L’accesso dei lavoratori detenuti al welfare aziendale di Alessandro Alcaro* bollettinoadapt.it, 10 aprile 2019 La c.d. riforma penitenziaria del 2018 ha apportato varie modifiche alla disciplina di cui alla l. n. 354/1975 (di seguito “ordinamento penitenziario” o “o.p.”), anche dall’angolo visuale giuslavoristico, senza tuttavia intervenire direttamente sulla disciplina del rapporto di lavoro dei detenuti alle dipendenze delle imprese private. Secondo la dottrina e giurisprudenza dominanti, a tale rapporto di lavoro si applica il medesimo trattamento economico e normativo previsto per i lavoratori in stato di libertà, salvo le peculiarità espressamente indicate nella normativa speciale penitenziaria, come ad esempio il versamento della retribuzione non direttamente al lavoratore detenuto ma alla direzione d’istituto. Ciò a causa del principio per cui l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale (art. 20, c. 3, o.p.). Se è così, anche il lavoratore detenuto, così come il lavoratore libero, avrebbe diritto ai servizi di welfare aziendale eventualmente messi a disposizione dall’impresa o cooperativa sociale datrice di lavoro e rivolti alla generalità dei dipendenti, stante l’assenza di una deroga esplicita in tal senso. In realtà, la questione è notevolmente complessa, priva di indagine in letteratura scientifica: per il momento ci si limiterà ad alcune riflessioni di carattere generale alla luce dell’attuale disciplina dell’ordinamento penitenziario. Deve prendersi atto della peculiare situazione del detenuto, alla cui limitazione della libertà personale si correla un penetrante potere dell’amministrazione penitenziaria in ordine alla gestione della quotidianità: dei tempi, dei luoghi, dei beni possedibili e scambiabili. Potere penetrante disciplinato dal regolamento interno o, in sua assenza, dalla disposizione del direttore d’istituto, nel rispetto delle indicazioni di cui all’ordinamento penitenziario e al regolamento d’esecuzione, il d.P.R. n. 230/2000 (di seguito “reg. es.”), ed esercitato in conformità alle circolari emanate dal Dap. In particolare, occorre tenere conto del fatto che, in attuazione del principio di garanzia di pari condizioni di vita ai detenuti (art. 3 o.p.) i valori monetari del detenuto possono confluire o nel fondo vincolato del peculio, o nel fondo disponibile, ovvero eccedere quest’ultimo ad avere un’ulteriore destinazione, secondo la disciplina dell’art. 57 reg. es. Il fondo vincolato è costituito dalla quota di un quinto della retribuzione del lavoratore detenuto, mentre il fondo disponibile è costituito dall’insieme di una serie di valori quali la remunerazione all’esito dei prelievi ammessi dall’ordinamento penitenziario, denaro all’ingresso in istituto, ricavato della vendita degli oggetti di proprietà dell’utenza o inviato dalla famiglia e da altri o ricevuto a titolo di premio o di sussidio, fino al limite massimo di 1032,91 €; ciò che eccede tale limite, salvo che non debba essere immediatamente utilizzato per spese inerenti alla difesa legale, al pagamento di multe o ammende, nonché al pagamento di debiti, “viene inviata ai familiari o conviventi secondo le indicazioni dell’interessato, o depositata a suo nome presso un istituto bancario o un ufficio postale”. Il detenuto non può possedere denaro (art. 14 reg. es.), ma può utilizzare il fondo disponibile del peculio, attraverso un “libretto” di conto corrente consegnato dalla direzione d’istituto, che può essere alimentato anche con flussi di denaro provenienti dall’esterno. Questa disciplina consente potenzialmente la piena fruibilità del c.d. welfare rimborsuale (spese per l’acquisto di abbonamenti per il trasporto pubblico, servizi di educazione e istruzione, ivi inclusi i servizi di mensa nonché la frequenza di ludoteche e di centri estivi ed invernali, servizi di assistenza a familiari anziani e non autosufficienti) a beneficio dei propri familiari. Infatti le somme rimborsate dovrebbero essere accreditate alla direzione d’istituto (mediante vaglia postale, consegna del denaro allo sportello - colloqui ovvero accredito su C/C bancario, laddove previsto), la quale a sua volta dovrebbe accreditare le somme sul “libretto” di conto corrente consegnato al detenuto e che rappresenta il fondo disponibile del peculio, dunque soggetto al limite massimo di 1.032,91 €. Le somme derivanti dal rimborso delle prestazioni di welfare aziendale (laddove consentito) ed eccedenti l’anzidetto limite sarebbero inviate ai familiari o conviventi, o depositate a nome del lavoratore detenuto presso un istituto bancario o un ufficio postale. L’erogazione “interna” delle misure di welfare da parte del datore di lavoro attraverso i propri mezzi e la propria organizzazione così come l’erogazione esternalizzata attraverso una rete di fornitori della prestazione può avvenire nei limiti della disciplina penitenziaria, rispettivamente nei limiti di agibilità ammessi dalla convenzione con la direzione d’istituto e principalmente da parte di enti già abilitati ad operare all’interno dell’istituto di pena (ad esempio lo spaccio interno deputato alla vendita di generi alimentari) in base ad una convenzione con il datore di lavoro. Più complessa l’erogazione di prestazioni di welfare da parte di fornitori esterni, stante gli ostacoli normativi (prima ancora che fisici) all’ingresso di terzi nell’istituto penitenziario e all’uscita di lavoratori detenuti da esso e correlata libertà di movimento: tale situazione rende potenzialmente accessibili quali misure di welfare i contributi per la previdenza complementare ovvero contro il rischio di non autosufficienza o gravi patologie, e l’assistenza sanitaria integrativa (a beneficio dei familiari), nonché le erogazioni in natura fino a 258,23 € annui, riconducibili alla fornitura di specifici beni. Tali beni, erogati attraverso lo schema del welfare innominato di cui all’art. 51, c. 3 Tuir, possono provenire anche dall’esterno, purché nel rispetto dell’art. 14 reg. es.: consegna nel limite di quattro pacchi al mese di peso non superiore a 20 kg, soggetti a previ controlli, contenenti esclusivamente generi di abbigliamento e generi alimentari di uso comune che non richiedono manomissioni in sede di controllo e sempre purché tali generi non superino le normali esigenze dell’individuo. Sarebbe così possibile acquistare all’esterno generi alimentari a costi sensibilmente inferiori rispetto a quelli dello spaccio interno, che la prassi attesta essere superiori a quelli di mercato a causa dell’assenza di concorrenza. Gli acquisti di beni e generi alimentari possono avvenire anche nello spaccio interno dell’istituto di pena, tra quelli ammessi dal regolamento interno “finalizzati alla cura della persona e all’espletamento delle attività trattamentali, culturali, ricreative e sportive”. Tuttavia a parere di chi scrive l’acquisto di beni e generi alimentari può avvenire nel rispetto dei limiti di spesa previsti per il sopravvitto: dunque, in concorso con gli altri valori che concorrono al fondo disponibile del peculio, gli importi accreditati sul conto welfare non potrebbero essere utilizzati per gli acquisti e la corrispondenza per un massimo di 500,00 € mensili (150,00 € settimanali) e per gli invii ai familiari e ai conviventi per un massimo di 750,00 € mensili (previa autorizzazione direzione d’istituto sempreché si tratti di “prestazioni integrative”, altrimenti massimo 350,00 € mensili). Se così non fosse, appare evidente che gli acquisti di beni e generi alimentari a mezzo del welfare aziendale consentirebbero di aggirare i suddetti limiti fissati in attuazione del principio di pari condizioni di vita tra i detenuti di cui all’art. 3 o.p. Com’è noto, l’erogazione esternalizzata del welfare aziendale tendenzialmente avviene a mezzo dei voucher, ossia documenti di legittimazione in formato cartaceo od elettronico, così come la gestione del budget figurativo riconosciuto a ciascun lavoratore da fruire in servizi di welfare (il c.d. contro welfare) avviene a mezzo delle piattaforme informatiche. Anche l’utilizzo di tali strumenti non è affatto agevole nella realtà detentiva. Nonostante le indicazioni più recenti del Dap promuovano l’utilizzo delle apparecchiature informatiche e della connessione internet con finalità rieducativa (ad esempio per svolgere la prestazione di lavoro ovvero effettuare colloqui via skype con i familiari), è evidente che le soverchianti esigenze di sicurezza (e di bilancio) costituiscano un ostacolo alla disponibilità da parte del lavoratore detenuto di un’apparecchiatura informatica che consenta l’accesso alla piattaforma di gestione del welfare e di fruizione telematica dei voucher. Allo stesso modo, ostacoli sussistono all’utilizzo di voucher cartacei, per i quali, occorre che il possesso sia abilitato dal regolamento interno, ai sensi dell’art. 14 reg. es. Si può ipotizzare, stante l’assenza di espliciti divieti sul punto, che, in caso di impossibilità di gestione telematica del conto welfare, il lavoratore detenuto possa delegare in tal senso un suo familiare o più in generale un terzo, fermo restando che i servizi di welfare debbano essere fruiti esclusivamente dal titolare o, laddove consentito, dai suoi familiari. D’altra parte, stante le drastiche limitazioni all’utilizzo della telefonia ed ai limiti oggettivi della corrispondenza, ogni altra soluzione di gestione diretta (magari interfacciandosi con l’amministrazione del provider) appare impraticabile. In conclusione, appare evidente che, per essere effettivamente operativo e fruibile per i lavoratori detenuti, il welfare aziendale richiede una sua regolazione mediante apposito protocollo tra azienda e direzione d’istituto, per disciplinare aspetti come l’accesso alla piattaforma telematica di gestione del welfare, l’utilizzo dei voucher, l’erogazione diretta da parte del datore di lavoro di prestazioni (ad esempio servizi di assistenza legale o fiscale, o della mensa aziendale), il meccanismo di computo del concorso del budget figurativo e del fondo disponibile del peculio in caso di acquisto di beni e generi alimentari. La regolamentazione tramite protocollo è soprattutto necessaria a preservare le esigenze di sicurezza ed il principio di assicurazione di pari condizioni di vita ai detenuti. Tale principio è finalizzato proprio a prevenire differenziazioni e affermazione di posizioni di egemonia tra i detenuti. In tal senso, le utilità derivanti da servizi di welfare potrebbero rappresentare il principale degli elementi di differenziazione all’interno dei reparti detentivi, contribuendo a realizzare e consolidare posizioni di leadership e di subordinazione tra reclusi. Tuttavia, a parere di chi scrive, se il maggiore potere di autosostentamento e supporto ai familiari non deriva dall’appartenenza a sodalizi criminali, ma sia correlato al rapporto di lavoro svolto dal recluso, tale principio dovrebbe essere soggetto ad opportuni contemperamenti. In assenza di una regolamentazione tramite protocollo (in assenza di intervento normativo o circolare del Dap), l’unico welfare aziendale ipotizzabile per i lavoratori detenuti sembra essere esclusivamente quello solo indirettamente fruito dagli stessi: il welfare rimborsuale a beneficio dei familiari (ivi inclusa l’assistenza sanitaria integrativa) e quello consistente in contributi e premi versati per la previdenza complementare o contro il rischio di non autosufficienza o gravi patologie, gestito telematicamente dai familiari (o comunque terzi) dietro mandato del lavoratore detenuto. *Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro Università degli Studi di Bergamo Salute mentale e assistenza in carcere. Superare divisioni ideologiche e tornare ad investire di Pietro Pellegrini quotidianosanita.it, 10 aprile 2019 Il recente documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (QS 31 marzo 2019) su “Salute mentale e assistenza psichiatrica nelle carceri” riporta l’attenzione su un tema che dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) non ha ancora avuto una riforma organica. Nonostante gli Stati generali per l’esecuzione della pena e la legge 103/2017 non si è creato un sistema unitario ed organico in grado di assicurare il diritto alla salute a prescindere dallo stato giuridico. La chiusura degli Opg è stata un fatto di civiltà ma non ha risolto tutti i problemi. Tuttavia, a distanza di quattro anni, la legge 81 nel complesso sembra poter funzionare tanto che a fronte di circa 610 posti in Rems vi è un crescente numero di persone seguite dai Centri di salute mentale stimato in circa 6.000 persone a livello nazionale, sulla base di una proiezione dei dati del 2017 dell’Emilia Romagna. Sulla base di recenti rilevazioni il dato potrebbe essere anche maggiore ma può essere solo stimato in quanto manca un sistema epidemiologico nazionale. Per quanto vi siano elementi critici, la chiusura degli OPG è risultato epocale che va evidenziato insieme ai problemi, alle contraddizioni che una tale riforma ha determinato e al contempo vanno visti i passi necessari per completare un sistema di cura e giudiziario di comunità. Infatti, pur di fronte a due pronunciamenti del Consiglio Superiore della Magistratura, alla stipula di diversi protocolli regionali tra psichiatria e magistratura, e all’impegno di tanti operatori sanitari e del diritto, le nuove prassi fanno fatica ad affermarsi. Lo stesso accordo Stato Regioni del 26 febbraio 2015 non è più stato aggiornato. Manca un’azione di governo nazionale e coordinata con le regioni, sedi ove affrontare i diversi problemi aperti. La definizione delle Buone pratiche andrebbe effettuata mediante una Consensus conference nazionale con il coinvolgimento di tutti gli attori, magistrati, psichiatri, amministrazione penitenziaria, UEPE, garanti, sindaci e servizi sociali, pazienti e loro associazioni, società civile. Un tema complesso sul quale si possono fare solo alcune considerazioni. Le REMS dovrebbero essere “residuali” ma ospitano sia soggetti con misure di sicurezza definitive e sia, per circa il 40%, persone con misure provvisorie. Questo determina da un lato la lista di attesa e dall’altro un peggioramento della qualità della cura. Questa avviene nel territorio e si sta riflettendo sulla qualità delle risposte, le tipologie di REMS ma anche sulla loro natura e utilità. D’altra parte l’operatività risente della mancata definizione legislativa dei percorsi relativa ai diversi profili giuridici che venivano collocati negli OPG. La loro chiusura ha semplicemente fatto emergere una situazione di sofferenza negli II.PP connessa non solo ai disturbi mentali e alla carenza delle Articolazioni Tutela salute mentale, quanto al disagio sociale e alle condizioni stesse della detenzione. Una considerazione questa che dovrebbe essere affrontata in modo coerente, sia assicurando adeguati interventi di cura specie alternativi al carcere, sia mediante una profonda riflessione su qualità e metodi rieducativi applicati a tutti i detenuti e non solo per coloro che sono malati. Problemi aperti da tempo come l’alto tasso di recidive nei reati (intorno al 70%), anche se il maggiore sovraffollamento e la ripresa dell’aumento dei suicidi come evidenziato anche dalla recente relazione del Garante Mauro Palma, dovrebbero indurre una riflessione circa l’efficacia della politica attuata, specie nell’ultimo anno, che ha puntato su una presunta certezza della pena (e non del diritto) rendendo più difficile l’accesso alle misure alternative al carcere. Sotto profilo legislativo come ricorda il CNB la persistenza dell’art. 148 del c.p. mantiene una grave discriminazione a danno dei malati mentali, i quali subiscono anche lo stigma della non imputabilità, del doppio binario: una “norma si configura come una “legislazione speciale” per persone portatrici di disabilità psico-sociale, espressamente esclusa dalla Convenzione sulla Disabilità”. Il tema della condanna dell’atto-reato si pone nella quotidianità, anche per la cura, perché la persona anche se malata si rende conto di quanto ha commesso ed ha bisogno di capire, di elaborare e per quanto possibile di riparare. Garantire il diritto al processo non significa negare il disturbo mentale ma tenerne conto nell’esecuzione della pena. Imputabilità e pericolosità sociale restano il punto centrale del nostro sistema con tutte le conseguenze in termini di scientificità, adeguatezza, rispetto dei diritti, utilità nei percorsi di cura e abilitazione. In questo quadro i disturbi mentali non rappresentano un quadro unitario, bensì un insieme eterogeneo di condizioni cliniche, sociali e giudiziarie. Mentre nelle REMS le persone con disturbi psicotici rappresentano circa il 70%, secondo i dati della Regione Emilia Romagna Report 2017 sulla salute in carcere in Emilia Romagna il problema della salute mentale e delle dipendenze patologiche negli Istituti di pena risulta rilevante e il 16,1% dei detenuti presenta quadri psichiatrici clinicamente significativi. Tuttavia la maggior parte di questi sono costituiti da Disturbi nevrotici e somatoformi (40%), disturbi della personalità 19,4%, Abuso-dipendenza da sostanze 37,8% da eroina, 29,4% cocaina. I disturbi psicotici sono meno dell’8% e non va dimenticato il “residuo ex OPG” di Reggio Emilia e Barcellona Pozzo di Gotto costituito da soggetti seminfermi che sono rientrati nelle Articolazioni Tutela salute mentale nelle quali il numero di posti pare insufficiente e quel che più rileva non costituiscono ambiti terapeutici adeguati. In particolare per i disturbi mentali gravi che dovrebbero essere curati al di fuori del carcere. Per individuare le soluzioni da adottare all’interno degli istituti, fuori, con soluzioni innovative, va ripreso il dibattito avendo punti di riferimento chiari e risolvendo problemi semplici ma cruciali: il riconoscimento dell’identità, della residenza (apolidi e senza fissa dimora), la collocazione dei detenuti in ambito regionale, dando la possibilità di fruire di diritti al lavoro, alle relazioni. Soluzioni di prossimità, in grado di favorire la presa in carico da parte dei servizi sociali, dei Dipartimenti di Salute mentale dipendenze patologiche. Una strategia che superi incompatibilità e apra a diverse concezioni dell’esecuzione penale e a proficui rapporti degli Istituti di pena con il territorio, come diverse esperienze stanno dimostrando. Ben venga il dibattito e la possibilità di addivenire a soluzioni nuove anche per i detenuti stranieri. Occorre chiedersi se la pena eseguita negli Istituti sia funzionale alla cura e al recupero delle persone anche in relazione ai costi tutt’altro che trascurabili della detenzione (circa 140 euro al giorno/persona). Come giustamente ricorda il CNB occorre rivedere la legge sulle sostanze e apre riflessioni sulla gestione del disagio, delle violazioni e sul “patto sociale”. Il problema delle persone con Disturbi della personalità, psicopatia, uso di sostanze richiede