Antigone: in Italia le carceri più sovraffollate d’Europa fuoriluogo.it, 9 agosto 2019 A fine luglio è stato presentato un rapporto attraverso il quale Antigone ha voluto fotografare il sistema penitenziario italiano in questi primi mesi del 2019. Ciò che emerge è il perdurare dello stato di sovraffollamento. Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. Il Ministero della Giustizia precisa che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che non tiene conto delle sezioni chiuse. Ce ne sono ad Alba, a Nuoro, a Fossombrone e in tantissimi altri istituti. Il carcere di Camerino è vuoto dal terremoto del 2016 ma tutti i posti virtualmente disponibili sono conteggiati. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà alla capienza attuale del sistema penitenziario italiano vanno dunque sottratti almeno 3.000 posti non agibili. A Como, Brescia, Larino, Taranto siamo intorno a un tasso di affollamento del 200%, ossia vivono due detenuti dove c’è posto per uno solo. Nel 30% degli istituti visitati dalla nostra associazione in questi primi mesi dell’anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 mq. per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante. Per l’associazione “questo aumento del sovraffollamento, al di là dei luoghi comuni agitati da alcune parti politiche, non è dovuto ad un aumento della criminalità, in particolare quella straniera. Infatti, da una parte, il numero di reati è in costante calo e anche gli ingressi in carcere sono in conseguente diminuzione. Il numero più alto di detenuti si spiega con l’aumento delle durata delle pene, frutto anche delle politiche legislative degli ultimi anni. Gli stranieri in carcere poi, negli ultimi 10 anni, sono diminuiti del 3,68%. Se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%.” Dall’osservazione dei volontari di Antigone che hanno girato le carceri italiane si evidenzia come la vita in carcere stia peggiorando. “Questa è fatta di momenti di socialità, di occasioni di dialogo e di crescita culturale, di rapporti con i familiari e con l’esterno. Nonostante questo nel 30% delle carceri visitate non risultano spazi verdi dove incontrare i propri cari e i propri figli. Solo nell’1,8% delle carceri vi sono lavorazioni alle dipendenze di soggetti privati. Nel 65,6% delle carceri non è possibile avere contatti con i familiari via skype, nonostante la stessa amministrazione e la legge lo prevedano. Nell’81,3% delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. Inoltre alcune recenti circolari hanno previsto dei cambiamenti in peggio poco giustificabili soprattutto nella stagione estiva, quale ad esempio l’obbligo di tenere spenta la televisione dopo la mezzanotte. Non permettere ai detenuti di guardare la tv quando fa caldo, si fatica a prendere sonno e durante il giorno si è sempre stati nella cella a oziare significa contribuire a innervosire il clima generale. In alcuni istituti penitenziari inoltre stanno chiudendo i corsi scolastici e per molti detenuti non sarà possibile frequentarne dal prossimo anno scolastico.” Il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Il 2018 fu un anno drammatico e nel 2019, quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani, sono già 27. Per Antigone “la soluzione dinanzi a questa situazione di affollamento - e a tutto ciò che questa comporta - non può essere rintracciata nella costruzione di nuovi istituti. Primo perché sarebbe una soluzione a lungo periodo, secondo perché i costi sarebbero elevatissimi e, almeno ad oggi, non sembrano esserci le necessarie coperture finanziarie. Da una analisi di Antigone emerge infatti che, a copertura delle disposizioni dell’art. 7 del Decreto Semplificazione, ci sarebbero circa 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. Inoltre nuove carceri significa rafforzare il personale e le opportunità trattamentali senza le quali questi posti in più servirebbero solo a “stoccare” più detenuti. Anche in questo caso dunque bisognerebbe prevedere ingenti risorse aggiuntive al bilancio dell’amministrazione penitenziaria che, già oggi, è di circa 3 miliardi di euro all’anno.” “Bisognerebbe dunque investire sulle alternative alla detenzione - continua Antigone - e nel rendere la custodia cautelare un istituto utilizzato solo nei casi dove essa è realmente necessaria. Sotto questo punto di vista la buona notizia è che rispetto allo scorso anno il tasso di persone presenti in carcere in attesa di condanna definitiva è diminuito di quasi due punti, attestandosi al 31,5%. Un dato però ancora lontano dalla media Europa del 21% circa”. Decreto sicurezza bis: Mattarella firma ma chiede modifiche: di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 9 agosto 2019 “C’è l’obbligo di soccorso in mare”. Il contestato provvedimento diventa legge dello Stato ma il Quirinale invia una lettera ai presidenti delle Camere e al premier. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha firmato il cosiddetto decreto sicurezza bis, approvato nei giorni scorsi dal parlamento. Il provvedimento che tra le altre cose impone pesanti multe alle ong che salvano migranti in mare diventa legge dello Stato; allo stesso tempo il Quirinale ha inviato una lettera ai presidenti delle Camere e al premier Conte una lettera rilevando due “criticità”. In particolare Mattarella avrebbe ritenuto “irragionevoli” le sanzioni per chi viola le acque territoriali. “Resta sempre l’obbligo di soccorso in mare” ammonisce il capo dello stato. Per queste ragioni il Colle ha chiesto al Parlamento di rimettere mano al testo per apportare correzioni. Le sanzioni irragionevoli - La lettera di Mattarella “colpisce al cuore” il provvedimento fortemente voluto da Salvini per contrastare le operazioni di salvataggio delle ong. Il testo integrale della lettera è stato pubblicato sul sito della Presidenza della repubblica. “Al di là delle valutazioni nel merito delle norme, che non competono al Presidente della Repubblica non posso fare a meno di segnalare due profili che suscitano rilevanti perplessità” scrive Mattarella “rimettendo alla valutazione del Parlamento e del Governo l’individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in questione”. Riguardo alle m ulte alle navi che entrano nelle acque territoriali ignorando il divieto del Viminale “non è stato introdotto alcun criterio che distingua quanto alla tipologia delle navi, alla condotta concretamente posta in essere, alle ragioni della presenza di persone accolte a bordo e trasportate” e quindi viene affidato “alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità”. I rilievi del Colle fanno riferimento tanto alle sanzioni (fino a un milione di euro) quanto alla confisca della nave. Resta l’obbligo di soccorso in mare - Per Mattarella, inoltre, deve prevalere l’obbligo di prestare soccorso che è sancito da accordi internazionali sottoscritti dall’Italia. “Va anche ricordato - ecco un altro passo della missiva - che, come correttamente indicato all’articolo 1 del decreto convertito, la limitazione o il divieto di ingresso può essere disposto “nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”, così come ai sensi dell’art. 2 “il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale”. Nell’ambito di questa la Convenzione di Montego Bay, richiamata dallo stesso articolo 1 del decreto, prescrive che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”“. La resistenza a pubblico ufficiale - La lettera del Quirinale rimarca poi un altro elemento di irragionevolezza del testo di legge; non nella parte che riguarda i migranti ma in quella che cancella la “tenuità del reato” per chi si rende responsabile di resistenza o minaccia a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Nata per tutelare poliziotti e carabinieri la norma, per come è stata scritta finisce per includere una lunga serie di pubblici dipendenti statali e locali, senza alcuna distinzione. ma, sottolinea la lettera, finisce per escludere dal novero i magistrati. Dl sicurezza bis, Mattarella firma ma chiede modifiche al Parlamento di Carlo Lania Il Manifesto, 9 agosto 2019 Firma, ma chiede al parlamento di intervenire per modificare alcuni aspetti della legge che ha appena promulgato e che non lo convincono. Nel giorno in cui deve prendere atto che il Paese non ha più un governo, Sergio Mattarella dà il via libera definitivo al decreto sicurezza bis mettendo così il sigillo sull’ultimo successo che il leader della Lega e ministro dell’Interno Matteo Salvini ha voluto incassare prima di aprire la crisi che porterà al voto. Ma con una procedura inedita fino a oggi, il presidente della Repubblica scrive anche ai presidenti di Camera e Senato chiedendo “un nuovo intervento normativo” su quelle stesse norme. Dietro la scelta del Colle ci sono quelle che lo stesso Mattarella definisce “rilevanti perplessità”. Due, in particolare. La prima riguarda uno degli aspetti più contestati del decreto anti-ong come le sanzioni previste per il comandante di una nave che non rispetta il divieto di ingresso nelle nostre acque territoriali. Nella prima versione del decreto la multa variava tra i 10 mila e i 50 mila euro, ma è stata modificata notevolmente con un emendamento presentato dal Carroccio. Il risultato finale è che la sanzione - scrive il presidente - “è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo determinato in un milione di euro, mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione del reato”. Proprio per questo Mattarella ricorda una sentenza con cui la Corte costituzionale ha sancito come una sanzione così alta sia paragonabile a una sanzione penale. Quindi c’è un problema di mancato rispetto della “necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti”. Ma il presidente va oltre e ricorda come resti un obbligo per chi va per mare salvare dei naufraghi. “Il comandante di una nave - si ricorda nella lettera ai presidenti delle Camere - è tenuto ad osservare la normativa internazionale. E in particolare la convenzione di Montego Bay, la convenzione Onu sul diritto del mare richiamata anche nell’articolo 1 del decreto, prescrive che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presto soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”. La seconda “rilevante perplessità” riguarda invece i reati contro i pubblici ufficiali. Nella lettera si fa presente come per pubblico ufficiale si intendano no solo gli appartenenti alle forze dell’ordine, bensì anche “un ampio numero di funzionari pubblici statali, regionali e comunali nonché sorgetti privati che svolgono pubbliche funzioni”. Come, ad esempio, i vigili urbani gli addetti alla viabilità, i dipendenti dell’Agenzia delle entrate, gli impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del collocamento obbligatorio, gli ufficiali giudiziari, i controllori del biglietti di Trenitalia e numerose altre figure professionali come i direttori degli uffici postali e gli insegnanti delle scuole. Proprio considerando la vastità dei soggetti che potrebbero essere interessati, così come è scritta la norma “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte” e nel caso di oltraggio “solleva dubbi sulla conformità al nostro ordinamento e sulla ragionevolezza di perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza”. Insomma, per fare un esempio, un cittadino che litiga con il direttore di un ufficio postale arrivando a insultarlo rischia un’accusa di oltraggio e quindi una condanna a un minimo di sei mesi. L’ennesimo caso di cronaca mistificato dalla giustizia populista di Salvini di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 agosto 2019 Il vicepremier Matteo Salvini ha criticato pubblicamente la decisione del gip di Bergamo di scarcerare e porre agli arresti domiciliari l’uomo accusato di aver travolto e ucciso, lo scorso sabato notte ad Azzano San Paolo, due giovani ragazzi di 18 e 21 anni che viaggiavano su uno scooter, dopo una lite in discoteca. Il gip ha riqualificato l’ipotesi