche “irragionevole e totalmente sproporzionata”, nonché “non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato”. Soddisfatta la Federazione nazionale della Stampa italiana. “Sono anni che chiediamo che con una legge il Parlamento - affermano il segretario e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del Sugc, Claudio Silvestri - cancelli il carcere per i giornalisti. Una vera vergogna che nessun governo ha voluto affrontare seriamente e che spinge l’Italia in fondo alle classifiche sulla libertà di stampa. È sempre più urgente un intervento del legislatore su una materia fondamentale perché riguarda il diritto dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati. La recente condanna dell’Italia da parte della Cedu proprio per la presenza della pena detentiva per il reato di diffamazione non dà più alcun alibi al Parlamento”. Moby Prince, per la prima volta si indaga per strage di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 11 aprile 2019 Livorno, i familiari: “Così cade il rischio della prescrizione”. Ieri il corteo a 28 anni dalla tragedia. Si continua a indagare sul Moby Prince. E stavolta per strage. A 28 anni esatti dalla sciagura del traghetto della Navarma (140 morti e un solo superstite) la Procura di Livorno, diretta da Ettore Squillace Greco, ha ipotizzato per la prima volta il reato più terribile ma anche più atteso dai familiari delle vittime. La notizia ha scosso Livorno nel giorno delle cerimonie di commemorazione delle vittime. Nel porto toscano, la notte del io aprile 1991, la nave era salpata per raggiungere Olbia, poco dopo si era scontrata con la petroliera Agip Abruzzo ed era stata divorata dalle fiamme. “E stata una strage e dunque, come ha riconosciuto la Procura, si può ancora indagare perché non è prevista per questo reato la prescrizione”, commenta Carlo Alberto Melis Costa, legale dei familiari delle vittime. Lunedì scorso l’avvocato ha depositato un esposto nel quale s’ipotizza non solo un dolo eventuale ma anche diretto sulle responsabilità della tragedia. Nella denuncia si parla anche di un’esplosione di gas prima della collisione all’interno della nave accertata dalle analisi dei periti. E ancora si legge che “resta singolare la circostanza che la Moby Prince fosse l’unica nave assicurata dall’armatore per danni da terrorismo”. La nuova inchiesta della Procura livornese, che arriva dopo tre processi e un’altra inchiesta poi archiviata senza colpevoli e infine una decisiva della commissione parlamentare, pare si stia concentrando su presunte gravi omissioni nei soccorsi (con una ipotizzata sottovalutazione della sciagura da parte dell’allora comandante della capitaneria di porto) e su eventuali carenze nelle dotazioni interne della nave. Si parla di un sistema antincendio disattivato, mancanza di maschere antigas, di tentativi di manomissioni dopo la sciagura al timone e soprattutto di un colossale depistaggio. Che ha spinto i familiari delle vittime a presentare un secondo esposto, stavolta alla Procura di Roma, ipotizzando persino un tentativo di bloccare la commissione parlamentare d’inchiesta con false testimonianze e prove a discolpa inesistenti. Sempre ieri i familiari delle vittime hanno annunciato di aver avviato una causa civile contro lo Stato “perché ritenuto responsabile, attraverso le sue articolazioni periferiche, delle morti a bordo del Moby Prince” per non aver garantito la sicurezza. “Saranno citati in giudizio i ministeri delle Infrastrutture e dei trasporti, della Difesa e la presidenza del Consiglio”, ha spiegato l’avvocato Paola Bernardo. Il caso Cucchi e il rischio di una crisi devastante per l’Arma di Artuto Diaconale L’Opinione, 11 aprile 2019 Ilaria Cucchi ha vinto una battaglia che entrerà nei libri di storia imponendo con la sua determinazione il trionfo della verità nella vicenda della morte del proprio fratello. E ha avuto anche la forza di usare questa vittoria non per prendersi una rivincita morale sull’Arma dei carabinieri, ma per dare ampio riconoscimento alla Benemerita di essere in grado di autoriformarsi e rigenerarsi. Ma la vicenda Cucchi non si esaurisce con la vittoria di Ilaria. La questione che ora si pone non è più quella di stabilire che la vittoria della famiglia Cucchi comporta l’automatica sconfitta dell’Arma dei carabinieri, ma fare in modo che questa sconfitta non si trasformi in una disfatta per la stessa Benemerita. Il comandante generale Giovanni Nistri ha pensato che per evitare un rischio del genere sia opportuno far presentare l’Arma come parte civile nel processo ai carabinieri responsabili della morte del giovane tossicodipendente. Contro questa decisione si è schierato il colonnello Sergio De Caprio, presidente del sindacato dei carabinieri, più noto al grande pubblico come “Capitano Ultimo” artefice della cattura del capo mafioso Riina, secondo cui meglio avrebbe fatto il comandante generale a dimettersi dal proprio incarico piuttosto che far perseguire dall’Arma i suoi militari accusati di aver provocato la morte del fratello di Ilaria. È difficile stabilire se le dimissioni di Nistri chieste dal capitano Ultimo siano in grado, più e meglio della costituzione dell’Arma come parte civile nel processo, a cancellare l’onta che la vicenda Cucchi ha gettato sull’intero corpo. È molto più facile rilevare come l’iniziativa del colonnello De Caprio possa trasformare la vittoria di Ilaria in una valanga di polemiche e di discredito destinata a sconvolgere e travolgere l’asse portante delle Forze dell’Ordine del nostro Paese. Quale esigenza deve avere la prevalenza in una vicenda del genere? Quella della responsabilità oggettiva del comandante generale che diventa automaticamente il capro espiatorio di una colpa divenuta collettiva nel corso dei lunghi anni della battaglia di Ilaria? Oppure quella di dimostrare la capacità dell’Arma di autorigenerarsi chiedendo una punizione esemplare per quei suoi dipendenti che non hanno rispettato i valori su cui hanno pronunciato un solenne giuramento? Tra queste due esigenze c’è n’è una terza che non può non prevalere. Quella del superiore interesse del Paese. Una crisi dell’Arma sarebbe un colpo micidiale alla intera società nazionale. Petizione on line e proteste per migrante Berhe detenuto a Palermo askanews.it, 11 aprile 2019 Accusato di essere un trafficante; parenti: uno scambio di persona. Una petizione on line e raduni davanti alle ambasciate italiane per chiedere “giustizia per Medhanie Tesfamariam” Behre, il migrante eritreo detenuto da tre anni a Palermo con l’accusa di essere uno dei principali trafficanti di esseri umani dal Corno d’Africa all’Europa, Medhanie Yedhego Mered, noto come “il generale”. Così la diaspora eritrea si sta mobilitando in questi giorni sui social media, sostenendo che Behre è vittima di uno scambio di persona. Il giovane migrante eritreo, arrestato a Khartoum, in Sudan, nel maggio del 2016, venne estradato in Italia nel giugno dello stesso anno. All’indomani del suo arrivo in Italia, la sorella del migrante, Segem Tesfamariam Berhe, contattata da askanews a Khartoum, aveva detto: “Voglio dire alla polizia italiana che mio fratello è innocente, che non è il Medhanie che cercano”. E aveva inviato i documenti di identità a riprova delle sue affermazioni. Il processo in corso a Palermo è ormai giunto alle battute finali, con la sentenza attesa per metà maggio: l’uomo sotto accusa rischia fino a 25 anni di carcere. Nei giorni scorsi la diaspora eritrea sparsa tra Europa e Stati Uniti ha lanciato appelli su Facebook e ha tenuto raduni a Londra, Francoforte, Svezia e Grecia. Per domani è stata organizzata una manifestazione davanti all’ambasciata italiana di San Francisco, negli Stati Uniti, e il 12 aprile davanti alla sede diplomatica italiana di Oslo, in Norvegia. Il 4 aprile scorso, un eritreo che vive a Oslo, Elias Arefaine, ha anche lanciato una petizione al governo italiano su Change.org, che ha raccolto finora quasi 28mila firme, in cui si chiede “il rilascio dell’innocente Medhanie Tesfamariam”. Nell’appello per il raduno di San Francisco, postato su Facebook da un’altra sorella del migrante, Eden Tesfamariam, si legge che Medhanie “è ancora detenuto in Italia per uno scambio di persona”. “Per combattere contro questa ingiustizia, abbiamo raccolto e fornito prove, come hanno fatto anche la moglie e il figlio del trafficante”, ha aggiunto, facendo riferimento alla testimonianza resa dalla moglie del vero trafficante, secondo cui l’uomo in carcere non è suo marito. E al test del Dna eseguito sul figlio, che ha escluso ogni legame. “Il fratello e la sorella che vivono in California vi invitano a protestare e a dimostrare che è stato arrestato per uno scambio di persona e che deve essere liberato. Ci incontreremo davanti all’ambasciata italiana al 2590 Webster St, San Francisco, l’11 aprile 2019, alle 10 del mattino”, conclude l’appello della sorella. “Violazione della custodia” per il giornalista che copia provvedimenti giudiziari segreti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 10 aprile 2019 n. 15838. Commette il reato di “Violazione della pubblica custodia di cose” il giornalista che faccia copia di provvedimenti giudiziari tutelati dal segreto. Né rileva l’eventuale complicità del magistrato o comunque di un pubblico ufficiale. La Cassazione, sentenza n. 15838 di ieri, ha così confermato la condanna a un anno di reclusione (pena sospesa) nei confronti di un giornalista di “Repubblica” che nel 2010 aveva pubblicato un dettagliato articolo sull’inchiesta condotta dalla Procura di Trani sul cosiddetto “caso Rai-Agcom” in cui figurava come indagato Silvio Berlusconi, all’epoca Presidente del Consiglio dei ministri, per supposte pressioni volte a ottenere la chiusura del programma televisivo “Anno Zero” di Michele Santoro. La condotta contestata al ricorrente, ricostruisce la sentenza, è consistita nella “sottrazione dagli uffici giudiziari di Trani di una richiesta formulata dal P.M. circa l’autorizzazione all’utilizzazione di comunicazioni e conversazioni di un parlamentare intercettate nel corso di un procedimento riguardante terzi e, in parte, distruzione di altre conversazioni ritenute irrilevanti, che veniva fotocopiata e subito dopo riposta all’interno della stanza del magistrato”. “Poiché la P.A. - prosegue la decisione - subentra nel potere-dovere di prendere in custodia e di conservare la documentazione nel momento in cui l’ufficio la riceve, ogni abusiva manomissione di questa da chiunque effettuata viola il bene giuridico protetto dalla norma”. Per cui “qualora sia stata ispirata dallo scopo di violare la pubblica custodia dei documenti per conoscerne il contenuto, che doveva invece rimanere segreto, l’appropriazione seppure temporanea - deve essere inquadrata nella specie criminosa di cui all’art. 351 cod. pen.”