soluzioni innovative e specifiche. In questa fase, auspicando un superamento delle visioni ideologiche va ripreso l’investimento di risorse, di pensieri, una ricchezza evidenziata anche dagli interventi pubblicati da Quotidiano Sanità, per giungere con un modello centrato sulle pratiche e dare risposte alle sofferenze delle persone. Questo in coerenza con la legge 180. Riconosciuta la centralità dei Dipartimenti di salute mentale occorre ricordare come siano essenziali risorse di personale ed economiche per dare realizzazione al progetto di riforma e riprendere speranza. *Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma Cani in carcere: quando l’amore ha quattro zampe di Antonella Barone gnewsonline.it, 10 aprile 2019 “Quando ho visto entrare i cani in carcere tranquilli ed educati, per incontrare i loro proprietari detenuti che li aspettavano, tutti ben vestiti e raggianti, e poi quando li ho visti ritrovarsi, magari dopo anni, tra scodinzolii, carezze, manifestazioni di gioia quasi incontenibili, ho pensato che, per quei momenti, ne vale proprio la pena di fare il mio lavoro”. Il lavoro di Barbara Bellentini e degli operatori dell’associazione DO.RE.MIAO è quello di realizzare Interventi Assistiti dagli Animali (IAA) presso alcuni Istituti di Pena della Toscana. Insegnano ai detenuti a gestire il cane ma il valore dei loro interventi va ben oltre le competenze che può offrire un corso professionale, al punto che, dopo alcune esperienze - pilota, i percorsi offerti dall’Associazione sono entrati a integrare stabilmente i Progetti pedagogici d’Istituto. È accaduto nella casa circondariale di Livorno dove il progetto “Ulisse” è giunto quest’anno alla terza edizione. “Il cane è un buon mediatore dal punto di vista relazionale e anche un veicolo per la trasmissione di contenuti formativi - dice Barbara Bellettini presidente dell’Associazione e autrice, con Giulia Fruzzetti e Flavio Langone, di “Ore d’aria” (Erikson) - La sua presenza facilita il dialogo e l’apertura in quanto attiva una sfera di relazione non sempre facilmente accessibile con altri strumenti. Inoltre innesca un circuito virtuoso di scambio d’informazioni con i conduttori dei cani che li porta a essere vissuti dai detenuti come figure non giudicanti nei loro confronti in quanto la loro funzione è solo quella di insegnare ad avere un rapporto educativo con gli animali”. Due gli ambiti di efficacia del progetto: la parte formativa sulla gestione dell’animale, al termine della quale viene rilasciato un di certificato di partecipazione che potrà essere spendibile all’esterno (in attività come operatori di canile o dog sitter) e una parte pedagogica in quanto, spiega Barbara “ il rispecchiamento con gli animali porta a prendersi maggiore cura di sé e degli altri, permettendo di sperimentare canali affettivi ed emotivi importanti che passano anche attraverso il contatto fisico vissuto con il cane.” “ Diversi allievi, una volta in libertà, hanno svolto attività di volontariato nei canili. Uno ha addirittura creato un’associazione cinofila e noi lo abbiamo aiutato negli aspetti burocratici”. Il rapporto con i cani in un ambiente multietnico come il carcere aiuta anche a superare pregiudizi e luoghi comuni, come quello che solo l’Occidente “evoluto” tratti bene gli animali domestici, soggetti invece a torture e stermini nel resto del mondo. “Abbiamo scoperto invece che in molti Paesi dove si ritiene siano diffusi maltrattamenti degli animali, i cani vengono rispettati nella loro soggettività. In tanti villaggi africani sono molto presenti, hanno una loro utilità sociale alquanto apprezzata dagli abitanti. Gli allievi provenienti da quelle zone sono molto portati al rapporto con gli animali, anche se in effetti, non comprendono l’uso di cappottini, impermeabili e altri accessori. Meno coccole insomma, ma più rispetto”. Il risultato che l’associazione ritiene il proprio fiore all’occhiello dei progetti nelle carceri è comunque quello di essere, grazie anche all’impegno e alla tenacia di alcuni direttori penitenziari, riuscita a far incontrare in carcere cani e i lori proprietari reclusi. “Vederli ritrovarsi è stato sempre molto emozionante. Osservare i detenuti interagire, mettere in atto con i cani gli esercizi imparati durante il corso, buttarsi a terra per farsi leccare la faccia, vederli preoccupati per le condizioni di salute e cura dei propri amici a quattro zampe, sentirli parlare con “vocine” affettuose e sentirsi ringraziare nei modi più sinceri e grati sono stati i riscontri più belli che abbiamo mai ottenuto. Un ex detenuto ci ha detto che quei momenti erano speciali perché, a differenza dei colloqui con i parenti nei quali sentiva lo scorrere del tempo nei “colloqui” con il suo cane tutto questo non esisteva. In quei momenti era sempre come se il tempo non fosse mai trascorso e niente fosse stato perso. È stato molto importante per lui, come per tutti quelli che lo hanno vissuto”. Giuristi, legali e giudici: “La nostra Carta è sana e ancora robusta” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 aprile 2019 X Salone della Giustiza a Roma. La Costituzione è sana e robusta, come dice il titolo del convegno. Lo certificano tutti interventi, ieri a Roma, al Salone della Giustizia, che ha dato spazio a una sessione inaugurale ricca di nomi illustri. Presentata dal vicedirettore del Correre della Sera, Nicola Polito, la relazione introduttiva è stata affidata al presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi: “La Costituzione è giovane nei suoi principi e valori e la Consulta è garante dei modi attraverso i quali i valori costituzionali vengono riconosciuti nella società”. Eppure, la Costituzione “non può essere il frutto solo di tecnica giuridica, ma è il prodotto di eventi storici: nel nostro caso, la guerra e il fascismo. In un anno e mezzo i costituenti superando contrasti e divisioni, e hanno approvato a grande maggioranza un testo complesso e bello, nonostante fossero anni divisi da profonde ideologie”. Secondo il presidente, “i costituenti hanno costruito un sistema che garantisse tutti, forti del comune intento di dare un futuro di democrazia e libertà”. Proprio per questa ragione, “l’agire politico contingente non deve toccare la trama costituzionale: il popolo si identifica coi valori costituzionali perché ne percepiscono la stabilità. La Carta non deve essere mai percepita come una componente ondivaga dell’ordinamento”. La Costituzione, tuttavia, non è solo frutto di valori condivisi, ma anche “di grande lungimiranza dei costituenti, dimostrata dal fatto che tutt’oggi - offre stimoli e garanzie ancora attuali”, ha chiosato la vicepresidente dell’Università Luiss ed ex ministro della Giustizia, Paola Severino. “Si sono sapute coniugare rigidità ed elasticità di sistema, come dimostra il grande lavoro dei giudici costituzionali, che hanno instaurato uno straordinario dialogo con le corti europee, usando un linguaggio nuovo di applicazione di principi sostanziali, come dimostrano le sentenze Taricco, Contrada e Coppola”. Infine, Severino ha citato “la piena efficacia del principio di rieducazione della pena carceraria come una tappa del cammino che la nostra costituzione saprà compiere”. Concorde anche il presidente aggiunto della Corte di cassazione, Domenico Carcano, il quale ha sottolineato come “la nostra Costituzione non è immobile: ha dei punti fermi ma si apre verso le vie dell’avvenire e dei nuovi valori da tutelare”. Più centrato sull’attualità è stato invece l’intervento dell’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane. “Il fatto che tre corti, Lecce Napoli e Venezia, abbiano potuto rinviare al vaglio della Corte costituzionale la legge Spazza-corrotti dimostra come il nostro ordinamento abbia una regime di tutela vivissimo”, ha ricordato il presidente, sottolineando - a proposito delle modifiche apportate alla Carta - come “la riforma dell’articolo 111 ha dato forza al giusto processo, davanti a giudice terzo ed equidistante. L’evoluzione ha funzionato perché è stata una modificazione del testo coerente come naturale evoluzione dei principi fondamentali”. Il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin ha invece ricordato il “viaggio della Corte fuori dal palazzo, consapevole di un ruolo che non può essere meramente tecnico. Non a caso si è recata nelle carceri e nelle scuole”. Il presidente ha ricordato come tutte le professioni che ruotano intorno alla giustizia hanno un ruolo sociale. “La Costituzione ha un filo conduttore: il rispetto. La carta ci spiega che gli equilibri di una società si basano sul rispetto reciproco: oggi invece il compromesso è considerato in modo negativo. Noi viviamo una fase storica in cui la dialettica è sacrificata a un linguaggio violento e compresso in slogan dove non si cerca di affermare una idea per i contenuti ma per la violenza del messaggio”, ha argomentato Mascherin, concludendo con un appello ai giovani: “Recuperate l’insegnamento della carta che ha al centro il debole, la solidarietà e il rispetto delle libertà altrui”. Infine, alla domanda su quali modifiche introdurrebbe, ha ricorda l’iniziativa dell’avvocatura di chiedere l’inserimento della figura dell’avvocato in Costituzione, come elemento riequilibratore della giurisdizione. A questa stessa domanda, il costituzionalista Massimo Luciani ha risposto che “servirebbe dare applicazione in modo compiuto al principio di uguaglianza sostanziale. Oggi, invece, l’ascensore sociale sembra essersi bloccato”. A chiudere la tavola rotonda è intervenuto il giurista e presidente dell’evento, Carlo Malinconico, il quale ha auspicato “che si dia attuazione in modo più compiuto al principio di imparzialità della Pubblica amministrazione”, ricordando tuttavia come qualsiasi modifica della Carta debba avvenire in modo compiuto, “non pensando che la Costituzione sia divisa in compartimenti stagni, ma consapevoli che si tratta di una struttura organica”. Al Salone della giustizia si discute di tutto. Non di processi sbagliati di Maurizio Zottarelli Libero, 10 aprile 2019 La lentezza del sistema giudiziario ci costa 40 miliardi l’anno (e molte tragedie), ma gli esperti hanno altro a cui pensare. Quello del mobile non è l’unico salone inaugurato ieri: benché assai meno noto e frequentato di quello milanese, infatti, all’hotel Parco dei Principi di Roma si è aperta anche la decima edizione del Salone della giustizia. Sul sito dell’evento si spiega che sono in programma tre giorni di lavori, dal 9 all’11 aprile, 6 convegni, 18 workshop per affrontare il tema “giustizia, un impegno comune”. Partecipano le migliori menti e le personalità più significative del mondo giuridico italico per affrontare le tante ed eterne piaghe della giustizia nel Belpaese. Per esempio, ieri a inaugurare il Salone è stato il presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, presenti tra gli altri anche il presidente aggiunto della Corte di Cassazione Domenico Carcano, il presidente Unione Camere penali; Gian Domenico Caiazza, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, il vice presidente dell’Università Luiss-Guido Cadi, il costituzionalista Massimo Luciani, e naturalmente il presidente del Salone Carlo Malinconico. Temi della giornata: la Costituzione, ci mancherebbe, il lavoro e la giustizia sociale. Oggi, nel secondo giorno, apre i lavori un messaggio del presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Con Mara Carfagna e altre illustri relatrici si parlerà della “donna” e di storie di successo al femminile. A seguire un bel dibattito su “Il nuovo antisemitismo in Europa”, mentre nel pomeriggio, si disquisirà del “Ruolo degli investitori istituzionali per una ipotesi di rilancio del Paese” con commercialisti ed esponenti del mondo della finanza. L’ultimo giorno si aprirà la discussione su “Sicurezza nazionale e cooperazione internazionale”, mentre nel pomeriggio il seminario propone il dibattito su “giustizia e investimenti”. Meno male che qui almeno si sfiora il tema della giustizia, per il resto poi si discuterà di Europa (immancabile) e di famiglia, ma a giudicare dal programma pare che non si tratterà, per esempio, delle incredibili lungaggini dei procedimenti nostrani. Secondo l’ultimo report europeo, l’Italia è un Paese in cui i processi civili ci mettono 1.400 giorni per arrivare al terzo grado di giudizio, 800 nel caso dei procedimenti amministrativi e dove, forse anche per questo, il 70 per cento dei cittadini considera l’indipendenza di giudici scarsa o assente. Un emergenza di cui, evidentemente, al Salone della giustizia non sentono l’urgenza. In compenso, potremo sapere tutto sulle donne di successo e sulle loro storie. Secondo un’indagine di Confesercenti, il malfunzionamento del nostro sistema giudiziario ci costa l’equivalente di 2,5 punti di Pil ogni anno, vale a dire circa 40 miliardi di euro. Un altro bel tema, parrebbe, per un Salone della giustizia, soprattutto di questi tempi di vacche magre. E, invece no, scopriamo che il vero dramma nei nostri tribunali è “l’antisemitismo in Europa”. Nei giorni scorsi, un giudice di Torino ha chiesto scusa per aver scarcerato l’italo-marocchino Said Mechaquat, l’uomo che qualche settimana fa ha ucciso il giovane Stefano Leo sui Murazzi del capoluogo piemontese e che, si è scoperto, per una precedente condanna, avrebbe dovuto essere già in carcere da mesi e invece era libero per qualche inghippo burocratico. Un bell’argomento di attualità che tocca un nervo scoperto del nostro sistema giudiziario dal momento che, quasi quotidianamente, emergono casi, spesso con esito tragico, di condannati che continuano a delinquere perché l’atto non è stato trasmesso, la carta si è persa, manca la firma, il magistrato è in ferie... Niente, anche per questi problemi dovremo aspettare il “fuori salone”, sperando che ce ne sia uno come per quello del mobile. Bonafede benedice il convegno dei pm manettari di Stefano Zurlo Il Giornale, 10 aprile 2019 MicroMega convoca le toghe giustizialiste, da Caselli a Woodcock. E il ministro apre i lavori. Rieccoli. Un tempo furoreggiavano dalle prime pagine dei giornali. Per le loro tambureggianti inchieste e - non tutti in verità - per gli scritti, le polemiche, le scintille. Oggi la giustizia non funziona come sempre ma è schiacciata fra il Pil ansimante e i flussi dei migranti. Insomma, il partito dei pm è finito nelle retrovie dell’opinione pubblica, ma questo non significa che non abbia più voce. E infatti alla chiamata di MicroMega, il barometro del giustizialismo tricolore, hanno risposto molti grandi nomi della magistratura italiana. Ecco Gian Carlo Caselli, oggi in pensione ma a suo tempo anima del pool di Palermo che portò alla sbarra Giulio Andreotti e un pezzo di storia italiana; poi Luca Tescaroli, specialista di misteri nazionali, dalla morte di Calvi al massacro di Capaci, e autore prolifico di saggi su temi delicatissimi. E ancora Henry John Woodcock, regista da molti anni di inchieste controverse, osannate e scomunicate dalle opposte tifoserie; infine Nino Di Matteo e Paolo Ielo. Di Matteo è un’icona del popolo grillino per via dello scavo sulla trattativa Stato-mafia e più volte è stato candidato come possibile Guardasigilli. Ielo ha un profilo più anomalo rispetto agli altri ma la sua competenza, e pure qualcosa di più che ha a che fare con l’autorevolezza, è fuori discussione. Da Mani pulite a Mafia capitale. Saranno tutti a Fabriano, nelle Marche, su invito di Paolo Flores d’Arcais, il custode della liturgia manettara, per un convegno che verrà aperto il 3 maggio dal ministro Alfonso Bonafede. Bonafede, va detto, ha avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui le tempeste giudiziarie e le levate di scudi sono solo un ricordo e il clima è meno acceso di prima, ma la relativa fortuna non l’ha spronato a moltiplicare gli sforzi per recuperare il tempo perduto e mettere una pezza a meccanismi logori e vetusti. Il ministro ci ha consegnato una sventurata rivisitazione della prescrizione che scatterà l’anno prossimo ed è legata, sulla carta, ad un’epocale riforma di tutto il settore di cui non c’è traccia su alcun radar. Quello che tutti percepiscono è il disagio per un apparato che arranca sempre con esiti drammatici: non si riesce a mandare in cella i condannati con pena definitiva, come nel caso dell’assassino dei Murazzi a Torino. Altro che prescrizione. Chissà, forse Flores d’Arcais e il Guardasigilli discuteranno anche di tutto, troppo, quel che non va - dai tempi biblici dei procedimenti all’incertezza della pena - e il ministro ci fornirà un cronoprogramma dei prossimi interventi. Chissà. Il titolo del dialogo, “Giustizia è libertà”, promette altro. Speriamo che il tutto non si risolva in una lucidata del monumento alle toghe, un po’ trascurato negli ultimi tempi. L’Italia avrebbe bisogno di altro. “Le sentenze non sono tutte uguali. Servono nuovi criteri per smaltirle” di Giuseppe Legato La Stampa, 10 aprile 2019 Francesco Saluzzo, Procuratore generale del Tribunale di Torino analizza l’errore della Corte d’Appello sul caso Leo. “Voglio esprimere il disagio e il dispiacere dell’amministrazione giudiziaria per ciò che è successo. In situazioni come queste diventa difficilissimo trovare una giustificazione che possa dare pace a questi genitori: qualunque spiegazione si offra dobbiamo metterci nei panni di queste persone. Che hanno perso un figlio e che forse avrebbero potuto non perderlo. Lo voglio dire perché, col mio pensiero, sento di interpretare anche quello della Procura della Repubblica e dei magistrati nel loro complesso. Se succede qualcosa per una nostra mancanza una parola la dobbiamo dire. Non mi sento di sostenere che continueremo cosi perché è l’unico modo possibile alla luce delle carenze di personale. Non è vero. Ci sono altri modi e il rammarico è di non averli usati prima”. Francesco Saluzzo, Procuratore Generale del Piemonte, lavora da giorni per ricostruire quanto accaduto sulla mancata esecuzione della sentenza di condanna che ha lasciato in libertà Said Machaquat, l’assassino di Stefano Leo. Il suo ufficio non ha alcuna responsabilità sui fatti, ma non mancano proposte concrete perché quello che è successo non capiti mai più soprattutto nella tutela dei cittadini. Buongiorno Consigliere Saluzzo. Cerchiamo di ricostruire una volta per tutte ciò che è accaduto? “È molto semplice nella sua gravità e drammaticità”. Spieghiamolo… “Il decorso processuale è stato abbastanza virtuoso. La procura ha fatto le indagini in tempi più che accettabili, il Tribunale ha concluso in un range temporale più breve di quello indicato dalla legge Pinto, persino l’esame della Corte d’Appello è stato rapido. Infine la verifica preliminare di ammissibilità sul ricorso è stato tempestivo e nel 2018 è stata dichiarata l’inammissibilità. A quel punto avrebbe dovuto essere compilato l’estratto esecutivo, mandato alla Procura per la carcerazione: questo non è mai