di reato a carico dell’uomo da duplice omicidio volontario a omicidio stradale aggravato dall’omissione di soccorso. “Una persona che uccide due giovani è già fuori dal carcere dopo nemmeno quattro giorni. Una decisione che lascia sconcertati e offende le famiglie delle vittime”, ha scritto Salvini sui propri profili social. “È proprio vero che serve una riforma della giustizia che preveda la certezza della pena”, ha poi aggiunto il leader della Lega, spazzando via in un colpo solo secoli di conquiste di civiltà giuridica nel nostro paese e inventando un nuovo principio del diritto penale populista: la certezza della pena durante le indagini. Evidentemente per un ministro dell’Interno abituato a mettere continuamente alla gogna chi è accusato di aver commesso reati (specialmente se immigrato) è normale concepire l’indagine come la semplice anticipazione della pena e non una fase in cui, come previsto dal nostro ordinamento, al massimo possono essere adottati provvedimenti di custodia cautelare quando necessari. Nell’interrogatorio di convalida dell’arresto, l’uomo (che è stato anche trovato positivo all’alcol test) ha fornito la sua versione dei fatti: “Ho sentito un botto e sono andato nel panico, non volevo uccidere”, ha raccontato riferendosi al lunotto posteriore della sua auto, frantumato lungo la strada (non si sa ancora da chi e come) dopo avere lasciato la discoteca e prima di travolgere i due ragazzi in scooter. Ancora non è chiaro se il vetro sia stato rotto durante la lite da uno dei due amici poi deceduti. Alla luce delle prime indagini e della versione fornita dall’uomo, il gip di Bergamo ha ritenuto che non ci fossero elementi sufficienti per provare la dolosità della condotta e ha così riqualificato l’ipotesi di reato in omicidio stradale aggravato, concedendo gli arresti domiciliari. Ovviamente non siamo di fronte ad alcuna sentenza definitiva, come Salvini vorrebbe far intendere, ma soltanto a una decisione di carattere cautelare e temporanea, peraltro suscettibile di cambiare nelle prossime ore se dovessero emergere elementi utili dal prosieguo delle indagini, ad esempio dall’autopsia sul corpo dei due giovani che verrà effettuata venerdì. Anche nel caso in cui pm e giudice delle indagini preliminari dovessero rintracciare nuovi elementi a carico dell’uomo, sarà comunque il processo a chiarire le dinamiche dell’incidente e le responsabilità penali, come previsto in un normale Stato di diritto, anche se ciò pare inaccettabile per i cultori della giustizia “fast food”, come Salvini, impegnati a individuare subito il colpevole ogni qualvolta vi sia un caso di cronaca pur di raccattare like sui social. Se usassimo la stessa logica, per giunta, dovremmo considerare già colpevoli le oltre novemila persone che - stando ai dati dello stesso ministero della Giustizia - sono detenute nelle carceri italiane e ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Ma l’idea che più fa rabbrividire è che la Lega intenda riformare la giustizia italiana sulla base di un inarrestabile desiderio di giustizia sommaria e con l’annientamento dei diritti fondamentali degli indagati e imputati. Il boss Paviglianiti ergastolano scarcerato: di nuovo arrestato dopo 24 ore di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 agosto 2019 L’esponente della malavita estradato dalla Spagna era tornato libero per una complessa questione procedurale. Un ricalcolo della pena ancora da scontare ha portato alla revoca della libertà. Un giudice di Bologna che sostituisce a un boss di ‘ndrangheta l’ergastolo con 30 anni a motivo dell’inadempienza italiana rispetto ai patti fatti con la Spagna per la sua estradizione vent’anni fa, poi un pm di Bologna che fa quindi un calcolo dei teorici 168 anni di pene temporanee da cumulare e scarcera il detenuto per fine pena massima di 30 anni scontata a Novara, e un terzo magistrato (pm nello stesso ufficio del secondo) che sulla scorta di una proposta della Procura Generale di Reggio Calabria fa invece un calcolo diverso e ordina il riarresto del detenuto appena liberato e la sua rinnovata detenzione sino al 2027: diventa un caso la scarcerazione l’altro ieri, e poi il riarresto-lampo ieri, di Domenico Paviglianiti, il 58enne riferimento dell’omonima cosca, pluricondannato (anche per quattro omicidi) e detenuto da 23 anni. Nel giro di 48 ore è infatti passato dall’essere (prima) non più ergastolano ma scarcerato in via definitiva e senza più alcuna pendenza giudiziaria, all’essere invece (poi) di nuovo recluso nel carcere di Novara con la prospettiva di doverci restare ancora sino al 2027. Al termine di un rimbalzo di istanze che dal 2015 la Cassazione aveva infine nel 2018 stabilito fosse Bologna a dover dipanare, in sede di “incidente di esecuzione” il gip Gianluca Petragnani Gelosi il 4 agosto aveva preso atto che l’Italia - quando nel 2012 trasformò in ergastolo ostativo (cioè senza possibilità di benefici penitenziari) le nove sentenze definitive di condanna di Paviglianiti a teorici 168 anni per omicidi e associazione mafiosa e traffico di droga e trasporto di mitra e bazooka - violò l’assicurazione garantita la alla Spagna nel 1999 e poi nel 2006 che Paviglianiti, là catturato nel 1996, non fosse sottoposto in Italia al carcere a vita (che all’epoca non era contemplato in Spagna). A quel punto, venuto meno l’ergastolo e sostituito dal gip con la massima pena detentiva temporanea ammessa in Italia (30 anni) qualunque sia il cumulo materiale di pene (qui 168 anni), il 6 agosto la palla era passata al pm dell’esecuzione nella Procura di Bologna, che, accogliendo l’istanza degli avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori, aveva preso atto dei 30 anni già tutti maturati da Paviglianiti: 23 scontati in carcere, ai quali però andavano aggiunti 3 anni e mezzo di carcere “fungibili” ad altro titolo, 3 anni di indulto, e quasi 5 anni di “liberazione anticipata” (quella che detrae automaticamente 45 giorni ogni 6 mesi espiati). Scarcerato quindi l’altro ieri per fine pena su ordine di un pm dell’esecuzione penale bolognese, Paviglianiti ieri viene però riarrestato in forza di un nuovo e diverso ricalcolo del cumulo di pene operato da un altro pm di Bologna, Marco Martorelli, che accoglie e sviluppa una idea suggeritagli dall’Avvocato Generale della Procura Generale di Reggio Calabria in una nota ufficiale inviatagli a razzo il 7 agosto stesso. L’idea è considerare fuori dalla garanzia estradizionale spagnola una delle nove condanne, quella a Reggio Calabria a 17 anni di pena nel 2015 per una partecipazione di Paviglianiti a una associazione mafiosa che l’imputazione formalmente indicava permanente “sino al 3 luglio 2001”: quindi in teoria per un fatto successivo all’estradizione nel 1999 dalla Spagna e commesso sul territorio italiano (anche se Paviglianiti era in carcere già da ben 5 anni, cioé dalla cattura in Spagna il 21 novembre 1996). La conseguenza é che questa singola pena fuoriesce dal calcolo che assorbiva i 168 anni teorici nei 30 massimi, e dunque ora al cumulo di base ricalcolato in 21 anni aggiunge questo rivissuto segmento di 17 anni, che porta il nuovo complessivo cumulo a 38 anni e 9 mesi. Spostando il fine pena di Paviglianiti al 2031 in teoria, e in pratica (una volta detratti gli anni di indulto e i periodi di liberazioni anticipate) al 3 luglio 2027. E quindi determinandone ieri il suo riarresto e ritorno nel supercarcere di Novara. Cassazione: vietato vietare la stampa locale al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2019 Le motivazioni della sentenza: non basta il “mero sospetto”. Finalmente sono state depositate le motivazioni della Cassazione che ha accolto il ricorso di un detenuto al 41 bis al quale gli era stato ordinato il divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. Parliamo di una ordinanza della corte di assise di Messina fatta nei confronti del boss barcellonese Giovanni Rao, ristretto nella casa circondariale de L’Aquila. Tale divieto era in ragione del pericolo, segnalato dalla Direzione del carcere, che il detenuto - imputato per reati commessi nel contesto della criminalità organizzata barcellonese - potesse ricevere, in tal modo, notizie relative al clan di appartenenza. A tale provvedimento aveva proposto reclamo, lo stesso Rao, deducendo che il Collegio messinese avesse violato la disciplina dettata dall’art. 18- ter dell’ordinamento penitenziario e dalle norme, costituzionali e convenzionali (art. 15 e 111 della costituzione, dell’art. 10 Cedu), poste a presidio del diritto alla corrispondenza; e prospettando, altresì, l’illogicità dell’ampissima restrizione disposta, siccome riferita a tutti i giornali locali indipendentemente dalla provenienza geografica della testata. Con ordinanza del gennaio 2019, il Tribunale di Messina rigettò il reclamo proposto da Rao, sottolineando l’esistenza di esigenze di prevenzione dei reati e di sicurezza e ordine interno dell’Istituto. Ciò in considerazione della concreta possibilità che attraverso l’ingresso in istituto di notizie concernenti la cronaca locale, ancorché per mezzo di giornali non riconducibili al territorio di provenienza del detenuto, venisse consentita la circolazione, tra i detenuti, di informazioni relative al clan cui Rao apparteneva; tanto più che i detenuti appartenenti al suo gruppo di socialità sarebbero stati provenienti da differenti aree geografiche. Tramite l’avvocato Francesco Scattareggia Marchese, il detenuto al 41 bis ha fatto ricorso alla cassazione sottolineando, tra le altre cose, che non si possono adottare tali divieti che incidono su diritti fondamentali della persona sulla base di un ‘ mero sospetto’, senza indicare le ‘ concretè ragioni investigative, di ordine pubblico o di sicurezza, che avrebbero reso necessaria l’adozione della misura. La Cassazione ha stabilito che il ricorso è fondato sottolineando che la limitazione della libertà di pensiero, e quindi anche di informarsi, deve connotarsi in termini di extrema ratio. Inoltre evidenzia che un provvedimento del genera può essere legittimo solamente se vi sia una specifica correlazione tra la circolazione della stampa locale all’interno del carcere e il probabile verificarsi di taluna delle circostanze indicate dall’art. 18- ter dell’ordinamento penitenziario, quelle relative alla limitazione della ricezione della stampa. La Cassazione aggiunge che, trattandosi di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, “deve escludersi, come condivisibilmente dedotto dalla difesa del detenuto, che le limitazioni in questione possano essere basate sulla ricorrenza di una situazione di mero sospetto, essendo necessario che ricorrano concreti elementi di valutazione idonei a conferire un adeguato coefficiente di oggettività alle ragioni poste alla base del richiesto controllo”. Secondo la Cassazione il divieto non è stato ben motivato, senza nemmeno indicare quale sia il pericolo concreto. Alla luce delle considerazioni e, in particolare, alle evidenti lacune motivazionali del provvedimento impugnato, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza con rinvio, per nuovo esame. Pian piano, a colpi di sentenze, il 41 bis comincia a perdere tutte quelle misure afflittive che esulano dallo scopo originario del regime speciale. Oristano: il Garante nazionale sollecita il Dap “curate subito il detenuto Mario Trudu” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2019 L’uomo ha 69 anni e soffre di gravi patologie. il monito rivolto al Dap. “Che si arrivi a una rapida soluzione delle sue esigenze di cura”. È il Garante nazionale delle persone private della libertà che sollecita il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, affinché si adoperi per l’ergastolano ostativo di Mario Trudu, recluso nel carcere sardo di Oristano. La sua storia è stata narrata su queste stesse pagine de Il Dubbio, fin da quando la sua legale Monica Murru aveva inviato un’istanza per chiedere l’incompatibilità con