. La Cassazione poi aggiunge che “se nella maggior parte delle ipotesi tale illecito viene commesso da soggetti estranei alla P.A., ciò non esclude che lo stesso possa essere realizzato da un intraneo”. Una tale evenienza è stata comunque esclusa da parte dei giudici di merito che hanno negato che al momento della apprensione de documento (e della successiva restituzione) vi fossero altri soggetti all’interno dell’ufficio. ln ogni caso, conclude la decisione, “la circostanza che il magistrato non fosse stato visto rientrare ed uscire dalla stanza in epoca contestuale alla restituzione del documento (a cagione del sensore di movimento contenuto nell’impianto di videosorveglianza), non assume alcun rilievo ai fini dell’integrazione del reato che non viene meno con l’eventuale concorso del pubblico ufficiale” (circostanza che rende evidente l’infruttuosa deduzione del ricorrente che ipotizza il possibile, ma smentito, concorso del pubblico ufficiale). Infine, riguardo alla acquisizione delle immagine dal circuito di videosorveglianza, la Cassazione precisa che “parlare, di “copia” di una riproduzione di sequenze di immagini di una scena di vita reale, laddove la videoregistrazione risulta essere ex se già una “copia” riproduzione degli accadimenti … è operazione meramente lessicale”. Certamente più corretto quindi è parlare di “trasferimento ovvero estrapolazione dei documenti in formato digitale”. Fatta questa “necessaria” premessa, la Corte conclude che i “file che riproducono le videoriprese effettuate per mezzo di impianti di videosorveglianza posti a tutela di uffici pubblici risultano essere dei documenti la cui acquisizione è regolamentata dall’art. 234 cod. pen”, sulla “prova documentale”. I movimenti sul c/c bancario devono essere giustificati nell’ipotesi di reati tributari Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2019 Reati tributari - Omessa dichiarazione dei redditi - Professionisti - Movimentazioni sul conto corrente - Devono essere giustificate. Le presunzioni previste dalle norme tributarie, pur non costituendo di per sé prova della sussistenza del reato, costituiscono dati di fatto che devono essere valutati dal giudice liberamente, insieme ad elementi di riscontro a riprova della illiceità della condotta. Sia i prelevamenti che i versamenti operati sul conto corrente devono essere imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nell’ambito della propria attività, se questi non dimostra o di averne tenuto già conto nella base imponibile o che sono estranei alla produzione del reddito. Il principio ha portata generale visto che si applica sia al reddito di impresa che a quello da lavoro autonomo e professionale. È del tutto irrilevante che la disposizione faccia riferimento al termine “ricavi” e non a quello di “compensi”. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 27 marzo 2019 n. 13334. Finanze e tributi - Accertamento - Presunzioni legali in materia tributaria - Natura giuridica - Valore probatorio nel processo penale - Utilizzabilità - Condizioni - Limiti - Fattispecie. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto inutilizzabile la presunzione contenuta nell’art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari). • Corte di cassazione, sezione III civile, sentenza 23 giugno 2013 n. 7078. Finanze e tributi - Accertamento - Presunzioni legali in materia tributaria - Natura giuridica - Utilizzabilità per l’applicazione di misure cautelati reali - Sussistenza. Le presunzioni tributarie non costituiscono di per sé fonte di prova della commissione di un reato, ma, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto liberamente valutabili dal giudice, possono essere posti a fondamento di una misura cautelare reale (nella specie, sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente). • Corte di cassazione, sezione III civile, sentenza 23 marzo 2013 n. 7078. Tributi erariali diretti - Accertamento delle imposte sui redditi (tributi posteriori alla riforma del 1972) - Accertamenti e controlli - Poteri degli uffici delle imposte - In genere - Prelevamenti e versamenti sui conti correnti bancari - Imputazione ex art. 32 del d.p.r. n. 600 del 1973 a ricavi conseguiti nell’attività di impresa - Estensione al lavoro autonomo e professionale - Ammissibilità. In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 - secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito - ha portata generale, nonostante l’utilizzo (nella versione applicabile “ratione temporis”) dell’accezione “ricavi” e non anche di quella “compensi” ed è applicabile, quindi, non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale. • Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 27 giugno 2011 n. 14041. Molise: la crisi perenne delle carceri molisane di Claudio de Luca termolionline.it, 11 aprile 2019 Voglio ricordare (a me stesso) che scrivo sui giornali locali dal 1964; ma mi accorgo - solo da qualche tempo - che parliamo sempre dei medesimi problemi, senza che manco uno abbia a risolversi. La cosa mi deprime, soprattutto quando debba occuparmi di geografia carceraria. Per fortuna, poi, mi riprendo, perché posso rilevare che non solo, “in alto loco”, non ascoltano me (che sono nessuno), ma che non ci si accorge manco degli alti lai di un Presidente della Repubblica. Tanti anni fa fu Giorgio Napolitano a definire “ineludibili” gli interventi per superare le criticità del sistema carcerario. Lo scrisse rivolgendosi al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in occasione del 193° Anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria ed a 20 anni dalla riforma che ne innovò l’assetto. “Mi auguro - disse il Presidente - che si arrivi al più presto a risultati concreti che soddisfino le attuali esigenze del sistema di gestione della pena e rendano meno oneroso il quotidiano svolgimento delle attività demandate alla Polizia Penitenziaria”. Ne parlò Alfano: “Il carcere non deve assolutamente tornare ad essere un’accademia del crimine; perciò è di fondamentale importanza che, al su interno, non sia consentito ad alcuno, di affermare, con intollerabili privilegi o sopraffazioni, il proprio rango criminale”. Purtroppo, nelle tre strutture penitenziarie del Molise (Campobasso, Isernia e Larino), a fronte di una capienza regolamentare di 270 detenuti, se ne trovano assiepati 407, di cui 127 stranieri. Lo certifica il ‘report’ del 31 marzo scorso del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Il carcere più affollato è quello di Larino, con 212 detenuti rispetto ai 114 previsti. Ma anche Campobasso non scherza (164 su 106). Solo Isernia non trasborda (appena 31 ospiti sui 50 di capienza). Alcuni anni fa si era ritenuto di risolvere questo problema di edilità spicciola, attivando prefabbricati da collocare all’interno delle strutture detentive; ma questa iniziativa era ipotizzabile solo nel centro frentano dove gli spazi sono notevoli. Purtroppo il CIPE poteva disporre solo di 200 milioni di euro a fronte del miliardo e mezzo preventivato. Perciò fu interpellata l’Unione europea, nella considerazione che il 30-40% dei detenuti rimane costituito da cittadini del vecchio continente o addirittura da extracomunitari. Dal canto suo, il Commissariato all’edilizia penitenziaria aveva cercato di attivare (2012) almeno 17mila posti-letto; ed il Dap, per cogliere l’obiettivo, aveva meditato di puntare su padiglioni da situare nei cortili delle carceri costruite di recente. Soluzione vantaggiosa, economica e possibile solo per Larino; ma una serie, da duecento posti l’uno, sarebbe venuta a costare - all’epoca - intorno ai 10 milioni di euro. In un primo tempo, si era pensato che il Molise potesse rimanere escluso da questa operazione di rinfoltimento della ricettività. Poi si appreso che, tra l’Abruzzo e la 20.a regione, l’incremento (già coperto dal punto di vista finanziario) sarebbe stato di 200 posti. Ma molte delle risorse disponibili, dovevano essere destinate alla ristrutturazione di carceri obsolete come quella di via Cavour a Campobasso*. E di vecchie ce n’è tante in Italia, visto che 1 su 5 risale ad un periodo che va dal 1200 al 1500, e che sono sottoposte a vincoli architettonici che fanno lievitare sensibilmente gli stanziamenti. In sostanza le esigenze molisane sono soprattutto legate a quelle rappresentate a Larino dal carcere di contrada Monte Arcano, al cui interno esistono vasti cortili ritenuti per l’appunto atti ad ospitare numerosi padiglioni. A suo tempo la struttura frentana nacque per detenere 180 persone; ma, puntualmente, si deborda da questo numero e la Casa di reclusione viene a ritrovarsi in uno stato di perenne collasso. Infine, la situazione si fa critica soprattutto per la presenza dei tanti cittadini stranieri. Per questi ultimi non è facile identificare un domicilio, a meno che non si tratti di luoghi pubblici o di luoghi privati che si occupino formalmente della cura e dell’assistenza. Attività che oggi si è sbiadita notevolmente per l’affievolirsi della presenza di quelli che, un tempo, erano numerosi centri di accoglienza. Cosicché la concessione degli arresti domiciliari non è possibile per i delinquenti abituali e per chi stia scontando una pena per avere commesso reati gravi o di forte allarme sociale. Torino: la Caritas apre un centro d’ascolto nel carcere di Federica Bello Avvenire, 11 aprile 2019 Ogni quindici giorni otto volontari incontreranno i detenuti per aiutarli su più fronti: dal reinserimento lavorativo, alla gestione delle problematiche familiari. Il centro d’ascolto “Le due tuniche” con cui la Caritas di Torino affronta quotidianamente le fatiche di giovani e anziani, singoli e famiglie si allarga. Apre un nuovo spazio là da dove chi è in difficoltà non può uscire per presentare richieste e problemi: tra le mura del carcere del capoluogo piemontese Lorusso e Cutugno. È il risultato di un accordo che nei giorni scorsi è stato ufficialmente presentato dal direttore della Caritas diocesana, Pierluigi Dovis, e dal direttore dell’istituto penitenziario Domenico Minervini. Un accordo che sotto il nome di progetto “Saf” (Servizio di ascolto fraterno) prevede che a cadenza quindicinale 8 volontari Caritas si “trasferiscano” dal Centro d’ascolto diocesano “Le due tuniche” in carcere per incontrare i detenuti e avviare azioni di aiuto su più fronti: dalla casa, al reinserimento lavorativo, alla gestione delle problematiche familiari. Un nuovo servizio della Caritas che si affianca a quello ordinario dei volontari penitenziari e della cappellania e che è stato formalizzato in un protocollo con durata annuale. L’accordo istituzionalizza dunque l’attenzione che già da tempo la Caritas diocesana ha verso “quella porzione di città”, ha ricordato Dovis illustrando il servizio, “che non deve essere mai esclusa”. Un ascolto che già da tempo la Caritas offriva ai detenuti, da gennaio 2017 a marzo di quest’anno sono state infatti accompagnate dai volontari Caritas 150 persone: con 50 di loro si sono realizzati avviamenti lavorativi, di cui 13 durante ultimo anno, e una decina gli inserimenti abitativi, oltre 30 gli inserimenti in attività stabili di volontariato. Tre gli obiettivi del “Saf”: facilitare la vita del detenuto attraverso il colloquio, l’ascolto, il disbrigo di alcune pratiche amministrative, la realizzazione di attività di socializzazione extra carcerarie; mettere in rete le risorse cui Caritas diocesana normalmente accede, aumentando le possibilità di reinserimento nel tessuto di riferimento dei detenuti; collaborare - senza sovrapporsi - con le diverse figure professionali presenti nell’istituto, con la cappellania, con il volontariato intra-carcerario ed eventualmente coinvolgendo persone ed enti esterni di riferimento a sostegno della persona detenuta. “All’interno del carcere”, ha sottolineato il direttore Minervini esprimendo il proprio ringraziamento alla Caritas, “ci sono persone in estrema difficoltà, persone che nell’espiare la pena devono essere sostenute in un’ottica di reinserimento. Altrimenti ci troviamo poi a considerare il dato della percentuale di recidiva - che si attesta intorno al 70% - con preoccupazione. Con la Caritas possiamo far capire ai carcerati che ci sono strade percorribili, che non sono le scorciatoie in cui tanti sono caduti, e che si posso avviare già nel tempo della detenzione”. Bollate (Mi): i detenuti raccolgono fondi a sostegno delle donne vittime di violenze mi-lorenteggio.com, 11 aprile 2019 La II Casa di Reclusione di Milano - Bollate presenta; il “Mercatino di