avvenuto”. L’assassino di Stefano Leo avrebbe dovuto andare in carcere o no? “Il reato era ostativo, questo è un punto fermo”. Questo cosa comporta? “Che l’ordine di esecuzione del pm non poteva e non doveva essere sospeso perché gli episodi di maltrattamento erano avvenuti in presenza di un minore. Nel 2013 la modifica sul reato dei maltrattamenti in famiglia aveva aggravato la contestazione anche in questo caso. Il condannato doveva andare in carcere”. Avrebbe potuto chiedere, dal carcere, misure alternative? “Questo sì, ma l’istanza viene inviata al Tribunale di Sorveglianza. Si deve fissare l’udienza, compiere un’istruttoria a cui anche noi contribuiamo con una serie di accertamenti. E poi si deve decidere in un senso o in un altro. Adesso però bisogna interrogarsi sulle cause”. Ecco, perché è accaduto che una sentenza di condanna non sia stata eseguita in tempi ragionevoli? “Un fattore è legato alle condizioni in cui è ridotta l’amministrazione della giustizia”. Questi però sono fatto noti. Non condivide? “Conosciamo le condizioni in cui siamo. La scopertura a livello nazionale oscilla tra punte che vanno dal 28% al 40% e il distretto di Torino sta particolarmente male. Abbiamo problemi di organico gravissimi. E la situazione è devastante anche ad Asti e Cuneo i cui procuratori mi hanno appena inviato una panoramica degli uffici, ma non è tanto questo il problema”. E allora qual è la proposta? “Si tratta di fare delle scelte. Va stilato un piano organizzativo. La pretesa di far tutto è semplicemente un miraggio. Bisogna selezionare ciò che si fa sulla base di criteri obiettivi e trasparenti. Quindi priorità ai reati di pubblica amministrazione, di materia economica, di criminalità organizzata, di sicurezza sul lavoro, di ambiente e di maltrattamenti in famiglia. È già molto”. E il resto? “Tutto il resto, deve essere messo non dico da parte, ma dietro. Questo sia in riferimento ai processi, sia all’esecuzione delle sentenze”. Fino ad oggi nella Cancelleria della Corte d’Appello si è utilizzato un criterio cronologico. Lei cosa pensa? “Che le sentenze non sono tutte uguali. Va data priorità anche a quelle pronunciate su reati ostativi come quella che riguarda Macahquat. Andrebbe data precedenza anche a quelli non ostativi laddove denotino una possibile progressione ulteriore criminosa. Sappiamo quanto sia pericoloso non eseguire queste pene. Infine quando vi è sentenza di inammissibilità va eseguita il giorno stesso. Credo che in un anno non si arrivi a 100 casi del genere. Lasciare tutte le sentenze insieme è sbagliato. È come se in un ufficio postale tutta la corrispondenza venisse lasciata in un cassone. E la posta prioritaria? E le raccomandate? Subiscono la stessa sorte delle cartoline di saluti? Non è accettabile”. Cresce la violenza politica. La Digos: “Boom di denunce” di Francesco Grignetti La Stampa, 10 aprile 2019 Il rapporto: aumentano gli scontri tra estrema destra e antagonisti. Oggi la Polizia di prevenzione sarà premiata dal presidente Mattarella. Era un funzionario della Digos di Verona, la poliziotta che è diventata celebre perché un esaltato le ha urlato in faccia e si è abbassato i pantaloni per scherno. E lei, nulla. Gelida. Era ancora una dirigente della Digos di Milano, la donna che ha braccato Cesare Battisti in tutto il Sud America: forse per spirito di squadra, visto che proprio quel gruppo di terroristi nel 1976 uccise Andrea Campagna, un agente della Digos milanese di 25 anni. Si potrebbe continuare a lungo. Le Digos, che hanno una sede centrale che si chiama Polizia di prevenzione, da quarant’anni sono una nervatura fondamentale della Polizia di Stato. Oggi, 167esimo anniversario della Ps, la sua bandiera viene insignita della medaglia d’oro al valor civile dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per gli straordinari risultati conseguiti per la lotta al terrorismo interno e internazionale. Le Digos sono la prima linea contro la violenza politica, che a sua volta sfocia qualche volta in terrorismo vero e proprio. Nel 2018, un po’ perché s’è registrata una recrudescenza degli episodi di violenza tra opposti estremismi, soprattutto nel periodo della campagna elettorale, un po’ perché è cresciuta l’attenzione, hanno denunciato 2.336 persone (l’anno prima erano state 1.972) e ne hanno arrestate 49 (contro 104). È stato un anno segnato dal pullulare di iniziative della destra estrema e dalla rinascita dell’antifascismo militante. A febbraio, la Digos di Palermo arresta due militanti del centro sociale Ex Karcere per tentato omicidio ai danni del segretario provinciale di Forza Nuova. Sempre a febbraio, le Digos di Piacenza, Torino e Bologna arrestano 3 militanti per le violenze contro i carabinieri in occasione di un corteo antifascista a Piacenza. A marzo, la Digos di Torino attua 5 misure cautelari contro altrettanti aderenti al centro sociale Askatasuna, protagonisti di violenze contro un comizio di CasaPound. Di contro, i movimenti di estrema destra cercano sempre più spesso lo scontro fisico. A marzo, la Digos di Genova porta avanti con perquisizioni e sequestri le indagini per il tentato omicidio ai danni di un gruppo di antagonisti che manifestavano vicino alla sede cittadina di CasaPound. A settembre, è Bari che diventa protagonista suo malgrado di tafferugli. Al termine di una manifestazione organizzata dal centro sociale Ex Caserma Liberata contro le politiche del governo, alcuni militanti di CasaPound si scagliano contro un gruppo di manifestanti in transito. Le indagini della Digos barese permettono alla magistratura di identificare e segnalare i responsabili dell’aggressione, successivamente sottoposti a perquisizione personale e domiciliare. Il gip disporrà anche il sequestro preventivo della sede di CasaPound. E ancora, un mese dopo, a Brindisi, ignoti aggrediscono con bastoni 2 cittadini extracomunitari in distinte occasioni: la Digos brindisina individua i due responsabili, entrambi vicini al contesto ultras locale, che finiscono agli arresti domiciliari. Una dimostrazione in più che i due mondi, quello delle curve e quello dell’estremismo neofascista, si sovrappongono spesso e hanno in comune il ricorso alla violenza. Inquietante, infine, a giugno, un attentato a Vittorio Veneto (Treviso), dove ignoti fanno esplodere un ordigno davanti al liceo classico “Marcantonio Flaminio”, provocando la rottura dei vetri dell’istituto e dell’immobile di fronte. Sarà la Digos di Treviso a individuare tre presunti responsabili. Nelle perquisizioni viene fuori materiale esplodente e due sono ora sotto processo a piede libero. Il terzo, un operaio di 47 anni, appassionato di armi da guerra, è in carcere. Non ha dato spiegazioni. Dalle mafie ai neofascisti, l’attacco alla libertà di stampa di Gianluca Di Feo La Repubblica, 10 aprile 2019 C’è un pessimo clima per la libertà di stampa nel nostro Paese. Con una maggioranza di governo che non nasconde il disprezzo verso l’informazione non allineata, arrivando spesso ad auspicare la morte dei giornali. Con l’estrema destra che si sente finalmente legittimata ad alzare il tiro contro chi denuncia la rinascita neofascista e neonazista. E con le mafie vecchie e nuove che proseguono nella loro strategia di intimidazione dei cronisti. Non è un caso che Repubblica e L’Espresso si trovino a essere un bersaglio privilegiato di questi attacchi. L’ultima a finire nel mirino è Floriana Bulfon, collaboratrice di entrambe le testate. Lunedì sera ha trovato l’interno della sua auto cosparso di liquido infiammabile: sul sedile un panno imbevuto e una bottiglia con i resti del materiale incendiario. Bulfon ha condotto numerose inchieste sulla criminalità romana e in particolare sui Casamonica: è stata lei a rivelare il raid del Roxy Bar, il feroce pestaggio punitivo contro i baristi e una donna disabile che ha scosso la Capitale. “Chiunque sia stato, credo volesse dare un avvertimento chiaro: sappiamo dove abiti e qual è la tua auto, possiamo colpirti quando vogliamo”, racconta Bulfon: “Non nego di avere paura, ma non sarà certo questo a fermarmi”. Sono state le minacce dei boss rampanti della periferia romana a far scattare la protezione per Federica Angeli, la nostra giornalista che da 6 anni vive sotto scorta. “Questa situazione mi ha spaventato come madre e come moglie. E inevitabilmente ha inciso sulla mia professione: prima realizzavo inchieste sotto copertura sul territorio, cosa che non puoi fare mentre sei circondata dai carabinieri”. C’è un’unica linea che unisce le “piccole mafie” nate a Roma e le grandi mafie del Sud: sanno che l’attenzione dei media può mettere a rischio la loro sopravvivenza. Hanno imparato la lezione di Gomorra, il libro che ha determinato la sconfitta della camorra casalese. Per questo Roberto Saviano da 13 anni ha un’esistenza blindata, anche se le sue parole vengono vissute con crescente insofferenza da molti politici e in particolare dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. E per gli stessi motivi a Palermo sono arrivate le minacce contro il nostro inviato Salvo Palazzolo, che ha descritto i piani di rinascita di Cosa Nostra: “Le famiglie storiche si stanno riorganizzando e vogliono il silenzio a tutti i costi. Ma se in passato qui sono stati assassinati otto giornalisti, adesso c’è una consapevolezza diversa delle istituzioni e della società civile che ci tutela”. “Oggi lo Stato arriva prima dei sicari, c’è una prevenzione efficace. Certo, la protezione ti costringe a cambiare vita ma permette di proseguire nel lavoro”, gli fa eco Lirio Abbate, vicedirettore de L’Espresso. I pericoli per Abbate sono cominciati in Sicilia e proseguiti con le reazioni alle sue inchieste su Mafia Capitale e sulla ‘ndrangheta. La prova di come i disegni violenti delle cosche non conoscano confini. A Modena boss calabresi sono stati intercettati mentre preparavano un attentato contro Giovanni Tizian de L’Espresso: “Gli sparo in bocca”. “Chi sceglie questo mestiere mette in conto i pericoli, ma è difficile accettare i rischi per la propria famiglia. E con la scorta perdi la libertà: devi pianificare qualunque spostamento”, sottolinea Tizian. Queste storie si aggiungono a quelle di centinaia di colleghi, una lista che rende l’Italia un’anomalia tra tutte le nazioni occidentali: l’unico Paese dove il diritto di cronaca viene minacciato a mano armata. L’ultimo rapporto di “Reporter sans frontieres” sulla libertà di stampa ci mette al 46mo posto, lontanissimi dal resto d’Europa. Ed è prevedibile un peggioramento. Perché alle intimidazioni delle cosche si sono aggiunte quelle della destra più estrema. L’inviato di Repubblica Paolo Berizzi da anni è oggetto di una campagna sistematica, innescata da gruppi accusati di ricostituzione del partito fascista e portata avanti dall’intera galassia nera. “Prima gli striscioni di insulti, poi mi hanno danneggiato l’auto e quindi sono entrati nell’androne della mia casa. Mia figlia tredicenne si è trovata davanti le scritte naziste contro di me: per mesi non è riuscita a dormire da sola. Ora ho la scorta, ma loro non si arrendono: arrivano minacce da tutta Italia e hanno appena riempito Varese di volantini contro la presentazione del mio libro. L’aggressione è diventata seriale”. Diffamazione. Carcere per i giornalisti, la parola alla Corte Costituzionale fnsi.it, 10 aprile 2019 Il tribunale di Salerno ha accolto l’eccezione di incostituzionalità sollevata dall’avvocato del Sugc, Giancarlo Visone, nel processo a carico di un ex collaboratore e del direttore del “Roma”. Secondo la tesi del sindacato, condivisa dal giudice, anche la sola previsione della possibile pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa è incompatibile con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti umani. Sarà la Corte Costituzionale a stabilire se il carcere per i giornalisti è una misura legittima. Lo ha deciso il tribunale di Salerno che ha accolto l’eccezione di incostituzionalità sollevata dall’avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania, Giancarlo Visone, nel processo per diffamazione a carico di un ex collaboratore e del direttore del quotidiano ‘Romà. Secondo la tesi del Sindacato, condivisa dal giudice, ‘anche la sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa comporterebbe una limitazione eccessiva del diritto convenzionalmente e costituzionalmente tutelato della libertà di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile con l’articolo 10 della Cedu (Convenzione europea dei diritti umani)’. Secondo questa tesi il carcere per i giornalisti, previsto nell’articolo 13 della legge sulla stampa e dall’articolo 595, comma tre, del codice penale (diffamazione a mezzo stampa), violerebbe gli articoli 3, 21, 25 e 27, nonché l’articolo 117 comma 1 della Costituzione in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Sono anni che chiediamo che con una legge il Parlamento cancelli il carcere per i giornalisti - affermano il segretario e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del Sugc, Claudio Silvestri. Una vera vergogna che nessun governo ha voluto affrontare seriamente e che spinge l’Italia in fondo alle classifiche sulla libertà di stampa. Adesso a decidere sulla legittimità del carcere sarà la Corte Costituzionale. A prescindere dalle sentenze, tuttavia, è sempre più urgente un intervento del legislatore su una materia fondamentale perché riguarda il diritto dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati. La recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo proprio per la presenza della pena detentiva per il reato di diffamazione non dà più alcun alibi al Parlamento”. Frodi online con reclusione. Direttiva Ue prevede carcere fino a 5 anni di Carlo Ghirri Italia Oggi, 10 aprile 2019 Dai tre ai cinque anni di reclusione per chi commette frodi online nell’Unione europea, con una definizione uniforme dei reati commessi online in tutti gli stati membri, come la pirateria informatica o il phishing. Sono alcuni dei punti essenziali con cui l’Ue ha fissato norme più severe per contrastare le frodi attraverso i mezzi di pagamento diversi dai contanti. Ieri, il Consiglio europeo ha adottato formalmente la direttiva relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diverse dai contanti. La Commissione europea a settembre 2017 ha proposto di aggiornane e modernizzare le norme vigenti contro le frodi dei metodi di pagamento non in contanti, portando così nell’era digitale il provvedimento del 2001 che disciplinava la materia, la decisione quadro 2001/413/Gai del Consiglio. La direttiva è stata, infatti, proposta proprio nell’ambito delle sfide della cyber-sicurezza. Uno studio della commissione, stima che nel 2013 i truffatori abbiano sottratto circa 1,44 miliardi di euro attraverso frodi con mezzi di pagamento diversi dai contanti e, ogni anno, i cittadini europei ricevono circa 36 miliardi di messaggi di phishing che sono il punto di partenza delle truffe. Altri punti della direttiva assicurano assistenza e sostegno per informare adeguatamente le vittime sui loro diritti e fare in modo che i cittadini sappiano come difendersi da questo tipo di frodi. È quindi chiarita la competenza giurisdizionale per assicurare una maggiore efficacia nel contrasto alle frodi transfrontaliere. La direttiva, che dovrà essere recepita dagli stati membri entro due anni, prevede norme minime, che gli Stati membri possono amplificare attuando norme più rigorose, ad esempio, prevedendo una definizione più ampia dei reati o sanzioni più elevate. All’interno della direttiva è prevista l’abolizione degli ostacoli operativi che intralciano le indagini e le azioni penali e sono, inoltre, previste azioni volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tecniche fraudolente, per esempio, ad acquisire i dati delle carte di pagamento via email (phishing) o attraverso la manomissione dei distributori automatici o dei terminali per il pagamento (skimming). Caso Cucchi. Ilaria e le belle facce d’Italia di Francesco Merlo La Repubblica, 10 aprile 2019 Giù la statua del David. Oggi Michelangelo al suo posto avrebbe scolpito Ilaria Cucchi che, tutta sola e senza neppure la fionda, ha sconfitto Golia, la Benemerita. E basta guardarla al processo, questa nostra David moderna, per capire che ha battuto i carnefici del fratello con la bellezza, non quella retorica che salva il mondo, ma la bellezza della Ragione. Ilaria Cucchi è la conferma che ci sono ancora facce che ci riconciliano con l’idea stessa di bellezza, non solo femminile, nell’Italia di oggi che pure vanta il più appariscente catalogo di facce feroci, facce guastate dalla furia. Nessuno se l’abbia a male, ma Ilaria Cucchi è la donna come ce la immaginammo noi nel 1968, fiera dell’anonimato che porta alla bellezza, ma non castigata dall’imbruttimento che porta all’anonimato. E forse proprio per questo varrebbe la pena di compilare - ci proverò alla fine - l’elenco delle facce della bella Italia, accanto alle tanti Meloni col mattarello e alle troppe Bongiorno che minacciano la castrazione chimica. Certo, ci sono le aspiranti First lady in accappatoio o in pantaloni antisommossa, e c’è il circo televisivo delle vajasse e delle regine del trash tutte rifatte, seni strizzati e moine. Ma, alla fine, è Ilaria Cucchi la donna che tutti vorremmo non solo come sorella, come amica e come madre, ma anche come ministro dell’Interno. Più forte dei corpi palestrati dei carabinieri, della stupida ferocia dei pugni e dei calci, dell’astuta complicità dei generali e dei giudici, dell’ostilità e degli insulti dei potenti di turno - ieri il brutto Giovanardi e oggi il bruttissimo Salvini - più forte delle procure che hanno inventato “ogni genere di perizia per dimostrare che mio fratello era morto a causa della sua magrezza anziché di fame e di pestaggio”, Ilaria Cucchi è la donna italiana, determinata ma spontanea e vivace, che ogni tanto torna a vincere su tutti anche se, per sedurre, non ha bisogno di niente, perché la vera eleganza non è fatta di tacchi, trucchi, chirurghi e profumi, ma è una fosforescenza della mente. Ascoltaste cosa disse qualche mese fa, in un’intervista a Carmelo Caruso su Grazia, ben prima di ricevere la lettera del generale Nistri, e pure prima del bellissimo film Sulla mia pelle premiato con il David: “Ci siamo sempre fidati e affidati alle istituzioni anche quando queste ci mancavano di rispetto. Guarda che oggi gli abbracci più forti li ricevo proprio da agenti e carabinieri. Ti dico di più. Se un giorno mio figlio volesse entrare nell’Arma sarei la prima a esserne contenta”. Ecco: modesta, e dunque senza volerlo, questa donna, che ha così alto il senso dello Stato, è entrata a far parte delle grandi italiane, delle Signore dell’inaudito che, ciascuna a modo suo, hanno prima piegato e poi cambiato il Paese, dalla ragazza-coraggio Franca Viola alla senatrice socialista Lina Merlin, dalla partigiana Tina Anselmi alla radicale Emma Bonino, dall’austera Nilde