Decreto sicurezza bis, no agli emendamenti del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2019 Le organizzazioni sindacali degli agenti penitenziari sono scontente, mentre si può dire che è stata una piccola vittoria dell’osservatorio carceri dell’Unione delle Camere penali italiane. Parliamo della bocciatura degli emendamenti presentati dal Dap per il decreto sicurezza bis. Tali emendamenti prevedevano la reclusione da uno a quattro anni per il detenuto che venga trovato in possesso di apparecchio radiomobile o di strumento comunque idoneo ad effettuare comunicazioni con l’esterno dell’istituto penitenziario. Prevedeva, inoltre, che tale pena fosse estesa anche per i familiari o conoscenti che detengono o portano con sé all’interno dell’istituto penitenziario tali strumenti di comunicazione. Allo stato attuale, invece, un telefono cellulare è soltanto un oggetto non consentito, alla stessa stregua di tanti altri oggetti che, a seconda dei casi, non sono consentiti dai singoli regolamenti interni. Altra proposta, bocciata, è l’introduzione di ipotesi aggrava per lesioni personali. In sostanza tende ad ampliare il catalogo delle ipotesi aggravate del reato di lesioni personali, inserendo una specifica modifica nell’articolo 576, comma 1, numero 5 bis) codice penale, tesa a sanzionare la condotta lesiva cagionata ai danni di personale in servizio presso un istituto penitenziario. Come se non bastasse, l’altro emendamento prevedeva l’estensione del 4 bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta la concessione di benefici, nei confronti di chi detiene il cellulare. Quando il Dap ha presentato gli emendamenti, c’è stata una feroce critica da parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali, guidato dagli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. I penalisti hanno stigmatizzano le richieste avanzate del Dap, perché “l’introduzione di una nuova fattispecie di reato proprio del detenuto, di una specifica aggravante e di un ampliamento degli ambiti punitivi della condotta, facendo, altresì, rientrare il tutto sotto l’ombrello della ostatività previsto dall’art. 4bis, è, non solo ingiustificato, ma certamente irresponsabile”. Secondo i penalisti questa estensione del 4bis non risponderebbe a criteri di “razionalità giuridica”, oltre a “porsi in evidente contrasto con le indicazioni della Cedu (con la ultima decisione sul caso Viola c. Italia) che invita il legislatore italiano a rivedere, attraverso l’ergastolo ostativo, l’impianto del 4bis Ordinamento penitenziario, che rischia di calpestare la fondamentale funzione risocializzante della pena detentiva”. Queste proposte, secondo i penalisti, non sono servite a superare la crisi del sistema carcere, ma la “normalizzano” e rischierebbero di diventare un “detonatore in una situazione già esplosiva”. Gli emendamenti sono stati comunque bocciati. Ad essere delusi sono le organizzazioni sindacali che avevano contribuito alla proposta. “Con l’approvazione del decreto sicurezza bis - ha affermato il segretario generale del sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo - il Governo dimostra tutta l’incompetenza sul sistema carcerario e sicurezza del nostro paese. Getta la maschera e svela da che parte sta, ossia, con i delinquenti: è non certo dalla parte del personale di Polizia Penitenziaria completamente ignorato come sono state ignorate tutte le nostre richieste per tutelare il lavoro di chi in carcere continua a rischiare la vita, introducendo poche norme tra l’altro di buonsenso”. “Peggiora la condizione nelle carceri”. Antigone presenta il Rapporto di metà anno sossanita.org, 8 agosto 2019 Ciò che emerge è il perdurare dello stato di sovraffollamento. Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. Il Ministero della Giustizia precisa che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che non tiene conto delle sezioni chiuse. Ce ne sono ad Alba, a Nuoro, a Fossombrone e in tantissimi altri istituti. Il carcere di Camerino è vuoto dal terremoto del 2016 ma tutti i posti virtualmente disponibili sono conteggiati. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà alla capienza attuale del sistema penitenziario italiano vanno dunque sottratti almeno 3.000 posti non agibili. A Como, Brescia, Larino, Taranto siamo intorno a un tasso di affollamento del 200%, ossia vivono due detenuti dove c’è posto per uno solo. Nel 30% degli istituti visitati dalla nostra associazione in questi primi mesi dell’anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 mq. per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante. Questo aumento del sovraffollamento, al di là dei luoghi comuni agitati da alcune parti politiche, non è dovuto ad un aumento della criminalità, in particolare quella straniera. Infatti, da una parte, il numero di reati è in costante calo e anche gli ingressi in carcere sono in conseguente diminuzione. Il numero più alto di detenuti si spiega con l’aumento delle durata delle pene, frutto anche delle politiche legislative degli ultimi anni. Gli stranieri in carcere poi, negli ultimi 10 anni, sono diminuiti del 3,68%. Se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%. Dalla nostra osservazione si evidenzia come la vita in carcere stia peggiorando. Questa è fatta di momenti di socialità, di occasioni di dialogo e di crescita culturale, di rapporti con i familiari e con l’esterno. Nonostante questo nel 30% delle carceri visitate non risultano spazi verdi dove incontrare i propri cari e i propri figli. Solo nell’1,8% delle carceri vi sono lavorazioni alle dipendenze di soggetti privati. Nel 65,6% delle carceri non è possibile avere contatti con i familiari via Skype, nonostante la stessa amministrazione e la legge lo prevedano. Nell’81,3% delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. Inoltre alcune recenti circolari hanno previsto dei cambiamenti in peggio poco giustificabili soprattutto nella stagione estiva, quale ad esempio l’obbligo di tenere spenta la televisione dopo la mezzanotte. Non permettere ai detenuti di guardare la tv quando fa caldo, si fatica a prendere sonno e durante il giorno si è sempre stati nella cella a oziare significa contribuire a innervosire il clima generale. In alcuni istituti penitenziari inoltre stanno chiudendo i corsi scolastici e per molti detenuti non sarà possibile frequentarne dal prossimo anno scolastico. Il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Il 2018 fu un anno drammatico e nel 2019, quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani, sono già 27. La soluzione dinanzi a questa situazione di affollamento - e a tutto ciò che questa comporta - non può essere rintracciata nella costruzione di nuovi istituti. Primo perché sarebbe una soluzione a lungo periodo, secondo perché i costi sarebbero elevatissimi e, almeno ad oggi, non sembrano esserci le necessarie coperture finanziarie. Da una analisi di Antigone emerge infatti che, a copertura delle disposizioni dell’art. 7 del Decreto Semplificazione, ci sarebbero circa 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. Inoltre nuove carceri significa rafforzare il personale e le opportunità trattamentali senza le quali questi posti in più servirebbero solo a “stoccare” più detenuti. Anche in questo caso dunque bisognerebbe prevedere ingenti risorse aggiuntive al bilancio dell’amministrazione penitenziaria che, già oggi, è di circa 3 miliardi di euro all’anno. Bisognerebbe dunque investire sulle alternative alla detenzione e nel rendere la custodia cautelare un istituto utilizzato solo nei casi dove essa è realmente necessaria. Sotto questo punto di vista la buona notizia è che rispetto allo scorso anno il tasso di persone presenti in carcere in attesa di condanna definitiva è diminuito di quasi due punti, attestandosi al 31,5%. Un dato però ancora lontano dalla media