il carcere. Rigettata, ma con l’ordine di curarlo adeguatamente, oppure trasferirlo in un luogo idoneo per eseguire la terapia. Niente da fare. Oltre a rimanere in carcere, teoricamente incompatibile con le sue gravi patologie, non è tuttora sottoposto alle giuste cure e, tramite una nuova perizia disposta dall’avvocata, si è scoperto che si sono ulteriormente aggravate. Oltre a ciò ha contratto il tumore alla prostata, e solo dopo gli appelli, qualche giorno fa finalmente l’hanno visitato appurando che il tumore è fortunatamente ancora circoscritto. Ma deve essere curato immediatamente. Ad oggi, ancora non è stata fatta alcuna terapia, così come la cura della fibrosi polmonare conclamata che doveva essere curata già un anno fa. Il Garante nazionale, come detto, ha sollecitato il Dap a intervenire al fine di assicurare l’effettivo accesso alla tutela della salute di Trudu ristretto presso la Casa circondariale di Oristano nel circuito dell’alta sicurezza e - secondo quanto riportato al Garante nazionale - affetto da gravi patologie che richiedono interventi diagnostici e terapeutici che l’Istituto non è in grado di assicurare. Nel suo Rapporto sulla visita regionale in Sardegna del 10 dicembre 2018, il Garante nazionale aveva già segnalato la carenza di un Servizio di assistenza intensiva (Sai) per le persone detenute in regime di Alta sicurezza o in regime speciale, nonostante l’elevato numero di persone ristrette in tali regimi in Sardegna, e aveva raccomandato al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza. A seguito della segnalazione al Garante di un aggravamento delle condizioni della persona detenuta nell’Istituto di Oristano e del non accoglimento dell’istanza di differimento facoltativo della pena da parte della Magistratura di sorveglianza, il Garante raccomanda nuovamente che si mettano in campo interventi volti a rispondere alle esigenze di cura di ogni persona detenuta nel territorio sardo, qualsiasi sia la sua classificazione, e, nel caso in specie, che si arrivi a una rapida soluzione delle sue esigenze di cura. Ricordiamo che Mario Trudu ha 69 anni e si trova in carcere da 40. Le sue condizioni di salute sono precarie e appaiono incompatibili con il regime detentivo. La fibrosi polmonare è una complicazione che può portare alla mortalità. Il tumore prostatico, seppur ora circoscritto, non si ferma in attesa che qualcuno si prende la briga di avviare una cura adeguata. Il diritto alla salute è previsto dall’articolo 32 della Costituzione e viene prima di ogni altra esigenza di giustizia. Non a caso, in una sentenza del 2010, la Cassazione ha chiarito la necessità di tener sempre presente “indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità del detenuto con le possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario” anche l’esigenza di “non ledere comunque il fondamentale diritto alla salute ed il divieto di trattamenti contrari all’umanità”, posto che essere malati in carcere “porta ad una sofferenza aggiuntiva, derivante proprio dalla privazione dello stato di libertà in sé e per sé considerato e questo nonostante la fruibilità di adeguate cure in stato di detenzione”. Benevento: penalisti in visita alle carceri ilvaglio.it, 9 agosto 2019 Scrive il presidente della Camera Penale di Benevento Domenico Russo: La Camera Penale di Benevento, aderendo all’invito formulato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, a partecipare alla campagna promossa dal Partito Radicale e Radio Radicale, denominata “Ferragosto in carcere”, per la visita agli istituti penitenziari nelle giornate dal 15 al 18 agosto 2019, dopo espressa richiesta, è stata autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a far ingresso il giorno 18 agosto 2019, con una propria delegazione, nella Casa Circondariale “Capodimonte” di Benevento. La Giunta della Camera Penale di Benevento ha ritenuto irrinunciabile l’opportunità di visitare la struttura carceraria sannita, anche alla luce delle note problematiche connesse al sovraffollamento e alle emergenze strutturali e funzionali del sistema carcerario italiano, oltre che in ragione degli ultimi eventi che hanno interessato il carcere ‘Capodimontè (tra cui il suicidio verificatosi nell’aprile di quest’anno, il recente decesso del detenuto partenopeo di 53 anni, che avrebbe vanamente richiesto l’intervento dei sanitari, e, da ultimo, l’episodio della rissa seguita da incendio, con intossicazione di un agente della Polizia Penitenziaria). I gesti disperati e drammatici posti in essere dai detenuti nel nostro Paese sono frequenti e numerosi e dovrebbero indurre ad una maggiore riflessione sul tema (come ultimo episodio in ordine temporale, ricordiamo il tragico gesto del ragazzo di soli 24 anni che, il 2 agosto, si è dato fuoco nella sua cella presso il carcere di Ariano Irpino). Nel 2018 sono morti 148 detenuti, tra questi ben 67 suicidi. Nel 2019, sino al mese di giugno, 60 morti, di cui 20 suicidi. La media è quella di un decesso ogni 3 giorni! Più in generale - al di là dei singoli eventi contingenti, che pur meritano la dovuta attenzione - le relazioni annuali del Garante nazionale dei detenuti confermano le criticità delle nostre carceri che permangono, nonostante la recente riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, il tanto atteso intervento legislativo che si rivela parziale e lacunoso, contraddistinto dalla mancata approvazione di novità più coraggiose soprattutto in ambito di tutela della salute mentale, omogeneizzazione dell’offerta trattamentale e giustizia riparativa. Al di fuori di ogni tecnicismo, va ribadito che per tutelare la sicurezza dei cittadini e incrementare la coesione sociale è indispensabile salvaguardare i diritti di tutti, in particolare quelli di chi è in maggiore difficoltà a farli valere, in quanto privato della libertà personale. Le condizioni di vita nelle carceri sono determinanti anche per la finalità rieducativa della pena (come sancita dall’art. 27 della Costituzione e ulteriormente ribadita con la riformulazione dell’art. 1 O.P.), perché nessun percorso riabilitativo è possibile in situazioni di degrado e assenza di dignità. Seppur tra molteplici criticità, dovute spesso alla carenza di organico del personale di polizia penitenziaria e, sul fronte dell’assistenza sanitaria, in particolare per quanto riguarda l’assistenza psicologica dei detenuti, siamo consapevoli che l’amministrazione penitenziaria e tutti gli operatori sono impegnati per contenere i disagi dei detenuti. Come avvocati penalisti, abbiamo in ogni caso il dovere di mantenere alta l’attenzione sulle carceri, soprattutto in un momento in cui, in tema di scelte di politica criminale, si vive un clima di “paura somministrata” che ha l’unico fine di esasperare immotivatamente l’allarme sociale e il senso di insicurezza dei cittadini, a fronte di una progressiva diminuzione dei reati. Continuiamo a ritenere che vada intensificata l’applicazione delle misure alternative al carcere (le quali, statisticamente, riducono il rischio di recidiva), così come l’aumento delle risorse per il lavoro dei detenuti, misure che favoriscono il percorso riabilitativo e il reinserimento sociale, a beneficio non solo del singolo detenuto, ma dell’intera società. La pena, per chi viene definitivamente condannato, deve essere certa e deve essere correttamente scontata, ma se deve consistere quasi esclusivamente nella perdita o nella drastica riduzione della libertà, essa non può pregiudicare la dignità, il diritto alla salute ed il diritto alla vita del detenuto. La Camera Penale, dunque, auspica che la presente visita possa rappresentare l’inizio di un proficuo percorso di confronto e collaborazione tra i soggetti (istituzionali e non) che quotidianamente si interfacciano con le complesse problematiche legate alla detenzione infra-muraria, che sia da pungolo per una migliore attuazione delle novità normative già introdotte e - contemporaneamente - per l’adozione di ulteriori provvedimenti di riforma, assolutamente indispensabili. Sulmona (Aq): quale futuro per il supercarcere? corrierepeligno.it, 9 agosto 2019 Nardella (Uil): mentre i lavori per la costruzione del nuovo padiglione proseguono a ritmo serrato preoccupa il silenzio dell’Amministrazione sull’integrazione del nuovo personale. Non dispiace certo ricevere complimenti in ordine all’efficienza mostrata dai baschi blu di stanza al supercarcere di piazzale vittime del dovere. Tuttavia qualcosa di più oltre rispetto alle belle parole dette dai diversi politici che negli ultimi tempi sono intervenuti per testimoniare la loro vicinanza (a cominciare dallo stesso Marsilio per finire con la consigliera La Porta), andrebbe fatto. A dirlo è Mauro Nardella Componente del Comitato Nazionale di Gestione Uil Pa Polizia Penitenziaria Abruzzo. “Se non si vorrà fare i conti nel prossimo futuro con il collasso della struttura stessa ancor prima di vederla ampliata - spiega Nardella - allora i politici, che tanto bene hanno dimostrato di volere ai poliziotti penitenziari sulmonesi, rischierebbero di fare i conti con la loro ipocrisia se non si uniranno a noi nell’ardua battaglia che ci accingiamo a fare al fine raggiungere l’agognato obiettivo di integrare l’attuale organico (necessari 30 uomini in più richiesti non solo dalla Uil ma anche e soprattutto dalla direzione del carcere in occasione della visita del Garante dei detenuti). Ciò che preoccupa e non poco è la storia recente che ha riguardato l’apertura di nuovi padiglioni in altri istituti di pena senza l’integrazione di nuovo personale. Sulmona questo non se lo potrebbe assolutamente permettere non solo per la tipologia di circuitazione detentiva in essa presente ma anche e soprattutto per l’elevata età media dei suoi operatori che supera abbondantemente i 50 anni di età ed i 25 anni di servizio. Chi ha questa età, infatti, possiede autonomie in fatto di efficienza fisica e soprattutto di diritto di molto differenti rispetto a quelle che ha un istituto del Nord con i suoi giovanissimi. Intanto i lavori per la realizzazione del nuovo padiglione vanno avanti a ritmo serrato. Secondo quanto previsto la struttura potrebbe essere tirata su addirittura entro ottobre di quest’anno. Questo potrebbe comportare il suo sicuro varo entro marzo del 2020 ergo… non c’è più tempo da perdere. Le 4 unità che l’Amministrazione Penitenziaria, nell’ultima revisione organica elaborata circa un mese fa, ha assegnato in più rispetto all’organico precedente al penitenziario peligno fa capo allo stato attuale dei lavori. Di contro la stessa Amministrazione non potrà non prevedere l’aggiunta, entro breve, delle ulteriori unità che reclamiamo e che poniamo come conditio sine qua non il muovo padiglione non potrebbe mai vedere materializzarsi la sua apertura. Di questo interesseremo anche il Prefetto qualora sarà necessario. Intanto la Uil monitorerà il tutto passo passo”. Rovigo: teatro come occasione di riscatto, il Lemming entra in carcere di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 9 agosto 2019 Ha l’obiettivo di formare e rieducare i detenuti per il loro reinserimento sociale attraverso l’attività teatrale il progetto Per aspera ad astra, che trasforma il tempo della detenzione in un’occasione di riscatto. La seconda edizione del progetto, sostenuto dalla Fondazione della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo insieme ad altre 10 fondazioni di origine bancaria, è partita pochi giorni. La Fondazione Cariparo sostiene il progetto, che trasforma il carcere attraverso la cultura e la bellezza delle arti teatrali, con un contributo di 50 mila euro che permetterà all’associazione rodigina Teatro del Lemming di portare Per aspera ad astra all’interno del carcere di Rovigo. Il teatro in carcere crea le premesse per il reinserimento nel mondo esterno, cercando di abbattere il muro che divide carcere e società civile. Così, l’attività teatrale diventa un ponte verso nuove opportunità