primavera” - 2° edizione L’Arte del cucito, che avrà luogo il prossimo 14 aprile. Un gruppo di circa 30 detenuti del reparto protetti, si sta impegnando da mesi nella realizzazione di prodotti artigianali in tessuto di vario genere. Si spazia dagli indumenti agli accessori come borse, marsupi, foulard; e ancora, lenzuola e cuscini per la linea camera, tovaglie, grembiuli, presine per la linea cucina, porta oggetti per la linea bagno, linea giardino e tanto altro ancora. Questo evento è il risultato dell’impegno e della dedizione dei detenuti coinvolti che si sono adoperati per spendere le proprie capacità creative di taglio e cucito, a volte fino ad ora sconosciute per il raggiungimento di un nobile obiettivo. Per la realizzazione del progetto molti dei partecipanti hanno scoperto doti innate nell’utilizzo della stoffa, nella progettazione del disegno, del taglio, del cucito a mano e del cucito a macchina, del montaggio, della rifinitura, piegatura e del confezionamento dei prodotti. Tutti i prodotti sono stati si realizzati artigianalmente, ma attraverso la programmazione di una catena umana che si è sostenuta attraverso il contributo di ciascuno, anello fondamentale dell’intera filiera. Il “Mercatino di primavera” è stato ideato non solo con l’obiettivo di impegnare i detenuti nella creazione di oggetti da vendere, ma soprattutto per la realizzazione di una raccolta fondi benefica. In questa edizione si lavorerà a favore dell’Associazione “L’Altra Metà del cielo” che sostiene e lotta a favore delle donne vittime di violenze di ogni genere. Questo progetto sociale ha struttura tematica di interesse terapeutico e trattamentale, proprio per questo motivo conta anche sulla partecipazione della scuola “Il teatro della Moda” di Milano, che offre consulenza tecnica ai detenuti partecipanti, attraverso la collaborazione di alcuni docenti che si sono resi disponibili a supportare i detenuti nelle diverse tecniche di cucito. Tale collaborazione potrebbe, altresì, portare al riconoscimento di una borsa di studio in favore di un partecipante che si sarà distinto durante la realizzazione dei manufatti e che potrà fruire dell’esperienza della scuola per partecipare alle lezioni e ottenere un attestato spendibile all’esterno una volta conclusa l’esecuzione penale. La realizzazione dell’evento è stato possibile grazie al benestare della Direzione del Carcere nella persona della Dottoressa Cosima Buccoliero, al coordinamento della Dottoressa Simona Gallo - Funzionario Giuridico Pedagogico e al contributo della Polizia Penitenziaria. Un ringraziamento va anche ai volontari e le cooperative sociali del circuito carcerario che a vario titolo hanno supportato l’iniziativa. L’evento è patrocinato da diversi enti pubblici oltre che sostenuto da enti privati e sociali. Modalità d’ingresso: Iscriversi sul sito: carceredibollate.it. Aversa (Ce): dopo anni di calvario assolto Adolfo Ferraro, ex direttore dell’Opg lavocedellevoci.it, 11 aprile 2019 Un calvario durato anni, poi alla fine la sentenza di piena assoluzione. Così funziona la giustizia di casa nostra. Adolfo Ferraro, ex direttore dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, è stato tenuto - insieme ad altri medici e psichiatri - per anni sulla graticola con un’accusa infamante: aver costretto i pazienti dell’antica “Real Casa dei Matti” alla totale inattività per giorni e settimane, senza alcun “trattamento” terapeutico. Proprio lui, Ferraro, che con la sua equipe aveva sempre lottato per una psichiatria “umana”, che sulla scia di Franco Basaglia e di Sergio Piro si era battuto per l’abolizione dei manicomi prima, e poi per istituzioni che fossero realmente in grado di rieducare, reinserire e non solo costringere e legare. Non è stato così. I suoi metodi innovativi adottati alla Real Casa davano fastidio, la sua rieducazione non andava bene. Fu costretto a denunciare per diffamazione alcuni agenti penitenziari che gliela giurarono. Tanto bastò per far scattare prima un’inchieste farlocca e poi un processo con la richiesta di due anni e due mesi di galera. Durato anni e solo ora conclusosi con una sentenza, per Ferraro e la sua equipe, di piena assoluzione. Altra grave colpa di Ferraro, comunque, quella di aver promosso la firma di un emendamento in quanto all’epoca membro della commissione Sanità. Un emendamento con il quale dimezzava il suo stesso potere e quello, ovviamente, dei direttori di strutture detentive di quel tipo, equiparando gli ospedali psichiatrici giudiziari a normali strutture sanitarie. La cosa diede fastidio a molti, provocò reazioni, Ferraro fu anche vittima di un attentato incendiario. Poi il calvario giudiziario. Ora dei “matti” nessuno se ne frega più. Basaglia e Piro, di certo, fanno la trottola nelle rispettive tombe. Chiusi oltre 40 anni fa i manicomi, infatti, niente è stato di concreto realizzato sui territori, solo un problema delegato alle famiglie, quasi sempre senza mezzi e strumenti per aiutare chi ha bisogno di sostegno. Avete mai sentito, negli ultimi anni, e ora col il governo gialloverde, dire qualcosa a qualcuno su questo tema bollente? Il silenzio più assordate. Tanto i “pazzi” non votano. Roma: Torre Maura e il ritorno del termine “nomadi” per indicare i rom di Giovanni Augello Redattore Sociale, 11 aprile 2019 Il caso del trasferimento di circa 60 persone nel centro di accoglienza raccontato dai media fa tornare d’uso comune una parola rimossa dalla Strategia nazionale e nei documenti del Campidoglio dall’allora sindaco Marino. Stasolla (21 luglio): “Parole che richiamano fantasmi del passato” “Zingari, dovete morire di fame. Grida e proteste contro i nomadi a Roma”. Titolava così, nei giorni scorsi, un quotidiano a tiratura nazionale agli albori delle proteste scoppiate in questi giorni a Torre Maura, quartiere periferico di Roma, per via del trasferimento di 77 persone in un centro di accoglienza, provenienti da altre strutture, alcuni dallo sgombero di Camping River o da altri insediamenti informali della capitale. La cronaca sulle diverse testate giornalistiche, così, ha fatto tornare tra i titoli, in maniera dirompente, parole che non si leggevano così spesso da tempo. “Zingari”, “nomadi” e le relative proteste “anti-nomadi”: sono questi i termini maggiormente utilizzati e sebbene la parola “zingari” venga riportata sempre nei virgolettati attribuiti ai manifestati, la parola “nomade” sembra tornare in voga nel linguaggio giornalistico. Basta fare un giro online per notare che tra agenzie, quotidiani e portali di notizie, sono tutti d’accordo: si tratta di “nomadi”. Il ritorno dei “nomadi”. L’apice dell’utilizzo del termine “nomade” a livello istituzionale, probabilmente, è stato il 2009, anno di presentazione del noto “Piano nomadi” voluto dall’allora ministro dell’Interno del governo Berlusconi, Roberto Maroni. Negli anni successivi, il dibattito suscitato sulla corretta terminologia da utilizzare è stato importante, tanto da lasciare il segno in diversi documenti. Basta citare la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom, sinti e caminanti del 2012 che al suo interno riporta quanto segue: “È ormai superata la vecchia concezione, che associava a tali comunità, l’esclusiva connotazione del “nomadismo”, termine superato sia da un punto di vista linguistico che culturale e che peraltro non fotografa correttamente la situazione attuale”. Sulla scia della Strategia nazionale si è mosso anche il predecessore di Virginia Raggi, ovvero il sindaco di Roma dal 2013 al 2015, Ignazio Marino. Con una circolare del 2014, infatti, ha vietato, l’uso del termine “nomadi” in tutti gli atti del Comune. “Uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni sia quello culturale, affinché l’approccio metodologico di tipo emergenziale possa essere abbandonato a favore di politiche capaci di perseguire l’obiettivo dell’integrazione - si leggeva nella circolare firmata da Marino. Devo registrare come, nel linguaggio comune, le comunità Rom, Sinti e Caminanti vengano impropriamente indicate con il termine di ‘nomadi’. Per questo motivo chiedo che d’ora in poi - nelle espressioni della comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi - in luogo del riferimento al termine ‘nomadi’ sia più correttamente utilizzato quello di Rom, Sinti e Caminanti”. Per Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio, il ritorno di alcuni termini nel linguaggio comune “richiamano tutti i fantasmi del passato, dall’emergenza nomadi fino alla zingara rapitrice - spiega. Per tanti elementi, come la militarizzazione nei campi, il decreto Salvini e gli sgomberi forzati in aumento, sembra di essere alle porte di un’emergenza nomadi. Ci sono tutte le premesse. Qualcuno, forse, sta soffiando sul fuoco perché si arrivi a dichiarare una nuova emergenza”. “Zingaro” ieri e oggi. L’uso della parola “zingaro”, invece, è una faccenda più spinosa. Quel termine gridato dai manifestati a Torre Maura con tono dispregiativo, non è stato sempre considerato tale. Lo ha usato il Vaticano, ad esempio, nella sua “pastorale per gli zingari”, ma è un termine utilizzato anche all’interno delle stesse comunità, come si capisce bene dal nome di un’associazione nata a Torino negli anni 70 e ancora oggi attiva, ovvero l’Associazione italiana zingari oggi Onlus (Aizo) composta, si legge sul loro sito web, da “sinti e gagè (non zingari)”. Se guardiamo agli anni 70, però, è doveroso fare anche un’altra puntualizzazione. Nemmeno il termine “nomadi” aveva una connotazione così negativa come può averla oggi. Anche in questo caso è il nome di un’organizzazione non profit che porta in grembo proprio il termine oggi in discussione, ovvero l’Opera nomadi. Nata negli anni 70, oggi un po’ nell’ombra, l’Opera nomadi è l’unica realtà ad occuparsi di queste comunità che ha avuto il riconoscimento ufficiale ad ente morale nazionale con decreto del Presidente della Repubblica 347/1970. Oggi, tuttavia, il termine “zingaro” racconta qualcosa di diverso e nasconde una paura, troppo spesso strumentalizzata. “Oggi l’antiziganismo è sorpassato da quella che viene definita aporofobia - spiega Stasolla - ovvero la paura del povero, soprattutto del povero urbano. Il termine zingaro, così, è riferito più ad una condizione di marginalità, di povertà e di degrado che ad una fetta di popolazione. È ormai un’etichetta con cui si indica l’emarginato sociale, il povero”. Un dibattito acceso. Che la questione sia complessa ce lo dimostrano i tanti contributi al dibattito acceso negli anni della Strategia nazionale. Per citarne uno, è rimasto celebre il botta e risposta a mezzo stampa tra Guido Ceronetti, filosofo e scrittore recentemente scomparso, e Federico Faloppa, docente di linguistica all’università di Reading, in Gran Bretagna. Su un articolo pubblicato da La Repubblica del 2014, Ceronetti entrava a gamba tesa sul tema chiedendo di mettere un punto all’utilizzo dilagante del termine “rom”, preferendo “zingari”. “Posso ziganeggiare a lungo, rivoltando letture e memorie - scriveva Ceronetti -, e provare che il termine rom, volendo designare una comunità zingara, è del tutto inutilizzabile. È improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua”. Di diversa opinione Faloppa, che in un articolo sul Fatto Quotidiano criticava la posizione di Ceronetti. “Da anni, ormai, rom è infatti entrato, a pieno diritto - essendo un cosiddetto “etnonimo” (anzi, più propriamente un autònimo), un nome di popolo usato da parte di quel popolo stesso per autodesignarsi - nel linguaggio non solo giornalistico e giuridico, ma anche in molti casi nell’uso quotidiano. Perché voler sollevare un polverone, ora, e dire: bando alle ipocrisie e agli