Europa del 21% circa. Padre Vittorio Trani: “Il carcere non sia l’unica via di rieducazione” di Filippo Passantino agensir.it, 8 agosto 2019 Il cappellano del carcere romano di Regina Coeli, dove sono reclusi i due giovani americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, parla del fenomeno delle dipendenze: “Lontani dalle sostanze stupefacenti, questi ragazzi che vivono storditi possono recuperare l’uso della loro testa”. “Il carcere spezza la dipendenza dalla droga. Ma bisognerebbe trovare, in alcuni casi, altre vie di rieducazione”. Lo afferma padre Vittorio Trani, cappellano del carcere “Regina Coeli”, a Roma, di fronte ai recenti casi di cronaca che hanno visto protagonisti giovani in preda a dipendenze, dall’alcol come dal sesso o dalla droga. È il caso, quest’ultimo, dei due americani, reclusi proprio nel penitenziario romano, con l’accusa di aver ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega. Ma non è il solo. C’era alcol nel sangue del giovane che ha speronato e ucciso due ragazzi su una vespa in provincia di Bergamo, dopo una lite in discoteca. Rubavano per comprare droga, invece, i sei ragazzi della “banda dello spray”, tutti tra 19 e 22 anni, responsabili della strage Corinaldo, in provincia di Ancona, dove tra il 7 e l’8 dicembre dello scorso anno morirono schiacciati dalla calca, in discoteca, cinque adolescenti e una giovane mamma. “I ragazzi con l’ansia della droga sono persone che non capiscono più nulla”, sa bene padre Trani, frate minore conventuale, che - grazie all’esperienza come cappellano del Regina Coeli - si è confrontato con tante storie di dipendenza da sostanze stupefacenti. Soprattutto nei giovani. Una tra le più recenti è quella dei due ragazzi americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere, nei giorni scorsi, a Roma. Al momento che cosa avete fatto per loro? I nostri volontari si sono occupati dei due ragazzi come di tante altre persone, fornendo beni di prima necessità. Quando una persona viene portata qui arriva con quello che ha addosso. Per cambiarsi è necessario che qualcuno gli dia dei vestiti puliti. Prima che la famiglia riesca a ottenere le autorizzazioni per fare arrivare dei beni passa qualche giorno. E chi arriva qui non ha dalla struttura pubblica un aiuto. Nel frattempo, si attiva il nostro volontariato che si fa carico di venire incontro a queste necessità. Lo facciamo per tutti e lo abbiamo fatto anche per questi ragazzi. Per una linea pastorale di rispetto, invece, aspettiamo sempre che siano i detenuti a chiedere un incontro per parlare. Secondo lei, come è possibile recuperare ragazzi che hanno compiuto un delitto efferato come quello del carabiniere ucciso a Roma e che sono dipendenti da sostanze stupefacenti? Ognuno ha una sua storia. C’è chi riesce nella fase successiva a eventi di questo tipo a cominciare un percorso di presa di coscienza, di riflessione. Altri non riescono ad avere questa apertura. Si può dire che il carcere è una specie di osservatorio dei problemi che stanno nella società. Qui approda quel numero ristretto che vive vicende molto tristi legate alla droga e all’alcol, a un sistema di vita. Ma fuori il problema è molto allargato. E cosa si può fare? A livello generale bisognerebbe lavorare per creare una cultura del rispetto di se stessi. I ragazzi sono in balìa di schemi di vita poveri e che li porta a fare delle scelte distruttive. Quindi, bisogna lavorare per creare una cultura che abbia nella proposta cristiana una linea forte, grazie alla quale fare capire cos’è la vita. Ci sarebbe da studiare la famiglia. Una volta in carcere, però, cosa succede? Succede una cosa strana. Io ritengo che il carcere non comunichi opportunità positive, essendo i carcerati privati della libertà e degli affetti. Ma, pur nella stranezza di questa realtà, per chi vive esperienze di alcol e di droga il carcere offre una possibilità straordinaria: quella di trovarsi, anche se forzatamente, lontano dalle sostanze stupefacenti. Questi ragazzi, che vivono storditi, possono recuperare l’uso della loro testa. Non per tutti, ma per molti nasce l’opportunità di una riflessione. Riescono a scoprire che si sono dati la morte da sé, seguendo quello schema. Si apre quindi per alcuni un momento di riflessione molto forte. E chi sta loro vicino deve impegnarsi perché riescano, nel rispetto massimo della persona, a compiere un tempo della semina di proposte positive. C’è un esempio che può indicare in questa direzione? Ricordo un elettricista di 27 anni che ha finito per far uso di cocaina. All’inizio per divertimento, poi ne è diventato schiavo. Adorava i genitori, si è trovato, in balia della cocaina, a maltrattarli, a picchiarli, a chiedere loro soldi per comperarla. Quando è entrato in carcere, questo ragazzo ogni giorno si batteva la testa al muro chiedendosi come avesse potuto fare. E aveva iniziato, in questa fase di carcerazione, un percorso per chiedere perdono ai propri genitori. Dopo essersi interrogato del perché fosse finito lì, ha avviato un cammino a tappe per ritrovarsi. Nel carcere, grazie alla lontananza dalla droga, aveva acquisito la chiarezza del baratro in cui era caduto... Ciò succede a più di qualche ragazzo. Non è un fatto che riguarda tutti, ma più di qualcuno. Lo psicologo, il sacerdote e il volontario, il personale stesso devono sapere stare vicini a questi ragazzi. Si sono verificati episodi di persone che hanno giudicato positivo anche il momento in cui sono finite in carcere, perché, da lì, sono riuscite a ricominciare? Mi è capitato spesso di sentire ragazzi che hanno detto: “meno male che mi hanno arrestato perché stavo andando veloce verso la fine”. Quindi, la carcerazione è anche letta come una specie di mano provvidenziale che li ha fermati. Un giorno, incontrai nel corridoio un operaio che avevo conosciuto mentre faceva lavori su un terrazzo. Mi raccontò che la carcerazione lo aveva svegliato dal suo sonno. Si era innamorato di una ragazza in un night. Andarono a vivere assieme. E lei cominciò a chiedergli soldi. Lui vendette la macchina, la casa. Quando non aveva più nulla da darle, la ragazza gli disse che aveva usato tutti quei soldi per comprare la droga e che, se avesse voluto stare ancora con lei, doveva fare il corriere della droga. E lui ringraziava Dio che la prima volta che prese il primo pacchetto di droga fu arrestato dai carabinieri. Questa vicenda dice come, in alcuni casi, la carcerazione possa avere permesso ad alcune persone di evitare qualcosa di peggio. Come si può far fronte, invece, alle ferite lasciate dal carcere, in termini di solitudine e isolamento? Il carcere è uno status di ‘semi-mortè per una persona, perché la priva di libertà, dell’esercizio del mondo affettivo. Diventa una situazione che lede la dignità di persona. In generale, lascia ferite molto profonde. Anzitutto, il fatto di essere stati in carcere per la società in cui viviamo è un’etichetta, a prescindere dall’innocenza. Noi dovremmo un po’ recuperare, come cittadini, uno stile di giustizia dove al primo posto mettere la dignità della persona. Figli dei detenuti: il Prap Toscana-Umbria sottoscrive protocollo su genitorialità di Marco Belli gnewsonline.it, 8 agosto 2019 La tutela e la promozione dei diritti dei bambini e degli adolescenti figli di persone sottoposte a misure detentive. È questo l’obiettivo del protocollo d’intesa che Antonio Fullone, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Toscana e Umbria, ed Edy Marruchi, presidente dell’Associazione di Promozione Sociale (Aps) “Girotondo intorno al sogno”, hanno sottoscritto questa mattina. L’Aps è costituita da un gruppo di volontari che portano avanti un’opera di sensibilizzazione e prevenzione sociale sulle problematiche più diffuse nell’infanzia e adolescenza e che hanno già operato con ottimi risultati negli istituti penitenziari