lotti alla riccia Monica Cirinnà, che nel febbraio del 2016 riuscì da sola a intestarsi quella legge sulle unioni civili che, come ha dimostrato il convegno omofobo di Verona e come titolò Repubblica, è stata per questo Paese “una seconda breccia di Porta Pia”. Ma Ilaria Cucchi è anche qualcosa d’altro: è la bellezza serena della tenacia che il dolore ha reso epica proprio perché non è stato mai un dolore esibito. Nel paese dei languori e dei batticuori, degli strilli e delle sceneggiate, Ilaria ha sempre governato le emozioni, anche quando pubblicò la foto del carabiniere Tedesco che, in costume da bagno, esibiva tutte le virilità del suo corpo macho: “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene”. Fu denunziata, insultata, minacciata, redarguita. E Salvini disse: “Mi fa schifo quelpost”. Eppure, il processo sta dimostrando che aveva ragione. Dove sono oggi quegli sciacalli che si avventarono su di lei come sulle rovine dei terremoti? In tutto lo scandalo Cucchi le immagini sono state più veloci dell’intelligenza, occhio che ha messo in riga i fatti ben prima dei cronisti e degli investigatori. La foto del volto e del corpo martoriati di Stefano, che abbiamo tutti stampata nel cervello, fu scattata all’obitorio e raccontava già l’infinito di umiliazione e di botte che lo aveva schiacciato, vale a dire la storia che, dopo 9 anni, stiamo finalmente sentendo in aula. E così in quell’immagine del macho su Facebook c’era già la caricatura del carabiniere, la sua smorfia violenta. E poi ancora, c’è l’immagine di Ilaria che con il corpo esile e disarmato, con il viso sereno di persona risolta, la fierezza negli occhi chiari, fu subito l’immagine della verità. Cattolica, amministratrice di condomini come il padre, a 45 anni vive ancora nella periferia dov’è cresciuta. Si sente ancora sorella di Stefano, morto di bastonate, ed è madre di Valeria e di Giulio che sono fieri di lei. Ebbene, “mamma Cucchi” - così la chiama la figlia - in nove anni è diventata persino più bella. È difficile da dire, ma forse è proprio il tormento che l’ha resa bella e invincibile. E però se è vero che le facce parlano, proviamo ad accennare un elenco di belle facce italiane da affiancare alla faccia di Ilaria: quella del sindaco Lucano è ruvida e rotonda con una smorfia dolente, quella di Paola Deffendi, mamma di Giulio Regeni, è ferma e decisa, solida e buona; e ci sono le facce idealiste dei ragazzi del clima, il viso in rivolta di Simone e quello buono come il riso del vercellese Moise Kean, quello di Fiona May che fa venire voglia di diventare neri. E a destra c’è il faccione rassegnato di Guido Crosetto e quello serio e compassato del sindaco genovese Bucci. Facce belle sono quella regale di Giorgio Armani, quelle ispide di Giancarlo Giannini e di Paolo Conte... Lascio i puntini, gli altri aggiungeteli voi. Caso Cucchi. “Morto perché drogato”: da La Russa a Salvini, nove anni di infamie di Carlo Bonini La Repubblica, 10 aprile 2019 Così la difesa dell’Arma è diventata un atto d’accusa verso la vittima. Per oltre nove anni, il corpo di Stefano Cucchi, la sua memoria, la battaglia civile della sorella Ilaria e della sua famiglia hanno conosciuto l’oltraggio di una Colonna Infame alimentata da alcune delle voci della destra italiana. Qualcuna destinata ai giardinetti, come quella dell’ex senatore e ministro Pdl Carlo Giovanardi. Qualcun’altra all’irrilevanza, i senatori Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. Altre ancora, al contrario, alle fortune del presente, come l’ex segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap) e oggi deputato leghista Gianni Tonelli e, soprattutto, come il Ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini. Parliamo di una compagnia di giro che ha alternato la propria tribuna del dileggio tra i banchi del Parlamento e i divani dei talk show, per declinare un copione che - oggi lo sappiamo dagli atti dell’inchiesta della Procura di Roma - era la fedele trasposizione dei falsi cucinati all’interno dell’Arma per coprire le responsabilità dei propri militari nell’omicidio. Ed era dunque funzionale a costruire consenso all’impunità. Guardiamo Ignazio La Russa. È il primo a spendersi pochi giorni dopo la morte di Stefano. È ministro della Difesa ed è imboccato dall’appunto con cui il generale Vittorio Tomasone, allora comandante provinciale di Roma, mette subito in fila tre falsi. Che l’Arma è estranea a quella morte. Che Stefano è un tossico sieropositivo e anoressico. I129 ottobre 2009, La Russa decide dunque di chiudere la faccenda prima ancora che si apra. “La sola cosa di cui sono certo - dice - è il comportamento assolutamente corretto dei carabinieri”. Di più e di meglio fa Carlo Giovanardi. Diciamo pure che è il paziente zero della “narrazione” imbastita sui falsi dell’Arma. Non a caso, nel tempo, viene speso e si spende ogni qual volta l’inchiesta giudiziaria conosce una svolta che possa inchiodarne i militari. Martella dunque da subito per smontare l’evidenza che le lesioni sul corpo di Stefano sono gli esiti di un pestaggio. “Le lesioni? La causa è la malnutrizione. Il povero Cucchi aveva una vita sfortunata. Era un tossico e uno spacciatore. È stato ricoverato 16 volte, ma polizia e carabinieri non c’entravano”. Quando poi le perizie accertano che il corpo di Stefano presenta due vertebre fratturate da evento traumatico, aggiusta il tiro: “Quella della vertebra L3 é una vecchia frattura. È la tossicodipendenza a poter aver svolto un ruolo causale. Se Cucchi non si fosse drogato, non sarebbe morto. Ilaria Cucchi dice che il decesso è stato provocato dalle fratture? Non credo agli asini che volano”. Né si arrende, quando (2017) la responsabilità dei carabinieri è stata ormai accertata dalla Procura. E per farlo deve nuovamente giocare a mano libera sul nesso di causalità tra pestaggio e morte. “La strada dell’omicidio preterintenzionale - dice - cadrà visto che tutte le perizie hanno escluso qualsiasi nesso tra la morte e le botte”. Giocano al contrario su un terreno laterale ai fatti, ma capace di arrivare dritto alla pancia e ai rancori del Paese la Lega e qualche suo portatore d’acqua come Gasparri. Dice il deputato Tonelli: “Se uno ha disprezzo di sé e conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Gli fa eco Gasparri: “Se la famiglia lo avesse aiutato con la droga, sarebbe ancora vivo”. Tira le conclusioni politiche Matteo Salvini, in quel momento non ancora Ministro dell’Interno: “Mi fa schifo”, dice, riferendosi al post Facebook con cui Ilaria si è scagliata contro il carabiniere Tedesco (quello che poi si pentirà). E aggiunge: “Mi sembra difficile pensare che ci siano stati poliziotti e carabinieri che abbiano pestato Cucchi per il gusto di pestare. Se così fosse, chi lo ha fatto dovrebbe pagare. Ma bisogna aspettare la sentenza. Anche se della giustizia italiana non mi fido”. È una costruzione dì “senso” che deve rendere maggioritaria l’idea che per i “diversi” - migranti, tossici, gay, neri - le garanzie dell’habeas corpus non valgano. Che scontino un naturale pregiudizio di colpevolezza. E che, se qualcosa va storto, se la siano cercata. Nessuno infatti chiederà scusa. Né sembra intenzionato a farlo. Come Giovanardi, interpellato ieri dalla “Zanzara” su Radio24: “Cucchi? Non è un benemerito. Spacciava. Non è Cavour o Garibaldi”. È vero. Era solo un innocente in attesa di giudizio la cui sentenza di condanna a morte è stata pronunciata ed eseguita senza processo. “L’aspetto fisico non conta”: così la Cassazione corregge i giudici di Simona Musco Il Dubbio, 10 aprile 2019 “Non fu uno stupro, lei era anche brutta”: ecco le motivazioni dell’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Appello di Ancona. Elementi come l’aspetto fisico della vittima sono “irrilevanti”, in quanto “eccentrici” rispetto al tipo di reato. I giudici della Cassazione bacchettano così i colleghi della Corte d’Appello d’Ancona, incappati in giudizi estetici sulla presunta vittima di uno stupro. Giudizi feroci ed inutili, al punto che, per giorni, l’assoluzione dei due imputati era passata, sui giornali, come motivata dall’aspetto fisico della donna, considerata troppo “mascolina” e “scaltra” al punto, forse, di aver organizzato tutto quanto. Secondo il Palazzaccio, che ha annullato con rinvio la sentenza disponendo un nuovo processo davanti alla Corte d’appello di Perugia, i giudici di Ancona, nel decidere di assolvere i due imputati 24enni peruviani, condannati in primo grado a 5 e 3 anni, si sarebbero basati “sulla incondizionata accettazione del narrato degli imputati, che viene ritenuto riscontrato da elementi non decisivi”, come gli sms che la vittima avrebbe scambiato con uno degli imputati subito dopo il presunto stupro e, appunto, da elementi “irrilevanti” come fattori estetici. Per i giudici d’appello, la donna avrebbe inventato “buona parte del racconto”, forse “per giustificarsi agli occhi della madre”, che vedendola rientrare a notte fonda, ubriaca e sporca di sangue l’aveva punita prendendola a schiaffi. “Spingendosi addirittura, secondo la opinabile ricostruzione della sentenza d’appello - scrive la Cassazione - al punto di assumere di nascosto dalla madre benzodiazepine per corroborare la sua versione di essere stata drogata la sera dei fatti”. Ma questa sarebbe una ricostruzione “meramente congetturale”. Così come criticabile è stata la scelta di etichettarla come “scaltra peruviana”, nell’ipotizzare che possa essere stata “proprio la persona offesa ad organizzare la serata “goliardica”, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri, per poi provocare” uno dei due imputati, “al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”“ e inducendolo ad avere rapporti “per una sorta di sfida” che la ragazza “non ha inteso interrompere neppure” quando ha avuto l’emorragia, in seguito alla quale, secondo la Corte d’appello, una volta a casa, avrebbe “assunto dei medicinali in modo massiccio pur di placare i dolori”. Secondo gli Ermellini, i giudici di merito non avrebbero effettuato alcun “serio raffronto critico” con la condanna emessa in primo grado. E le dichiarazioni dei due imputati sul consenso al rapporto sessuale sarebbero state valorizzate senza il necessario “supporto probatorio”, nonostante “la brutalità del rapporto”, in seguito al quale la donna è stata sottoposta a intervento chirurgico e trasfusione. I fatti risalgono alla notte del 9 marzo 2013. Secondo la ricostruzione dell’accusa, i due imputati e la 24enne erano usciti per bere qualcosa dopo una lezione serale - i tre frequentavano lo stesso corso ad una scuola di Senigallia - finendo poi al parco pubblico di via Ragusa, ad Ancona. Lì la ragazza, dopo essere stata stordita con gocce di benzodiazepina nella birra, sarebbe stata violentata. “Quando tornò a casa non era in grado di ricordare quasi nulla - aveva commentato subito dopo la sentenza l’avvocato della donna, Cinzia Molinaro - Aveva riportato gravi ferite, per le quali è stata operata e delle quali non si era neanche accorta; era in uno stato di torpore che le permetteva di ricordare solo flash: disse di non essere in grado di dire se avesse iniziato il rapporto in maniera consenziente ma che a un certo punto era stata molto male, aveva detto basta senza che il ragazzo si fermasse”. È illegittimo lo slittamento degli effetti della notifica digitale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2019 Corte costituzionale - Sentenza 75/2019. È illegittimo lo slittamento dell’efficacia della notifica telematica, effettuata dopo le 21, alle 7 del mattino successivo. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 75 depositata ieri, accogliendo la questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano in una vicenda che aveva visto eccepire l’inammissibilità di un’impugnazione presentata l’ultimo giorno utile, ma pochi minuti dopo le 21. La norma contestata, articolo 16 septies del decreto crescita (n. 179 del 2012), estende alle notifiche digitali il divieto nella fascia oraria dalle 21 alle 7 del giorno dopo. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo. Secondo i giudici milanesi, la disposizione considererebbe identiche e, quindi, meritevoli di essere disciplinate allo stesso modo” due situazioni diverse, come il domicilio fisico e il domicilio digitale. Lettura condivisa dalla Corte costituzionale, che sottolinea la ratio del divieto e cioè la tutela del destinatario e del suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) in cui sarebbe stato, altrimenti, costretto a continuare a controllare la propria casella di posta elettronica. “Ciò appunto giustifica la fictio iuris - osserva la sentenza - contenuta nella seconda parte della norma in esame, per cui il perfezionamento della notifica, effettuabile dal mittente fino alle ore 24 (senza che il sistema telematico possa rifiutarne l’accettazione e la consegna), è differito, per il destinatario, alle ore 7 del giorno successivo”. Ingiustificata è però la limitazione nel tempo degli effetti giuridici della notifica nei riguardi del mittente, al quale, senza nessuna giustificazione di funzionalità alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante il mezzo tecnologico lo permetta, viene invece impedito di utilizzare il termine utile per la propria difesa. La norma è poi irrazionale, per la Corte costituzionale, perché nella sostanza nega la differenza tra canale tradizionale e telematico per l’effettuazione della notifica, visto che il primo si basa su un meccanismo comunque legato “all’apertura degli uffici”, da cui prescinde del tutto invece la notificazione con modalità telematica. Truffa sui pedaggi, l’intestatario del veicolo deve difendersi subito di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 15601/2019. Quando si è intestatari di un veicolo utilizzato per commettere un illecito, bisogna rispondere subito alle contestazioni che si ricevono. Anche quando non provengono da autorità di polizia o pubbliche in genere. È la principale conclusione che si può trarre dalla sentenza 15601/2019, depositata ieri dalla Seconda sezione penale della Cassazione. La pronuncia conferma il principio consolidato secondo cui chi elude il pagamento dei pedaggi autostradali accodandosi ai mezzi in transito ai caselli sulle piste Telepass (trovando così le sbarre aperte) commette il reato di truffa. Ma aggiunge che la condanna si può evitare solo rispondendo alle contestazioni. La Corte ritiene corretto che la sentenza di merito abbia considerato le risultanze del Pra (Pubblico registro automobilistico) come presunzione che il veicolo con il quale i pedaggi sono stati elusi appartenga all’intestatario. Perciò quest’ultimo ha “l’onere di dimostrare che non era alla guida dell’auto”. L’onere inizia già dalla fase in cui si riceve la prima contestazione, cosa che avviene con la forma di un semplice recupero del credito tentato dal gestore autostradale. Dunque, quando la vicenda è ancora nell’ambito del diritto civile e non si è ancora arrivati all’imputazione per truffa. Nella vicenda su cui ha deciso la Cassazione, risulta che le contestazioni inviate dalle società di gestione delle autostrade e ricevute dall’imputato, intestatario del veicolo, siano state “numerose”. E che mai sia stata data una risposta per escludere la responsabilità del destinatario. L’imputato aveva presentato ricorso contro gli esiti dei giudizi (penali) di merito perché in tali processi, contrariamente a quelli civili, il rito non prevede un onere probatorio a carico del soggetto sotto accusa. Ma la Cassazione risponde che esiste comunque “consolidata giurisprudenza” (viene citata la sentenza 32937/2014) secondo cui anche l’imputato “è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore”. In appello la dichiarazione infedele può diventare fraudolenta di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2019 Corte di cassazione - Sentenza 15500. È legittima la condanna in appello per dichiarazione fraudolenta, nonostante l’imputazione iniziale di dichiarazione infedele, se l’imputato ha fornito elementi in ordine alla configurazione di una differente condotta delittuosa. In casi del genere, infatti, non si verifica alcuna lesione al diritto di difesa, dal momento che l’interessato ha potuto interloquire su ogni aspetto della vicenda. A fornire questa precisazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 15500 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società veniva condannato dal tribunale per il reato di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del Dlgs 74/2000, perché non aveva indicato nella dichiarazione presentata elementi attivi per un importo superiore alla soglia. La Corte di appello, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale, riqualificava il delitto contestato, affermando che questo integrasse la dichiarazione fraudolenta di cui all’articolo 3 del Dlgs 74/2000. L’imputato impugnava la decisione in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi la violazione del Codice di procedura penale. In particolare, secondo il ricorrente, nonostante il giudice di secondo grado avesse ritenuto che il fatto commesso integrasse il reato di dichiarazione fraudolenta e non infedele, non aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero dichiarando la nullità della sentenza del tribunale, ma aveva confermato la pena inflitta nel primo grado di giudizio. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che, dopo le modifiche intervenute con il Dlgs 158/2015, per il reato di dichiarazione infedele (articolo 4 Dlgs 74/2000) occorre che i costi che hanno concorso all’evasione siano inesistenti e non più soltanto fittizi. La Suprema Corte ha, così, rilevato che proprio l’imputato aveva evidenziato già nelle proprie memorie in appello che, nel contesto del nuovo quadro normativo, le somme oggetto di contestazione, poiché erano state effettivamente pagate, dovevano essere considerate quali “operazioni fraudolente”. Ed infatti, sulla base di ciò, il giudice territoriale aveva ritenuto che la condotta integrasse il reato di dichiarazione fraudolenta. La Cassazione ha così chiarito che, per l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, non è sufficiente il mero confronto letterale fra contestazione e sentenza, poiché la norma è volta alla tutela del diritto di difesa dell’imputato. In altre parole, quindi, il principio di correlazione risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sezioni Unite 16/1996, 36551/2010). Ne consegue, pertanto, che non è ravvisabile alcuna violazione nell’ipotesi in cui sia lo stesso imputato a precisare gli elementi di fatto sulla base dei quali poi il giudice è pervenuto alla diversa individuazione del reato. Nella specie, l’interessato come emergeva dagli atti era stato posto nella condizione di difendersi, potendo intervenire su ogni aspetto della vicenda. Così il giudice di appello aveva legittimamente deciso senza rinviare gli atti di nuovo al Pm. Marche: lo sport dietro le sbarre per socializzare Il Dubbio, 10 aprile 2019 Da progetto pilota, partito nel 2012 grazie alla collaborazione tra Coni Marche, Scuola regionale dello sport e Regione Marche, “Sport in carcere” è diventata un’iniziativa strutturale nei penitenziari marchigiani per favorire il recupero, la socializzazione e il rispetto delle regole tra i detenuti. Nato col nome di “TuttiInforma”, diventato “Sport in carcere” lo stesso anno, è finanziato dalla Regione con 10mila euro l’anno aumentando le discipline proposte, le ore di attività e i reclusi coinvolti. Nato per lo svolgimento di attività motoria e sportiva all’interno del carcere di Montacuto ad Ancona, dal 2013 hanno aderito al progetto le carceri di Montacuto e Barcaglione ad Ancona, la sezione femminile della casa circondariale di Pesaro, la casa di reclusione di Fossombrone, la casa circondariale di Ascoli Piceno, la casa di reclusione di Fermo. Cinque le attività sportive svolte: allenamento funzionale, calcio, danza sportiva, rugby e scacchi. La disciplina degli scacchi è stata introdotta nel progetto per la prima volta proprio nel 2018 nel carcere di Pesaro, grazie all’associazione dilettantistica “Scacchi Pesaro”, attività che sta proseguendo anche nel 2019. I tecnici e allenatori che hanno fatto il loro ingresso nelle carceri marchigiane nell’ultimo anno sono stati 11 per un totale di 300 ore di attività. I detenuti partecipanti a “Sport in carcere”, sempre nel 2018, sono stati circa 400, impegnati sia nell’attività di squadra sia in quella di sport individuale. Un numero che si è consolidato nel tempo, dopo essere raddoppiato rispetto ai primi anni. Costante il numero delle ore di lezione dal 2012 ad oggi, con l’exploit degli anni 2014 e 2015 quando il consistente numero di discipline sportive offerte ha fatto incrementare anche le ore svolte (930 nel 2014 e 800 nel 2015). Costante anche il numero di tecnici inseriti nel progetto, tra gli 8 e gli 11 ogni anno, ad eccezione dell’anno di lancio del progetto, 2012, quando i tecnici furono solo 4. Napoli: lo zainetto e la vera sicurezza di Raffaele Cantone Il Mattino, 10 aprile 2019 L’immagine dello zainetto rosso accanto al lenzuolo che copre il corpo senza vita di Luigi Mignano non ripropone soltanto, con drammatica urgenza, il tema della sicurezza in città. Quanto accaduto al rione Villa è emblematico e al tempo stesso allarmante, in primo luogo proprio per un accostamento tanto innaturale. Quella cartella, adagiata vicino al cadavere di un pregiudicato, dimostra infatti plasticamente fino a che punto sia capace di giungere la follia omicida della camorra, che quasi a voler ostentare la propria irriducibile spietatezza non si ferma neppure davanti a un luogo “sacro” quale dovrebbe essere, anche per i criminali, un istituto scolastico, tanto più se durante l’orario di ingresso. Come se fosse del tutto naturale, non soltanto viene messo in conto il rischio di vittime collaterali ma neppure il rischio di colpire dei bambini in tenera età pare in grado di frenare la mano dei killer. È una vicenda che nella sua sciagurata sconsideratezza riporta alla mente episodi cui speravamo di non dover più assistere, come quello che costò la vita a Silvia Ruotolo, la mamma uccisa nel 1997 all’Arenella da un proiettile vagante mentre tornava a casa insieme al figlioletto. Nemmeno a farlo apposta, proprio ieri il riflesso delle dinamiche criminali in atto in città si è reso evidente in un altro episodio, meno clamoroso ma altrettanto indicativo. Nel corso del processo che si sta celebrando in tribunale, la Direzione distrettuale antimafia ha chiesto 14 anni di reclusione per il figlio di un boss di Fuorigrotta che nel 2017 fece fuoco tra la folla nella zona dei “Baretti”, ferendo quasi mortalmente un coetaneo appartenente a un clan rivale. Due episodi, benché non collegati fra loro, che mostrano con chiarezza come a Napoli, contrariamente a quanto avvenuto con altre organizzazioni mafiose, non solo la camorra non si è inabissata ma continua a manifestare con spregiudicatezza il suo volto più violento. È del tutto comprensibile, dunque, la vibrata reazione della preside della scuola Vittorino Da Feltre, vicina al luogo dell’agguato, che ha chiesto di posizionare una camionetta dell’esercito come deterrente: “I bambini sono spaventati, ma anche gli adulti. Io stessa ho paura”, le sue parole, che danno voce a un senso di angoscia diffuso, acuito peraltro dai timori legati alla prevedibile vendetta del clan colpito. È innegabile che a Napoli si pone un problema di ordine pubblico ormai non più rinviabile, anche alla luce degli attentati dinamitardi che nelle settimane scorse hanno colpito numerosi esercizi commerciali, alcuni anche celebri. La risposta delle istituzioni non può essere soltanto quella di consentire ai cittadini di armarsi, quasi a delegare ai singoli la propria incolumità, in una implicita ammissione di impotenza. La gestione dell’ordine pubblico e il controllo del territorio è il primo dei doveri di uno Stato degno di questo nome. Aumentare le pattuglie e assicurare una maggiore presenza delle forze dell’ordine è solo il primo passo e sarebbe illusorio credere che basti a risolvere i problemi. Oltre a disincentivare le azioni violente nei luoghi più sensibili, tuttavia, una misura del genere (promessa ma poi rimasta inattuata) sarebbe quanto meno in grado di rassicurare i cittadini, che hanno il sacrosanto diritto di portare i loro figli a scuola senza il timore di finire in mezzo a sparatorie e agguati camorristici. Monza: il corso per ripartire, fare l’imprenditore nonostante il carcere di Roberto Magnani ilcittadinomb.it, 10 aprile 2019 Fare l’imprenditore nonostante il carcere: il corso per ripartire. Partito nella sede dell’Ordine dei commercialisti ed esperti contabili di Monza, sette lezioni per 14 ore rivolte a quindici soggetti in esecuzione penale esterna selezionati da Uepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione pene esterne). Protocollo carcere: con l’avvio fino al 29 maggio, nella sede dell’Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili di via Lario, di un corso di orientamento all’autoimprenditorialità e la Cisco Academy in pieno svolgimento, da febbraio, nella casa circondariale di Monza, si sta concretizzando l’iniziativa che a maggio del 2018 aveva visto 23 enti firmatari, tra i quali, novità assoluta, numerosi attori economici. Si tratta di moduli formativi per il reinserimento sociale e lavorativo di persone ex detenute, detenute e in esecuzione penale. Quindici i soggetti coinvolti, due donne, tra i 21 e i 64 anni di età, selezionati dal Uepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione pene esterne), alcuni residenti in provincia, uno di origine straniera. Tutti in possesso di licenza media inferiore, sognano di fare il barista, il falegname, il meccanico o la parrucchiera e con i corsi avranno tutti gli strumenti per districarsi agevolmente nel mondo del lavoro “fonte di dignità sociale” se è vero come è vero, secondo quanto detto da Severina Panarello, direttore Uepe, che con una pena alternativa si registra mediamente solo il 19% di recidiva criminale contro il 75% di chi sconta negli istituti di pena. “L’avvio dei due progetti è il frutto del lavoro di rete e un esempio di concretezza affinché ci sia un’esecuzione penale operosa, aperta all’esterno e rispettosa della dignità delle persone visto che la recidiva è il male assoluto della collettività” ha dichiarato un soddisfatto Giuseppe Airò, presidente della sezione dibattimentale del Tribunale di Monza, tra i firmatari del Protocollo. Il corso (7 incontri per 14 ore totali, volto tra l’altro alla creazione di impresa o all’apertura di partita Iva) è stato spiegato da Silvia Gabbioneta, responsabile del centro per l’impegno di Monza e Brianza per Afol che ha tra l’altro già sperimentato un corso simile direttamente in carcere dove ha attivato uno Sportello lavoro: “Abbiamo condiviso l’idea del corso perché nel corso degli anni la richiesta delle aziende e dei cittadini di Monza e Brianza si è profondamente modificata, siamo passati da una richiesta di lavoro dipendente a una di lavoro intraprendente” ha detto tra l’altro. In cattedra si avvicenderanno esperti e professionisti di Assolombarda (per il modulo “Dall’idea all’Impresa”) dell’Ordine dei commercialisti (“Tipologia d’Impresa” e “Fiscalità Finanza”), di Unicredit ed Unigens, l’associazione di volontari che lavorano o hanno lavorato nell’istituto di Credito (“Competenze bancarie di base” e “Finanziamenti all’imprenditoria”) ed esperti di Confartigianato (“Marketing e Comunicazione”). Soddisfazione è stata espressa anche da Fabio Colombo, vicedirettore del presidio territoriale Monza di Assolombarda: “Elogio il valore della rete e della concretezza brianzola che hanno permesso di fa partire già due progetti, uno con una azienda nostra associata e molto importante per il territorio come Cisco. Oggi Assolombarda con questo corso mette a disposizione competenze, testimonianze e risorse. Si tratta delle prime iniziative di un modello primo e unico in Italia che potrebbe essere esportato anche in altre parti del territorio”. Illustrata anche l’esperienza Cisco Academy, percorso di formazione specialistica per ottenere una certificazione per operare su sistemi Ict, è già in pieno svolgimento (e si concluderà a dicembre 2019) nella casa circondariale di via Sanquirico ed è rivolta a 11 detenuti tra i 30 e i 50 anni (con Unicredit che ha donato le 13 postazioni pc per svolgere l’iniziativa). Paolo Ferrario (Apa Confartigianato imprese Milano Monza Brianza) ha aggiunto: “Fare rete è per la Brianza un valore che poi riverbera azioni significativa anche di carattere sociale”. “Si tratta di un corso molto interessante che permetterà a chi lo frequenta di avere tra le mani qualcosa di concreto”, ha commentato Federico Ratti, presidente dell’Ordine dei Commercialisti che ospita l’iniziativa. Lucca: Alessandra Severi è la nuova Garante comunale dei detenuti luccaindiretta.it, 10 aprile 2019 È la dottoressa Alessandra Severi, già volontaria del carcere di San Giorgio, la nuova garante dei detenuti del Comune di Lucca. È stata eletta alla terza votazione, a maggioranza semplice, dai soli componenti di Pd, Lucca Civica e Sinistra con Tambellini più il voto della consigliera di Lei Lucca Donatella Buonriposi (20 voti favorevoli). Non hanno partecipato al voto le opposizioni che hanno riproposto i dubbi della scorsa seduta sulla trasparenza della procedura, che alla fine ha visto partecipare una sola persona e la mancata ricandidatura della garante uscente, Mia Pisano, nel frattempo candidatasi al consiglio comunale con Casapound. Bagarre al momento del voto finale, con Bindocci (M5S) che ha accusato il presidente del Consiglio, Francesco Battistini, di aver voluto forzare il voto, dopo la mancata elezione della Severi a maggioranza qualificata. Fra i due, dopo la certificazione del voto, sono volate scintille e il consigliere Bindocci è uscito dall’aula dopo un richiamo dal numero uno di Palazzo Santini. Il dibattito si era aperto con i consiglieri di Sinistra con Tambellini Ciardetti (presidente della commissione sociale) e il capogruppo Bianucci, che invitvaano a procedere alla votazione in senso favorevole, visto il raggiungimento dell’unanimità in commissione, mentre Bindocci (M5S) e Barsanti (Casapound) hanno avanzato nuovamente perplessità sulla trasparenza della procedura e sulla sua tempistica che alla fine avrebbe portato alla presentazione di una sola candidata. La consigliera Petretti (Pd) tuttavia, ricorda come “in commissione si fosse già discusso della nomina e non erano stati sollevati questi dubbi”. Santini (SiAmo Lucca e Lucca in Movimento) ricorda, come nel dibattito di due settimane fa, come sia stato il racconto della garante uscente, Mia Pisano, ad aver fatto mutare il loro orientamento: “Nessuno le ha nemmeno fatto una telefonata e questo ci ha fatto capire che non era più gradita”. Nel botta e risposta si inserisce anche il consigliere Ciardetti: “L’ex garante sapeva perfettamente di essere decaduta, fu lei ad informarmi”. Botta e risposta anche fra i consiglieri Di Vito, che in commissione aveva votato a favore e il consigliere Guidotti (Pd), che accusa il collega consigliere di scarsa coerenza. Anche stavolta alla prima votazione non viene raggiunto il quorum per la maggioranza qualificata, ma la pratica passa nella votazione successiva con la maggioranza assoluta, con 20 voti favorevoli. Bagarre, come detto, al momento della votazione decisiva: Bindocci chiede un minuto di sospensione, ma il presidente del Consiglio comunale Francesco Battistini si oppone essendo la pratica già in fase di votazione. Il pentastellato, per tutta risposta, lo accusa di “atteggiamento fascista” e si produce in una pernacchia al microfono, incassando l’ennesimo richiamo. S.M. Capua Vetere (Ce): il Garante “potenziare ambulatori all’interno delle carceri” latorre1905.it, 10 aprile 2019 Si è tenuta ieri una visita effettuata presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ad opera del Presidente della Commissione Sanità della Regione Campania Stefano Graziano, insieme al Garante dei Detenuti della Ragione Campania Prof. Samuele Ciambriello ed ai Deputati Piero De Luca e Pina Picierno. “Dopo un pranzo alla mensa degli agenti abbiamo visitato il padiglione femminile, dove ci sono circa 60 persone. Abbiamo potuto costatare che ci sono tante attività lavorative e sociali in corso. Ho raccolto la richiesta della direttrice Palmieri per il potenziamento della specialistica ambulatoriale in modo da ridurre al minimo gli spostamenti dei detenuti per motivi sanitari. La Palmieri ci ha anche sollecitato a valutare la riapertura del reparto penitenziario dell’ospedale di Caserta, chiuso ormai da anni”, ha dichiarato a margine dell’incontro il Presidente Graziano. Il Garante Ciambriello in mattinata aveva avuto colloqui individuali con i detenuti, insieme alle figure professionali presenti nel suo staff: “nella mia visita di oggi nel carcere di Smcv ho verificato ancora una volta, ascoltando diversi detenuti, che al centro delle criticità, vi sono spesso i medesimi temi: la sanità negata e la rigidità e i tempi lunghi per parlare con educatori e specialisti. Chiedo ai Dirigenti dell’Asl di intervenire; a volte i detenuti attendono mesi per visite specialistiche e ricoveri ospedalieri. Occorre rafforzare le attrezzature sanitarie in carcere per far diminuire tempi di attesa e risparmiare risorse umane ed economiche. Chiedo il rafforzamento di figure sociali di riferimento”, ha affermato il Garante che ha aggiunto: “la Regione Campania, per questa struttura carceraria ha sottoscritto un protocollo di intesa con il Comune finanziando con 2 milioni di euro l’allacciamento alla condotta idrica per la risoluzione della problematica relativa all’approvvigionamento di acqua potabile che si trascina dagli anni 90, periodo di apertura del carcere. Chiediamo al Comune di S. M. Capua Vetere di utilizzare i fondi ricevuti perché finalmente questo processo sia avviato”. “Nel corso della visita al padiglione femminile -ha spiegato, in conclusione, il deputato Piero De Luca- in compagnia della direttrice Elisabetta Palmieri, abbiamo avuto modo di parlare delle molteplici attività in cui sono impegnate le 60 detenute attualmente ospiti della casa circondariale casertana. Ci sono delle criticità oggettive da risolvere -ha proseguito il deputato Dem-in prima istanza il sottodimensionamento del personale penitenziario, circa 400 unità, a fronte di 1020 detenuti. Ma è necessario intervenire anche su altri temi: ho assicurato il mio impegno sui temi che mi sono stati esposti - ha concluso Piero De Luca - affinché si riescano a conciliare al meglio sicurezza ed umanità”. Durante la visita il Rotary Club di Posillipo ha fatto dono alle detenute di due televisori al plasma che saranno nella disponibilità quotidiana delle stesse. Torino: Gherardo Colombo agli studenti “se trattiamo male i detenuti non li recuperiamo” di Marco Panzarella torinoggi.it, 10 aprile 2019 l magistrato di Mani Pulite: “Applicando misure alternative al carcere, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, si ottengo risultati sorprendenti”. “Non deve sorprendere che 7 persone su 10 che escono dal carcere poi ci tornano. In effetti sul carcere la legge dice una cosa, ma poi in pratica se ne fa un’altra”. Così l’ex magistrato Gherardo Colombo, che al Campus Einaudi di Torino ha partecipato a un incontro dal titolo “Durante e dopo il carcere? Percorsi di riconciliazione ed inclusione”. “Molti pensano che se trattiamo male le persone poi le recuperiamo. Non è così, in una persona trattata male nasce un sentimento di rancore, che probabilmente lo porterà a commettere un nuovo reato. Al contrario, è provato che applicando misure alternative alla detenzione, ad esempio l’affidamento in prova ai servizi sociali, si ottengo risultati sorprendenti. Basti pensare che soltanto 19 su 100 tornano a commettere reati”. Per l’ex magistrato di Mani Pulite “il sistema penitenziario in Italia costa circa 3 miliardi l’anno, bisognerebbe guardare ogni persona per quello che è e cucirgli addosso un “trattamento” finalizzato al suo recupero. Cosa ce ne facciamo di gente obbediente, se l’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una repubblica democratica?”. “Per realizzare il Paese che è descritto nella Costituzione - ha concluso il magistrato - serve che le persone siano libere. È sicuramente più faticoso rieducare chi ha sbagliato, ma è certamente più efficace”. Opera (Mi): “Prima o poi ti dirò la verità”, le lettere ai figli dei detenuti tossicodipendenti di Francesco Floris Redattore Sociale, 10 aprile 2019 Chi inventa fiabe per parlare al bimbo di tre anni. Chi si domanda “posso produrre dopamina senza droghe?”. È il Progetto Vela, voluto nel 2015 da operatori del Sert: dentro al carcere di Opera, 50 detenuti tossicodipendenti aderiscono a laboratori di scrittura, gruppi di educazione alla legalità, alla salute. D. ha inventato una favola per raccontare di sé al suo bimbo. “Il racconto è ambientato in un bosco buio e tenebroso - scrive l’uomo: camminando in un sentiero mi sono perso”. I protagonisti che abitano la foresta d’invenzione sono “il tasso che rappresenta il giudice, le lucciole il conforto delle relazioni con le persone”, mentre i “Bluganti”, esseri partoriti dalla sua fantasia dietro le sbarre, “sono gli operatori di Polizia Penitenziaria”. D. spera che con questa fiaba Gabriele - suo figlio, tre anni - “possa capire cosa sto vivendo”. “Sono felice di averglielo detto - si chiude lo scritto. Mi sono sentito meglio io e soprattutto ho visto Gabriele più tranquillo”. C’è invece chi ancora non ha trovato il coraggio di mettersi a nudo: “Caro A., tu mi chiedi sempre “papi quando vieni a casa?”