e per maturare competenze nel percorso per tornare cittadini attivi. In ambito nazionale, tutte le attività di Per aspera ad astra sono realizzate da associazioni teatrali che operano nei territori coinvolti nel progetto, e che trovano il loro coordinamento nella Compagnia teatrale della Fortezza, attiva dal 1988 alla casa di reclusione di Volterra. Le associazioni e gli operatori artistici di Per aspera ad astra utilizzano essenzialmente come strumenti i corsi di formazione professionale rivolti ai detenuti (con percorsi di attività teatrali e spettacoli), insieme a meeting e workshop intensivi per operatori artistici e sociali e per il personale direttivo delle carceri e di polizia penitenziaria. La seconda edizione di Per aspera ad astra ha quasi raddoppiato il numero delle fondazioni coinvolte, da sei a 11, e, di conseguenza, anche i territori raggiunti rispetto alla prima edizione, che era stata inaugurata nel maggio 2018 e che s’è conclusa lo scorso marzo. Dunque, dai sei percorsi conclusi in altrettante case circondariali a Milano, Modena, Castelfranco Emilia, Palermo, Torino e La Spezia tra maggio 2018 e marzo 2019, si passa con la seconda edizione a 11 realtà, con alcune conferme e diverse novità. Saranno in rete nel progetto, insieme al carcere di Rovigo, Milano Opera, le case circondariali di Cuneo, Genova Marassi, Torino, Palermo Pagliarelli, La Spezia, Bologna Dozza, Perugia Capanne, Cagliari Uta, Modena e la casa di reclusione di Castelfranco Emilia.Tra le diverse attività culturali, scolastiche e sportive realizzate nel 2018 nella casa circondariale, al laboratorio teatrale organizzato dal Lemming di Rovigo avevano partecipato 14 persone. Volterra (Pi): l’utopia del Teatro Stabile nel carcere diventa realtà di Roberto Rinaldi articolo21.org, 9 agosto 2019 Trent’anni sono trascorsi da quando Armando Punzo varcò per la prima volta l’ingresso della Fortezza di Volterra. Luogo di detenzione carceraria, un tempo anche di massima sicurezza, ma negli anni a venire ha visto un processo di trasformazione inarrestabile, fino a diventare spazio di libertà per la creazione artistica: quello della Compagnia della Fortezza. “In questa cella che mi ha accolto la prima volta ho passato la maggior parte del tempo, da sveglio, fino ad oggi. Trent’anni sono il peso lieve di una storia vissuta e lo slancio verso un futuro pieno di promesse, ma il presente sfugge nell’osservare queste due sponde cariche della loro irrealtà. Non avevo mai pensato a questi trent’anni come tempo trascorso, fino al giorno del loro compimento. All’improvviso le azioni hanno mostrato la loro folle determinazione, la necessità dettata da una particolare disperazione, quella di un giovane artista - scrive Armando Punzo nel programma del progetto speciale per i trent’anni della Compagnia della Fortezza (culminato con lo spettacolo Naturae - ouverture andato in scena dal 31 luglio al 4 agosto) - che voleva interrogare la realtà per distinguere tra le sue pieghe un riparo e un campo di battaglia non violenta, capace di far rinascere luoghi e persone, di rinominarli e proiettarli sotto un cielo diverso ma altrettanto concreto. Avevo bisogno di mura che mi contenessero, di un ostacolo insormontabile da superare. (…) In carcere il teatro non si concede illusioni, la realtà, è sempre pronta a offenderti, a vomitarti addosso tutta la sua impossibilità. Il teatro si rinforza in questo scontro continuo, sottrae con le unghie terra a quel continente infinito che è la vita. Sottrae vita alla vita e la trasforma. (…) Il carcere non mi attendeva e io l’ho colto di sorpresa. L’ho visto difendere con i denti la propria identità, chiudersi ancor di più su se stesso, rifiutare ogni apertura, offeso, livido di rabbia per essere stato scoperto nella sua meschina e inutile realtà”. Chi non è mai entrato in questa monumentale fortezza d’epoca rinascimentale, per assistere al teatro di Armando Punzo, non può comprendere il peso di queste parole, l’importanza che rivestono per un progetto a cui il regista e sua moglie Cinzia De Felice si dedicano da tanti anni: la costruzione di un teatro stabile. Nei giorni di spettacolo, esperienza artistica unica nel suo genere per la relazione unica che si viene a creare tra attori e pubblico, lo spazio della scena chiamato “il campino”, circoscritto dalle sbarre di ferro che si trasforma in un teatro a cielo aperto, la collaborazione con gli agenti di guardia, si è discusso del progetto di costruzione del teatro durante un sopralluogo seguito da un dibattito pubblico. L’assessore alle culture del Comune di Volterra, Dario Danti, ci riferisce di quanto discusso durante la visita dei rappresentanti delle istituzioni, coinvolte nella decisione di dare avvio ai lavori di costruzione. “ Abbiamo costituito un tavolo permanente il 16 luglio scorso a Pisa nella sede della Sovrintendenza e in quell’occasione era stata decisa la data del sopralluogo in carcere (avvenuta il 2 agosto, ndr). Un’opera fondamentale quanto profonda e necessaria per valorizzare la Fortezza e per dare una sede stabile alla Compagnia. Sono già trascorsi quattro anni da quando è stato deciso di stanziare per la costruzione del teatro un milione e 250 cinquantamila euro riassegnati al biennio 2020 - 2021. La mia formazione umana, prima ancora che culturale, deve molto alla Fortezza: ogni anno essere qui dentro è stato ed è un appuntamento imprescindibile. Ringrazio gli agenti, gli operatori e le direzioni che si sono succedute negli anni per la loro lungimiranza, per aver sostenuto un’idea così grande e aver contribuito in maniera determinante alla realizzazione di un carcere all’avanguardia, a livello internazionale, per le attività culturali e trattamentali. Dobbiamo tanto ai detenuti - attori e a chi, con loro, ha costruito con tenacia e visione un cammino di vita, un percorso d’amore e libertà. Dobbiamo ringraziarli non solo per quello che ci hanno donato, ma per quello che ancora non sono e vorrebbero essere. Ringraziarli, per quanto mi riguarda, significa anche chiedere loro scusa. Le istituzioni sono in forte debito verso Carte Blanche in tutti questi anni (l’attività della Compagnia della Fortezza è gestita dall’associazione culturale Carte Blanche la cui direzione artistica è affidata ad Armando Punzo e l’organizzazione generale è curata da Cinzia De Felice il cui ruolo è sempre stato indispensabile per garantire l’attività del teatro in carcere e in tournée, ndr), infatti, non sono riuscite a dare forma e corpo al teatro stabile in carcere. Io credo in un’idea politica della comunità in cui tutti devono avere il loro posto per potersi esprimere”. Al sopralluogo hanno preso parte la vicepresidente della regione Toscana Monica Barni, il garante dei diritti dei detenuti della regione Toscana Franco Corleone, l’assessore alle Cultura del Comune di Volterra Dario Danti, gli ingegneri della Sovrintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Pisa e Livorno, il provveditore alle opere pubbliche di Toscana Marche Umbria Marco Guardabassi, il vice provveditore del Prap Rosalba Casella, architetti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i vigili del fuoco, rappresentanti della fondazione Michelucci e per la compagnia della Fortezza, Armando Punzo e Cinzia De Felice. La vicepresidente Monica Bardi ha dichiarato al termine della visita quanto deciso: “È stato convenuto che lo spazio più idoneo per la realizzazione del teatro è l’attuale area passeggi, a ridosso della Torre del Maschio (si trova all’interno della fortezza medicea costruita nel quindicesimo secolo, ai tempi del Magnifico, e per cinque secoli rimasta inaccessibile al pubblico, ndr). Insieme a tutti i soggetti coinvolti, ci metteremo a lavoro per arrivare nel più breve tempo possibile al raggiungimento dell’obiettivo. L’incontro ha finalmente sbloccato la situazione. Tutti i soggetti che hanno partecipato hanno dimostrato volontà di arrivare alla realizzazione del progetto per arrivare nel più breve tempo possibile al risultato finale. Il teatro consoliderà le attività teatrali, la cui metodologia, apprezzata a livello internazionale, ha modificato la vita all’interno del carcere, non solo per i detenuti, ma anche per tutti gli operatori. Sarà inviata una richiesta alla sovrintendenza di Pisa, da parte del provveditorato alle opere pubbliche Toscana Umbria Marche, dell’esecuzione di saggi archeologici preventivi nello spazio indicato”. Al sopralluogo è seguito il dibattito aperto al pubblico: “L’utopia del Teatro. Costruiamo il Teatro Stabile nella Fortezza di Volterra” a cui hanno partecipato Franco Corleone Garante dei detenuti della Toscana, (eletto senatore per due legislazioni, è stato anche sottosegretario alla Giustizia con la delega alla giustizia minorile e al carcere), Corrado Marcetti della Fondazione Michelucci di Firenze, Ettore Barletta dirigente dell’Ufficio tecnico del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il regista Armando Punzo e l’assessore Dario Danti che spiega nei dettagli cosa avverrà nei prossimi mesi: “Per permettere la costruzione del teatro dovranno essere tolti i cancelli interni (dividono lo spazio esterno del cortile della fortezza, tra cui quelli che delimitano il “campino” (l’attuale palcoscenico all’aperto, ndr), e provvedere a livellare la pavimentazione esistente e costituita da pietre e in parte da cemento. Uno dei vincoli è rappresentato dalla tutela di eventuali reperti archeologici che potrebbero essere trovati se lo scavo andrà troppo in profondità e dall’impatto sopra con la cinta muraria. Si dovrà cercare un compromesso tra soprintendenza ai beni archeologici e quella paesaggistica”. Un compromesso che dovrà tenere conto anche di altri aspetti non strutturali, architettonici o ambientali, ma non per questo meno importanti nel determinare la nascita del teatro in carcere. Pareri anche politico - istituzionali la cui autorevolezza e responsabilità possono favorire o ostacolare la sua costruzione. Il primo ad esserne cosciente è lo stesso Armando Punzo. Sfogliando le pagine di “Un’idea più grande di me” (Conversazioni con Rossella Menna, Luca Sassella editore), racconta come ha affrontato per la prima volta trent’anni fa la richiesta di voler fare teatro in carcere e la riconoscenza per il direttore Renzo Graziani, deceduto per un banale infortunio nel 1997, al quale il regista deve tanto per aver creduto nel suo progetto di creare una compagnia teatrale e la scuola all’interno del carcere: “(…) in quegli anni il fatto che ci fosse uno che andasse di propria iniziativa in un carcere penale per fare teatro di ricerca potesse risultare quanto meno sospetto. Infatti, non ci credeva nessuno, né gli agenti, né i detenuti. I primi mi pensavano infiltrato dalla camorra, i secondi infiltrato dalla polizia. D’altronde, anche con il direttore Renzo Graziani, uomo illuminatissimo, ho cominciato a parlare davvero dopo due anni. Lui l’aveva sposata questa esperienza, era una persona difficile ma aveva una visione molto aperta. Il carcere di Volterra si regge ancora sul lavoro che ha organizzato lui trent’anni fa. Ha formato un gruppo di agenti che hanno fatto propria la sua idea di istituto aperto: “Meno pennacchi, meno agenti, e più società civile dentro”“. La società ora entra ogni anno e non solo nei giorni di spettacolo (tante altre sono le iniziative organizzate dal carcere) e i risultati sono diventati permanenti dove il clima che si respira entrando è quello di una collaborazione proficua e dove si svolgono azioni di vita quotidiana con maggiore serenità nonostante le restrizioni imposte. Lo aveva capito subito Armando Punzo quando ricorda nel suo libro cosa decise la prima volta, entrando in carcere: “Con gli attori abbiamo fatto un patto di sangue. Ho chiesto loro di non coinvolgermi in traffici illeciti, anzi di limitarli e di evitare il più possibile risse a teatro, perché questo avrebbe decretato subito la fine del nostro laboratorio. (…) Non