toscani di Massa e Arezzo. Psicologi, psicoterapeuti, psicomotricisti, osteopati, fisioterapisti, logopedisti, pedagogisti, educatori e operatori in attività quali pet therapy e musicoterapia, tutti coinvolti a livello di volontariato e insieme alle istituzione locali, alle famiglie e agli insegnanti, nonché ad altri professionisti come pediatri, dentisti e altro, per promuovere un’efficace rete di collaborazione sul territorio. I progetti promossi saranno dedicati ai ragazzi e ai bambini che hanno un genitore in carcere, ai loro genitori o accompagnatori, nonché al personale penitenziario che accoglie i bambini e gli adolescenti e saranno realizzati tenendo conto delle peculiarità di ciascun istituto penitenziario coinvolto. I progetti previsti dall’intesa regionale si articoleranno in tre fasi: - la prima, riguardante il lavoro col personale del penitenziario, consistente in incontri di professionisti di Aps finalizzati alla condivisione di informazioni utili ad accogliere i bambini nel modo meno traumatico possibile, nel rispetto delle regole e delle esigenze di controllo che la struttura richiede al momento dell’ingresso e dell’uscita degli ospiti; - la seconda fase, relativa al lavoro con i minori, è dedicata all’incontro di professionisti di APS con un gruppo di bambini o ragazzi al momento dell’ingresso in carcere per la visita al genitore; - la terza e ultima fase, dedicata al lavoro con i genitori e relativa da una parte a sensibilizzare il genitore non recluso all’importanza che riveste la sua parola e il suo atteggiamento nella lettura che il bambino dà di ciò che accade e, dall’altra, volta a permettere al genitore recluso di riappropriarsi del suo ruolo nella relazione col figlio da un punto di vista emotivo, psicologico, affettivo e educativo. Il protocollo d’intesa avrà una durata di due anni e potrà essere rinnovato fra i sottoscrittori. Truce sicurezza di Maurizio Stefanini Il Foglio, 8 agosto 2019 I gravi difetti e i profili di incostituzionalità del decreto. Parla il segretario delle Camere penali. “Pesanti profili di incostituzionalità a parte, se ne poteva sicuramente fare meno”. Non c’è niente da salvare in questo decreto Sicurezza, secondo il segretario delle Camere penali italiane Eriberto Rosso. “Si prevede una sorta di competenza esclusiva del ministro dell’Interno in materia di attracco nei porti. Il ministro ha solo l’onere di avvertire il presidente del Consiglio di concerto con Infrastrutture e Difesa, ma sostanzialmente l’iniziativa è sua. Ciò la dice lunga sul diverso posizionarsi anche delle prerogative in via amministrativa. Si introducono poi queste fattispecie, sia pure contravvenzionali, che stabiliscono sostanzialmente il principio di un divieto di soccorso in mare: punito con sanzioni economiche e nel caso di recidiva anche con la confisca del mezzo navale con il quale quella operazione è stata gestita”. Secondo Rosso, il focus sul dibattito sull’immigrazione rischia di far trascurare altri aspetti egualmente gravi. “Si prevedono addirittura nuove fattispecie di reato fuori dal Codice penale, aggravando il quadro delle incriminazioni della vecchia legge Reale per determinare l’aggravamento e la punibilità di fatti che accadano in occasione di pubbliche manifestazioni o di manifestazioni sportive. Anche ciò dà il segno del non voler affrontare i temi sul piano della politica, ma solo su quello della repressione penale. Si intravedono addirittura meccanismi di impossibilità di bilanciamento tra attenuanti e aggravanti da parte del giudice! Un atteggiamento di sfiducia nei confronti della giurisdizione, che rivela chiaramente un disegno autoritario”. Insomma, “si apriranno scenari di complicazione di tutta la materia. Non di semplificazione come invece nella vulgata viene rappresentato”. È un decreto cucito apposta attorno a Salvini per permettergli di risolvere i problemi che aveva iniziato a suscitare il suo modo di agire? “Certamente c’è anche questo aspetto. L’accentramento di prerogative “risolve”, tra virgolette, quelle conflittualità che si erano manifestate. C’è un ulteriore profilo di incostituzionalità dello strumento decreto, perché la decretazione è una modalità con la quale si opera nel caso di un tema per il quale siano previsti interventi di necessità e urgenza. Qui le materie sono assolutamente eterogenee. E quindi in realtà è un modo per privare il Parlamento della possibilità di una discussione reale”. Questo modo di intervenire sembra però popolare... “Siamo perfettamente consapevoli del fatto che il nostro paese sta attraversando un momento molto complicato e molto strano sul piano della sensibilità democratica Per questo non vogliamo limitarci alla testimonianza. Abbiamo assunto una iniziativa credo importante e significativa anche sul piano culturale oltre che sul piano giudiziario, per dare corpo al Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Vogliamo riaffermare quella cultura dei diritti che oggi sicuramente non è patrimonio della maggioranza della nostra società, salvo poi l’indignazione per la mancanza di tutele quando la vicenda giudiziaria riguarda il cittadino direttamente. È inquietante che in quest’ultimo periodo vi siano dissennate critiche non a una singola sentenza, il che è assolutamente legittimo, ma al giudice che magari ha riconosciuto delle attenuanti. O che sia attaccato l’avvocato difensore in un certo processo che ha avuto un impatto mediatico, anche per la gravità obiettiva del fatto penale oggetto dell’accertamento”. Questo però viene da lontano. Non inizia con la buriana di Tangentopoli? “Certamente. Populismo e giustizialismo sono cattivi compagni di strada che portano poi su discese che non si sa mai dove finiscono”. C’è però in Italia una certa sinistra che adesso meritoriamente si oppone, ma che in qualche modo ha cavalcato questa escalation che le si ritorce contro. “Non c’è dubbio. Poi al peggio non c’è mai fine, ma è necessario che la politica ripensi a tutto questo. Altrimenti rischiamo di ritrovarci in un tessuto culturale molto, ma molto più involuto”. Decreto sicurezza bis, la Corte costituzionale lo boccerà di Francesco Pallante Il Manifesto, 8 agosto 2019 Intervenendo su questo giornale (il manifesto, 6 agosto), Sergio Moccia ha argomentato con grande chiarezza l’inconsistenza giuridica delle misure contro le Ong contenute nel secondo decreto Salvini. Salvare i naufraghi conducendoli in un porto sicuro è un dovere che discende dal diritto internazionale, consuetudinario e pattizio: fonti del diritto che nel nostro ordinamento acquisiscono rango costituzionale in virtù degli articoli 10, comma 1, 11 e 117, comma 1, della Costituzione. Qualsiasi legge si ponga in contrasto con tale dovere è, in quanto di rango subordinato, incostituzionale e, di conseguenza, soggetta ad annullamento da parte della Corte costituzionale. Così per il primo decreto come per il Salvini bis. Si può dire di più - come fa Moccia: ostacolare l’adempimento del dovere di salvare i naufraghi (trarli a bordo, dirigere verso il porto sicuro più vicino, effettuare lo sbarco: il tutto nei più rapidi tempi possibili) può configurare un comportamento penalmente rilevante, ascrivibile sia a chi concretamente lo pone in essere, sia a chi ordina di farlo. Anche il primo decreto Salvini contiene misure patentemente incostituzionali. Su tutte, la norma che prevede la revoca della cittadinanza nei confronti di chi è condannato per gravi reati di terrorismo, ma solo se si tratta di soggetto che è divenuto cittadino nel corso della sua esistenza (se è stato “naturalizzato”, come si dice con orribile espressione), non anche se cittadino lo è per nascita. Una previsione discriminatoria, che scardina il principio di uguaglianza creando cittadini di serie A e di serie B: di fronte a determinati reati, si vorrebbe che la reazione dell’ordinamento