utilizzi illegittimi (illegittimi per chi?), si torni a zingaro?”, chiedeva Faloppa, che aggiungeva: “La sensazione è che si faccia un gran parlare di rom anche quando non ce ne sarebbe il bisogno”, puntualizzando che, alla fine, “i problemi legati agli zingari sono ben altri, e riguardano soprattutto gli atti di razzismo che questi devono costantemente subire”. Dai “campi nomadi” alle baraccopoli. E infatti, è proprio l’etichetta applicata agli insediamenti abitativi a Roma e non solo, ad alimentare un dibattito in seno alle amministrazioni locali che porterà le stesse a trovare nomi alternativi per indicare quelli che venivano inizialmente chiamati campi “nomadi” e poi campi rom. Ed così che si è cominciato a parlare di “campi attrezzati” e “villaggi della solidarietà”. Ancora oggi, però, spesso vengono chiamati “campi nomadi”. Per questo, l’associazione 21 luglio da qualche anno sta portando avanti una campagna silenziosa affinché venga superata anche la definizione “campi rom”. Lo spiegano nell’ultimo rapporto presentato martedì 9 aprile in Senato. “La definizione più appropriata per indicare gli insediamenti formali e informali della Capitale è quella dell’Agenzia delle Nazioni unite Un-Habitat, che definisce come baraccopoli un insediamento in cui gli abitanti non hanno sicurezza di possesso, dove le abitazioni risultano estromesse dai principali servizi base, dove le abitazioni non risultano conformi ai criteri stabiliti dai regolamenti comunali o situate in aree pericolose dal punto di vista geografico e ambientale”. Per questo motivo, spiega Stasolla, “nell’ultimo rapporto sui matrimoni precoci che abbiamo realizzato abbiamo tolto la parola rom e probabilmente, nel prossimo rapporto annuale, toglieremo la parola rom e lo dedicheremo a tutte le baraccopoli presenti in Italia, per parlare solo di baraccopoli e non più di rom”. Cosa dice Carta di Roma. Nelle ultime linee guida, pubblicate a fine 2018 dall’Associazione Carta di Roma, ecco una riflessione sugli stessi termini usati sui media in questi giorni. Il termine “zingari”, spiega la guida, viene percepito dalle comunità rom e sinti “perlopiù come offensivo”. “È un eteronimo imposto dalla società maggioritaria a un gruppo che non si autodefinisce così - spiega la guida. Nonostante ciò, zingari è ancora molto usato a ogni livello, dalla lingua parlata nella quotidianità, al discorso pubblico e politico. Anche se i termini corretti - come rom e sinti - sono oggi più presenti all’interno dei media di quanto non fossero in passato, zingari compare ancora di frequente in gran parte di essi, che spesso non sono coscienti della connotazione peggiorativa assunta da questo termine, equiparabile sempre più a un insulto razziale come negro”. Il termine “nomadi”, invece, viene citato come il “maggior stereotipo”, che tra l’altro, ha “condotto alla creazione di politiche istituzionali scorrette”. “Spesso capita che la “teoria del nomadismo” venga usata ancora oggi al fine di fornire una forma di legittimazione culturale alla marginalizzazione di rom e sinti all’interno dei campi - aggiunge la guida. Un effetto perverso di questo uso scorretto è la derivazione “campi nomadi”, che fa pensare a luoghi adatti a gruppi umani che si spostano continuamente e quindi a una forma di insediamento tipica di quelle popolazioni e in qualche modo necessaria. Non è così. Solo una piccola parte dei sinti e dei rom residenti in Italia (il 3 per cento) non è sedentaria, e perlopiù per via dell’occupazione in lavori stagionali. Parlare di nomadi e campi nomadi è quindi improprio e fuorviante, ha esiti discriminatori nella percezione comune e conferma una serie di pregiudizi diffusi in particolare nella società italiana”. Roma: Università Europea e San Vincenzo insieme per riportare speranza in cella Avvenire, 11 aprile 2019 Domani un incontro nell’ateneo per raccontare i possibili percorsi di rinascita tra i detenuti. Nell’occasione verrà presentato il premio letterario Castelli riservato a chi sta scontando la sua pena Università Europea e San Vincenzo insieme per riportare speranza in cella. Tutti possono sbagliare. Ma tutti hanno il diritto di essere aiutati ed accolti, per cominciare una vita nuova e tornare a dare il proprio contributo alla società. Di questi temi si parlerà domani, giovedì 11 aprile 2019, alle 14.30, all’Università Europea di Roma (via degli Aldobrandeschi 190) nell’incontro “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova” organizzato dall’Ufficio Formazione Integrale dello stesso ateneo in collaborazione con la Società di San Vincenzo De Paoli. Dopo il saluto di Padre Gonzalo Monzon LC, direttore dell’ufficio Formazione integrale dell’Università Europea di Roma, interverranno: Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli e Claudio Messina, delegato nazionale carceri della Società di San Vincenzo De Paoli. Verrà presentata anche la testimonianza della vittima di malagiustizia Roberto Giannoni, che ha conosciuto il carcere da innocente. Trarrà le conclusioni Carlo Climati, direttore del laboratorio “Non sei un nemico!” dell’Università Europea di Roma. “Povertà tra le povertà - afferma Antonio Gianfico - il carcere rappresenta un impegno di carità tra i più difficili e coinvolgenti”. L’aiuto dei volontari - prosegue il presidente - non si riduce ad una visita fine a se stessa, ma “coinvolge il detenuto in un percorso di recupero e prevenzione. Ed è questo che offre la Società di San Vincenzo De Paoli: non solo un sostegno materiale, ma soprattutto attenzione umana, amicizia, aiuto a redimersi, a ritrovare se stesso e un giusto ruolo nella società”. L’associazione si preoccupa anche della cura delle famiglie che hanno congiunti in carcere, accompagnandole in un cammino di educazione alla legalità per scongiurare il fatto che i figli possano ricadere negli stessi errori dei propri genitori. In questa occasione verrà anche presentato il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, concorso letterario riservato ai reclusi delle carceri italiane, organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova” (La Stampa) L’11 aprile all’Università Europea di Roma un incontro organizzato dall’Ufficio Formazione integrale dell’Ateneo in collaborazione con la Società di San Vincenzo De Paoli. Il cammino di ogni essere umano, a volte, può conoscere momenti di caduta e di errore. Tutti possono sbagliare. Ma tutti hanno il diritto di essere aiutati ed accolti, per cominciare una vita nuova e tornare a dare il proprio contributo alla società. Di questi temi si parlerà giovedì 11 aprile 2019, alle 14.30, all’Università Europea di Roma (via degli Aldobrandeschi 190) nell’incontro “Il carcere e la speranza: un percorso di vita nuova” organizzato dall’Ufficio Formazione integrale dello stesso Ateneo in collaborazione con la Società di San Vincenzo De Paoli. Dopo il saluto di padre Gonzalo Monzon LC, direttore dell’Ufficio Formazione integrale dell’Università Europea, interverranno: Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli e Claudio Messina, delegato nazionale Carceri della Società di San Vincenzo De Paoli. Verrà presentata anche la testimonianza della vittima di malagiustizia Roberto Giannoni che ha conosciuto il carcere da innocente. Trarrà le conclusioni Carlo Climati, direttore del Laboratorio “Non sei un nemico!” dell’Ateneo. Con 850mila soci e 1.500.000 volontari in 155 Paesi del mondo, una rappresentanza presso le Organizzazione delle Nazioni Unite di Ginevra, la Società di San Vincenzo De Paoli è una delle associazioni più vaste e radicate sul territorio. Fondata a Parigi nel 1833 dal beato Federico Ozanam insieme ad un gruppo di giovani studenti della Sorbona, cattolica ma laica, l’organizzazione ha come scopo principale quello di aiutare le persone più sfortunate: i bisognosi, gli ammalati, gli anziani soli, chiunque si trovi in difficoltà. “Povertà tra le povertà - afferma il presidente Antonio Gianfico - il carcere rappresenta un impegno di carità tra i più difficili e coinvolgenti. L’aiuto dei volontari non si riduce ad una visita fine a se stessa, ma coinvolge il detenuto in un percorso di recupero e prevenzione. Ed è questo che offre la Società di San Vincenzo De Paoli: non solo un sostegno materiale, ma soprattutto attenzione umana, amicizia, aiuto a redimersi, a ritrovare se stesso e un giusto ruolo nella società”. L’Associazione si preoccupa anche della cura delle famiglie che hanno congiunti in carcere, accompagnandole in un cammino di educazione alla legalità per scongiurare il fatto che i figli possano ricadere negli stessi errori dei propri genitori. Nell’occasione verrà anche presentato il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, concorso letterario riservato ai reclusi delle carceri italiane, organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. “Un bell’incontro che vuole presentare - conclude il presidente della San Vincenzo - il ruolo del volontariato come attenzione al prossimo secondo i valori e gli insegnamenti del Vangelo”. Catania: le vite dei detenuti dietro le sbarre, presentazione del libro meridionews.it, 11 aprile 2019 Sette detenuti raccontano le loro storie, i loro errori, le loro debolezze, i rimpianti e la speranza di costruire un nuovo progetto di vita. Un’indagine che va oltre il reato, quella realizzata dalla giornalista siciliana Katya Maugeri in “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento”, con la prefazione di Claudio Fava e la postfazione del giornalista Salvo Palazzolo, edito dalla Villaggio Maori Edizioni, un viaggio inchiesta nelle carceri, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria. Il libro sarà presentato a Catania, sabato 13 aprile alle 18.30 all’Ostello degli Elefanti (via Etnea, 28), a dialogare con l’autrice Claudio Fava (presidente commissione regionale Antimafia) e Sebastiano Ardita (procuratore aggiunto del tribunale di Catania e componente del Csm). L’autrice indaga le vite dietro le sbarre di chi, oltre agli errori commessi e l’etichetta di “carcerato”, rimane un essere umano. Non c’è assoluzione nelle sue riflessioni: nelle sue “ore d’aria” annota le sue emozioni di intervistatrice e riesce a raccontare le difficili condizioni psichiche di chi ha commesso un reato, e di chi, fuori da una cella, ha lasciato rimpianti e sogni. Tra le tematiche affrontate, la tossicodipendenza, con il contributo di Salvatore Monaco, responsabile della “Comunità Il Delfino di Cosenza” diretta da Renato Caforio, la criminalità organizzata, la giustizia riparativa, la triste realtà dei suicidi in carcere, con la testimonianza di Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia e le riflessioni di Mario Conte, consigliere Conte d’Appello di Palermo. Cagliari: crowdfounding per produrre un docu-film sulle carceri Ansa, 11 aprile 2019 Un viaggio surreale, sorprendente e a tratti malinconico attraverso le carceri sarde: Giovanna Maria Boscani, artista sassarese, e Joe Perrino, musicista cagliaritano, hanno toccato tutte le case circondariali dell’Isola percorrendo le strade sarde a bordo di una vecchia Ape Piaggio. L’obiettivo? Incontrare i detenuti e farsi affidare storie, ambizioni e sogni sotto forma di ex-voto. E così carcere dopo carcere, l’Ape è diventata la casa per disegni, scritti, oggetti preparati dai carcerati, una sorta di stipe viaggiante che custodisce i desideri dei reclusi e che alla fine raggiungerà il suo “santuario”, l’ex carcere Buoncammino di Cagliari. È il racconto di “Per Grazia Non Ricevuta”, film documentario attualmente in montaggio per la regia di Davide Melis e prodotto dalla società cagliaritana Karel. Il film è alla ricerca di sostenitori che supportino