mi preoccupavo soltanto dei traffici e delle risse, ma di quanto la vita violenta del carcere potesse prendere il sopravvento su tutto. La tranquillità, invece, rendeva possibile ottenere più spazio libero, più tempo e maggiori concessioni. Abbiamo cominciato a conquistare fiducia da parte dell’istituzione, della direzione, dei magistrati”. Una fiducia che ha permesso alla Compagnia di mettere in scena in questi trent’anni ben 37 spettacoli dal 1988 in poi (restano indimenticabili “I Pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht” del 2003, “I Negri” del 1996, “Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà”, Marat Sade da Peter Weiss del 1993) conquistata a cara fatica anno dopo anno: “(…) Il teatro è zona franca ovunque. Era l’affermazione di uno statuto dell’arte anche lì dentro, in una selva. Ma andava spiegato, va spiegato. Le persone non ce l’anno dentro per cultura che il teatro sia uno spazio dove si può agire con dinamiche inedite rispetto alla vita ordinaria. Il meccanismo della zona franca si è esteso dalla nostra cella - teatro (il teatrino Renzo Graziani dove nascono tutti gli spettacoli, un ex cella di tre metri per nove, ndr) a tutto il carcere”. Il regista ottiene sempre più fiducia e il cambiamento all’interno dell’istituto penitenziario (nei suoi primi anni di attività il carcere ospitava terroristi, detenuti per reati di mafia, esponenti di clan camorristici), ottiene dei benefici anche sulla salute dei carcerati: “Ledo Gori, il capo di gabinetto di Enrico Rossi che in quel periodo era assessore alla sanità della Regione Toscana mi disse: “Tu non lo sai, ma io ti conosco, conosciamo l’andamento del Carcere di Volterra dal fatto che non arrivano richieste di terapia, di psicofarmaci”. Un risultato che conferma quanto possa essere indispensabile creare le condizioni di vivibilità in un luogo di reclusione e anche il teatro può fare la sua parte come l’ha fatto in trent’anni di seguito. E la domanda perché ancora non è stato possibile costruire il teatro stabile diventa un interrogativo al quale sembra non esserci una risposta plausibile. A chiederlo è anche Franco Corleone, il Garante dei detenuti, nella sua petizione “Costruiamo il Teatro nella Fortezza di Volterra” pubblicata in Change.org. “Perché a Volterra questo non può essere possibile? (citando l’esempio del carcere di Marassi a Genova dove è stato costruito ex novo il Teatro dell’Arca di 200 posti, ndr). L’esperienza della Compagnia della Fortezza ha modificato geneticamente (l’espressione più verosimile alla percezione vissuta nel corso degli anni, ndr) un carcere che in passato era noto per la sua durezza e il suo isolamento. Ha attraversato lo spazio della pena (a confermarlo sono gli stessi attori che lo comunicano agli spettatori, ndr), la sua struttura e le sue funzioni (“oggi è diventato ordinario il regime delle celle aperte, per cui si può circolare liberamente all’interno dell’istituto dalla mattina alla sera, ad eccezione dei due momenti della conta.. “ - spiega Armando Punzo in “Un’idea più grande di me”, ndr), i suoi linguaggi e le sue relazioni, ha costruito ponti con la società esterna (migliaia di spettatori, ospiti, stagisti e studenti di ogni ordine e grado, programmi Rai come “I Dieci Comandamenti” di Domenico Iannacone con la puntata “Anime salve”, le centinaia di recensioni e articoli pubblicati sulla stampa di tutto il mondo, ndr), ha realizzato una metodologia di lavoro teatrale apprezzata e studiata a livello internazionale (il primo Centro Teatro e Carcere nasce per iniziativa di Carte Blanche nel 1994 in accordo tra Regione Toscana, Provincia di Pisa e Comune di Volterra e nel 2000 è stato firmato il protocollo d’intesa per l’istituzione del Centro Nazionale Teatro e Carcere con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Regione Toscana, la Provincia di Pisa, il Comune di Volterra e l’Ente Teatrale Italiano, ndr). Ma ora occorre trasformare ancora, superare i limiti in cui la pratica artistica si è potuta svolgere, per raggiungere nuovi risultati con i detenuti e con la società”. Perché a Volterra questo non può essere possibile? Franco Corleone nel dibattito che si è svolto nel carcere al termine della replica dello spettacolo spiegando l’importanza della sua realizzazione: “Molti comprendono che si possa giocare l’impossibile e il teatro è la vita di questo luogo. Un’unicità e un rapporto nuovo che viene dalla direzione del direttore Renzo Graziani, dalla collaborazione tra la Compagnia della Fortezza e la Polizia Penitenziaria (percepibile anche da minimi gesti come la stretta di mano tra un agente di guardia e un detenuto, la presenza degli agenti agli spettacoli che assistono quotidianamente con interesse, la disponibilità nel l’accogliere le persone che entrano, ndr). Bisogna togliere molte superfetazioni brutte e il teatro farà togliere le cancellate. Uno spazio per immaginare libertà e la costruzione del teatro in un luogo che paradossalmente è mancanza di libertà, permetterà dei processi di liberazione. Il teatro è molto amato dai detenuti perché è una liberazione dalle “catene” (in questo carcere vivono attualmente 160 detenuti, ndr) e costruirlo in questo carcere deve diventare una realtà e non più un’utopia. La cultura libera tutti: detenuti e spettatori. Bisogna fare presto”. Ettore Barletta dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha spiegato come il carcere di Volterra sia una “struttura monumentale e sottoposto a vincoli archeologici e paesaggistici e a fronte di un finanziamento statale il parere iniziale per costruire il teatro non era stato positivo. La struttura sotterranea della Fortezza è ipogea (luogo adibito in antichità a tomba o luogo di culto e in questo caso risalente all’epoca etrusca, ndr) ma il teatro è un servizio presente nella tradizione penitenziaria che si è ispirata agli anni ‘60 dove negli istituti carcerari sono stati costruiti sul modello che richiama lo spazio delle parrocchie romane dotate di sala-cinema-teatro. Dobbiamo tutti dimostrare il coraggio di perseverare”. Corrado Marcetti della Fondazione Michelucci (porta il nome dell’architetto Giovanni Michelucci con “lo scopo di contribuire agli studi ed alle ricerche nel campo dell’urbanistica e della architettura moderna e contemporanea, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali, ospedali, carceri e scuole”), si è posto la domanda a cui molti ancora non sanno dare una risposta esauriente: “È difficile comprendere come mai un percorso iniziato si fosse bloccato. Insieme al Garante dei detenuti della Toscana abbiamo riaperto la discussione alla luce di un finanziamento importante già previsto che non poteva andare perduto. Il cuore del progetto è il cortile teatralizzato da 30 anni di attività della Compagnia della Fortezza. Teatro che ha prodotto lavoro e benefici. Il teatro in carcere è un luogo non del tutto pubblico ma è della collettività. Non più teatro e carcere, carcere e pena ma teatro-carcere e meno pena”. Dello stesso avviso anche l’assessore Dario Danti: “ora si procede con un uovo metodo e non essere arrivati alla realizzazione del teatro è un’inadempienza a cui tutti devono sentirsi responsabili”. La parola poi è passata a chi vive da trent’anni questa condizione precaria di fare teatro senza lo spazio adeguato per provare, studiare e costruire uno spettacolo. C’è un po’ di amarezza e sconforto nell’intervento di Armando Punzo: “non sto cercando casa qui dentro ma quello che desidero è dare una spallata alla realtà. La conquista della cultura, della bellezza, non la si ottiene solo con la pace in modo pacifico. È terribile pensare a quello che si perde e io il teatro lo intendo come un modo per far fiorire la vita. In una stanza di tre metri per undici nasce il nostro teatro e mi sono dovuto occupare di problemi del carcere oltre quelli del mio lavoro di regista teatrale. Il paradosso è pensare che arte-bellezza-cultura si faccia in un luogo terribile. Il teatro ha aperto questo istituto ma è stato circondato anche da tante altre attività e si riduce lo spazio per poterlo fare. Serve anche per fare formazione ai mestieri del teatro e scuola tra agenti, detenuti e cittadini. Una casa di custodia attenuata e permettere di far vivere da ex detenuti nonostante siano in carcere per farli sentire liberi”. Armando Punzo - “La Fortezza deve guadagnarsi il suo spazio in continuazione, si ricomincia da zero tutte le mattine. Trent’anni non contano niente. Se non si rigenera veramente in tutta la sua potenza, il teatro qui muore in un attimo. Ho avuto bisogno di cercare la via di uscita dove sembra tutto chiuso. Penso che sia una buona indicazione in generale. Le battaglie senza fine misurano la determinazione. Sono arrivato mille volte ad accarezzare fino in fondo l’idea di andare via, mentre ci pensavo stavo già facendo la salita per varcare il cancello ed entrare”. “Liberi dentro”. Il racconto di Ezio Savasta, che da venticinque anni visita i detenuti di Silvia Guidi L’Osservatore Romano, 9 agosto 2019 “Il carcere è un luogo che merita grande rispetto - scrive Ezio Savasta nel suo ultimo libro, “Liberi dentro” (Modena, Infinito Edizioni, 2019, pagine 180, euro 14) - tanti uomini al suo interno soffrono, è uno spazio sacro, prediletto dal Vangelo. Questa consapevolezza richiede di entrarvi con il passo del pellegrino, certo, per incontrare in amicizia chi è detenuto, ma non solo per un intervento di tipo sociale, piuttosto consapevoli di vivere un’esperienza spirituale”. È proprio questa consapevolezza profonda, radicata negli anni, messa alla prova in mille battaglie, fatta di concreto materialismo cristiano, a rendere così interessante il libro di Savasta. Non una testimonianza di generica filantropia, o di (pur stimabile) generosità umana, troppo umana - che prima o poi presenta il conto del bene fatto, oppure cede sotto il peso del male, si sgretola alla prima contraddizione incontrata lungo la strada - ma la documentazione della forza trasformante di uno sguardo sulla realtà certo dell’amore di Dio. Uno sguardo che dice, senza bisogno di parole, a chiunque incontra: “Sei di più del tuo male, non coincidi totalmente con quello che hai fatto, ripartire è possibile in ogni momento. E guardare in faccia il tuo male è il primo passo per vincerlo”. Per questo la presenza dei volontari in un carcere non è un optional, ma un ingrediente fondamentale della funzione rieducativa della “libertà ristretta”. “La nostra presenza, ne sono convinto, è un modo per riaccendere la speranza durante i lunghi anni di pena - spiega Savasta, dopo un quarto di secolo di frequentazione di carceri e penitenziari - la fede che tanti trovano o riscoprono durante la loro detenzione dimostra che in ogni uomo c’è un riflesso divino che, anche se costretto tra quattro mura, non si spegne ma può risplendere. Taluni diventano come “monaci involontari” che cioè, più o meno consapevolmente, imparano a guardare in alto e a rivolgersi a Dio. La detenzione costringe all’isolamento ma il soffitto delle celle - lo abbiamo visto tante volte - sembra squarciarsi per irradiare una luce che consola i cuori”. Tutto è terribilmente umano, ma anche estremo, in carcere. Come il rumore. Assordante, permanente. Il contrario di quello che chi non è mai entrato in un penitenziario potrebbe immaginare. E nel rumore l’inattività, che spesso non aiuta a riflettere, ma addormenta quello che servirebbe per cambiare. Il valore del lavoro, per i “ristretti”, è inestimabile: ogni carcere dovrebbe permettere e organizzare al meglio esperienze lavorative intra moenia. Non è un’utopia, o il sogno di anime belle lontane dalla realtà. I dati sulla recidiva dei reati parlano chiaro: tra i detenuti che non svolgono programmi di reinserimento sfiora il novanta per cento, mentre tra chi segue questi percorsi scende al dieci per cento. È difficile non essere “veri” in carcere. Come in ospedale, dove ruoli, identità, maschere consolidate si