dipendesse non da che cosa è stato fatto, ma da chi l’ha fatto. Impossibile immaginare che l’incostituzionalità di tali misure non sia evidente anche a coloro che le hanno proposte e approvate. Bisognerebbe ipotizzare un livello di ignoranza davvero difficile da raggiungere. È chiaro che siamo di fronte a comportamenti brutalmente cinici e spregiudicati, attraverso i quali i leader dei partiti di maggioranza si spingono politicamente in territori su cui sanno benissimo di non potersi giuridicamente attestare. Il sistema costituzionale è costruito apposta per espungere le norme contrastanti con la Carta fondamentale. Chi dovesse vedersi applicare le norme sopra ricordate chiederà al giudice di sospendere il giudizio e sollevare questione di incostituzionalità, così attivando l’intervento della Corte costituzionale che farà prevalere la Costituzione sulla legge che la contraddice. Così la legge diverrà totalmente inefficace, non potendo più trovare applicazione nemmeno nel giudizio che ha originato la pronuncia di incostituzionalità. Risultato: l’accusato andrà esente da ogni conseguenza per il proprio comportamento e nessuno potrà in futuro essere accusato per la violazione della legge annullata. Anni di reclusione, multe milionarie, confische dei mezzi di soccorso: Salvini e Di Maio possono sbizzarrirsi quanto vogliono: non produrranno che norme incostituzionali destinate a venir meno alla prima occasione. Si tratta, tuttavia, di una magra consolazione. Occorre prendere atto che un nuovo atteggiamento si sta diffondendo tra alcune forze politiche: governare contro la Costituzione. Se un tempo si è lottato sull’interpretazione (più o meno socialmente avanzata) da attribuire alla Carta fondamentale e poi, nella stagione delle riforme, sul contenuto da dare alla Carta stessa, siamo oggi al cospetto di un’azione politica costruita tramite atti volutamente lesivi della Costituzione. Che una legge possa essere incostituzionale è, in una certa misura, nell’ordine delle cose: possono esservi incertezze interpretative o contrasti normativi che solo la concreta applicazione delle norme fa emergere. Ora la situazione è diversa: assistiamo alla violazione dolosa della Costituzione da parte di partiti che agiscono come se la loro volontà legislativa fosse priva di ogni vincolo. È un’evoluzione che può progressivamente erodere la credibilità dell’ordinamento costituzionale. La ferma reazione degli organi preposti alla garanzia della Costituzione - a iniziare dal rinvio presidenziale - è oggi più che mai necessaria. Via l’abuso d’ufficio, l’ultimo duello tra Lega e 5Stelle di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 agosto 2019 È il reato da sempre nel mirino di Matteo Salvini: l’abuso d’ufficio, articolo 323 del codice penale. Anche questa settimana il leader della Lega è tornato a chiederne a gran voce l’abolizione. “Metà degli interventi si sono soffermati sui tempi della giustizia. In tanti operatori, sia del pubblico che del privato, hanno chiesto il superamento di alcune fattispecie come l’abuso d’ufficio e il danno erariale”, ha dichiarato a margine del maxi incontro di lunedì pomeriggio al Viminale con le parti sociali. “Su questo la posizione della Lega è nota - ha poi aggiunto Salvini - queste sono cose che stanno ingessando sia il pubblico che il privato”. Già lo scorso maggio il vice premier, in piena bagarre sulla riforma della giustizia, aveva infatti proposto di cancellare l’abuso d’ufficio dal codice penale, preoccupato dal fatto “che ci sono 8mila sindaci bloccati che non firmano nulla per paura di essere indagati”. I grillini, per bocca di Luigi Di Maio, avevano però subito stroncato la proposta: “Se qualcuno pensa di poter aiutare qualche governatore abolendo il reato, allora troverà non un muro, ma un argine da parte del M5S”. Raffaele Cantone, fino al prossimo mese presidente dell’Anac, chiamato in causa si era mostrato possibilista su una modifica della fattispecie, affermando che “la norma non funziona”. Il reato di abuso di ufficio si verifica quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio nello svolgimento delle sue funzioni procura “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale” oppure “arreca ad altri un danno ingiusto”. Per commettere il reato di abuso di ufficio è necessario agire “in violazione di norme di legge o di regolamento” oppure “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”. L’abuso d’ufficio è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità. Tralasciando l’opinione di Salvini, la discussione fra i giuristi su questo reato è da sempre particolarmente accesa. La norma è stata modifica prima nel 1990 e poi nel 1997. Nel 2012, la legge Severino ha inasprito il trattamento sanzionatorio, inizialmente della reclusione “da sei mesi a tre anni”. Il problema di fondo è la possibilità data al pm di sindacare l’attività, per sua natura connotata di discrezionalità, della pubblica amministrazione. “L’Italia è un Paese che ha 200mila leggi, decine di migliaia di regolamenti di attuazione, decine di migliaia di altre regole applicative delle leggi approvate. Ha un tasso di cambiamento vertiginoso che si aggiunge all’inflazione legislativa”, affermò tempo fa il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, più volte indagato dalla Procura proprio per il reato di abuso d’ufficio. “Bisogna mettersi nei panni di un dirigente di un ufficio appalti di un Ente pubblico e cercate di capire come sia possibile muoversi in questo ginepraio, nel quale il reato di abuso d’ufficio diventa uno di quelli che io chiamo inevitabili”, aggiunse il governatore campano. Lo “spauracchio”, infatti, è determinato dalla famigerata legge Severino che consente di sospendere dall’incarico i politici che vengono condannati anche solo in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione. “Un funzionario o un amministratore che venga condannato in primo grado, si vede il dimezzamento dello stipendio, il demansionamento e lo spostamento a settori non operativi. Si rovina la vita”, sottolineò sempre De Luca. Di questo reato “inevitabile” le vittime sono quanto mai trasversali. È sufficiente ricordare la vicenda del sindaco di Roma, la grillina Virginia Raggi, per l’assunzione di Raffaele Marra, il suo ex capo di gabinetto, o quella del presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, per la nomina di un componente del Nucleo investimenti pubblici. Complice una giurisprudenza non sempre chiara sul punto, per evitare di rimanere anni in balia della magistratura, “l’autotutela” per il pubblico amministratore è, dunque, il non fare nulla. A pagarne le conseguenze, però, non sono i magistrati ma i cittadini. Dalla Giustizia alla Storia, un grande impegno civile di Daraia Bonfietti* Il Manifesto, 8 agosto 2019 In questi ultimi mesi abbiamo ricordato una serie terribile di Stragi di terrorismo, da Piazza della Loggia a Brescia, alla strage di Ustica, alla strage alla Stazione di Bologna e del treno Italicus, con grandi adesioni di parenti, cittadini, istituzioni. Bisogna passare dalle parole ai fatti: spetta dunque alle Istituzioni, all’esecutivo in particolare, mostrare nell’impegno quotidiano effettivo, l’adesione all’appello alla verità, alla giustizia e alla memoria, che è risuonato nelle nostre Piazze. Nei messaggi con i quali il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato questi avvenimenti, è ritornato forte il richiamo all’impegno per una verità che dovrà essere interamente conquistata, per rendere completa l’affermazione della giustizia e perché la ferocia delle stragi diventi parte incancellabile della memoria del popolo italiano e della Storia della Repubblica. Dopo i giorni del ricordo e le commemorazioni sono dunque Giustizia e Storia i nodi che vanno affrontati con grande impegno di tutti a cominciare dalle istituzioni e dal governo