. Io rispondo “quando finisco di lavorare faremo tante belle cose insieme”. “Ora non sono pronto ma prima o poi dirò tutta la verità”. Un altro bambino, caso identico, giustamente si domanda: “Ma se la mamma inizia a lavorare poi non torna a casa come te?”. Sono brani tratti da una rappresentazione al teatro della casa di reclusione di Opera, realizzata da operatori e detenuti uniti nel “Progetto Vela”: calcato sul più noto modello de “La Nave” di San Vittore, attivo sin dal 2002, la “Vela” prevede che 50 reclusi con problemi di dipendenza da sostanze e alcool abbiano la possibilità di curarsi aderendo volontariamente a gruppi con programmi terapeutici, sanitari, psicologici, socio-educativi, culturali e ricreativi. Il gruppo “Genitori e figli” è uno di questi. Si mettono i pensieri su carta, si elabora il proprio passato: “La mia prima moglie è morta di parto dando alla luce C., il mio secondo figlio - racconta un uomo albanese -: Mi sono chiuso in me stesso sempre di più, ho usato cocaina per sopravvivere, ho commesso un reato e sono arrivato qui a Opera”. “Ti ho abbandonato con i nonni in Grecia - dice un altro. So di essere in debito con te. In questo momento difficile delle scuole vorrei essere lì”. Il progetto Vela prevede un’altra dozzina di gruppi tematici. Tra le attività più peculiari quella del videobox: 10 minuti in solitudine davanti a telecamera e monitor per videoregistrare un auto-intervista. Un girato dove il detenuto è regista, protagonista e comparsa allo stesso tempo. Dopo una settimana la si rivede in compagnia di un operatore a propria scelta. È convincimento di psicoterapeuti e assistenti sociali che in quel contesto - “una palestra dove allenare le emozioni” la definiscono - non ci si possa mentire. Un altro gruppo si muove sui binari dell’educazione sanitaria, sulle malattie sessualmente trasmissibili, sul concetto di salute secondo le definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, sulle droghe in circolazione. Perché “è accertato - scrivono nella presentazione del progetto i tre educatori e l’assistente sociale del Sert, capitanati dal dottor Giuseppe Mate - che nella popolazione tossicodipendente in detenzione si trovano storie in cui il ricorso al consumo di alcool e droghe è più gravoso, caratterizzato da poli-assunzione, carico di problematiche mediche, infettive e psichiatriche”. Tema cruciale nel carcere di Opera, in cui è aperta una sezione di 14 posti letto (di cui quattro per l’isolamento sanitario) per i detenuti con malattie infettive. “Un hub nazionale per l’Aids”, come lo definisce Roberto Ranieri, responsabile di medicina penitenziaria di Regione Lombardia e vice presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). A Opera arrivano detenuti malati da tutta Italia. “Un solo obiettivo mi importava - racconta M, un uomo colto a giudicare dal lessico dei suoi scritti, nella riflessione che il detenuto dedica al rapporto fra droga e salute -: La festa. E mi dicevo: Che festa sia”. Parla del suo sistema nervoso attivato dalle droghe che “mi faceva stare in un bagno di dopamina, tutt’ora mi vengono i ricordi positivi di quella situazione”. Conseguenze dannose? “Non avevo più la percezione del tempo e altre cose si erano alterate, per esempio il valore dei soldi. Potremmo dire distacco dalla realtà? Stavo immerso in stati d’animo quasi alternativi. Mentre sognavo grandi cose, obiettivi ambiziosi, carico di euforia e mi buttavo su tutto ciò che mi pareva brillante, preparavo allo stesso tempo le premesse per andare incontro ai guai. Viaggiavo con il mio hashtag “#menestrafotto” e potete immaginare dove mi ha portato”. Non si commisera M. e il suo cervello, così reattivo, è già alla ricerca di soluzioni future: “Voglio credere a un dato scientifico che abbiamo studiato nelle ultime settimane, che ci suggerisce di lavorare su un obiettivo senza mollare per un buon lasso di tempo, in modo da addestrare il nostro cervello a produrre dopamina in modo nuovo e, soprattutto, senza la chimica delle droghe”. “Mi chiedo - chiude il detenuto -: è possibile produrre la mia dopamina in tutt’altro modo? Stando bene fisicamente, propormi degli obiettivi lavorativi, oppure, per stare in un filone classico, provando delle emozioni d’amore, stringere amicizie positive, vivere più pienamente possibile l’affetto della famiglia. Vedremo!”. Belluno: carcere e legalità, l’associazione Jabar celebra i suoi 5 anni Il Gazzettino, 10 aprile 2019 Jabar compie 5 anni: nel fine settimana si festeggia in grande. Doppio appuntamento tra venerdì e sabato, per l’associazione guidata da Elisa Corrà e impegnata in carcere con attività e proposte formative. Si parte venerdì alle 18.30 nella sala riunioni al secondo piano della Casa del Volontariato di Belluno. Qui interverranno soci e volontari dell’associazione per una sorta di punto su quanto fatto finora: verrà illustrato l’impegno dentro e fuori la casa circondariale di Baldenich, nella convinzione che anche l’apporto del volontariato possa contribuire alla funzione rieducativa della pena inflitta. Poi, sabato dalle 9 alle 13 in sala Bianchi si terrà un incontro aperto a tutti, con posti riservati alla formazione continua specifica di avvocati, giornalisti e assistenti sociali. Il titolo è “Sistema penale e misure alternative”, tema su cui interverranno il garante dei diritti dei detenuti a Belluno Emilio Guerra, gli assistenti sociali Margherita Benazzato e Paola Mastrosimone, l’avvocato Gino Sperandio e Chiara Da Ros di Cooperativa Società Nuova. La partecipazione è gratuita e libera, fino a esaurimento posti. I giornalisti possono registrarsi attraverso la piattaforma Sigef; assistenti sociali e avvocati interessati possono pre-iscriversi inviando una mail ad associazione.jabar@gmail.com indicando nome, cognome e ordine di appartenenza. Il programma formativo è finanziato dal Csv di Belluno attraverso il bando Coprogettazione 2017. Per altre informazioni 351 8377769. Cagliari: nel carcere di Uta arriva “Adotta uno scrittore” di Antonio Caria sardegnalive.net, 10 aprile 2019 Il primo dei tre incontri con Flavio Soriga è in programma oggi 10 aprile alle 13.30. Altro importante riconoscimento per “Sulla terra leggeri”. Il festival letterario è stato infatti scelto dal Salone Internazionale del Libro di Torino per portare anche in Sardegna “Adotta uno scrittore”, una delle iniziative che la grande rassegna torinese da molti anni dedica alle scuole. L’iniziativa, ideata diciassette anni fa, ha visto coinvolte centinaia di classi, ma anche realtà diverse dalla scuola tradizionale, come le sezioni carcerarie. Ed è appunto in una sezione del carcere di Uta che si svolgeranno i tre incontri, tenuti dallo scrittore Flavio Soriga. Il primo è in programma domani 10 aprile dalle 13,30, Coordinatrice del progetto la professoressa Claudia Zito. L’obiettivo è quello di favorire uno scambio reale tra l’autore e gli studenti che lo adottano, un incontro tra diverse esperienze, sensibilità, passioni, curiosità, interessi. “I giovani che partecipano ad “Adotta uno scrittore” hanno una grande opportunità: quella di appassionarsi alla lettura e alla cultura, due strumenti fondamentali per essere liberi e poter scegliere che cosa diventare - ha dichiarato il Presidente dell’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte Giovanni Quaglia. L’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte è da sempre al fianco di questo progetto, perché fa crescere nuovi semi di sapere, dialogo e bellezza nelle scuole e in alcuni luoghi-simbolo di fragilità e marginalità, come gli istituti carcerari, in modo che il valore della lettura possa coinvolgere anche chi è più in difficoltà”. Trieste: incontro letterario al carcere con il libro “Corti di mare. Racconti e miti” di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2019 Un’antologia scritta da 13 Autoriv a cura di Graziella Atzori. Il 13 aprile 2019 ad ore 10.00 G. Atzori - M. Bava - R. Coccolo - G. Micheli - C. Platania - N. Semeja presenteranno “Corti di mare. Racconti e miti” un’antologia in cui gli Autori hanno scelto il mare come metafora della vita: navigazione avventurosa e difficile. Il libro si articola in tre sezioni. Nella prima - Cultura marina - rivisitate le antiche leggende, i simbolismi, omaggiati grandi narratori del passato si mettono in discussione ideali e motivazioni; nella seconda - I racconti - si pongono domande importanti: il mare divide o unisce i popoli? Nella terza - Nel mare della Storia - il mare è testimone di alcune cruente battaglie della Storia e in questa sezione viene rievocato il dramma di Vergarolla. Tutti assieme - persone private della libertà, Autori, persone provenienti dalla libertà - ci si confronterà sui temi proposti dagli Autori del libro in un dibattito che si è sempre rivelato interessante e vivace; con apporti costruttivi emergenti dalle diverse culture ed esperienze. E il tema ritorna: il mare divide o unisce i popoli? *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Padova: a pranzo in carcere, la proposta dell’associazione “La Difesa s’incontra” di Tatiana Mario difesapopolo.it, 10 aprile 2019 La Difesa s’incontra e la parrocchia del carcere Due Palazzi di Padova invitano domenica 9 giugno a un evento unico, un’opportunità per ascoltare alcuni detenuti che hanno ritrovato la fede tra le mura del Due Palazzi e per conoscere la realtà lavorativa all’interno del carcere con la cooperativa sociale Work Crossing. Il progetto “A pranzo in carcere” è a sostegno del progetto terapeutico “L’arte in...vita!” Va segnata la data: domenica 9 giugno, solennità di Pentecoste. Il luogo: casa di reclusione Due Palazzi. Il motivo: a pranzo con i detenuti. La nostra associazione La Difesa s’incontra lancia una nuova, originale proposta in stretta sinergia con la parrocchia del carcere Due Palazzi che è rivolta a tutti, anche a piccoli gruppi parrocchiali, per una domenica fuori dal comune. “A pranzo in carcere” è il titolo dell’iniziativa pensata per approfondire la conoscenza di una delle periferie esistenziali - come ama chiamarle papa Francesco - dove la Chiesa di Padova è presente grazie al lavoro quotidiano del cappellano don Marco Pozza, dei diaconi permanenti, dei catechisti e dei volontari che accompagnano spiritualmente le persone che vivono e lavorano al Due Palazzi. “Lo scorso 27 novembre, al ristorante Fresco di via Forcellini a Padova gestito dalla cooperativa d’inserimento lavorativo Work Crossing - racconta il diacono Andrea Marini, presidente della Difesa s’incontra - alla cena organizzata dalla nostra associazione per presentare il libro scritto insieme a papa Francesco sull’Ave Maria, don Marco aveva espresso il desiderio di realizzare lo stesso evento tra le mura del Due Palazzi per parlare di fede e carcere. E quel proposito lo abbiamo voluto far diventare realtà il prossimo 9 giugno”. “A pranzo in carcere” sarà una mezza giornata a cui possono partecipare tutti, basta avere più di 18 anni. Per ragioni di sicurezza, l’ingresso sarà però limitato alle prime cento persone che s’iscriveranno entro il 5 maggio. Sarà esperienza concreta di misericordia: i protagonisti saranno alcuni detenuti che hanno riscoperto la fede grazie alla parrocchia di “ferro e cemento” e che sono impegnati nel racconto della propria storia durante le domeniche in cui le comunità parrocchiali hanno la possibilità di entrare in carcere. Inoltre, ci sarà anche un momento dedicato alla parrocchia, per presentare le sue attività e le persone che sono a disposizione nell’accompagnamento spirituale. Ci sarà modo anche di conoscere la cooperativa sociale di tipo B Work crossing dalla cui pasticceria all’interno della casa di reclusione escono i raffinati e “ricercati” dolci di Giotto conosciuti in tutto il mondo. Alla Work Crossing sarà affidato il compito di deliziare i palati dei partecipanti con la preparazione del buffet conviviale che verrà servito a conclusione della messa di Pentecoste, celebrata all’interno della cappellina, che darà il senso più profondo all’incontro di domenica 9 giugno. Come significativo gesto di solidarietà nei confronti della realtà detentiva che ospita l’evento della Difesa s’incontra, una parte del ricavato dell’iniziativa sarà destinato a uno dei progetti di recupero promossi tra le mura del carcere nel percorso “L’arte in… vita! I colori visti da dentro” che, tramite anche laboratori artistici, realizza con una ventina detenuti un percorso di riconciliazione e riparazione nei confronti delle vittime dei reati commessi. Le iscrizioni devono essere effettuate tassativamente entro il 5 maggio per motivi organizzativi. Per ricevere i moduli di adesione basta contattare la segreteria della Difesa s’incontra via mail all’indirizzo associazione@difesapopolo.it oppure telefonare allo 049.2131943. Piacenza: “Come se foste loro compagni di carcere”, fiaccolata davanti alle Novate ilpiacenza.it, 10 aprile 2019 L’iniziativa giunge al quarto anno: partenza alle ore 20,45 dalla Galleria Alberoni per poi raggiungere il piazzale antistante il carcere delle Novate. Venerdì 12 aprile si rinnova l’appuntamento con la fiaccolata verso il carcere. L’iniziativa, giunta alla sua quarta edizione, è promossa dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio. “Si tratta di un gesto per dimostrare la nostra vicinanza verso le persone detenute, bisognose di attenzione e umanità: il carcere è un luogo dove è possibile promuovere la speranza e il reinserimento. Per questo, occorre far sentire loro quel supplemento di “umanità” che il messaggio del cristianesimo, unito a quello di tanti uomini e donne di buona volontà, sono in grado di accogliere e testimoniare”, scrive il vescovo Gianni Ambrosio in una nota. La fiaccolata partirà alle 20,45 dalla Galleria Alberoni, via Emilia Parmense, 57. “Almarina”. Perché in carcere del presente non si parla, e il futuro non si immagina recensione di G.M. Ghioni criticaletteraria.org, 10 aprile 2019 A insegnare matematica (e la fiducia) con Valeria Parrella. Chi pensa che Nisida sia un’aberrazione non conosce la città, e chi pensa che la città sia un’aberrazione non conosce il Paese. È per questo che quando arrivano a Nisida i nostri ragazzi si straniano: vedono da vicino, per la prima volta, adulti diversi da quelli che li hanno partoriti. Capire che sono finiti in prigione è niente: in due giorni gli passa lo choc, ricominciano a dormire, prendono un ritmo già raccontato da altri: nel loro lungo gioco questa possibilità era prevista. Faticano più a capire questo, invece: che possono fidarsi. Questo nuovo romanzo di Valeria Parrella, “Almarina”, è pieno di fuori e di dentro: c’è la differenza più evidente, tra l’esterno e l’interno del carcere minorile di Nisida, isoletta sul Mediterraneo a pochissima distanza da Napoli; c’è un’esteriorità e un’interiorità più celata, quella delle emozioni, moltiplicata tante volte quanti sono i personaggi; c’è la matematica, vista da fuori come un insegnamento qualsiasi e da dentro come la possibilità di mettere le ali al futuro di questi giovani rinchiusi. E poi c’è la protagonista, Elisabetta Maiorano, che si muove dentro il passato e fuori, nel presente: il presente la vede sola, vedova, insegnante di matematica appassionata del proprio compito in carcere, tanto quanto disamorata davanti alla sua città, al suo Paese, alla giustizia; il passato la abbraccia con i suoi ricordi, ricordi che fanno arrabbiare tanto sono belli e che le sfilano davanti alla notte, quando è sola nel suo letto. Insegnare, in carcere, è ben diverso da un normale insegnamento: intanto, i ragazzi cambiano di continuo, la classe è mista e rumorosa, se non sconfortata e continuamente rimescolata; le preparazioni sono varie, come le età degli studenti, nascosti dentro le loro tute in acetato e dietro i loro crimini, commessi più o meno consapevolmente. Eppure a Elisabetta piace; lei, che ha viaggiato in lungo e in largo per la penisola per la gavetta nell’insegnamento, a costo di potersi concedere solo un amore e un matrimonio “tardivi”, lei ha inserito il carcere come terza scelta per le assegnazioni di ruolo e da allora ogni giorno risale la strada tortuosa che porta a Nisida. Da lì, tutto ha una nuova prospettiva: Napoli, tanto per cominciare; ma anche la vita di Elisabetta, l’insegnamento, il futuro... Poi, un giorno, arriva in classe Almarina, un’adolescente romena dal passato terribile, di cui porta ancora i segni sul suo corpo martoriato: fin da subito, Elisabetta prova un senso di protezione e una curiosità per la ragazza che arriva a travalicare i confini del semplice insegnamento. Per Elisabetta, Almarina è un po’ la figlia che non si è mai potuta concedere, e la ragazza, che all’inizio guardava con sospetto la professoressa, poi si è quasi abituata a lasciarsi abbracciare. Ma fidarsi è un’altra cosa, ogni ragazzo di Nisida è stato spezzato, eppure quando scende sul campo di pallavolo e inizia una partita, o quando si dedica alle attività creative nel laboratorio, si intravedono la vivacità e le speranze. Come se fosse quasi tutto normale. Ma alla sera i ragazzi tornano nelle celle, mentre gli insegnanti vanno nelle proprie case, ognuno con una coscienza diversa del proprio tempo e del mondo circostante... Tra flashback, squarci di presente più o meno delicati e crudi, riflessioni che colpiscono il sistema carcerario e i tempi titanici della giustizia, Valeria Parrella ha creato una storia di grande turbamento e al tempo stesso d’amore, mantenendosi estremamente lucida: sì, perché davanti agli occhi velati di commozione dei lettori l’autrice presenta la realtà per quella che è, senza fronzoli o apologie moralistiche. E lo fa con paragrafi brevi, estremamente lirici, frasi nominali e periodi franti che procedono per accostamenti e si ribellano alla sintassi tradizionale. Insomma, un po’ come i ragazzi di Nisida, anche le frasi cercano un loro procedere, ora più veloce e narrativo, ora più ragionativo e immaginativo. Forse è difficile riuscire a fermare in poche pagine una realtà come quella dei carceri minorili, della maternità, del lutto e della possibile rinascita dopo la vedovanza, “perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno” (p. 112). Ma Valeria Parrella ce l’ha fatta, e ha scelto una scrittura tanto personale che è bella da sottolineare e rileggere. “Vendetta”, di Richard Gambino. Gli italiani linciati a New Orleans di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 10 aprile 2019 Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini. Gli organizzatori del linciaggio “fecero disporre in fila alcuni dei cadaveri in una vasta stanza, per consentire alla gente di sfilarvi davanti. Migliaia di individui, tra i quali si stimò ci fossero circa 2500 fra donne e bambini, continuarono ad affluire per cinque ore. (…) Alcune delle donne inzupparono i propri fazzoletti di pizzo nel sangue dei morti per ricordo”. Quanto odio occorre accumulare per arrivare a tanto? Quanto? Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini. Ed è una consolazione sapere che il sindaco della città della Louisiana, come scriveva giorni fa il nostro Paolo Di Stefano, chiederà scusa giovedì alla comunità italiana per quell’eccidio che il “Republic” di St. Louis bollò subito come razzista spiegando che i nostri erano stati linciati “in forza dell’unica prova disponibile, quella di essere dagoes”. Uno dei nomignoli sprezzanti con cui erano definiti. Ma come fu gonfiata, giorno dopo giorno, quella bolla di odio contro i nostri nonni? Dice tutto una vignetta pubblicata dalla rivista “The Mascot” edita a New Orleans il 7 settembre 1883. Sotto il titolo “Regarding the italian population” (a proposito della popolazione italiana) c’erano cinque vignette con le relative didascalie. La prima mostrava immigrati italiani che bivaccavano in mezzo alla strada: “Un fastidio per i pedoni”. La seconda italiani accatastati l’uno sull’altro: “Gli appartamenti in cui dormono”. La terza italiani che si accapigliavano a coltellate: “Un piacevole passatempo pomeridiano”. La quarta italiani ammassati dentro una gabbia calata con una carrucola in mare: “Come sbarazzarsi di loro”. La quinta italiani rabbiosi portati via dal carro dell’accalappiacani: “Come arrestarli”. Così vedevano i nostri immigrati in America, allora. Lo stesso il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, dopo l’omicidio del poliziotto, sfogò i suoi peggiori pregiudizi accusando i siciliani d’essere gli “individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano tra noi”. Brutta storia il razzismo. Peccato che molti se ne accorgano solo quando lo subiscono loro… Caso “Rousseau”, impiccalo più in alto di Vincenzo Vita Il Manifesto, 10 aprile 2019 Lo scorso 4 aprile il Garante per la protezione dei dati personali, l’autorità presieduta da Antonello Soro, ha comminato una sanzione di 50.000 euro all’Associazione Rousseau (il cui legale rappresentante è Davide Casaleggio), quale responsabile del trattamento svolto sulla omonima piattaforma. Quest’ultima, come è noto, costituisce il tessuto nervoso del Mov5Stelle. Anzi, il raggruppamento fondato da Beppe Grillo è stato oggetto di studi ed analisi di ricercatori e giornalisti che ne hanno approfondito caratteristiche e struttura: dall’analisi politologica di Paolo Gerbaudo (“Il partito piattaforma”, 2018) a quella critica di Jacopo Iacoboni (“L’esperimento”, 2018). L’ufficio del Garante ha ritenuto inadeguati i meccanismi adottati per tutelare la sicurezza dei dati immessi, ivi inclusi quelli degli stessi attivisti abilitati alla navigazione. Tradotto: il voto on-line è davvero segreto? L’identità digitale degli utenti diventa patrimonio della società? Nessun processo alle intenzioni, ma quanto è successo dopo la sanzione lascia davvero perplessi. Ed inquieti. Ci si poteva attendere una legittima reazione tesa ad annunciare un eventuale ricorso alla magistratura ordinaria da parte della società di Ivrea. No. Vi è stata una astiosa polemica da parte del vice-premier Di Maio contro Antonello Soro, “reo” di aver ricoperto incarichi politici e parlamentari di rilievo. Pessima esibizione di un qualunquismo reazionario, più che populista. Oltre che di ignoranza. La scelta dell’autorità è appannaggio del parlamento con voto segreto (e limitato, per coinvolgere le opposizioni) e il presidente è espresso dal collegio. Il governo non c’entra nulla e tanto meno un singolo ministro, ancorché capo di partito. Ma si è trattato di un volgare errore di grammatica o l’intemerata svela qualcos’altro? Ecco, qui è il punto. Luigi Di Maio ha fatto capire almeno due cose: per un verso guai a chi mette il naso nel tabernacolo tecnologico pentastellato; per un altro l’intenzione è proprio quella di occupare una struttura dal ruolo crescente e circondata da giudizi assai positivi. Proprio il tema della privacy è salito enormemente di peso, transitando dalla difesa della riservatezza della vita personale a luogo di contrasto dell’immenso mercimonio dei dati nell’epoca degli Over The Top e delle società come Cambridge Analytica. Inoltre, il nuovo regolamento europeo - ormai compiutamente operativo- illumina di ulteriori impegnativi compiti l’ufficio del Garante. Alla luce degli eventi, dunque, non è azzardato affermare che il Movimento 5 Stelle abbia la non troppo magnifica ossessione di prendere in mano le redini di un controllore considerato troppo zelante, per controllarlo. Non per caso. La natura della piattaforma Rousseau, al di là della sanzione, suscita - infatti- diversi dubbi, a partire dal rapporto con i parlamentari e con la direzione del movimento, essendo una società privata. Con profili evidenti di conflitto di interessi. La scadenza delle autorità elette nel 2012 è vicina. Il 18 giugno. L’uscita del leader grillino è stata fin troppo tempestiva? Ha inteso probabilmente mettere una bandierina nella geografia del comando italiano. E se fosse un implicito accordo con i partner di governo della Lega, cui si lascerebbe così via libera per l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni pure in scadenza? Si profila un “duopolio”? Ci si sarebbe atteso un pronunciamento netto dei presidenti di Camera e Senato, colpiti dalle esternazioni del vice-premier nelle prerogative esclusive delle assemblee che rappresentano. La solidarietà ad Antonello Soro, rivelatosi figura capace e indipendente, è d’obbligo e non formale. Attenzione, l’assuefazione al male è peggio del male stesso. Criminalizza e diffama. Le nuove politiche migratorie di Francesco Martone Il Manifesto, 10 aprile 2019 Tutte le inchieste contro chi aiuta i migranti. Fa scuola l’Italia, ma dalla Grecia alla Spagna sono molti i Paesi europei che hanno scelto la via autoritaria. “I tentativi in corso volti a limitare le operazioni Sar da parte di Ong rischiano di mettere in pericolo migliaia di vite, limitando la possibilità che le imbarcazioni di soccorso possano accedere alle acque prospicienti la Libia. Campagne di diffamazione contro i difensori dei diritti dei migranti e Ong e la loro criminalizzazione contribuiscono ulteriormente alla stigmatizzazione di migranti e rifugiati rafforzando la xenofobia in Italia”. È il testo di una comunicazione inviata a novembre dello scorso anno al governo italiano da molti Relatori speciali Onu, tra cui quello sui difensori dei diritti umani, Michel Forst, e quello sui diritti dei migranti, Gonzales Morales. Dal governo non è mai arrivata nessuna risposta. Sia Forst che Morales erano stati precedentemente in visita accademica in Italia. Il secondo a ottobre scorso, al SabirFest di Palermo, per partecipare alla presentazione del rapporto del Transnational Institute (Tni) di Amsterdam sulla “Restrizione degli spazi di agibilità per chi pratica solidarietà con migranti e rifugiati”. L’istituto di ricerca internazionale collega da 40 anni esperienze legate ai movimenti sociali, accademici impegnati ed esponenti politici. Nel dossier indica le responsabilità dell’Unione europea e degli stati membri nella criminalizzazione della solidarietà. Un fenomeno che va di pari passo con la securitizzazione delle politiche del governo e dell’Ue sul controllo dei flussi migratori. Non è un caso che la criminalizzazione della solidarietà subisca un’impennata dopo la fine dell’operazione di salvataggio dei migranti Mare Nostrum, condotta da marina e aeronautica italiana tra il 2013 e il 2014. Tale strategia colpisce chi fa soccorso in mare, ma anche chi cerca di salvare vite a terra. Come nel caso di Helena Maleno, tra Spagna e Marocco, o di Cedric Herrou e delle guide alpine di Tous Migrants, tra Francia e Italia. Ci sono poi gli attivisti di Lesbo o quelli della “giungla” di Calais. Fino agli inglesi che hanno rischiato anni di carcere per aver bloccato un volo charter dall’aeroporto di Stansted, al reverendo Norbert Valley in Svizzera e a Felix Croft a Imperia. In Italia, gli ultimi in ordine di tempo a rischiare l’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono Pietro Marrone, capitano della Mare Jonio, e Luca Casarini, capo missione di Mediterranea. La delegittimazione della solidarietà non avviene solo in paesi governati da coalizioni costruite sul discorso nazionalista, anti-migranti e xenofobo, come la Polonia o l’Ungheria. Nella Spagna di Sánchez, la nave di Proactiva Open Arms è ferma all’ancora da settimane. L’ Olanda, dove nelle recenti elezioni i partiti sovranisti hanno aumentato i loro consensi, tiene bloccata a Marsiglia quella di Sea Watch con un cavillo legale. Nuovi attacchi a organizzazioni che praticano solidarietà arrivano da Lesbo e altre parti della Grecia di Tsipras. Nella maggior parte dei casi attivisti e attiviste sono assolti o scagionati, ma i danni che scaturiscono dalle inchieste, in particolare dalla strumentalizzazione mediatica utile a creare consenso intorno a chi governa e ad attizzare l’odio razziale, sono sostanziali. Su questo punto è chiara la comunicazione dei Relatori speciali. Non è un caso, come riporta il Tni, che in almeno 10 paesi europei le denunce contro chi pratica solidarietà provengano da formazioni di estrema destra. Alla fine chi soffre direttamente le conseguenze peggiori sono i migranti: dalla restrizione degli spazi di agibilità civica si è arrivati a una situazione di diniego e interdizione di praticare soccorso in mare e a terra. Diniego che corrisponde alla negazione dei diritti umani e della dignità di chi dovrebbe essere soccorso e messo in salvo e invece viene riportato al punto di partenza e finisce in un lager libico. O di chi si ritrova abbandonato per giorni in balia delle onde, in condizioni fisiche disumane e degradanti. O, ancora, di chi in mancanza di aiuto muore in mare o in montagna. Questa situazione configura corresponsabilità in crimini contro l’umanità, come denunciato nella sessione del Tribunale permanente dei popoli tenutasi a Palermo nel dicembre dello scorso anno. I risultati del lavoro del Tribunale sono stati resi pubblici recentemente in un evento al Parlamento europeo, a Bruxelles. Un segnale chiaro per ricordare che la crisi dell’Europa è anche segnata dalla torsione autoritaria e securitaria contro i migranti e chi li soccorre. Toccherà a movimenti, ai cittadini e alle cittadine europee contrastarla. “Attraverso la disobbedienza civile e il sostegno dei diritti dei migranti, questa società rappresenta la vera e propria forza “costituente” di un nuovo progetto europeo decolonizzato, che si fonda su giustizia e diritti per tutti”, dice il Tni. Ad oggi pare l’ultima possibilità per contrapporre alla “necro-politica” una vera politica della vita. Droghe e diritti, Duterte si sottrae alla Corte Penale di Marco Perduca Il Manifesto, 10 aprile 2019 All’ultima sessione della Commissione Onu sulle Droghe sono state presentate le Linee Guida sui Diritti Umani e le Politiche sulla Droga. Gli autori sono l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il Programma Onu per lo sviluppo, quello per l’hiv/aids e il Centro Internazionale per i diritti umani dell’università di Essex. “Le politiche sulla droga hanno impatti molto significativi sui diritti umani” si legge in premessa, occorre quindi “sviluppare politiche che rispettino gli obblighi internazionali relativamente alla proporzionalità delle pene, le discriminazioni fino ad arrivare al diritto a godere dei benefici del progresso scientifico anche per l’accesso a terapie per le dipendenze e a prevenire le overdose”. Queste raccomandazioni avevano seguito di poco l’intervento in plenaria di un generale filippino che aveva rivendicato la politiche del presidente Duterte contro drogati e spacciatori che hanno creato un regime di terrore nel paese con spedizioni di paramilitari che hanno ucciso oltre 15000 persone in due anni. Se non fosse stato per un dibattito organizzato da DRCNet Foundation, Forum Droghe e l’Associazione Luca Coscioni nessuno avrebbe replicato pubblicamente alle Filippine. Contro la retorica governativa, giornalisti e attivisti hanno raccontato la loro versione via video da Manila. Chel Diokno, avvocato dei diritti umani e candidato liberale alle prossime elezioni per il Senato, ha denunciato come Duterte “non si interessi della pressione internazionale”, in particolare del Parlamento europeo e del Congresso Usa, mentre per la società civile che si oppone a questa guerra senza quartiere è fondamentale “che la pressione” resti perché è “stata molto importante nell’evidenziare globalmente cosa stia succedendo nelle Filippine influenzando l’operato del governo speriamo che continui affinché Manila aderisca ai suoi impegni previsti dai trattati internazionali sui diritti umani”. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia filippina per le droghe, oltre 5000 persone sono state uccise dalla polizia durante i rastrellamenti degli ultimi tre anni, Diokno e altri militanti dei diritti umani stimano le uccisioni intorno alle 20000 includendo le morti “ispirate” dalla campagna di odio fomentata da Duterte. Da un paio d’anni, e dopo un simile evento all’Onu di Vienna del 2017, un gruppo di giuristi filippini, con la collaborazione di altre associazioni sta compilando un dossier sulle esecuzioni extra-giudiziarie. L’unico modo di poter portare davanti alla giustizia un Capo di Stato in carica sarebbe ricorrere alla Corte penale internazionale. Per l’appunto, e proprio per via delle condotte del Presidente Duterte, le Filippine sono uscite dal Trattato di Roma sulla CPI il 17 marzo 2019 - due giorni prima del dibattito di Vienna e un anno dopo averlo ufficialmente annunciato. Uscire dallo Statuto non è tecnicamente semplice ma la volontà politica è chiara. Se l’attenzione internazionale degli ultimi anni ha concorso a bloccare gli squadroni della morte, il regime di violenza ha talmente terrorizzato centinaia di migliaia di persone che in massa si sono “volontariamente” fatte interrogare e perquisire. Naturalmente il traffico di stupefacenti non ha subito significative battute d’arresto nelle oltre 7.000 isole dell’arcipelago restando una delle principali vie di transito da e per la Cina. La pressione internazionale sulle Filippine potrà funzionare se alle parole seguiranno i fatti: opporsi a Duterte senza porre fine alle politiche repressive in Europa e Usa non funzionerà, le linee guida per le politiche sulla droga vanno in primis applicate a Roma, Parigi, Washington e Brasilia e poi, naturalmente a Manila, Pechino, Mosca, Riad e Teheran. “Mandare in guerra i robot intelligenti cancella le colpe” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 10 aprile 2019 Intervista allo scienziato Marco Dorigo: “Se un’arma decide autonomamente se, quando e a chi sparare non esiste più un responsabile. Un robot scambia uno scuolabus per uno struzzo perché i processi cognitivi non sono uguali a quelli umani. Il margine di errore può essere ridotto ma non sarà mai uguale a zero”. Marco Dorigo, lei come esperto di robotica di livello internazionale ha già firmato due appelli di scienziati per la messa al bando dei Killer robots, sistemi d’arma di intelligenza artificiale senza controllo umano, in gergo human out of the loop. Qual è la vostra preoccupazione? La preoccupazione riguarda più il futuro che il presente, se veramente potremo avere macchine in grado di prendere autonomamente la decisione di uccidere. Vedo in questa possibilità un problema importante perché si potrebbe abbassare la soglia di tolleranza oltre la quale si decide di entrare in un conflitto. In quanto non si tratterebbe più di rischiare la vita dei soldati. Un altro aspetto preoccupante è quello della responsabilità rispetto alla decisione: se viene commesso un errore chi ne risponderebbe? Gli errori, come si sa, vengono commessi anche dagli esseri umani, ma è possibile risalire alle responsabilità: i crimini di guerra sono perseguibili e prima ancora attribuibili, anche nel caso che il soldato prema solo un pulsante dietro una consolle in remoto, come già succede, c’è sempre per il momento una decisione umana. Se invece la delega alla macchina è totale diventa molto più complicato attribuire la responsabilità delle azioni effettuate. Se un’arma, attraverso immagini raccolte da sensori, decide autonomamente se, e quando e a chi sparare, chi è il responsabile? L’algoritmo che la guida potrebbe essere sbagliato o il contesto potrebbe essere cambiato in modo non previsto. Inoltre quando si programma una macchina non si è mai certi che sia programmata in modo corretto: esistono bug, errori di software, come si è visto con gli aerei Boeing come quello precipitato in Etiopia recentemente. Non esistono metodi che assicurino che un sistema controllato da software funzioni perfettamente e certamente i rischi possono diventare inaccettabili se si parla di un robot dotato di pistola. Lei dice “se” saranno costruite queste armi intelligenti e autonome ma la tecnologia per crearle esiste già? Basterebbe uno “switch”, cioè applicarla? Io non sono un esperto di tecnologia bellica e quindi non sono al corrente degli ultimi sviluppi nel settore. Ma probabilmente anche gli esperti non conoscono che una piccola parte di questi sviluppi perché i militari non raccontano volentieri i loro progetti. Per il grande pubblico l’incubo peggiore è forse quello degli sciami di droni armati di carica esplosiva a riconoscimento facciale. L’intelligenza di stormo non è il suo campo di indagine? L’obiettivo delle mie ricerche è come fare a controllare gruppi di robot autonomi che devono cooperare per eseguire compiti che non sarebbero in grado di eseguire individualmente. Ad esempio, studiamo come uno sciame di robot possa cercare dei feriti in una situazione di disastro naturale e come potrebbero cooperare per recuperare i feriti più gravi. E i droni killer non sono fatti così? Io lavoro in ambito civile e come già detto non sono esperto di applicazioni militari. I droni killer potrebbero in effetti essere molto piccoli ed essere dotati di un payload letale e potrebbero essere difficili da fermare: è più difficile abbattere un grande numero di piccoli oggetti piuttosto che un solo grosso robot, anche se credo che i militari, come sempre, troveranno delle contro-misure per distruggerli, dei contro-stormi. Comunque il problema non sta nello sviluppo di tecnologie che permettano a grandi numeri di robot di cooperare fra di loro. Infatti queste tecnologie possono trovare applicazioni molto utili, si pensi solo al coordinamento delle auto autonome che nel prossimo future gradualmente sostituiranno le attuali auto a controllo umano. Il problema sta piuttosto nell’utilizzo che si fa della tecnologia e nel fatto che la tecnologia che permette di creare sistemi autonomi può, se utilizzata in campo militare, cambiare completamente il quadro di riferimento. Per la prima volta nella storia non è più l’essere umano che si mette in gioco, ma le decisioni militari sono delegate a una macchina. Alla conferenza per il lancio della campagna “Stop Killer