dissolvono appena si indossa il pigiama e si diventa l’ospite di un letto in corsia, bisognoso di tutto, come tutti gli altri. Flannery O’Connor (a cui il nostro giornale ha appena dedicato uno speciale) amava ripetere che, a giudicare dalle lettere che riceveva, i carcerati la capivano meglio degli altri, perché più esperti in materia di conflitti e distruttività. Anche lei, del resto, nella sua vita aveva imparato non poco sulla lotta e sulle zone d’ombra dell’anima umana dietro alle sbarre invisibili della sua malattia. Con il riscaldamento globale aumentano povertà e migrazioni di Luca Martinelli Il Manifesto, 9 agosto 2019 Cambiamento climatico. Rapporto del comitato scientifico dell’Onu sul rapporto tra clima e territorio: rischi di siccità, incendi e instabilità alimentare, Gli scienziati del clima hanno lanciato l’ennesimo allarme di fronte al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. A Ginevra, l’8 agosto, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) dell’Onu ha presentato un rapporto speciale dedicato ad approfondire il rapporto tra uso del suolo e cambiamento climatico. Almeno mezzo miliardo di persone, spiega, vive in aree dov’è in corso un processo di desertificazione. Terre aride e desertiche sono più vulnerabili ai cambiamenti climatici e a eventi estremi quali siccità, onde di calore, tempeste di polvere. Il risultato è inevitabile: caleranno la produzione agricola e la sicurezza delle forniture alimentari. E a pagarne le conseguenze saranno soprattutto le popolazioni più povere di Africa e Asia, costrette ad emigrare. Ecco perché il flusso non può essere fermato, anche se chi cerca rifugio in Europa non può sapere che anche il Mediterraneo è - secondo gli scienziati che hanno redatto il report - ad alto rischio di desertificazione e incendi. È passato meno di un anno da quando, nell’ottobre del 2018, lo stesso Ipcc ha pubblicato il rapporto sul clima famoso per avvertire che senza ridurre immediatamente le emissioni di gas climalteranti, già nel 2030 le temperature medie globali potrebbero superare la soglia di 1,5 gradi in più rispetto ai livelli pre-industriali. Il limite fissato dall’Accordo di Parigi del 2015. Questo nuovo rapporto si concentra invece sul rapporto fra il cambiamento climatico e l’uso del suolo, studiando in particolare il rapporto tra modello agricolo e di gestione forestale e climate change. Per il report, la stabilità delle forniture di cibo calerà all’aumento della grandezza e della frequenza degli eventi atmosferici estremi, che spezzano la catena alimentare, ma anche come conseguenza di un aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, elemento che può abbassare le qualità nutritive dei raccolti. Le zone tropicali e subtropicali saranno le più vulnerabili. Per gli scienziati che hanno redatto il rapporto (107 gli autori, da 52 Paesi, che hanno analizzato circa 7mila paper, e valutato oltre 28mila commenti), alcune risposte potrebbero mitigare l’impatto del climate change: produzione sostenibile di cibo, gestione sostenibile delle foreste, gestione del carbonio organico nel suolo, conservazione degli ecosistemi, ripristino del territorio, riduzione della deforestazione (spesso direttamente legate alla produzione agro-industriale, con la soia in Amazzonia o le piantagioni di palma da olio in Indonesia), riduzione della perdita e dello spreco di cibo. Questi sono gli strumenti che riducono in modo diretto le emissioni di gas serra. Le politiche potenzialmente più efficaci, perché hanno un impatto immediato, in un momento di continue emergenze, sono la conservazione di quegli ecosistemi che catturano grandi quantità di carbonio, come le paludi, le zone umide, i pascoli, le mangrovie e le foreste. Nelle grandi aree verdi, piante e alberi catturano l’anidride carbonica dell’atmosfera e la conservano in tronchi e foglie. Questi in seguito si decompongono a terra e lasciano la CO2 imprigionata nel terreno. Misure di lungo periodo, comunque necessarie, sono la forestazione e riforestazione, il ripristino di ecosistemi ad alta cattura di carbonio e di suoli degradati. “Il suolo e la biodiversità stanno soffrendo una pressione enorme a causa dell’aumento della deforestazione in Amazzonia e degli incendi che stanno devastando Siberia e Indonesia - spiega Martina Borghi, campagna foreste di Greenpeace Italia -. Questi fenomeni hanno un impatto diretto sulla vita di milioni di persone e sul clima, poiché minacciano la nostra sicurezza alimentare favorendo la desertificazione e il degrado del suolo”. “Il messaggio del rapporto Ipcc è un ulteriore forte stimolo a rivedere le attuali pratiche agricole, favorendo quelle che consentono di aumentare il contenuto del carbonio nei suoli, e sottolinea l’importanza del contenimento del consumo di carne - sottolinea Gianni Silvestrini, direttore scientifico della ong sul clima Kyoto Club”.In Italia, intanto, come sottolinea una nota del Wwf “non si hanno più notizie del disegno di legge sul “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” che nella passata legislatura, dopo essere stato approvato nel 2016 dalla Camera, si è interrotto al Senato”. È solo una delle tante bandiera ammainate dal Movimento 5 Stelle. Allarme ambiente globale: il nazionalismo è perdente di Walter Veltroni Corriere della Sera, 9 agosto 2019 L’agenzia delle Nazioni Unite ha appena diffuso un rapporto di dimensione inusuale, che suona il gong ai sordi governanti della Terra. Nel bel saggio di Kyle Harper pubblicato da Einaudi e intitolato “Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero”, si dimostra come, all’origine del tramonto e poi del tracollo della grandezza di Roma, siano state mutazioni climatiche e, legate ad esse, pandemie devastanti. Fenomeni che interruppero il ciclo economico e devastarono il tessuto sociale e umano della civiltà da cui la nostra storia trae tanta origine. Le stagioni della Terra sono state scandite da grandi eventi naturali. Ancora una volta l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di clima, con un rapporto di dimensione inusuale, ha suonato il gong ai sordi governanti della Terra. Ci ha ricordato che sono a repentaglio, per via dell’impressionante riscaldamento globale in corso, le risorse che la nostra specie ha considerato naturale fossero a disposizione: l’acqua, la terra da coltivare, quella dove abitare. Pochi giorni fa centinaia di studiosi italiani hanno sottoscritto un appello dell’Istituto di Scienze della vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa in cui si dice testualmente: “Gli scenari futuri “business as usual” (cioè in assenza di politiche di riduzione di emissioni di gas serra) prodotti da tutti i modelli del sistema Terra scientificamente accreditati, indicano che gli effetti dei cambiamenti climatici su innumerevoli settori della società e sugli ecosistemi naturali sono tali da mettere in pericolo lo sviluppo sostenibile della società come oggi la conosciamo e, quindi, il futuro delle prossime generazioni”. Sembra poco? Basta aprire le finestre e, insieme, gli occhi. Abbiamo vissuto il luglio più caldo nella storia dell’umanità, i fenomeni atmosferici violenti conosciuti in una zona temperata come l’Italia hanno prodotto, secondo Coldiretti, 14 miliardi di danni all’agricoltura. A Parigi si raccolgono in agosto le foglie dagli alberi, stremati dal caldo, in Siberia bruciano i boschi e in Groenlandia si sciolgono, in un giorno, 12 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Ad Anchorage, in Alaska, sono stati raggiunti i 32 gradi di temperatura, quando la media storica del periodo è 18 gradi. L’Ipcc dell’Onu, che raccoglie studiosi di tutto il mondo ci dice che il riscaldamento della Terra, al ritmo al quale siamo, porterà spaventosi problemi di approvvigionamento idrico. Per essere chiari: il rischio che si presenta, a breve, è quello della rottura del ciclo alimentare. La Terra è da anni, ormai, sotto il dominio di una condizione ambientale sfuggita al controllo. I fenomeni sono violenti. I dieci anni più caldi degli ultimi 132 sono tutti racchiusi in un periodo che va dal 1998 ad oggi. Il nostro astronauta Luca Parmitano, che ha visto la Terra da una posizione unica, ha detto: “Negli ultimi sei anni ho visto deserti avanzare e ghiacci sciogliersi. Spero che le nostre parole possano allarmare davvero verso il nemico numero uno di oggi”. Scienziati, astronauti, meteorologi ci indicano il pericolo numero uno. Ma noi, come il capitano Smith del Titanic, “andiamo avanti, tranquillamente”. Perché la nostra vita pubblica è seminata di mille paure, ma non della più grande. Forse perché questa paura postula una risposta globale, non nazionalista, non sovranista. Infatti solo se le nazioni della Terra si accorderanno sulla limitazione delle emissioni in atmosfera, il mondo si salverà. Si parla ogni giorno di migrazione, si passano settimane a discutere di quarantadue esseri umani su una barca. E ci si dimentica che, dal 2008 al 2015, duecento milioni di esseri umani sono sfollati per ragioni ambientali. Ci sono isole inghiottite dal mare, villaggi inondati o travolti dal fango. Rischiano le coste dell’America ricca, non solo le zone povere. Quasi metà dell’umanità vive in aree limitrofe al mare, quelle che saranno più interessate dall’innalzamento delle acque conseguente allo scioglimento dei ghiacciai. Cosa sarà di loro? Come affronteremo la migrazione di poveri e ricchi? In un film di qualche anno fa si prediceva la glaciazione degli Usa e la fuga degli americani verso sud, alle frontiere col Messico. Frontiere che, per beffa, si immaginava fossero tenute chiuse... Il presidente brasiliano Bolsonaro dice di aver ripreso l’abbattimento degli alberi nella foresta amazzonica perché questo è un fatto che riguarda solo il Brasile e che il mondo si deve fare gli affari suoi. Non è la strada giusta. Nulla come l’ambiente infatti è sistemico, interdipendente, globalizzato. E, più dei dazi che stanno deprimendo l’economia mondiale, i potenti della Terra dovrebbero dar vita a un grande piano pubblico di riconversione ecologica dell’economia. Questa scelta potrebbe essere il driver di una nuova fase espansiva. Una scelta prodotta dalla paura genererebbe, per una volta, crescita economica, lavoro qualificato e salvaguardia del nostro bene più prezioso. Dovremmo sempre ricordare un saggio proverbio indiano che dice: “Solo quando l’ultimo albero sarà abbattuto e l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, ci renderemo conto che non possiamo mangiare il denaro”. La Giornata internazionale dei popoli nativi: Amazzonia sempre più a rischio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 agosto 2019 A maggio Amnesty International aveva denunciato i pericoli, per l’Amazzonia e per i popoli nativi che vi abitano, derivanti dalle nuove politiche adottate in Brasile dall’amministrazione Bolsonaro. Oggi, Giornata internazionale dei popoli nativi, l’organizzazione torna a parlare nuovamente di Amazzonia, ma della parte di foresta che si trova in Ecuador. Lo fa attraverso storie coraggiose di donne che difendono i diritti delle loro terre ancestrali. Come Patricia Gualinga, leader del popolo Kichwa della comunità di Sarayaku, in Ecuador. Patricia sta difendendo il suo popolo e il suo diritto a vivere in un ambiente sano dal grave impatto dell’industria petrolifera. Lo sorso anno uno sconosciuto ha lanciato pietre contro l’abitazione in cui era in affitto. Sono seguite urla: “La prossima volta ti uccidiamo”. Dopo l’attacco, il proprietario le ha intimato di lasciare l’appartamento. Poi c’è Nema Grefa, di origine Sápara. Nema era a capo della sua comunità, ma ha perso il suo ruolo per l’opposizione di un gruppo di persone favorevoli all’insediamento dell’industria petrolifera nel territorio. Salomé Aranda è la leader delle donne e della famiglia in una comune della provincia di Pastaza. Ha denunciato pubblicamente i potenziali impatti ambientali dell’industria petrolifera