soprattutto: da un lato è doveroso chiedere alla magistratura di svolgere appieno il proprio ruolo; per alcune delle tragiche vicende siamo senza responsabili ed è lontana la verità, mentre per altre sono tuttora aperti processi ed indagini. Ad esempio a Bologna, per la strage alla Stazione è in corso un processo per un responsabile e indagini per individuarne i mandanti, mentre a Roma la procura della Repubblica indaga per individuare definitivamente i responsabili materiali dell’abbattimento nei cieli, del DC 9 dell’Itavia. Per quanto riguarda la strage di Ustica è evidente la necessità di un intervento di governo e diplomazia per ottenere la collaborazione di Paesi amici e alleati che debbono rispondere esaurientemente alle rogatorie dei magistrati. E poi il nodo della Storia, e qui deve essere ancora maggiore, se possibile, l’impegno dell’esecutivo, deve essere compiuto un grande sforzo nel reperimento e nella “pubblicazione” delle fonti, che permetta di aprire la via a un impegno forte e determinato per lo studio da parte degli storici. Penso ci sia molto da fare! Proprio agli storici, che stanno denunciando la perdita di ruolo e di importanza, vogliamo rivolgere l’appello affinché diventino davvero protagonisti di una nuova stagione di ricerca sugli anni terribili dello stragismo, fino alle vicende degli anni 80. L’università deve diventare protagonista: a Bologna, ad esempio, su sollecitazione dell’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica e con il finanziamento del Comune di Bologna, l’università si è impegnata a reperire competenze specifiche, ma dovrebbero essere coinvolti anche i vari istituti, a cominciare dalla Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea radunati attorno al nome di Ferruccio Parri. Agli storici deve essere fornita la dovuta documentazione e qui diventa indispensabile l’intervento del governo a cominciare dalla effettiva applicazione e realizzazione della Direttiva Renzi del 2014 che doveva essere la via per la trasparenza e l’accesso a tutta la documentazione appartenente alle varie amministrazioni dello Stato riguardante i più sanguinosi episodi di terrorismo e stragi della storia repubblicana. Le varie Associazioni di vittime ne hanno più volte denunciato i limiti e il sostanziale fallimento perché, al di là delle questioni più prettamente archivistiche, sono proprio i documenti, le carte a mancare, a non essere messe a disposizione. Oggi è al lavoro un nuovo Comitato consultivo presso la presidenza del consiglio, che però si è già scontrato, proprio nel mese di luglio, con la totale chiusura dei Servizi. È necessario impegnarsi maggiormente, è necessario un impegno effettivo da parte del governo che porti ad un cambio di passo sostanziale nell’applicazione della Direttiva, per poter scrivere davvero tutta la Storia delle Stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. *Presidente Associazione Parenti Vittime Strage di Ustica Ilaria Cucchi e il coraggio di mostrare il corpo del reato di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 agosto 2019 Umiliare la persona che ami per avere giustizia. Esporre la foto del cadavere di tuo fratello per scoprire la verità sulla sua morte. È questa la battaglia che Ilaria Cucchi ha deciso di combattere, la guerra che alla fine è riuscita a vincere. Perché Ilaria ha fatto quello che inizialmente non avrebbe mai pensato di dover fare: usare il corpo per scoprire il reato. Lo racconterà il 13 settembre dal palco del Tempo delle donne, festa-festival del Corriere della Sera che si tiene ogni anno alla Triennale Milano. Ricorderà quei primi giorni dopo aver seppellito Stefano, quando non sapeva che fare per scoprire cosa fosse accaduto prima nelle caserme dei carabinieri, poi in tribunale e nel carcere di Regina Coeli, infine all’ospedale Pertini. Fino all’incontro con Luigi Manconi, il parlamentare del Pd che decise di affiancarla e aiutarla. E alla telefonata con l’avvocato Fabio Anselmo, che aveva seguito altri casi analoghi, che le spiegò in maniera forte ma efficace come muoversi. Era il 2009. Dieci anni sono trascorsi, ma recentemente Ilaria è stata costretta a parlare del proprio corpo per smentire il sospetto che Stefano fosse morto perché indebolito dall’anoressia. Quanto basta per comprendere l’odissea di questa donna apparentemente fragile, e invece forte e determinata, che si è fatta carico del dolore della sua famiglia riuscendo a trasformarlo nella sua forza. La telefonata - È un cammino pieno di ostacoli quello che Ilaria Cucchi intraprende quando suo fratello non è ancora stato sepolto. È Manconi a guidare le sue prime mosse, lui che di quanto accade nelle carceri si occupa da sempre e di casi come quello di Stefano Cucchi ne ha seguiti tanti. Nel frattempo Ilaria aveva contattato il legale che già assisteva la famiglia Aldrovandi, determinata a far processare i poliziotti che nel 2005 avevano fermato per strada e poi picchiato Federico, 18 anni, fino a farlo morire. E che le rimarrà sempre accanto. Adesso Ilaria lo racconta quasi con fierezza, ma nel 2009 fa quel consiglio dell’avvocato le era suonato quasi come un oltraggio: “Parlai con Anselmo e lui mi disse “la prima cosa è scattare foto al corpo”. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare”. Ben presto si rese conto che non era affatto così e adesso lo conferma: “Senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque”. La perizia - L’obiettivo di Ilaria era soltanto uno: scuotere le coscienze, mostrare la propria disperazione per avere il sostegno dell’opinione pubblica. L’esibizione delle foto è stata la prima mossa per consentire all’avvocato e agli esperti scelti dalla famiglia, che seguivano ogni passo delle indagini, di avere una voce forte, anche mediatica. Nulla è stato facile, le resistenze, le bugie e le omissioni di chi avrebbe dovuto invece raccontare sin dall’inizio che cosa fosse accaduto erano evidenti. E lei non si è arresa. Il 13 giugno 2019 - alle battute finale del processo-bis in Corte d’Assise, dopo quello rivelatosi sbagliato contro gli agenti penitenziari definitivamente assolti - arriva la dimostrazione che l’esibizione del corpo di Stefano Cucchi avvenuta dieci anni prima è servita. Perché i periti del giudice per la prima volta stabiliscono il possibile nesso di causa-effetto tra le lesioni vertebrali provocate dal pestaggio subito da Cucchi e la sua fine. Vuol dire che non sarebbe morto se le botte prese in quella caserma dei carabinieri, dove fu portato dopo essere stato arrestato e confessate dopo quasi nove anni di silenzi e coperture da uno degli attuali imputati, non avessero fiaccato il suo fisico in maniera irreversibile. La foto e il peso - Ilaria lo racconterà per dimostrare quanto è importante in un’indagine giudiziaria far “parlare il corpo”. Ma anche quanta sofferenza provoca e soprattutto quanta determinazione e forza bisogna avere per andare avanti. Racconterà quello che sono stati questi dieci anni per i suoi genitori, le loro iniziali resistenze a rendere noto tutto, anche il fatto che Stefano fosse uno spacciatore. Svelerà che cosa accade quando in una famiglia normale, abituata ad avere fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti, devi compiere scelte dolorose e rischiose per valicare il muro di omertà. E soprattutto come ha vissuto lei, che ha dovuto a sua volta subire insulti e umiliazioni, ma non ha mai chinato il capo. Anzi. L’ultima volta è accaduto qualche settimana fa, quando si è ricominciato a parlare della possibilità che Stefano fosse morto perché anoressico. E allora lei ha deciso di rendere pubblica una foto che la ritrae pochi giorni prima dell’arresto del fratello. È in costume, in braccio ha la sua bambina. “Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... non me ne sono accorta. Certo se mi avessero pestata violentissimamente...”