la produzione e distribuzione: dall’1 aprile è partita la campagna di crowdfounding insieme a Banca Etica che ha selezionato “Per Grazia Non Ricevuta” sul bando “Impatto +”, creato per progetti culturali ispirati ai valori della partecipazione, dell’inclusione sociale, dell’accoglienza, parità dei diritti di genere, non violenza, cittadinanza attiva, riduzione delle diseguaglianze e promozione della giustizia sociale. Grazie a Banca Etica, che ha scelto il film di Karel insieme ad altri 16 progetti tra oltre 250 arrivati da tutta Italia, verrà inserito nel Network Banca Etica sulla piattaforma produzionidalbasso.com/project/per-grazia-non-ricevuta-docufilm/ per una campagna di raccolta fondi che durerà fino al 31 maggio. L’obiettivo di Karel è raggiungere 15mila euro: si potranno inviare donazioni diverse. Chi farà una donazione al film riceverà un premio: a disposizione la locandina del documentario autografata dai protagonisti; il dvd nel formato semplice o nel cofanetto speciale; il modello in scala dell’Ape Piaggio decorata a mano dall’artista Giovanna Maria Boscani. Chi farà una donazione speciale sarà menzionato come produttore associato. Torino: “LiberAzioni”, l’arte dentro e fuori dal carcere mentelocale.it, 11 aprile 2019 A Torino, da giovedì 11 a domenica 14 aprile, si terrà il festival Viaggio al centro delle periferie, a cui parteciperanno le associazioni, le start up e gli enti del terzo settore che, anche grazie ai fondi AxTO, stanno ridisegnando la mappa dei quartieri torinesi. Tra gli oltre 50 appuntamenti del Festival particolare interesse riveste la presentazione del progetto LiberAzioni, in programma giovedì 11 aprile a partire dalle ore 10, presso Lacumbia film, in Via Tesso 30. LiberAzioni è un progetto di arte dentro e fuori dal carcere, che si snoda lungo un anno di attività dedicate ai detenuti e alla popolazione libera, e che culminerà in un festival nazionale dal 18 al 20 ottobre, nel quartiere Vallette di Torino. La giornata di giovedì 11 si aprirà con un reading a cura dello scrittore Alessio Romano, che presenterà alcuni dei racconti scritti dai detenuti della sezione di massima sicurezza del carcere di Torino durante il laboratorio di scrittura creativa. Nella prefazione all’antologia nata dal laboratorio lo scrittore definisce l’esperienza del lavoro con i detenuti “la più intensa della mia carriera di insegnante”. Infine Beatrice Surano e Giovanni Mauriello presenteranno il laboratorio di video partecipativo che tra aprile e giugno coinvolgerà dodici detenuti della sezione sieropositivi del carcere, al fine di scrivere e realizzare un cortometraggio. Il cinema occupa un posto di rilievo nel progetto LiberAzioni, che non a caso ha come capofila l’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Fino a metà luglio è infatti attivo un bando nazionale per cortometraggi sui temi della detenzione, della libertà, del limite e della relazione dentro/fuori, che assegnerà ai migliori lavori tre premi da 1.000 euro ciascuno nel corso del festival di ottobre. L’incontro di giovedì 11 aprile, a partecipazione gratuita, sarà condotto da Valentina Noya, coordinatrice del progetto. È gradita la conferma di partecipazione via mail: liberazioni.torino@gmail.com. Milano: “Artisti Dentro Onlus”, progetti culturali nelle carceri lavocedivenezia.it, 11 aprile 2019 È avvenuta ieri, presso il centro congressi di Eataly Smeraldo Milano, la presentazione ufficiale di Artisti Dentro Onlus, l’associazione ideata e presieduta dalla scrittrice Sibyl von der Schulenburg con l’obiettivo di realizzare progetti culturali all’interno delle carceri a favore dei detenuti per causa di giustizia. “Ogni detenuto è anzitutto un essere umano, - dice Sibyl von der Schulenburg - un cuore pulsante e un cervello pensante. Prima dell’arresto aveva un’identità che, durante il trauma di processo e detenzione, ha subito graduali modifiche. Ciò che resta dopo anni dietro le sbarre è spesso una persona con identità, individuale e sociale, ridotte al puro livello di sopravvivenza. La sua mente si accartoccia sui dettagli quotidiani, s’aggrappa al minuscolo per non cedere alla follia, e perde la capacità di concepire lo spazio aperto”. Così, dopo l’edizione pilota del Premio Letterario “Scrittori Dentro”, nel 2015 è nata Artisti Dentro Onlus, con l’obiettivo di portare in carcere arte e cultura come mezzi di svago e crescita per degli esseri umani condannati a vivere in spazi ristretti e in carenza di stimoli. L’associazione si adopera per promuovere attività di vario genere che possano raggiungere l’obiettivo, nel rispetto dei diritti dell’uomo, a prescindere dai motivi che l’hanno portato alla condizione di detenzione. In particolare, i progetti attivati sono rappresentati da concorsi che non richiedono contatti vis-à-vis con i detenuti, ma si svolgono solo per posta. Nel 2014 è stato attivato il progetto Scrittori Dentro, nel 2015 Cuochi Dentro e nel 2016 il progetto Pittori Dentro. Scrittori Dentro è un premio letterario nato per aiutare i detenuti a dispiegare la mente, attingere alla memoria e riapprendere a organizzare il pensiero in ambito spazio-temporale, per trovare il modo di vivere, qui-e-ora, un’esistenza cosciente e dignitosa. La giuria del premio, che gode del patrocinio della Repubblica di San Marino e di Milano Città Metropolitana, è composta da scrittori professionisti ed è presieduta da Lella Costa. Cuochi Dentro è il premio culinario nato nella convinzione che il cibo unisca gli uomini a prescindere dai linguaggi e dalle culture. Dato che nelle celle italiane si cucina, l’intento dell’associazione è di stimolare l’arte culinaria già diffusa dietro le sbarre e dare anche a chi non sa scrivere la possibilità di partecipare a un concorso. Si presume che nel peggiore dei casi, anche un non italofono riesca a trovare qualcuno che gli scriva una ricetta. Alla sua seconda edizione, il premio conta in giuria personaggi come Claudio Sadler e Viviana Varese (presidente). Il premio gode del patrocinio della repubblica di San Marino. Pittori Dentro è l’ultimo progetto ideato dall’associazione per stimolare la creatività dei detenuti. Il concorso si rivolge a persone che presumibilmente hanno poco spazio e materiale a disposizione ma vogliano cimentarsi nell’arte visiva in senso lato, includendo il disegno, la pittura e il collage, qualsiasi cosa si possa creare su una superficie in carta di cm 10 x 15. Si tratta di mail art, un’opera che dovrà viaggiare attraverso le sbarre, superare i pericoli e le avversità della società esterna, il tempo meteorologico e anche la casualità. L’oggetto che alla fine arriverà nelle mani dei giurati sarà la vera opera d’arte che rappresenterà la voce “dentro”, quella che non riesce in genere a penetrare la società esterna. A presiedere la giuria 2016 sarà Maria Fratelli, Dirigente del Servizio Case Museo e Progetti Speciali del Comune di Milano. Ravenna: lo scrittore Marcello Simoni incontra i detenuti in carcere ravennatoday.it, 11 aprile 2019 Si è tenuto nei giorni scorsi un incontro tra i detenuti della Casa Circondariale di Ravenna e lo scrittore Marcello Simoni, autore noto per i suoi romanzi storici. Nell’ambito delle attività legate al premio letterario per le carceri italiane, “Il Sognalib(e)ro”, si è tenuto nei giorni scorsi un incontro tra i detenuti della Casa Circondariale di Ravenna e lo scrittore Marcello Simoni, autore noto per i suoi romanzi storici. L’iniziativa è stata promossa da Bper Banca e da Giordano Bruno Ventavoli, responsabile di Tuttolibri de La Stampa. Sognaelib(e)ro è stato avviato dal Comune di Modena con la Direzione Generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria ed è nato con la finalità sociale di coinvolgere i detenuti nella lettura e nella scrittura. La prima edizione del Premio si è conclusa l’8 febbraio con la proclamazione di tre vincitori nelle diverse sezioni del premio (poesia, racconto, romanzo). In connessione con le finalità del Concorso, Bper Banca sta promuovendo eventi di presentazione di libri in carcere con importanti autori moderni. La Direttrice della Casa Circondariale di Ravenna, Carmelina De Lorenzo, ha aperto l’incontro accogliendo i ragazzi di una classe terza del Liceo Linguistico Dante Alighieri di Ravenna che hanno aiutato i detenuti nella lettura del libro e nella formulazione delle domande da rivolgere all’autore, nell’ambito del percorso di alternanza scuola-lavoro che stanno svolgendo nel penitenziario. De Lorenzo ha inoltre ringraziato Bper Banca per il supporto alle attività sociali e culturali che il carcere da anni porta avanti. Simoni, che ha presentato l’ultima sua opera letteraria “La prigione della monaca senza volto”, ha risposto alle numerose domande poste dai detenuti alternando riferimenti storici sulla Milano del ‘600 ai racconti sull’alchimia e la negromanzia; ha dato infine appuntamento a giugno, quando sarà pubblicato il suo prossimo romanzo ambientato nella Ravenna del ‘400. I più poveri sono i bambini, così nasce l’atlante della povertà educativa in Italia di Nadia Ferrigo La Stampa, 11 aprile 2019 Siamo agli ultimi posti nella spesa per l’istruzione, lontani dagli obbiettivi europei su asili nido e scuole. I numeri nel Rapporto presentato dalla Fondazione Openpolis e dall’impresa sociale Con i bambini. Sono i minori i più colpiti dalla povertà assoluta. Nel 2005 era povero il 3,9% dei minori di 18 anni, un decennio dopo la percentuale è triplicata, e supera il 12%. I bambini e gli adolescenti in povertà assoluta in Italia sono un milione e 200mila. Il secondo Rapporto sulla povertà educativa minorile in Italia - presentato il 10 aprile a Roma da Openpolis e dall’impresa sociale Con i Bambini - non lascia scampo: il nostro Paese ha un problema enorme. Per la prima volta l’ascensore sociale si è rotto, e i figli stanno peggio genitori. Se nasci povero, resterai povero - A un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito potrebbero servire cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. È la stima di Ocse, basata sulla variazione tra i redditi dei genitori e quelli dei figli. Il dramma della povertà minorile è l’ereditarietà: se nasci povero, resti povero. Si troverà con maggiore probabilità di disoccupazione, dipenderà più della media dai programmi di assistenza. Le famiglie più povere sono in genere quelle con minore scolarizzazione: l’incidenza della povertà assoluta è infatti più che doppia nei nuclei familiari dove la persona di riferimento non ha il diploma. Contrastare la povertà nella fascia più giovane della popolazione significa offrire a tutti i bambini e gli adolescenti, a prescindere dal reddito dei genitori, uguali opportunità educative. Ma rispetto alla media europea l’Italia investe meno in istruzione. In rapporto al prodotto interno lordo, l’Italia spende il 3,9% del Pil in istruzione, contro una media Ue del 4,7%. Un dato inferiore rispetto ai maggiori paesi Ue come Francia (5,4%), Regno Unito (4,7%), Germania (4,2%). “Con il secondo rapporto sulla povertà educativa minorile in Italia, abbiamo voluto focalizzare l’attenzione sulla presenza e accessibilità dei servizi per i minori nel nostro Paese - spiega Carlo Borgomeo, presidente dell’impresa sociale Con i Bambini -. Da una parte la conoscenza sempre più approfondita e puntuale del fenomeno della povertà educativa è indispensabile per orientare le attività promosse dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, dall’altra contribuisce in modo decisivo all’azione di advocacy, che resta un obiettivo centrale della nostra iniziativa. Aggredire in modo puntuale e organico il fenomeno della povertà educativa minorile, non riguarda solo la