nel territorio in cui vive, nonché i casi di violenza sessuale contro le donne native. Anche nel suo caso, l’abitazione familiare è stata colpita da pietre lanciate da sconosciuti. Nonostante abbia presentato un reclamo formale, le autorità non hanno messo in atto nessuna misura di protezione per prevenire altri eventuali attacchi. Anche Margoth Escobar ha dedicato la sua vita alla difesa dell’ambiente e ai diritti dei popoli indigeni. In passato, è stata attaccata fisicamente da agenti di polizia mentre partecipava a una protesta e a uno sciopero nazionale. Più di recente ha perso tutte le sue cose nell’incendio doloso della sua casa. Ha presentato denuncia ma gli aggressori non sono ancora stati identificati. Queste e altre donne dell’Amazzonia stanno rischiando la vita per proteggere la più grande foresta pluviale del mondo, sfidando gli enormi interessi politici ed economici di numerose industrie. Da oltre un anno le autorità dell’Ecuador non sono riuscite a proteggerle né a identificare i loro aggressori. Non intendono arrendersi ma hanno disperato bisogno di protezione. Dove la marijuana è legale crollano le vittime per overdose Il Dubbio, 9 agosto 2019 Meno 20% di decessi nell’ultimo anno per l’uso di oppiacei come il fentanyl e la stessa eroina che solo nel 2017 hanno ucciso oltre 47mila persone. Laddove negli Stati Uniti la cannabis ricreativa è legale si è registrata almeno una riduzione del 20% dei decessi per overdose da oppioidi. Lo dice uno studio pubblicato ieri. Gli oppiacei hanno ucciso 47.600 persone nel 2017 negli Stati Uniti, secondo i Centers for Disease Control (Cdc). Anno in cui l’epidemia fu dichiarata “emergenza sanitaria pubblica” dal presidente Donald Trump. La marijuana, legale in 34 Stati e a Washington per uso terapeutico, è ricreativa in dieci di questi Stati, così come nella capitale degli Stati Uniti (e in gennaio in Illinois). Confrontando i tassi di decessi per overdose prima e dopo la legalizzazione e tra gli Stati nelle diverse fasi del processo di legalizzazione, gli autori di questo studio pubblicato sulla rivista Economic Inquiry hanno determinato un effetto causale “molto forte” nel calo di mortalità correlata agli oppiacei. Questo calo è tra il 20 e il 35%, secondo la loro analisi econometrica, con un effetto pronunciato per i decessi causati dal consumo di oppiacei come il fentanil, la droga più letale negli Stati Uniti. Tutti gli Stati sono colpiti dall’ascesa dell’epidemia di oppiacei, dice Nathan Chan, economista dell’Università di Amherst e autore principale dello studio. “È solo che quegli Stati che hanno legalizzato non sono influenzati negativamente come quelli proibizionisti” “Cannabis legalizzata”. Il Lussemburgo ci prova di Sara Mauri Il Giornale, 9 agosto 2019 Proposta per regolare vendita e consumo anche per l’uso ricreativo. Ma non ai turisti. Etienne Schneider, ministro dell’Economia e della Salute del Granducato di Lussemburgo - uno dei principali sostenitori della cannabis legale - ha parlato chiaro. “Questa politica sulla droga che abbiamo avuto negli ultimi 50 anni non ha funzionato”, ha dichiarato a Politico. Il ministro, infatti, ha confermato i piani per fare del Granducato il primo Paese europeo a legalizzare totalmente la produzione e il consumo di cannabis. Il 30 luglio, in un’altra intervista a Le Quotidien, poi pubblicata sul sito del governo del Granducato già ne parlava: “Félix Braz (ministro della Giustizia) e io presenteremo un progetto in autunno al Consiglio di governo relativo alla legalizzazione della cannabis ricreativa”. Il ministero della Salute, a detta di Schneider, dovrebbe presentare la proposta di legge entro la fine dell’anno per consentire ai residenti al di sopra dei 18 anni di età di acquistare legalmente la droga per uso ricreativo. L’obiettivo è che diventi legge entro due anni. Attualmente, il Granducato consente la cannabis terapeutica. Acquistare, vendere e coltivare rimangono illegali. Legalizzare la cannabis a livello burocratico è difficile. È necessario anche creare un intero mercato regolamentare con tasse e controlli. Per vedere come fare, Schneider ha visitato il Canada. In base alla legislazione proposta da Schneider e dal ministro della Giustizia Félix Braz, il Lussemburgo potrebbe legalizzare l’intero mercato: dal rilascio di licenze per la produzione alla legalizzazione del consumo, in una struttura altamente regolamentata. La coltivazione in casa resterebbe vietata. La proposta di legge prevede anche il divieto di acquisti da parte di non residenti, per evitare lo spauracchio del turismo della droga. Etienne Schneider, dice che i giovani stanno già ottenendo erba sul mercato nero, entrando in contatto con spacciatori di droga che forniscono cannabis di qualità sconosciuta e ottenendo l’accesso a droghe potenzialmente pericolose e di qualità scadente. L’erba magica si può già fumare nei coffee shop di Amsterdam, anche se tecnicamente è illegale produrre, possedere, vendere, importare ed esportare droghe. La maggior parte dei Paesi europei sta ancora cercando di regolamentare la cannabis terapeutica. E se altri Paesi i occupano delle regole per la cannabis per la salute, il Lussemburgo vuole diventare il primo nell’Ue a legalizzare l’erba per uso ricreativo, rendendo la cannabis completamente legale. “La pressione sociale sarà così elevata che se si dispone di legalizzazione in uno degli Stati membri dell’Ue, presto questo verrà discusso seriamente in altri”, ha dichiarato Schneider. Stati Uniti. Cosa significa vivere in una cella d’isolamento di Andrea Sparacino Internazionale, 9 agosto 2019 Tony Medina è un uomo educato, robusto, con le braccia completamente tatuate. È vestito di bianco, come tutti i detenuti del carcere Allan B. Polunsky Unit. Gli edifici della prigione, bassi e grigi, ospitano 214 condannati a morte. Ammanettato, legato a uno sgabello e con la cornetta in mano, nella stanza per le visite Medina si sente in vacanza. C’è silenzio, fatta eccezione per il rumore delle porte di metallo. C’è l’aria condizionata e soprattutto una lastra in plexiglass attraverso cui si può vedere il viso di un altro essere umano. Il 31 dicembre del 1995, durante i festeggiamenti per l’ultimo dell’anno, Medina sparò da un’auto in corsa e uccise due bambini. All’epoca aveva 21 anni. Fu condannato nel 1996 e da allora aspetta l’esecuzione. In Texas la pena di morte si applica alle persone ritenute colpevoli di crimini efferati e considerate una minaccia per gli altri. “Il mio primo ricordo del braccio della morte” è un assordante muro di rumore, racconta Medina. “Porte che sbattono, acciaio contro acciaio. Le prigioni sono fatte d’acciaio e cemento. Tutto rimbomba, continua a rimbombare, senza fine”. La prima notte in carcere l’ha trascorsa in un’ala completamente buia, piena di detenuti che urlavano. Un’esperienza sconvolgente. “Era un frastuono fatto di urla e colpi, moltiplicati all’infinito”. All’inizio Medina divideva la cella con altre persone, ma nel 1998, dopo un tentativo di evasione da parte di alcuni detenuti, tutti gli uomini nel braccio della morte sono stati messi in isolamento. Per Medina è un’agonia: “Non sono stato condannato all’isolamento. Sono stato condannato a morte”. Da quel giorno e per i successivi 19 anni, Medina è rimasto da solo 23 ore al giorno, chiuso dentro a una scatola di cemento di due metri per tre. I secondini gli passano i vassoi con il cibo attraverso una fessura nella porta. Se sale in piedi sul letto può guardare attraverso una piccola finestra per l’areazione, vicina al tetto. “C’è gente che passa la giornata così”, spiega. Lui non lo fa mai: “Non voglio guardare quello che non posso toccare”. Quasi ogni giorno gli spetta un’ora d’aria in un cortile. Anche lì è da solo. In cella legge (al momento una serie sui survivalisti), scrive e a volte dipinge. Parenti e persone che fanno volontariato - soprattutto donne europee - gli fanno visita e gli mandano messaggi. I carcerati gridano uno contro l’altro, da una cella all’altra. Il Texas, diversamente da altri stati, nega ai prigionieri in isolamento qualsiasi contatto fisico. Fanno eccezioni le frequenti ispezioni corporali da parte dei secondini. L’ultima volta che Medina ha toccato un parente era il 1 agosto del 1996, quando ha abbracciato sua madre. Negli altri stati che prevedono la pena di morte, e nelle prigioni federali, le regole sono meno severe. In molti casi, i detenuti più giovani e quelli che soffrono di disturbi mentali sono fatti uscire dall’isolamento. Il Texas detiene il record nazionale per il numero di carcerati in isolamento (quattromila nel 2017), ma sta cercando di ridurne il numero. Secondo un rapporto pubblicato nel 2018 dal centro studi Liman dell’università di Yale, l’anno prima negli Stati Uniti c’erano 61mila detenuti in isolamento, di cui 1.950 da più di sei anni. Oggi sono probabilmente di meno. Medina è convinto che il Texas imponga l’isolamento ai condannati a morte solo per vendetta, non per ragioni di sicurezza. Definisce la sua condizione una “tortura violenta e disumana”, uno strumento di “intimidazione per far crollare mentalmente una persona” prima di ucciderla (in Texas un condannato a morte attende in media undici anni prima di essere giustiziato. L’attesa più lunga mai registrata è di 31 anni). È difficile dargli torto. Secondo Dennis Longmire, docente all’università di Sam Houston nella vicina Huntsville, tenere una persona per tanto tempo in isolamento è costoso e inutile. Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno condannato ripetutamente questa pratica. Longmire ha testimoniato in quaranta processi, ripetendo che in generale i detenuti più anziani non sono violenti nei confronti degli altri. E ricorda che quando ha visitato il braccio della morte lo ha trovato assordante e sgradevole. Non sorprende che molti secondini chiedano il trasferimento. Diversi detenuti soffrono di disturbi mentali. Alcuni finiscono per suicidarsi. Medina racconta che un suo vicino di cella - un uomo “forte” - dopo 15 anni non ce l’ha più fatta. Le persone sviluppano problemi psichici a causa dell’isolamento e della deprivazione sensoriale, maturando un’ossessione per quella che considerano una persecuzione contro di loro. Per 17 anni a chi si trovava all’Allan B. Polunsky Unit è stato negato il permesso di comprare un tagliaunghie. Ancora oggi è proibito decorare le mura delle celle. Spesso i condannati alla pena di morte crollano mentre aspettano l’esecuzione. Quando qualcuno è scortato verso l’iniezione letale - spesso opponendo resistenza - la situazione può diventare caotica. Da quando è in carcere, Medina ha contato 437 esecuzioni in Texas, incluse quelle “di uomini che consideravo come fratelli”. Per lui è particolarmente doloroso ascoltare i secondini chiacchierare e scherzare mentre un condannato viene portato via. Molti hanno problemi gravi. Un detenuto dell’Allan B. Polunsky Unit, Andre Thomas, si è strappato gli occhi e ne ha mangiato uno. Medina parla in modo articolato e misurato, ma ammette che l’isolamento ha conseguenze pesanti. A volte ha improvvisi scatti di rabbia - che definisce positivi - nei confronti “del sistema”: “Per non impazzire mi dico che devo provare rabbia verso le persone che mi hanno chiuso qui”. La rabbia l’ha aiutato “a costruire molti muri, altissimi, nella mia testa”, ma “non è molto salutare” perché “può mangiarti vivo”. Medina sa che molte persone detenute in Texas, una volta scarcerate, non sono riuscite ad avere rapporti con gli altri. Le sue parole ricordano quelle di Albert Woodfox, tenuto in isolamento in un carcere della Louisiana per quarant’anni prima di essere scarcerato nel 2016, a 69 anni. Di recente Woodfox ha pubblicato il libro Solitary, dove scrive che “la battaglia contro la pazzia non finisce mai” e ammette di aver distrutto il proprio “sistema emotivo” per sopportare l’isolamento. Il punto non è se punire i colpevoli (Woodfox, tra l’altro, è riuscito a