. “Ergastolo annullato”, così il boss mafioso torna in libertà dopo 23 anni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 agosto 2019 “L’Italia ha violato i patti di estradizione dalla Spagna”. La storia di Domenico Paviglianiti, 58 anni, da ergastolano pluriomicida a scarcerato in via definitiva. Da ergastolano pluriomicida a scarcerato in via definitiva, da boss di ‘ndrangheta con teorici 168 anni da scontare a invece uomo libero, senza più pendenze con la giustizia dopo 23 anni di cella: è una parola data ma non rispettata, è l’aver, l’Italia, promesso alla Spagna ma non mantenuto di non infliggergli l’ergastolo ad innescare la carambola procedurale che spalanca le porte del supercarcere di Novara al 58enne Domenico Paviglianiti, al 41 bis dalla sua estradizione nel 1999 dalla Spagna. Accusato di sette delitti e tre tentati omicidi nella guerra tra i clan Trovato-Flachi e Batti, ricercato per associazione mafiosa e traffico di droga e bazooka, coinvolto nel 1990 nell’assassinio a Tradate (Varese) del figlio Roberto del capo della camorra Raffaele Cutolo (in uno scambio di favori dal quale la ‘ndrangheta ottenne in cambio dalla “Nuova famiglia” di camorra l’uccisione di Salvatore Batti), Paviglianiti viene catturato in Spagna il 21 novembre 1996, ed estradato il 17 dicembre 1999 in Italia a condizione che non gli venga inflitta “una carcerazione a vita indefettibile”, ergastolo all’epoca non previsto in Spagna (che l’ha reintrodotto nel 2015). E infatti ancora il 14 marzo 2006 il ministero della Giustizia italiano si impegna a garantire che l’ergastolo “non implica che i condannati debbano comunque restare detenuti in carcere per tutta la vita, perché possono usufruire in ogni tempo” di benefici quali “permessi premio” (dopo 10 anni espiati), “semilibertà” (dopo 20) e “liberazione condizionale” (dopo 26). Ma una volta estradato in Italia, la Procura generale di Reggio Calabria il 12 luglio 2012 fa scattare per Paviglianiti la norma che applica l’ergastolo a chi abbia più di due condanne superiori a 24 anni (e Paviglianiti, su 9 sentenze, ne ha 4 a 30 anni per altrettanti delitti). Ma soprattutto è “l’ergastolo ostativo” che ai condannati per i gravi reati dell’articolo 4 bis sbarra qualunque beneficio: tanto che, in 23 anni, Paviglianiti esce solo 2 ore - scortato dagli elicotteri - per la morte della madre. Ma non erano questi i patti con la Spagna, eccepiscono dal 2015 i suoi avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori in una matassa di istanze che nel 2018 la Cassazione affida da sbrogliare al gip di Bologna in un “incidente di esecuzione”. E ora il Gip Gianluca Petragnani Gelosi, dopo 10 mesi di riflessione dall’1 ottobre 2018, constata che “le modalità detentive dopo l’applicazione dell’ergastolo abbiano certamente frustrato le aspettative della Spagna nel momento in cui accordava l’estradizione”, e che “è stato violato il principio della buona fede internazionale da parte dello Stato italiano, che alla Spagna doveva dar conto della norma restrittiva dell’art. 4 bis”. Tanto più che il 13 giugno, aggiunge il gip, sull’ergastolo ostativo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E qui comincia l’effetto-domino. L’ergastolo viene via, sostituito dalla massima detenzione temporanea ammessa in Italia, 30 anni, qualunque sia il cumulo di pene (qui 168 anni). Paviglianiti ne ha scontati sinora 23. Ma vanno aggiunti 3 anni e mezzo “fungibili” ad altro titolo, 3 anni di indulto, e 1.815 giorni di “liberazione anticipata” (45 giorni automatici ogni 6 mesi espiati). E così Paviglianiti ha già raggiunto e anzi superato il tetto dei 30 anni. E il giudice deve ordinarne “l’immediata scarcerazione”. Mandato d’arresto europeo: il reato grave non basta per arresto e custodia in carcere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione VI -Sentenza 7 agosto 2019 n. 35812. Nell’ambito del mandato d’arresto europeo, la gravità dei reati non basta per l’arresto dell’estradando e per la sua custodia in carcere, in assenza di un concreto pericolo di fuga. Partendo da questo principio la Cassazione (sentenza 35812) ha accolto il ricorso di un Italiano, contro l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello aveva convalidato l’arresto provvisorio, eseguito dalla polizia penitenziaria della casa circondariale dove il ricorrente si trovava già detenuto, e applicato la misura della custodia in carcere. Il tutto in forza di un mandato d’arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria svizzera, per tre rapine a mano armata, commesse tra il 2017 e il 2018. Il presidente della corte d’Appello aveva dato il via libera alla convalida dell’arresto e delle misure cautelari, considerando esistenti le condizioni per: la gravità del reato, il reale pericolo di fuga e l’assenza di ostacoli all’estradizione. Per la Cassazione però l’urgenza non era motivata, specialmente, riguardo al presupposto rilevante del rischio di fuga, condizione fissata dal Codice di procedura penale. Elementi che mancano nell’ordinanza, annullata con rinvio, dalla Suprema corte, nella quale la Corte territoriale aveva valorizzato la gravità del reato commesso e la necessità di assicurare l’eventuale consegna allo stato richiedente. No al falso per la copia di un originale inesistente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 35814. La falsa copia di un atto inesistente non fa scattare il reato di falsità materiale. A meno che non abbia l’apparenza di un atto originale. Con questo principio le Sezioni unite (sentenza 35814) appianano il contrasto che, sul punto, aveva diviso la giurisprudenza di legittimità, tra i fautori di un orientamento più restrittivo, disatteso dal verdetto di ieri e il principio più elastico. A chiedere lumi alle Sezioni unite era stata, a novembre 2018, la quinta sezione penale chiamata a decidere sul ricorso del Pubblico ministero contro la decisione della Corte d’Appello di assolvere dal reato di falso materiale l’amministratore di una società. Al manager era stato contestato di aver creato la falsa copia di un’autorizzazione edilizia rilasciata dal Comune in favore della società. Un documento “taroccato” che era stato mostrato all’ingegnere, capo dell’ufficio tecnico, da un perito incaricato di valutare un terreno di proprietà, al fine di ottenere un leasing finanziario. Per il “falsificatore” c’era stata la condanna in primo grado, con rito abbreviato, seguita dall’assoluzione in appello. Verdetti contrastanti che rispecchiano la spaccatura tra le due scuole di pensiero. La Cassazione ricorda le due tesi opposte che hanno portato all’ordinanza di remissione. Secondo un primo indirizzo il solo utilizzo della copia contraffatta di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, in “assenza di determinate condizioni, individuate nella presenza di requisiti di forma e di sostanza, tali da far apparire l’atto in fotocopia, come il documento originale o come la copia autentica di esso”. Per la tesi più rigida, invece, per il reato basta “la formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà inesistente, del quale invece, si intendano attestare artificiosamente l’esistenza e gli effetti probatori”. Le Sezioni unite scelgono il primo orientamento. Per i giudici non si può affermare il reato se la falsa fotocopia, di un originale che non c’è, viene presentata come tale. E dunque priva attestazioni utili ad “accreditarla” come un documento reale o una sua estrazione. Neppure quando è così verosimile da ingannare: il comportamento può essere, eventualmente sanzionato come truffa. In virtù della scelta fatta è inammissibile il ricorso del Pm. L’amministratore, infatti, non aveva l’ambizione di far sembrare la sua creazione un originale: il numero non corrispondeva alla cronologia e timbro e modulo erano diversi da quelli usati dal Comune. C’era il solo