sfera dei diritti, seppur importante, ma anche il tema dello sviluppo del Paese”. Per lavorare sulla riduzione della povertà educativa è necessario investire a partire dalla prima infanzia, quando il bambino non ha ancora raggiunto i 3 anni di età. In particolare offre un servizio di asili nido diffuso sul territorio, accessibile a prescindere dal reddito della famiglia di origine. Non farlo significa accettare che un bambino nato in un contesto svantaggiato resti indietro rispetto ai coetanei, già a partire dai primi mesi di vita. Gli obiettivi europei di Barcellona riguardano la diffusione di asili nido, servizi e scuole per l’infanzia. Questi devono essere offerti almeno al 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% dei bambini tra 3 e 5 anni. Ma in Italia contando sia strutture pubbliche che private, l’offerta copre ancora meno di un bambino su 4. Un dato medio che sul territorio è molto squilibrato. In primo luogo tra centronord e mezzogiorno. Lo si vede nelle regioni: in testa Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana, mentre in fondo alla classifica troviamo le maggiori regioni del sud. Lo stesso dato emerge anche a livello comunale. I dieci capoluoghi con meno offerta di posti in asili nido si trovano tutti nel mezzogiorno. L’altra tendenza è che i servizi tendono a concentrarsi nei centri maggiori rispetto alle aree interne. Ma anche in questo caso con una profonda disparità tra centro-nord e sud: i comuni periferici e ultra-periferici di Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto raggiungono mediamente il 20% di copertura (in linea con la media nazionale). Se le scuole sono “irraggiungibili” - È proprio nell’Italia interna che la popolazione minorile, e soprattutto quella in età scolastica, sta calando più rapidamente. Nelle aree interne l’offerta educativa si sviluppa a una velocità diversa dal resto del Paese: scuole più piccole, sottodimensionate, meno raggiungibili e attrattive, sia per gli studenti che per i professori. La conseguenza per questi territori è spesso una mobilità degli insegnanti molto elevata, che incide sulla continuità didattica e sui livelli di apprendimento. Da queste premesse bisogna partire per programmare l’offerta sul territorio, anche valutando la raggiungibilità delle scuole. Analizzando i dati del ministero dell’Istruzione emergono due modelli alternativi. Nelle regioni dove pochi ragazzi delle aree interne hanno la scuola nel comune, i trasporti interurbani per raggiungere la scuola sono più potenziati (ad esempio la Valle d’Aosta). Al contrario i collegamenti sono meno sviluppati nelle regioni dove la maggioranza dei ragazzi che abitano in aree interne hanno la scuola superiore nel loro comune. A un ragazzo che abita in un’area interna quanto tempo serve per raggiungere la scuola? E quali scuole può raggiungere più facilmente? Può avere un’influenza sulla scelta del percorso scolastico successivo alla licenza media. Purtroppo è un aspetto molto difficile da valutare con i dati a disposizione, se non ricostruendo caso per caso. “Dal Rapporto emerge un quadro impietoso e disarmante dell’Italia, dove la scarsa mobilità sociale in atto in questi anni si ripercuote nella crescita dei bambini. Scuole e asili sono, devono essere, la base per ricucire il Paese - commenta Stefano Buffagni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e presidente del Comitato indirizzo strategico del Fondo. È compito nostro, della politica, delle istituzioni mettere in campo azioni concrete per combattere qualsiasi forma di povertà, a partire dai minori. Per questo il sostegno del Governo al Fondo non poteva e non può mancare e, aggiungo, non mancherà mai”. Eutanasia. Sono già più di 100 i connazionali suicidi in cliniche elvetiche di Alessandro Rico La Verità, 11 aprile 2019 Cappato: “Mi contattano spesso persone che soffrono del male oscuro”. Tra i casi, un pm con una diagnosi errata di tumore. Non solo Alessandra Giordano, la donna di Paternò affetta da depressione che ha ottenuto il suicidio assistito in Svizzera. Sono gli italiani morti nella clinica Dignitas, vicino Zurigo, tra il 2001 e il 2017: il 4,31% dei “clienti” della struttura. Accanto ai tetraplegici o ai pazienti terminali - casi che è agevole proporre all’opinione pubblica per convincerla che la “dolce morte” va legalizzata anche in Italia - c’è una schiera di sofferenti, il cui posto non dovrebbe essere sul capezzale di Dignitas. Sono, appunto, le persone affette da depressione, come la quarantaquattrenne siciliana: circa il 3% di quelli che si recano in Svizzera per il suicidio assistito. Alcune storie hanno dell’incredibile: basti pensare a Gill Pharaoh, una britannica di 75 anni. Ex infermiera, prima di partire per il suo ultimo viaggio in Svizzera aveva dichiarato a un tabloid: “Ho badato a persone anziane per tutta la mia vita e mi sono sempre detta: io non lo diventerò”. Esponente del gruppo fondato da Michael Irwin, alias “dottor morte”, la Pharaoh non era malata. Non assumeva medicinali. Aveva solo paura di diventare vecchia. Non esistono statistiche ufficiali sui nostri connazionali affetti dal male oscuro, che decidono di togliersi la vita nel Paese elvetico. Ma negli anni le cronache hanno registrato diversi episodi. Il più celebre è quello di Lucio Magri, fondatore del Manifesto, che, ammalatosi di depressione, nel 2011 aveva scelto il suicidio assistito nel Canton Ticino. Nel 2014, invece, era toccato a Oriella Cazzanello, 85 anni, di Arzignano (Vicenza). Come nella vicenda della Giordano, a un certo punto, i familiari di Oriella non erano più riusciti a contattarla. Finché a un notaio di Arzignano non è arrivata un’urna con le sue ceneri. La signora era andata a Basilea per farla finita: pare fosse piombata nello sconforto per lo sfiorire della sua bellezza. Ad accompagnarla, un amico, Angelo Tedde, cui la donna aveva intestato due polizze da 600.000 euro. Tedde era finito a processo per aiuto al suicidio, ma nell’ottobre del 2015 era stato assolto. Più recente è la storia di un ingegnere di 62 anni di Albavilla (Como), che nel 2017 si è recato a morire in Svizzera perché affetto da depressione. La Procura aveva aperto un’inchiesta e avviato una rogatoria presso le autorità elvetiche. Indagato anche l’amico del professionista, che lo aveva accompagnato oltreconfine. Di nuovo, inchiesta archiviata. Rogatoria senza esito. Ma il caso più assurdo forse è quello di Pietro D’Amico, ex magistrato, lambito nel 2007 da un’inchiesta condotta dall’allora pm Luigi De Magistris. D’Amico, nel 2013, mise fine ai suoi giorni in una struttura di Basilea, Life circle eternai spirit. Depresso perché gli era stata diagnosticato un male incurabile. Un male che però, come avrebbe rivelato l’autopsia, non esisteva: diagnosi errata. A oggi, non si ha notizia di accertamenti svolti da giudici italiani, nonostante lo sgomento e la costernazione della figlia. Le cliniche svizzere, a cominciare da Dignitas, ci tengono a precisare che prima di fornire all’“interessato” (cioè, all’aspirante suicida) la cosiddetta “luce verde”, svolgono tutti gli accertamenti. Un concetto sul quale ha insistito anche il leader dell’associazione Luca Coscioni, il radicale Marco Cappato, raggiunto dalla Verità. “Non è vero che chi è depresso può andare in Svizzera e ottenere il suicidio assistito”, ha assicurato. “Sono episodi estremamente rari, perché c’è depressione e depressione. La depressione che deriva da sfortunate circostanze della vita è per definizione reversibile, curabile. Molto di rado è una patologia irreversibile”. Ma si può sostenere che una donna di 44 anni, come Alessandra Giordano, potesse essere affetta da una depressione inguaribile che ne giustificava la soppressione? Si può dire altrettanto dell’infermiera inglese che non voleva invecchiare, dell’ottantacinquenne vicentina angosciata dallo sfiorire della sua bellezza, o del magistrato fuorviato da diagnosi errate? Gli attivisti pro eutanasia hanno presentato una legge di iniziativa popolare per legalizzare questa pratica in Italia. Se il Parlamento non l’approvasse, a settembre sarà comunque la Consulta a cassare il reato di aiuto al suicidio. Non si rischia di aprire una pericolosa breccia? Come in Belgio, Paese da poco trascinato dinanzi alla Corte di Strasburgo, per “mancata protezione della vita umana”, da un cittadino che lamenta l’eutanasia di sua madre depressa? Cappato, alla Verità, ha specificato che la proposta di legge sull’eutanasia non potrebbe essere applicata ai casi di depressione. Ma ha ammesso: “Mi è capitato che persone depresse venissero a chiedermi aiuto per avviare l’iter del suicidio. Ovviamente, a loro io consiglio di insistere con le terapie psichiatriche”. Ma di quante persone di tratta? “Non sono numeri statisticamente rilevanti. Ma di sicuro i casi non diminuiscono: anzi, negli ultimi anni sono aumentati”. Ecco. Quante altre Alessandra Giordano sono là fuori? Migranti. Una legge popolare per cambiare la Bossi-Fini di Liana Vita Il Manifesto, 11 aprile 2019 Approda finalmente all’esame della commissione affari costituzionali della Camera la proposta di legge di iniziativa popolare depositata il 27 ottobre 2017, grazie alle 90.000 firme raccolte con la campagna “Ero straniero”, promossa da Radicali Italiani, Casa della carità, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto, Cild, con il sostegno di decine di sindaci e organizzazioni, laiche e religiose, tra cui Legambiente, Oxfam, ActionAid e tante altre. Relatore sarà il radicale Riccardo Magi. Già il titolo, “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari” dà il senso della proposta, che poggia su due pilastri: superare la Bossi-Fini introducendo canali di ingresso per lavoro e la possibilità per i cittadini stranieri già radicati nel territorio di mettersi in regola. Proprio ieri è stato pubblicato il decreto flussi 2019: dei 30.850 posti per lavoratori non comunitari, la maggior parte, come ormai da anni, sono riservati ai lavoratori stagionali nei settori agricolo e turistico. Pochissimi i posti che restano per chi voglia lavorare stabilmente nel nostro Paese, anche perché il sistema attuale sembra pensato per scoraggiare questa opzione: il datore di lavoro italiano che ha bisogno di un lavoratore straniero deve rivolgersi a una persona residente in un paese terzo e, nell’ambito delle quote fissate, impegnarsi ad assumerla e farla venire in Italia anche se, presumibilmente, non l’ha mai conosciuta. Mentre lo stesso datore di lavoro, paradossalmente, non può assumere e mettere in regola chi è già presente in Italia, è già formato, ma non ha i documenti. Dai dati del ministero del lavoro emerge che solo il 5% degli ingressi regolari è per lavoro e il dato è costante, nonostante la stessa Confindustria e le altre categorie produttive lamentino la difficoltà di reperire manodopera e chiedano maggiore flessibilità negli ingressi. Il sistema, evidentemente, non funziona e continua a generare lavoro nero e precarietà. Come cambiarlo? La proposta di legge popolare prevede un permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) per ricerca lavoro - da rilasciare con determinate garanzie di rientro in caso di fallimento - con l’obiettivo di facilitare l’incontro dei lavoratori stranieri con i datori di lavoro italiani, anche attraverso intermediari (per esempio, enti pubblici, agenzie per il lavoro, università, camere di commercio e Ong) che selezionino le persone in base alle competenze e al fabbisogno reale. Viene inoltre introdotta la possibilità di mettersi in regola per tutte quelle persone straniere già radicate che hanno un datore di lavoro pronto ad assumerle, come accede in Spagna e