dimostrare di essere stato condannato ingiustamente). Il punto è se gli Stati Uniti possano trattare così qualcuno, anche i peggiori criminali. “Penso che la nostra situazione sia paragonabile a quello che succede in Cina, in Arabia Saudita o in Iran. Siamo come loro”, sottolinea Medina. “Gli esseri umani non dovrebbero essere isolati in questo modo”. Messico. La folla li strappa a forza alla polizia e li impicca in piazza di Sara Volandri Il Dubbio, 9 agosto 2019 Feroce linciaggio nella città di Tepexco. Un linciaggio così brutale e selvaggio che fa correre la mente al passato più cupo, all’epoca del far west, del brigantaggio, della giustizia sommaria, alla vendetta privata, quella delle torce e dei forconi. È accaduto in Messico dovec inque presunti rapitori, tra cui un minorenne, sono stati impiccati da una folla di circa 200 abitanti della città rurale di Tepexco nello Stato di Puebla (nel centro del Paese), a circa 1620 chilometri dalla capitale Mexico city. Ecco la ricostruzione dei fatti presentata da un esponente del governo locale: quando due uomini avrebbero rapito un contadino la polizia della zona è riuscita a fermarli mentre erano in fuga, li ha arrestati e portati in commissariato per gli interrogatori. E invece le cose hanno preso una piega decisamente più noir. Gli abitanti del villaggio, dopo aver chiuso gli accessi della città, hanno sequestrato i due uomini senza che la polizia fosse in grado di impedirlo. Altri due uomini, tra cui un minorenne, sono stati trovati nascosti in uno scantinato e immediatamente catturati perché ritenuti complici dei rapitori. Un quinto individuo, che è andato alla polizia locale per chiedere notizie dei presunti rapitori, è stato anche egli catturato dagli abitanti del villaggio. “Le autorità hanno attivato i protocolli, ma la popolazione ostileaccettato il dialogo e in seguito ha privato le persone detenute della loro vita”, ha dichiarato Fernando Manzanilla, segretario dell’Interno di Puebla. I cinque sospetti sono stati impiccati nella piazza della città senza che la polizia locale o la guardia civile intervenissero perché temevano che la situazione potesse degenerare nella guerriglia urbana, ha aggiunto Manzanilla. Un altro uomo, un automobilista che stava transitando in zona, è invece rimasto ucciso durante le fasi della cattura dei primi due presunti rapitori da parte della polizia. “Le persone sono stanche dei continui episodi criminali, hanno perso la fiducia nelle autorità, è un problema del Paese, è un problema dello Stato”, ha concluso sconsolato Manzanilla. In quest’anno sono già 16 le persone uccise in linciaggi mentre altre 209 sono state salvate nel corso di svariati tentativi di pestaggio, impiccagione e altre barbari esempi di esecuzioni sommarie. Cina. I figli degli uiguri internati vengono abbandonati a se stessi di Xiang Yi bitterwinter.org, 9 agosto 2019 Testimonianze di cinesi sulle condizioni di vita degli “orfani” dello Xinjiang: vivono in strada al freddo, controllati da compagni di classe e insegnanti perché sospettati di terrorismo. Il cuore di diverse persone è stato toccato dal destino che tocca agli “orfani” uiguri, ossia i bambini i cui genitori sono internati nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang. Molti di loro sono ospitati in orfanotrofi e in altre strutture di accoglienza più simili a carceri che a luoghi in cui i bambini possano vivere ed essere istruiti. Altri, anche piccoli, sono stati abbandonati e costretti a badare a se stessi mentre le autorità ne “deradicalizzano” e “istruiscono” i genitori. Il futuro di questi bambini, a cui sono negati le cure e l’affetto dei genitori, e che sono privati del proprio ambiente culturale venendo costretti a studiare solo in cinese mandarino, è triste e incerto. Bitter Winter ha raccolto le testimonianze di un insegnante e di alcuni studenti dello Xinjiang circa le loro esperienze con i bambini i cui genitori sono detenuti nei campi di concentramento. Un ragazzo di otto anni si congela in strada - Una maestra elementare ha raccontato a Bitter Winter di quando, l’anno scorso, in una fredda giornata di novembre, ha visto in strada un ragazzino uiguro di circa otto anni che indossava una giacca estiva e che quindi tremava di freddo mentre, attorno a lui, tutti erano avvolti da maglioni e cappotti pesanti. L’insegnante gli ha domandato: “Hai freddo? Perché sei vestito così leggero?”, ma il ragazzino non ha risposto. La donna quindi gli ha aperto la giacca, restando scioccata nel vedere che, sotto, indossava non meno di quattro camicie a maniche corte più una maglietta a maniche lunghe. Il ragazzino continuava a guardarla con i suoi grandi occhi, senza proferire parola. L’insegnante ricorda ancora la tristezza provata in quel momento: “Nessun bambino deve essere lasciato senza vestiti. Mi ha turbato molto vedere quel piccolo tremare di freddo. I bambini di quella età dovrebbero stare con i genitori, ma a lui quel diritto era negato”. Il ragazzo ha spiegato che nel marzo 2017 il governo ne aveva rinchiuso i genitori in un campo per la trasformazione attraverso l’educazione e che da allora non aveva più notizie di loro. Il ragazzino ha altri due fratelli di cui si prende cura la nonna che soffre di diabete. Per una donna anziana che ha quasi 70 anni e non ha una fonte di reddito la vita è molto dura, così per loro è persino difficile avere cibo a sufficienza e vestiti. Un vicino di casa ha spiegato: “Indossano tutto ciò che possono e la loro casa è un disastro. Nessuno li segue nei loro studi e i loro voti sono molto bassi”. Avevano chiesto un sussidio minimo di sussistenza, ma finora non hanno ricevuto nulla. Così possono solo fare affidamento su un piccolo sostegno economico da parte dei loro parenti. Questa piccola somma di denaro non arriva facilmente perché la maggior parte delle persone fa tutto il possibile per evitare i familiari dei detenuti. Una residente hui ha affermato che lo scorso anno dieci suoi amici sono stati rinchiusi nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione per motivi sconosciuti. Temendo di essere coinvolta la donna non osa avere alcun contatto con le famiglie di quei detenuti. Studenti han assegnati al controllo dei compagni di classe musulmani Uno studente han che frequenta una scuola media nello Xinjiang ha detto a proposito dei suoi compagni di classe musulmani: “In realtà non sono liberi. Quando escono, devono sempre dirlo al loro insegnante e chiedere il permesso di andarsene. Tutti condividono questo: i loro familiari sono detenuti nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione”. Lo studente ha poi aggiunto: “Uno dei fratelli di un mio compagno di classe è stato recentemente mandato in un campo e dopo pochi giorni anche il padre di un altro è stato rinchiuso. Anche se non sono stati internati nei campi gli studenti musulmani vengono strettamente controllati”. Lo studente ha spiegato che la scuola assegna a ogni studente han un compagno di classe musulmano da controllare. Gli studenti chiamano questa pratica “accoppiamento”, mentre l’amministrazione scolastica sostiene che essa ha lo scopo di “imparare gli uni dagli altri e fare progressi insieme”. In realtà tutto ciò serve solo a controllare le azioni e i pensieri degli studenti appartenenti alla minoranza etnica. Lo studente ha poi spiegato che: “Quando sono in classe insegnanti e compagni li tengono d’occhio, altri li controllano nei dormitori così la sorveglianza è incessante. Durante il Ramadan gli insegnanti li tengono d’occhio durante i pasti per assicurarsi che mangino”. Ha anche aggiunto che quando gli studenti musulmani si sentono tristi e vogliono parlare con altri compagni di classe i cui familiari sono detenuti, devono dirlo al loro compagno di classe “accoppiato”. Se non lo fanno possono essere considerati seguaci di “ideologia problematica”. Alla domanda sul perché questi bambini i cui familiari sono stati arrestati debbano essere monitorati, un altro studente han ha spiegato che si ritiene che le famiglie “insegnino loro con le parole e con l’esempio”. Secondo lui le autorità credono che questi bambini abbiano “in testa idee estreme, come per esempio, usare l’esplosivo per uccidere la gente”. È evidente che a causa dell’indottrinamento scolastico questi bambini han stanno già trattando i loro innocenti compagni di classe come potenziali “terroristi”. Niente web né corrente. Kashmir isolato dal mondo: “arrestati 500 attivisti” di Simona Verrazzo Il Messaggero, 9 agosto 2019 Strade deserte e negozi chiusi dopo la fine dello status speciale decisa dall’India. Modi: “Era la base del terrorismo pakistano”. Decine di migliaia di forze governative in pattuglia antisommossa controllano il Kashmir in India, nel quarto giorno di coprifuoco senza precedenti e di blackout delle comunicazioni pressoché totale nella regione. Le strade sono deserte, i negozi chiusi, barricate d’acciaio e filo spinato dividono i quartieri. Un silenzio inquietante viene rotto occasionalmente da un veicolo di sicurezza che sfreccia sulle vie. Le vite di milioni di persone, nell’unica regione a maggioranza musulmana dell’India sono state sconvolte dall’ultimo - e più grave - giro di vite che ha seguito la decisione di Nuova Delhi di revocare lo status speciale di Jammu e Kashmir. Un’iniziativa che il premier indiano motiva così: “Il Kashmir era la base del terrorismo pakistano”. Nel centro di Srinagar, la città principale della regione, pochi pedoni si sono avventurati fuori dalle loro case per passare tra i posti di blocco di filo spinato presidiati da soldati con elmetto in mimetica, armati di fucili e scudi protettivi. I centri commerciali, i negozi di alimentari e persino le cliniche sono rimaste chiuse. In casi precedenti, i negozi avevano aperto le loro porte per alcune ore al giorno dopo il tramonto, in modo che le persone potessero acquistare beni di prima necessità come latte e alimenti per bambini. Non è chiaro se anche in questa occasione i negozi abbiano aperto per la popolazione. Il blackout delle comunicazioni - con i telefoni fissi, i telefoni cellulari e Internet scollegati - significa che le persone all’interno del Kashmir non possono chiamarsi o parlare con amici e parenti al di fuori della regione, e che possono fare affidamento solo alla Tv via cavo e alle radio locali. La polizia e i funzionari paramilitari che applicano le restrizioni hanno dichiarato di non essere a conoscenza della durata del coprifuoco. “Sappiamo solo di quello che sta succedendo nella strada in cui siamo schierati. Non sappiamo come succede nella strada successiva”, ha spiegato un funzionario di polizia nel centro di Srinagar. Nel frattempo le autorità indiane hanno fermato almeno 500 attivisti e politici. Hotel, guest house, edifici privati e pubblici sono stati trasformati in centri di detenzione, denunciano fonti locali citate da India Today. “Esponenti politici sono stati confinati agli arresti domiciliari”, si è limitato a confermare un funzionario di polizia a Srinagar, contattato dall’agenzia tedesca “Dpa”, senza aggiungere altro. Fra le persone arrestate, ci sarebbero gli ex primi ministri Mehbooba Mufti e Omar Abdullah. “Non riusciamo a comunicare con i nostri leader. Queste misure violano i loro diritti fondamentali. Abbiamo ragioni di pensare che tutti i rappresentanti politici locali, anche a livello di quartiere, siano stati fermati”, ha denunciato Hasnain Massodi, deputato del partito di Abdullah. Il Pakistan ha condannato duramente la decisione indiana, anche se ieri ha escluso l’eventualità di una risposta militare. “Stiamo guardando alle opzioni politiche, diplomatiche e legali. Per quanto riguarda una risposta militare, non la stiamo considerando”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Shah Mehmood Qureshi. Intanto, però, Islamabad ha sospeso i collegamenti ferroviari con l’India dopo aver espulso, mercoledì, l’Alto commissario indiano e interrotto le relazioni commerciali con Dehli.