scopo di ottenere il finanziamento, ingannando il pubblico ufficiale, sull’effettiva esistenza del documento. Cuneo: accusato di omicidio muore suicida in carcere di Lorenzo Boratto La Stampa, 8 agosto 2019 Suicida in carcere al Cerialdo Modesto Barra, boscaiolo, 69 anni, di Gambasca. Unico imputato per la morte di Baldassarre Ghigo, 66 anni, di Fossano, avvenuta il 14 novembre 2015 a Gambasca. Barra si è impiccato nella sua cella a Cuneo l’altro pomeriggio. Era solo in quel momento. L’accusa per lui era di omicidio volontario per un vecchio prestito di decine di migliaia di euro mai restituito. Il processo era quasi terminato di fronte alla Corte d’Assise di Cuneo (l’udienza era fissata tra un mese): doveva ancora essere sentito un testimone, Ionut Aliman, unico presente il giorno del presunto omicidio quando Barra e Ghigo si incontrarono. Del testimone si sono perse le tracce: fra l’altro la Corte di Cuneo aveva disposto che le autorità romene sentissero il testimone, ma pochi giorni fa era stato confermato che l’uomo non era mai più tornato in Romania e non dava notizie ai familiari da tempo. Scomparso. A Gambasca il cadavere di Ghigo fu trovato carbonizzato nella sua utilitaria distrutta da un rogo doloso. Le indagini avevano poi appurato che nell’alloggio di Barra c’erano tracce di sangue del fossanese e nell’auto andata a fuoco c’erano altre tracce di sangue, quello dell’imputato. Barra nel 2018 era stato sottoposto a obbligo di dimora e agli arresti domiciliari notturni, ma spesso “evadeva”. Per questo, su ricorso della Procura generale di Torino, il tribunale della libertà aveva emesso a marzo la misura cautelare della detenzione in carcere: Barra avrebbe potuto commettere altri reati o inquinare le prove. Il boscaiolo si era sempre professato estraneo ai fatti. “Sono innocente” aveva ripetuto durante interrogatori e udienze. Le indagini sono state coordinate dalla Procura di Cuneo e condotte dai carabinieri della Compagnia di Saluzzo insieme al Nucleo investigativo. I pm per due volte avevano chiesto l’archiviazione del caso, istanza sempre contestata dalle sorelle di Ghigo, parte offesa, difese dall’avvocato cuneese Gianmaria Dalmasso, che spiega: “La mole di indizi convergenti sull’omicidio era molto elevata e le possibilità di assoluzione erano molto limitate”. Oggi pomeriggio in carcere è prevista una visita dei Garanti regionale e comunale dei detenuti, Bruno Mellano e Mario Tretola. Spiega Mellano: “Ad aprile la giunta regionale aveva adottato un Piano di prevenzione dei suicidi in carcere, sulla base di linee guida nazionali, con la previsione che vengano fatti piani specifici per ogni istituto. Quello di Cuneo è il trentesimo in Italia da inizio anno”. Ancora Mellano: “Il Piano regionale prevede che ogni istituto si doti di uno staff multidisciplinare per valutare i rischi e le situazioni specifiche. Il documento per ogni carcere va presentato entro ottobre e si doveva anche indicare una figura di coordinamento, cosa che Cuneo aveva già fatto. Barra non aveva mai dati segni di disagio ed era in cella con un compagno, assente in quel momento, all’interno di un carcere molto sovraffollato”. Napoli: suicidi nel carcere di Poggioreale, incontro con il cappellano di Angelo Velardi informareonline.com, 8 agosto 2019 Don Giovanni Liccardo: “Situazione infernale, manca qualunque principio di umanità”. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27 della Costituzione Italiana. Succede questo nelle carceri italiane? E, soprattutto, succede questo a Poggioreale? L’incontro con don Giovanni Liccardo, cappellano del carcere di Poggioreale, è di quelli memorabili. Nei suoi occhi la stanchezza di chi affronta quotidianamente storie tragiche, toccanti, spesso irreparabili, mista a quella determinazione che lo contraddistingue e che trasmette ai suoi interlocutori in maniera così naturale. “Non sempre il carcere rispetta il senso di umanità, soprattutto a Poggioreale. Spesso la pena non è educativa, ma vendicativa”, ha dichiarato Liccardo. I recenti suicidi all’interno dell’istituto detentivo “più grande e affollato d’Italia” hanno sollevato per l’ennesima volta il polverone riguardante le carceri italiane, con le piaghe del sovraffollamento, dell’insufficienza di risorse e della disperazione che affligge i detenuti e che, alle volte, come nel caso di Francesco lo scorso 1° luglio, li porta a fare un cappio con un lenzuolo e a farla finita. “L’ordinamento italiano prevede che venga limitata la libertà di chi ha sbagliato, ma a Poggioreale succede ben altro, a Poggioreale manca qualunque principio di umanità”, ha continuato il cappellano. “Si ammassano persone in una cella - anche in pochi metri - creando un ambiente di elevata frustrazione. Viene negata loro l’igiene, l’assistenza psicologica e percorsi che possono facilitare il reinserimento in società del detenuto. Cosa più grave, viene spesso negata loro l’assistenza sanitaria”. Un vero e proprio inferno quello in cui si trovano a vivere persone che dovrebbero comprendere gli errori commessi, pagare per quelli e pensare al giorno della fine della pena come giorno di rinascita ed inizio di una nuova vita. Un inferno in cui, invece, a volte, si arriva a decidere di suicidarsi. “Sovraffollamento e abbandono a sé stessi diventano, quindi, pene accessorie. Ci sono, per esempio, centinaia di tossicodipendenti che dovrebbero stare in specifiche strutture riabilitative e a cui invece non si fa altro che dare metadone. In questo modo si crea un sostituto della droga, che sarà di nuovo ricercata all’uscita dal carcere e per cui probabilmente si delinquerà di nuovo”. Di fronte a tutto questo nasce spontanea una domanda: lo Stato dov’è? La soluzione più volte prospettata da rappresentanti del governo è stata quella di convertire ex caserme in nuovi istituti in cui poter smistare detenuti. “I carceri italiani sono fatiscenti e non sono adatti alla detenzione. Poggioreale è un carcere da demolire, un luogo logisticamente inadeguato. Ci sono strutture che potrebbero ospitare 2-300 persone, alleviando un po’ il peso quindi su quelle già esistenti. Questi mega carceri non devono esistere, perché non sono gestibili e quindi viene annullato ogni discorso rieducativo e di reinserimento. Purtroppo, però, penso che il carcere sia l’ultimo pensiero dei politici, che invece dovrebbero intuire quanto sia importante risolvere questo problema per innalzare il livello della nostra società in termini di sicurezza e di qualità della vita”. Come anticipato è stato un incontro memorabile, in cui abbiamo guardato negli occhi un rappresentante di Cristo che ha l’ardua missione di portare speranza ad una categoria di uomini vista sempre di più come feccia della società, non meritevole di alcuna attenzione. Abbiamo guardato negli occhi chi, invece, si batte per i loro diritti, non dimenticando i crimini e le colpe di cui si sono macchiati, ma guardando al mondo esterno e desiderandolo popolato da individui pentiti del proprio errore, piuttosto che da recidivi incattiviti che continuano ad attentare alla vita e alla serenità degli altri e, inevitabilmente, alla propria. Dostoevskij disse che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Dopo quest’incontro mi chiedo: qual è il nostro grado di civilizzazione? Milano: la storia di Giorgio C., sembrava solo tosse... era un tumore maligno di Valter Vecellio lindro.it, 8 agosto 2019 La storia, amara quanto basta è questa: c’è un uomo, Giorgio C., 58, piccoli precedenti alle spalle, qualche giorno in carcere. Cerca di reinserirsi; non ce la fa: per via del suo passato, nessuno lo vuole assumere, si fida di lui. Torna a fare l’unica cosa che sa fare: il delinquente. Il 23 aprile di un anno fa tenta di rapinare un ufficio postale. Gli va male: arresto, processo, condanna a cinque anni e otto mesi. Niente da dire, non fosse che