in Germania: non una sanatoria una tantum, ma un meccanismo sempre accessibile che permetta di sanare la propria posizione e che valga anche per chi è in Italia da tempo e ha legami familiari stabili. O per i richiedenti asilo o i beneficiari di protezione umanitaria che hanno già un lavoro e sono formati ma che da un momento all’altro ricevono una risposta negativa e si ritrovano irregolari, senza la possibilità di lavorare anche in presenza di un contratto. Soprattutto dopo l’abolizione della protezione umanitaria introdotta dal decreto “sicurezza” e l’aumento dei dinieghi da parte delle commissioni per l’asilo: decine di migliaia di persone che nei prossimi mesi si aggiungeranno agli oltre 500.000 irregolari già presenti in Italia costretti, per sopravvivere, a rivolgersi ai circuiti illegali o alla piccola criminalità, con un impatto inevitabile sui territori. Anche perché il rimpatrio continua a essere solo un argomento da urlare in campagna: i dati nel 2018, si mantengono costanti, intorno alle 6.000 persone, decisamente lontani dalle cifre sbandierate. Decine di realtà, abituate a riflettere e lavorare ogni giorno sul fenomeno migratorio, offrono ora al Parlamento soluzioni a lungo termine e di buon senso. Vedremo se i tempi sono maturi per approfittarne e mettere da parte ansie elettorali e linguaggi e argomenti che - come episodi ormai quotidiani ci dimostrano - fomentano solo rabbia, odio e tensione sociale. Amnesty, pena di morte: nel 2018 le esecuzioni calate di un terzo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2019 I dati del rapporto globale annuale: da almeno 993 nel 2017 a 690 nell’anno scorso. La Cina resta al primo posto del triste primato, seguita da Iran (253), Arabia Saudita (149), Vietnam (85) e Iraq (52). “La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli Stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”, ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International. Al livello planetario, infatti, il numero delle esecuzioni capitali è calato del 30% e ha raggiunto il valore più basso che è stato registrato negli ultimi dieci anni. Questo è il dato positivo messo in evidenza dal rapporto di Amnesty International sulla pena di morte relativo all’anno 2018. Emerge dall’analisi che questo è il riflesso di una significativa riduzione delle esecuzioni complessive in alcuni di quei paesi che, come Iran, Iraq, Pakistan e Somalia, sono annoverabili fra quelli che eseguono più condanne a morte. Similarmente, anche il numero dei paesi che hanno eseguito sentenze capitali si è ridotto. Alcuni Stati, tuttavia, hanno forzato il trend generalmente positivo. La Tailandia ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 2009 e altri paesi hanno presentato degli aumenti nel loro totale annuale, tra questi, Bielorussia, Giappone, Singapore, Stati Uniti d’America e Sudan del Sud. Hanno sollevato preoccupazioni ulteriori i considerevoli incrementi nel numero delle condanne a morte comminate in alcuni Paesi, in particolare Egitto e Iraq. Dati rari, resi accessibili pubblicamente dalle autorità del Vietnam, hanno dato conto dell’estensione del ritorno alla pena di morte nel paese, collocandolo fra i maggiori nel mondo. Permane il segreto di stato relativamente all’uso della pena di morte in Cina. Si apprende dal rapporto che dal 2009 Amnesty International ha smesso di pubblicare le stime sull’uso della pena di morte in Cina, precisando che i dati in grado di confermare sono significativamente inferiori a quelli reali a causa delle restrizioni di accesso alle informazioni. Questa decisione è un effetto delle preoccupazioni su come le autorità hanno distorto il numero stimato da Amnesty International. “Ogni anno - scrive Amnesty - viene rinnovata la sfida a rendere pubbliche le informazioni sull’uso della pena di morte, ma le autorità cinesi ancora si rifiutano di divulgare i dati”. Dalle informazioni disponibili, tuttavia, emerge chiaramente che ogni anno in Cina avvengono migliaia di condanne a morte ed esecuzioni. A seguire l’ Iran (almeno 253), Arabia Saudita (149), Vietnam (85) e Iraq (almeno 52) Sull’altro versante, alcuni Paesi hanno compiuto, durante l’anno, passi in avanti verso l’abolizione totale della pena di morte. Il Burkina Faso ha abolito la pena capitale nel suo codice penale a giugno. Nel febbraio 2018, il presidente del Gambia ha proclamato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e, a settembre, il Paese ha sottoscritto il secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, avente lo scopo di promuovere l’abolizione della pena di morte. Il governo della Malesia ha stabilito, a luglio, una moratoria sulle esecuzioni e, in ottobre, ha annunciato la futura riforma delle leggi in materia di pena di morte. Nello stesso mese, la legge sulla pena capitale è stata dichiarata incostituzionale nello stato di Washington, Stati Uniti d’America. Questi passi positivi hanno trovato riscontro in altri avanzamenti registrati a livello internazionale. “Il 17 dicembre - scrive Amnesty - l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, con un appoggio quanto mai alto, la settima risoluzione che chiede ai paesi che ancora mantengono la pena di morte, di istituire una moratoria sulle esecuzioni, con la prospettiva di abolire la pena capitale”. Dei 193 stati membri delle Nazioni Unite, 121 hanno votato in favore della risoluzione mentre 35 si sono espressi contro e 32 si sono astenuti. Il cresciuto appoggio alla risoluzione del 2018 costituisce un’indicazione aggiuntiva del fatto che il consenso globale si sta convogliando per consegnare la pena di morte al passato. Libia. Haftar avvisa le ambasciate a Tripoli: “Attacchiamo, non vi toccheremo” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 11 aprile 2019 Le truppe del generale in citta con i megafoni: arrendetevi, appendete stracci bianchi. Via ai saccheggi. Sono momenti cruciali per la Libia in guerra. La vigilia di quelle che potrebbero essere ore decisive per la capitale, il maresciallo Khalifa Haftar avvisa le ambasciate straniere (tra cui quella italiana) e le organizzazioni internazionali che le sue truppe eviteranno di coinvolgerle nei combattimenti. È uno dei pochissimi segnali di limitato controllo delle operazioni militari in una situazione che peraltro offre tutti gli ingredienti del caos di violenza in cui ormai periodicamente scivola il Paese ad ogni risorgere delle tensioni dai mesi della sanguinosa defenestrazione del regime di Muammar Gheddafi nel 2011. “Questa notte o al massimo domani le colonne di Haftar daranno la spallata finale per conquistare il centro di Tripoli e sconfiggere una volta per tutte la coalizione di forze che sta difendendo il governo di unità nazionale del premier Fayez Sarraj”, ripetono in coro commentatori e media locali. Tra i circoli diplomatici i messaggi dell’uomo forte della Cirenaica sono trattati come la conferma dell’imminenza dell’attacco. Sono pronti i piani di evacuazione per i pochi stranieri ancora presenti. Visitando il cuore della città assediata martedì sera e ieri nei quartieri del fronte dove i combattimenti sono più accesi abbiamo notato una situazione di crescente allarme, appena un poco addolcita dal desiderio di svago e dimenticanza tra questa popolazione palesemente stanca della precarietà. Nel quartiere periferico di Al Furnaje, circa cinque chilometri dal centro, gli abitanti si aspettano l’apparire delle colonne blindate di Haftar in arrivo dalla zona di Ghassar Ben Ghashir letteralmente da un momento all’altro. Ogni tanto uno scoppio, uno sparo, tremore di terra. Haftar usa carri armati e batterie di missili Grad. “I soldati di Shibani (“il vecchio” come hanno soprannominato il maresciallo in città) avanzano in due ondate. Prima arrivano i corpi scelti che perlustrano le strade. Hanno altoparlanti e invitano i simpatizzanti ad unirsi a loro con le armi personali. Chi invece non intende combattere deve appendere bandiere bianche sull’abitazione. Coloro che resistono vengono passati per le armi dalla seconda ondata”, spiega un anziano che resta alla finestra. “Il problema è però che dietro le truppe scelte ci sono gruppi di saccheggiatori, gente che pensa solo a rubare”, aggiunge un negoziante che già da tempo ha blindato il suo salone d’auto di lusso. Non sono una novità i saccheggi. Fu una costante al tempo della rivoluzione “assistita” dalla Nato nel 2011. Allora le milizie di Misurata e Bengasi che accerchiavano Sirte si dedicarono soprattutto a derubare nelle case abbandonate. Lo stesso avvenne a Bani Walid, Tarhouna e in vaste aree della capitale. “Oggi il fulcro dei combattenti di Haftar viene dalla Cirenaica, vedono in Tripoli l’antica antagonista e vogliono vendicarsi”, temono in tanti. Nel pomeriggio nel quartiere di Ain Zara, dove le truppe di Haftar sono arrivate a soli 8 chilometri dal centro, abbiamo visto posti di blocco improvvisati, con giovani col mitra in mano che perquisivano nervosi le rare auto di passaggio. Se il traffico sul lungomare resta intenso, appena si esce verso le periferie e la zona di Wadi Rabia, dove sono attestati gli assedianti, le strade sono deserte. La Croce Rossa denuncia i combattenti nei due campi. “Non ci lasciano accedere alle zone contese. Non possiamo evacuare le famiglie. Questi sono combattimenti senza regole”, dice Osama Ali Masud, uno dei medici che più si prodiga per spostare i civili. Ieri sera i bilanci di sangue contavano una cinquantina di morti e oltre duecento feriti da giovedì. E sempre ieri le forze di Haftar hanno annunciato l’abbattimento di un caccia, notizia poi smentita dalle truppe di Sarraj. Ma la novità fondamentale di queste ore è che si sta andando molto oltre ciò che era avvenuto a settembre. Se allora i fedelissimi di Haftar inquadrati nella Settima Brigata di Tarhouna si erano fermati a Wadi Rabia, oggi i suoi uomini controllano ormai circa la metà della zona urbana. Le cose sono precipitate dall’altro ieri, quando l’inviato speciale dell’Onu, Ghassan Salamè, ha annunciato il rinvio della Conferenza Nazionale, che avrebbe dovuto iniziare tra tre giorni nell’oasi di Ghadames con l’intento di trovare una formula di cooperazione tra Haftar e Sarraj. Bloccato il processo politico, la parola passa adesso alle armi. Libia. Haftar nel pantano arruola bambini-soldato, Serraj perde un ministro di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 11 aprile 2019 A Tripoli evacuati richiedenti asilo e civili. Il primo ministro Giuseppe Conte riferirà oggi al parlamento sulla crisi libica, mentre dalla capitale del paese nordafricano l’inviato Onu Salamè promette: la conferenza di Ghadames è solo rinviata. La sottovalutazione dello sforzo bellico per conquistare la capitale da parte del generale cirenaico Haftar è ormai chiara. A una settimana dal lancio dell’offensiva che avrebbe dovuto dargli campo libero nella capitale, sottomettere le milizie di Tripoli e garantirgli un podio più alto nella conferenza nazionale libica che avrebbe dovuto iniziare domenica prossima a Ghadames, al confine con l’Algeria, le sue truppe - il Libyan national Army - fino a ieri sera erano ancora impantanate nei sobborghi meridionali della città. Conquistano posizioni, come la caserma della quarta brigata ad Aziziya, con un bottino di vecchie armi risalenti ai tempi del Colonnello Gheddafi e qualche prigioniero e ne perdono altre più vicine al centro, come la Gran Porta 27 e la zona di Wadi Rubaie. In serata però il generale Ben Nayel, comandante delle forze di Haftar impegnate a sud della capitale, ha detto ad Agenzia Nova che il 155° battaglione di fanteria era “entrato nel campo di Yarmouk prendendone il pieno controllo”, a soli