Robot” un suo collega, il segretario dell’Uspid Diego Latella, ha spiegato che un robot può scambiare, grazie a una interferenza di rumore sulle immagini, uno scuolabus per uno struzzo. Non un commando terrorista per uno struzzo. Si parla di stupidità della macchina, è eliminabile? Non mi stupisce che un robot possa scambiare uno scuolabus per uno struzzo. Il fatto è che i processi cognitivi in Artificial Intelligence non sono uguali ai nostri. È un problema legato a come questi sistemi apprendono ed a come rappresentano internamente la conoscenza acquisita. Come già detto, le macchine, come gli esseri umani, commettono errori. Ma gli errori commessi possono essere di tipo molto diverso. E per noi umani a volte questi errori risultano incomprensibili. Questi errori incomprensibili dipendono dal programmatore o dalla quantità di dati immagazzinati? Il margine di errore può essere ridotto aumentando la quantità di dati utilizzati per fare sì che le macchine apprendano. Non credo però che sarà possibile ridurre questo margine di errore a zero. E il tipo di errori commessi probabilmente rimarrà di tipo diverso da quello commesso dagli esseri umani in quanto il “cervello” delle macchine continuerà, probabilmente, a essere diverso da quello degli esseri umani. In generale, credo che il problema non stia nel fatto che le macchine facciano errori, ma piuttosto che i sistemi autonomi artificiali facciano più o meno errori dei sistemi a controllo umano che andrebbero a sostituire. Tra pochissimo avremo auto a guida autonoma e molti sono preoccupati che gli errori della macchina possano creare incidenti. Ma gli incidenti ci sono comunque, la vera domanda è se con le auto a guida autonoma saranno di più o di meno di adesso. Analogamente, sistemi intelligenti per la diagnosi medica, utilizzando algoritmi per l’apprendimento automatico in grado di vagliare milioni di radiografie, ci consentiranno diagnosi precoci dei tumori e cure oncologiche personalizzate molto più mirate. Anche in questo caso, quello che è importante a mio avviso è se il tasso di successo nelle diagnosi sia o no migliore di quello fornito dai migliori esperti. Quindi la tecnologia è sempre buona e quanto ai Killer robot è solo la guerra a essere cattiva? A un certo livello ogni tecnologia, così come ogni scoperta scientifica, può essere usata sia per il bene che per il male. Ma è vero che negli ultimi anni, diciamo da Internet in poi c’è stata una accelerazione negli sviluppi della tecnologa dell’informazione, accelerazione che fa sì che anche per noi ricercatori risulta difficile tener dietro a tutte le innovazioni del nostro campo e rende più difficile prevedere quali possano esserne gli usi “cattivi”. In astratto gli algoritmi per la cooperazione sono quasi tutti dual use, cioè applicabili al civile o al militare. Finora le macchine che apprendono da sole si sono concentrate su giochi come Go o gli scacchi, hanno domini molto ristretti e non sono molto autonome. Ma la tecnologia va avanti e ciò che non vorrei è che in futuro la soglia da oltrepassare per entrare in guerra si abbassasse in modo drastico. Se in prima linea si possono mandare le macchine, non c’è neanche bisogno di un periodo di propaganda bellica per creare un’opinione pubblica favorevole alla guerra, basta individuare un nemico. Poi tanto, al fronte, ci vanno i robot. Le emergenze per l’Italia dell’infinito caos libico di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 aprile 2019 Il tappo rischia di saltare, e i molti sfollati ora in fuga da Tripoli potrebbero accrescere ulteriormente i flussi, rendendo inefficace la nostra politica dei porti chiusi. Più guerriglia che guerra, più milizie che eserciti, ma con una minaccia (per noi) più che reale, confusa nel polverone di queste ore. Il caos libico mostra certo contorni slabbrati oltre che tragici, improbabili quanto i leader che si contendono la scena: un premier inventato dall’Onu come Fayez Sarraj e uno stanco avanzo del gheddafismo come il generale Khalifa Haftar; due perfetti Re Travicelli, forti soprattutto nelle dichiarazioni roboanti e nei nomi delle assai pubblicizzate offensive e controffensive (“Vulcano di rabbia”...) per uno scenario dove tutti i grandi player internazionali hanno puntato un gettone. E, tuttavia, tra i tanti giocatori di questa partita geopolitica ce n’è soprattutto uno che rischia di pagare pegno: l’Italia. Con gli scogli di Lampedusa a nemmeno 400 chilometri di distanza dai raid dei Mig sgarrupati, dalle faide e dai tradimenti tribali, dalle incursioni di bande male armate e male addestrate (reclutate con lo “schema Ponzi”, scriveva qualche analista americano, riferendosi al noto metodo truffaldino che funziona finché qualcuno continua a prendervi parte credendo di trarne vantaggio), dovremmo forse essere i più attenti, poiché l’unica certezza di questa guerriglia sceneggiata è la destabilizzazione: e le conseguenze maggiori di una nuova instabilità del quadro libico incombono direttamente su di noi (anche Matteo Salvini, che definiva di recente la Libia un “porto sicuro”, pare essersi convertito a una più opportuna cautela). Un rapporto di pochi mesi or sono dell’Alto Commissariato per i diritti umani e della Missione di supporto dell’Onu contiene numeri e racconti che dovrebbero indignare tutto il cosiddetto Occidente civilizzato ma suonare, specie per noi, anche come un campanello d’allarme. Il dossier Onu stima che si trovi in territorio libico “un numero di stranieri compreso fra i 700 mila e il milione” (di cui un 10 per cento di minori, metà dei quali non accompagnati), in buona misura subsahariani. Parte di questa umanità dolente è rinchiusa dentro campi di detenzione ufficiali e clandestini, i primi gestiti direttamente da uomini del governo e i secondi da bande di trafficanti. I metodi, tuttavia, cambiano poco, secondo l’Onu, che si basa su 1.300 sconvolgenti interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018: poiché anche i campi “regolari” sono lager dove spesso funzionari del ministero degli Interni libico agiscono come kapò; e in tutti i campi si muore di fame, di botte e di setticemia, lo stupro non risparmia neppure le donne incinte ed è abituale quanto la tortura dei prigionieri in videochiamata con i loro parenti lontani per ottenere riscatti più alti; la schiavitù è pratica diffusa e giustificata da una legge coniata da Gheddafi che fa considerare schiavi i migranti illegali. Una comunità internazionale appena decente interverrebbe, come non fece per tempo nella ex Jugoslavia, per fermare ciò che va configurandosi come un nuovo genocidio. Naturalmente non accade nulla del genere e, anzi, assai a lungo, tutti abbiamo finto di non sapere cosa succedesse dall’altra parte del Mediterraneo, confortati dal fatto che i kapò nei lager e i pirati travestiti da guardia costiera sulle spiagge servissero a fermare l’onda di migranti che da anni minaccia di riversarsi sull’Europa. Gli eventi attuali rischiano di far saltare il tappo e i molti sfollati ora in fuga da Tripoli potrebbero accrescere ulteriormente flussi che di colpo diverrebbero imponenti, rendendo la nostra politica dei porti chiusi efficace come un pezzo di nastro adesivo nel crollo di una diga. Ma c’è un secondo pericolo, più sottile, ed è il radicalismo islamista. A dispetto dei proclami di laicità del generale Haftar, i suoi ranghi sono rimpinguati dagli unici combattenti davvero motivati: i madkhalisti. Si tratta di salafiti (i più intransigenti conservatori) organizzati dal saudita Rabi al Madkhali, nemici della democrazia e dell’Occidente. Si dice che i figli di Haftar comandino a Bengasi due brigate salafite. Ma i madkhalisti sono trasversali: militano anche nelle schiere di Sarraj a Tripoli e infiltrano la municipalità del terzo attore di questa rappresentazione, la potente città di Misurata. In realtà giocano in proprio. Non ci si spinge troppo lontano immaginando che i tre tronconi, finita la guerra zoppa di Haftar e di Sarraj, potrebbero trovare facilmente domani un ubi consistam sotto l’egida di Medina, la città saudita da cui arrivano i loro copiosi finanziamenti. La nuova stabilizzazione prenderebbe allora la forma di una teocrazia, a poche ore di gommone da casa nostra. Una prospettiva che, con la Nato minata da Trump, l’Onu pleonastica quanto la vecchia Società delle Nazioni e l’Ue al solito catatonica, dovrebbe togliere il sonno ai nostri governanti ben più di qualche baruffa con Macron. Controllo e sicurezza. Gli occhi acuti della Cina di Simone Pieranni Il Manifesto, 10 aprile 2019 Una videocamera ogni tre persone. Riconoscimenti facciali e vocali. La Cina punta tutto sulle smart city ultra tecnologiche. Viaggio all’interno dell’azienda che per il governo traccia i movimenti delle persone minuto per minuto, 24 ore su 24. L’atrio degli uffici della Terminus, a Pechino, è completamente bianco. Il taglio a zig zag delle porte che consentono gli ingressi negli open space è quello che ricordiamo nei film di fantascienza e nella popolare serie di Guerre Stellari. L’idea da trasmettere è quella di “futuro” più o meno immaginato e conosciuto, perché Terminus - fondata nel 2015, una delle tante startup cinesi divenuta ben presto “unicorno” (valutate oltre il miliardo di dollari) - il “futuro” lo maneggia per renderlo estremamente “presente”. Il suo scopo è infatti quello di provvedere per conto del governo alla gestione “intelligente” di compound e interi quartieri cittadini, mettendo insieme quanto il vistoso e attuale menu in fatto di Intelligenza artificiale e Internet delle cose consente. I quartieri gestiti dalla Terminus forniscono ogni genere di informazioni su residenti e passanti; tutte informazioni che arrivano da videocamere intelligenti, riconoscimenti facciali, geolocalizzazione, “voiceprint”, le impronte audio: l’unione di tutte queste informazioni scorre di fronte a schermi controllati da uomini della sicurezza. Tutto è ripreso, ogni singolo movimento è registrato. A corollario si controlla anche il livello di inquinamento e quello energetico di palazzi e strade, ma per il momento è un business meno redditizio di quello con il governo. “In pratica tutto il nostro lavoro rende più sicure le città dal rischio di attività criminali”. Come in tutti i luoghi di questo genere, che occhieggiano a un futurismo già visto o letto, c’è un’ampia parte degli uffici dedicata a mostrare le proprie potenzialità: un piccolo cinema sul cui schermo viene proiettato un video nel quale vengono presentati i partner (i nomi più altisonanti di tutto quanto è Intelligenza artificiale oggi in Cina) e infine una stanza con un tavolo contenente un plastico di una città e una parete con schermi e dati in lavorazione. Vengo avvertito però: non si possono fotografare quelle elaborazioni, “perché si tratta di dati sensibili”, riferiti al comportamento di milioni di cittadini cinesi, proprio in quell’istante esatto in cui il mio sguardo va ad appoggiarsi sui numeri e i caratteri cinesi. Un rispetto per la privacy bizzarro per un’azienda che controlla 24 ore su 24 gli abitanti delle zone che “gestisce” fornendo i dati al governo cinese. Il cliente principale di Terminus è l’apparato securitario nazionale. Secondo quanto spiegato da Xie Chao - il vicepresidente di Terminus - a una rivista cinese, “la Cina è all’avanguardia in questo tipo di nuove applicazioni tecnologiche, specie nei casi di uso civile” e ha una sua forza sul mercato perché garantisce soluzioni complete ai governi locali che di solito non hanno né competenze né risorse per gestire tutta la gamma di aziende coinvolte nei progetti di smart city cinesi. Secondo Xie Chao, “hanno bisogno di un partner fidato che possa aiutarli a trovare, integrare e gestire tutti i vari componenti hardware e software”. Come sottolineato da Forbes Asia, “Terminus aiuta i governi locali a migliorare la sicurezza pubblica utilizzando soluzioni basate sull’intelligenza artificiale”. L’area su cui si concentra di più Terminus è il controllo della popolazione, che consente alle unità di gestione sociale più piccole della Cina, i comitati di quartiere, di monitorare meglio residenti, visitatori e veicoli all’interno delle aree designate”. Non solo tecnologia dunque. E a questo proposito è opportuno contestualizzare alcuni elementi. Quanto si può vedere negli uffici di Terminus e più in generale nelle intenzioni della dirigenza cinese, appare a noi occidentali come lo spettro di un potente Panopticon contemporaneo, una “società del controllo” realizzata unendo tradizione e modernità. Cominciando dal futuro, questa corsa alla tecnologia come strumento di controllo sociale e sorveglianza nasce qualche anno fa. Come ricorda il Financial Times, “nel 2015, la polizia nazionale cinese e il ministero della Pubblica sicurezza avevano chiesto la creazione di una rete di videosorveglianza nazionale “onnipresente, completamente connessa, sempre attiva e completamente controllabile”. Il ministero e altre agenzie avevano dichiarato che le forze dell’ordine avrebbero dovuto ben presto utilizzare la tecnologia del riconoscimento facciale in combinazione con le videocamere per catturare i trasgressori della legge”. Secondo l’ufficio di pubblica sicurezza, oggi Pechino è coperta “al cento per cento” dalle telecamere di sicurezza e si tratta di un dato visibile anche al semplice turista. Negli hutong il sistema è poi perfezionato dalla presenza di tanti baoan, una specie di guardia municipale, con tanto di mini cancelli da aprire e chiudere per ostruire eventuali passaggi non consentiti o sgraditi. “Le sanzioni per i reati minori - scrive il Ft - sembrano irragionevoli: le autorità di Fuzhou pubblicano i nomi di chi ha attraversato la strada con il rosso o fuori dalle strisce pedonali sui media locali e addirittura inviano le foto ai datori di lavoro. Più minacciose, tuttavia, sono le punizioni che verranno inflitte a persone che si associano a dissidenti o critici, che fanno circolare una petizione o sollevano un cartello di protesta, o che semplicemente finiscono nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Non pochi osservatori hanno ricordato che la sorveglianza della popolazione è un elemento che si ritrova in parecchi momenti della storia cinese. Proprio alcune caratteristiche dell’organizzazione delle danwei, delle unità di produzione e delle unità di lavoro riecheggiano nelle contemporanee forme di controllo sociale in Cina che - secondo altri osservatori - risalgono addirittura al periodo della dinastia Song (960-1279) e al cosiddetto sistema baojia - composto da diverse unità familiari in concepite in chiave militare-difensiva. Ma non solo, perché anche molto tempo prima, durante il breve periodo Qin (221 - 206 a.C.) - come racconta Kai Vogelsang - “nella vita quotidiana la società dei Qin era organizzata in modo perfettamente militare. Tutti gli abitanti erano divisi in gruppi di cinque o dieci famiglie che lavoravano insieme e si controllavano a vicenda. Nacque così un vigoroso sistema di sorveglianza in cui tutti erano sottoposti all’obbligo della denuncia e della responsabilità collettiva”. Forse anche per questi rimandi più o meno lontani nel tempo, in generale i cinesi sembrano accettare questo sviluppo “cittadino” in nome della “sicurezza” e della deterrenza (ottenuta anche tramite modelli predittivi adottate dalle polizie locali) nei confronti dei criminali. Dal punto di vista occidentale, invece, questo sviluppo delle smart city ricorda il terzo capitolo di Sorvegliare e Punire nel quale Michel Foucault scriveva che “nello spazio in cui domina, il potere disciplinare manifesta la sua potenza, essenzialmente, sistemando degli oggetti”. E chi è sottoposto al controllo “è visto ma non vede”, è “oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione”. Nel mondo del controllo e della sorveglianza girano anche parecchi soldi. Terminus - come altre aziende cinese - è in corsa per un mercato in continua espansione. Per la stampa cinese, includendo “sistemi di videosorveglianza, controllo accessi, allarmi della polizia, sistemi di ispezione di sicurezza” e altro ancora, il mercato della sicurezza pubblica era stimato in 90 miliardi di dollari a fine 2017 e si prevede una crescita a 162 miliardi nel 2023, secondo quanto stimato dalla China Security And Protection Industry Association. Ugualmente florido è il mercato che verrà offerto dalle tante smart city. Terminus - secondo i dati di Alltech Asia - avrebbe completato 6.891 progetti di smart city in Cina. Le sue soluzioni coprirebbero un’area totale di 554 milioni di metri quadrati per una popolazione di oltre 8 milioni. Lo sforzo, viene spiegato negli uffici di Terminus, sarà quello di riuscire ad applicare concetti “intelligenti” a palazzi residenziali, benché al momento il mercato non sia ancora in completa espansione. Il settore che tira di più infatti è quello delle smart city, considerate dal governo cinese come un percorso ottimale per quanto riguarda l’urbanizzazione e l’ottimizzazione dei servizi. Le origini del progetto legato alle smart city risale alla metà degli anni 90. All’epoca venne lanciato un mega piano urbano; poi nel 2011, le iniziative di smart city furono inserite all’interno dell’allora 12° piano quinquennale. Nel 2018 la Cina ha sviluppato circa 500 sperimentazioni di “città intelligenti”: naturalmente si tratta di un numero superiore a quello di tutti gli altri paesi messi insieme. Olanda. Studio: una migliore alimentazione nelle carceri diminuisce la recidiva 31mag.nl, 10 aprile 2019 Secondo i ricercatori, una cattiva alimentazione e la carenza di vitamine sono importanti nella vita dei detenuti in termini di depressione, aggressività e comportamenti antisociali. I Paesi Bassi dovrebbero guardare agli esempi scandinavi e permettere a un maggior numero di detenuti di cucinare il proprio cibo perché, secondo una ricerca condotta dal ministero della giustizia, avrebbero meno probabilità di recidiva. I ricercatori hanno scoperto che una cattiva alimentazione e la carenza di vitamine sono importanti nella vita dei detenuti sia fuori sia dentro il carcere in termini di depressione, aggressività e comportamenti antisociali. In particolare, ci sono forti collegamenti tra una dieta povera nell’infanzia e successivi problemi comportamentali, “anche se si tiene conto statisticamente di spiegazioni alternative, come la povertà e lo status socio-economico”, si legge nel rapporto. Finora, la ristorazione nelle carceri olandesi si è basata sul principio di essere economica e semplice, e sebbene i pasti nelle carceri forniscano vitamine e minerali “sufficienti”, bisogna fare di più, hanno detto i ricercatori. “L’auto-approvvigionamento come sistema alimentare (testato su piccola scala nelle carceri olandesi) è più in linea con i principi dell’incarcerazione, come l’importanza dell’autosufficienza, la responsabilità personale degli autori del reato e la normalizzazione”, si legge nel rapporto.