otto chilometri dal centro. Proprio per uscire dal guado il generale ha dato fondo alla mobilitazione bellica e questo spiegherebbe perché - denunciano i media della Tripolitania - ha reclutato come soldati anche minorenni. Le foto del Libya Observer ne mostrano una decina, fatti prigionieri, ancora in divisa mimetica ma a piedi nudi, costretti a posare portando cartelli gialli con scritte in arabo. I quotidiani dicono che sono stati ingaggiati nelle fila dell’Lna dietro un compenso di 4mila dinari. Sbarbatelli tra i 14 e i 17 anni, bambini-soldato mandati al fronte a morire - anche se il bilancio dei caduti resta intorno alle 50 unità - per una paga da 800 euro, considerando il tasso di cambio al mercato parallelo, rimasto finora stabile. Una foto ne ritrae altri, sempre senza scarpe, seduti in un cortile mentre sorseggiano succo di frutta da brik con cannuccia smangiucchiando felafel. La ferocia non è solo da una parte. Ieri alle forze di Misurata a difesa del governo di Serraj - che nel frattempo ha perso un altro pezzo, il ministro della Giustiuzia Moahamed Lamlum fuggito a Tuniusi - si è unito l’ex comandate dell’operazione “Alba libica” del 2014, Salah Badi, messo all’indice negli Usa per l’utilizzo di missili Grad terra-aria in zone densamente popolate di civili. Ieri la Mezzaluna rossa è riuscita a evacuare una trentina di famiglie dai luoghi degli scontri a Ein Zara e Wadi Rubaie. E l’Unhcr in mezzo agli spari ha trasferito in pullman 150 migranti da un centro di detenzione a un altro più arretrato. L’inviato dell’Onu Salamè, rimasto in città, ha convocato una conferenza stampa in mattinata per annunciare che non si dà per vinto e che la conferenza nazionale, che dovrebbe ristabilire pace duratura e stabilità legale portando il Paese a elezioni entro l’anno, è solo temporaneamente slittata. Secondo gli analisti indipendenti dell’International Crisis Group, l’Onu - e l’Italia, dove oggi il premier Conte riferisce in Parlamento sulla crisi in Libia - negli ultimi mesi ha avuto troppa fiducia sulla riuscita della conferenza di Ghadames. Un po’ come Haftar ha avuto troppa fiducia nella facile conquista del Fezzan (dove è dovuto intervenire nelle ultime ore per reprimere un’insorgenza dell’Isis vicino Jufra) e nella sua possibile popolarità come liberatore di Tripoli dalla morsa delle milizie al soldo del governo. Secondo il rapporto dell’Ics Haftar ha scambiato il silenzio di alcuni partner - Russia, Egitto, Francia, Emirati - per appoggio. Ma per evitare l’ingresso in campo di potenze regionali, come Qatar e Turchia, e quindi il deflagrare della guerra, l’Onu dovrebbe attivare sanzioni, impedire il foraggiamento di armi ai contendenti, uscire dalla logica dei tavoli Haftar-Serraj per allargare il dialogo ad altre forze, favorire un nuovo assetto della sicurezza nella capitale e risolvere il problema della spartizione dei proventi del petrolio attraverso la Banca centrale, oggi in mano all’inamovibile Sadiq Kabir, della Fratellanza musulmana, che utilizza il suo potere a detrimento della Cirenaica. L’attività dei pozzi per il momento non ha risentito della guerra nella lontana Tripoli, la compagnia libica Noc ha dichiarato che la produzione procede as usual invitando le due parti ad astenersi da attacchi alle infrastrutture petrolifere. Ma se la guerra si dovesse estendere è evidente che non basterà questo richiamo a evitare danni e distruzioni. Messico. Città del Messico, al “Reclusorio Norte” il lavoro allena la libertà di Marco Belli gnewsonline.it, 11 aprile 2019 “Preparándome para mi libertad”. È la scritta impressa sulla maglietta di un detenuto lavorante nel laboratorio tessile avviato da un’azienda che ha portato un segmento della sua produzione nel carcere messicano di Reclusorio Norte. E in questa autodeterminazione, semplice e diretta - di cui racconta molto non tanto il dichiarato obiettivo finale della libertà quanto quella consapevolezza della necessaria preparazione per raggiungere tale meta - è racchiusa la significativa esperienza di questo carcere. Area periferica di Città del Messico. Abbiamo parlato con Enrique Serrano Flores, direttore del Reclusorio Norte, istituto penitenziario grande quanto una piccola città: poco meno di 7.200 detenuti, fra i quali anche molti stranieri, colombiani, venezuelani, cubani, statunitensi. E poi anche cinque cittadini dell’Unione Europea, un arabo e persino un cinese, che godono di un trattamento diverso dagli altri, anche come camera di pernottamento. Il senso di tale moltitudine lo dà il numero dei colloqui: 1.200 circa al giorno, che possono protrarsi fino a 4 ore in caso di visita intima e in 5-6 ore in presenza di figli, soprattutto per i detenuti più meritevoli. A sorvegliare la numerosa popolazione carceraria 440 poliziotti che si alternano su 3 turni lavorativi da 120 unità ciascuna e un circuito di videosorveglianza capillare, con 240 telecamere perfettamente funzionanti. Il comandante fa spallucce a chi gli chiede quanto possa essere difficile governare un istituto del genere. E a una precisa domanda sul numero di eventi critici che si verificano risponde serafico: pochi (due i suicidi registrati lo scorso anno), soprattutto grazie a programmi di prevenzione e a trattamenti individuali e di gruppo. E, probabilmente, grazie anche a una simile regolamentazione delle visite. Dei detenuti presenti, il 25% circa è in attesa di giudizio e il 40% dei condannati deve scontare una pena al massimo di un anno: sarebbero un immenso serbatoio al quale attingere, sussurra il coordinatore nazionale della task-force italiana sul lavoro di pubblica utilità… Sono 2.000 i detenuti che lavorano o si formano in questo carcere, che offre enormi spazi lavorativi sia per le imprese sia per l’autoimpiego. E lo fanno secondo lo spirito di quella frase stampata sulle loro magliette. Tante le attività lavorative, formative, sportive e sanitarie avviate, così come i programmi speciali per alcol e tossicodipendenti. Tutte rivolte al medesimo scopo: rinvigorire il corpo e la mente di queste persone, preparando il loro recupero attraverso la riconsiderazione degli errori fatti, la presentazione di nuove opportunità e l’illustrazione delle modalità per usufruire di benefici o sconti di pena. Il tutto, evidentemente, anche nell’ottica di minimizzare i rischi. Egitto. Ora la repressione colpisce chi critica gli emendamenti alla Costituzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 aprile 2019 Amnesty International ha denunciato arresti e diffamazioni a mezzo stampa nei confronti di chi in Egitto critica le proposte di emendamenti alla Costituzione, attualmente all’esame del parlamento. Il voto del parlamento è previsto nelle prossime settimane. Se gli emendamenti verranno approvati, la nuova bozza di Costituzione verrà sottoposta a un referendum. Amnesty International ha effettuato un’analisi dettagliata degli emendamenti. Particolarmente preoccupanti sono quelli che rafforzerebbero l’influenza delle forze armate sul governo, eliminerebbero la revisione giudiziaria delle proposte di legge, espanderebbero il ruolo dei tribunali militari, garantirebbero al presidente enormi poteri in materia di affari giudiziari e di nomina delle alte cariche della magistratura e, infine, estenderebbero il mandato presidenziale a sei anni e consentirebbero al presidente al-Sisi di candidarsi altre due volte, rimanendo al potere fino al 2034. Come era prevedibile, su questa situazione così come sulla gravissima situazione dei diritti umani in Egitto il presidente degli Usa Donald Trump, nel corso del suo recente incontro a Washington con al-Sisi (nella foto), non ha battuto ciglio. Gli emendamenti stanno ricevendo invece ampie critiche al Cairo da personalità pubbliche, organizzazioni per i diritti umani, partiti politici e anche dall’Associazione dei giudici del Consiglio di stato. Le autorità egiziane hanno reagito con un ulteriore giro di vite nei confronti della libertà d’espressione e prendendo di mira con arresti, diffamazioni e attacchi informatici chi aveva manifestato la propria opposizione agli emendamenti. Nei primi tre mesi del 2019 sono state arrestate per reati di opinione almeno 57 persone, almeno quattro delle quali per aver criticato sui social media gli emendamenti. Come in passato, gli arresti sono avvenuti alle prime ore del giorno e sono stati seguiti da diversi giorni di “sparizione forzata”, trascorsi i quali un procuratore della sicurezza dello stato ha ordinato la detenzione ufficiale in attesa della conclusione di indagini per le accuse di “appartenenza a un gruppo terroristico” e “diffusione di informazioni false”. Diverse personalità pubbliche, tra le quali alcuni parlamentari, sono state soggette a campagne diffamatorie sui mezzi d’informazione privati e di proprietà statale. Alcune di loro sono state oggetto di insulti omofobici e da parte di altri parlamentari è stata chiesta la revoca della cittadinanza e l’apertura di un processo per “tradimento”. Amnesty International ha anche documentato una serie di attacchi col metodo del “phishing”, con ogni probabilità provenienti da organismi governativi, contro organi di stampa indipendenti e difensori dei diritti umani che avevano preso posizione contro gli emendamenti. Il 28 marzo un tribunale ha vietato agli attivisti del Movimento civico democratico - un gruppo di opposizione - di svolgere una manifestazione contro gli emendamenti di fronte al parlamento. Il ministro dell’Interno aveva presentato un ricorso chiedendo che l’iniziativa non venisse autorizzata in quanto rappresentava “una minaccia alla pace e alla sicurezza pubblica”. Nel motivare il suo provvedimento, il tribunale ha dichiarato che “elementi anti-statali avrebbero potuto infiltrare la protesta e aggredire i partecipanti per poi accusare le forze di sicurezza di averlo fatto”. Sudan. Colpo di Stato in atto, circondato il palazzo presidenziale La Stampa, 11 aprile 2019 L’esercito è entrato questa mattina all’alba nella sede dell’emittente radiotelevisiva di Stato, al sesto giorno di un sit in di protesta davanti al loro quartier generale di Khartum di migliaia di persone che invocano la rinuncia del presidente Omar Al Bashir, al potere da 30 anni in modo autoritario. Una quarantina di veicoli militari ha circondato il palazzo presidenziale, riferiscono testimoni e diversi media africani, secondo i quali sarebbe in atto un colpo di stato. I militari hanno fatto sapere che “presto” ci sarà un “importante annuncio a reti unificate”. Al momento l’emittente trasmette no stop musiche militari. Gli organizzatori della protesta hanno esortato tutti gli abitanti di Khartoum ad accorrere in massa davanti al quartier generale dell’esercito. “Chiediamo al nostro popolo di tutta la capitale e della regione circostante di recarsi immediatamente nell’area del sit-in e di non andarsene da lì fino alla nostra prossima comunicazione”, ha detto l’Associazione dei professionisti sudanesi (“Sudan Professionist Association”) fondata 7 anni fa da circa 200 docenti universitari a sostegno di imprenditori e professionisti. Le vittime delle proteste - Sono undici le persone morte nel corso delle proteste. Lo ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale, Suna. “Il governo ha ricevuto un rapporto dal capo della polizia di Khartoum che riportava 11 martiri, tra cui sei membri delle forze di sicurezza, negli incidenti di martedì”, ha detto Hassan Ismail, un portavoce del governo. Il principale leader dell’opposizione in Sudan, Sadiq al Mahdi, aveva denunciato martedì la morte di una ventina di manifestanti dal 6 aprile “negli attacchi armati quotidiani di individui mascherati” contro i sit-in a Khartoum.