a novembre spunta una tosse insistente. Preoccuparsi per qualche colpo di tosse? Passerà. No, che non passa. Alla fine i controlli: viene individuato del liquido nei polmoni; seguono due toracocentesi, un paio di settimane di ricovero, nell’aprile 2019 il ritorno in cella. Solo che quella tosse che non va via è il sintomo di qualcosa di più grave, e che viene preso sottogamba: gli esiti, alla fine, certificano l’esistenza di cellule tumorali maligne. La situazione clinica peggiora rapidamente. Il 12 giugno Giorgio C. viene ricoverato; il 15 luglio torna in cella: ci sono metastasi anche nelle ossa. Segue un nuovo ricovero, e il 29 luglio la morte. L’avvocato difensore racconta: “Non sono stata informata di nulla. Ho scoperto in modo casuale che non era più in carcere: avevo fissato un colloquio con lui il 24 luglio, ma quando mi sono presentata mi hanno detto che non c’era. Ho poi scoperto che era in ospedale da un paio di giorni, in rianimazione. Del trasferimento nessuna notizia le era stata data, nemmeno oralmente. Avevo fatto richiesta di scarcerazione l’8 maggio: erano stati chiesti altri documenti, quindi tutto si era fermato in attesa di una diagnosi definitiva. Una seconda richiesta l’ho fatta il 12 giugno. Il 25 luglio, scoperto che era in Rianimazione, ho scritto una lettera. Il procuratore generale ha dato il parere favorevole alla sostituzione della custodia in carcere con l’obbligo di presentazione la mattina del 29 luglio: purtroppo la Corte non ha fatto nemmeno in tempo a riunirsi, Giorgio C. è morto quel giorno stesso”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuta rischia la paralisi, ma non viene curata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2019 Da mesi è senza cure appropriate e rischia l’atrofizzazione degli arti. Non è una detenuta qualunque colei che si trova costretta a vivere l’incubo di poter rimanere paralizzata per sempre. Si chiama Rosa Zagari, condannata in primo grado a otto anni al processo denominato “Terramara Closed”, compagna dell’ex latitante Ernesto Fazzalari di Taurianova - catturato nel 2016 - il quale era considerato il ricercato più pericoloso dopo l’imprendibile Matteo Messina Denaro. Ma la Zagari, quarantaduenne, si trova nel carcere di Santa Maria Capua Vetere in condizioni gravi, senza riuscire a muoversi dal letto. Perché? Il nove febbraio scorso, quando era al carcere di Reggio Calabria, è caduta nella doccia. Subito è stata trasportata all’ospedale, nel reparto di neurologia, e dalla tac è emersa una “duplice rima di frattura lineare in corrispondenza del processo trasverso di destra di L3 e rima di frattura a livello del processo trasverso di L2”. Il primario ha consigliato delle cure adeguate per evitare peggioramenti. “Riposare su letto rigido idoneo - si legge nella cartella clinica - praticare terapia medica con antalgici al bisogno e proseguire con la terapia antitrombotica come da prescrizione neurochirurgica. Si consiglia inoltre di iniziare fin da subito a sottoporsi a prestazioni di Magnetoterapia alla colonna, a massaggio leggero decontratturante dei muscoli paravertebrali, alla rieducazione motoria degli arti inferiori, per cicli di 20 gg. al mese per almeno 5 mesi”. E infine: “Utile, ma solo dopo il terzo mese e dopo controllo radiografico e specialistico, oltre alle prestazioni di fisioterapia, la rieducazione dei muscoli paravertebrali e della colonna dorsolombare in piscina, in assenza di carico sul rachide”. Cure tuttora non ricevute. L’associazione Yairaiha Onlus si è attivata il 16 luglio scorso scrivendo al garante nazionale delle persone private della libertà, a quello regionale, al ministro della Giustizia e al magistrato di sorveglianza, sollecitando un intervento urgente perché “le cure ricevute sono state esigue e inadeguate limitando la terapia al busto, che porta ininterrottamente dal 9 febbraio, e ad antidolorifici. Riteniamo - concludono - che il diritto alla salute rientri tra i diritti fondamentali dell’uomo, a prescindere dagli eventuali reati commessi, così come sancisce la nostra Costituzione”. L’avvocato Antonino Napoli, legale di Rosa Zagari, ha anche presentato un’istanza a giugno scorso, denunciando la mancanza di cure e ha chiesto la nomina di un perito per verificare lo stato di salute della donna, anche per chiedere la compatibilità delle sue condizioni con il regime carcerario. Stando a quanto denuncia anche la madre di Rosa, lo stato di salute della figlia sarebbe “gravemente peggiorato, a causa dell’assenza di cure - scrive in una lettera indirizzata alla direzione del carcere di Santa Maria Capua Vetere - a tratti inappropriate, come la vana somministrazione di Flactodol, farmaco rigettato fisicamente fin da bambina, deteriorandole pesantemente il normale funzionamento dei reni”. La madre - che ha problemi di salute - è disperata, tanto da aggiungere che se la situazione di sua figlia non cambia radicalmente in positivo, “non mi resterà che sospendere la terapia, tutte le mie cure, e lasciarmi morire finché non avrete curato mia figlia”. Il diritto alla salute è riconosciuto universalmente dalla nostra Costituzione, compreso chi è privo della libertà. Non a caso l’articolo 39 comma 2 dell’ordinamento penitenziario sancisce espressamente l’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto, garantendo, la propria tutela alla salute. Un dritto garantito anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce espressamente il divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti. Napoli: raccolta fondi per donare 600 ventilatori ai detenuti di Poggioreale cronachedellacampania.it, 8 agosto 2019 È partita in rete un iniziativa, sostenuta anche Pietro Ioia, leader storico degli ex detenuti della Campania una campagna di crowdfunding che prevede attraverso una piccola raccolta fondi sul sito Darev. con di acquistare 600 ventilatori per i detenuti del carcere di Poggioreale. “Vi chiediamo un aiuto per dare aria pulita e ossigeno”, si spiega nella presentazione dell’iniziativa. E poi aggiungono: “Si tratta di dare un po’ di aria pulita, fresca, ricca di ossigeno a chi ha sbagliato e sta pagando. Si tratta di riempire di ossigeno i polmoni, il cervello, il cuore. Donare ossigeno che possa penetrare nella pelle e rigenerare tutti i tessuti. A Poggioreale le condizioni di detenzione sono durissime e i detenuti non possono di certo uscire come persone migliori in queste condizioni. A chi ha sbagliato è giusto togliere la libertà, non la dignità, altrimenti falliremo nell’obiettivo di recuperare e rieducare il più possibile e togliere, così, criminali dalla strada. Aiutateci a regalare un ventilatore per ogni cella. Ne servono 600 e ogni ventilatore costa 13 euro. Facciamolo in fretta, fa caldo e in quelle celle non si respira, non arriva ossigeno. Grazie”. Per aderire alla campagna: https://www.derev.com/aria-pulita-per-il-carcere-di-poggioreale Torino: la cooperativa degli chef (ex detenuti) che ha salvato Pernigotti di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 8 agosto 2019 Si chiama Spes l’impresa sociale che ha rilevato parte dell’attività dell’azienda dei gianduiotti. Al suo interno lavorano trenta persone con fragilità, tra cui disabili ed ex detenuti. Una cooperativa sociale salva una grande azienda. È il miracolo (che potrebbe diventare realtà) della cooperativa Spes di Torino, che occupa numerose persone con fragilità e che ieri ha firmato il preliminare per rilevare il ramo d’azienda della storica Pernigotti. Al ministero per lo sviluppo economico è stato raggiunto l’accordo per la reindustrializzazione dello stabilimento Pernigotti di Novi Ligure, che garantirà la continuità operativa del sito e la salvaguardia di tutti i 92 lavoratori. “Siamo pronti al rilancio, la fabbrica riaprirà il 1 ottobre” ha detto il presidente della cooperativa Spes Antonio Di Donna, 45 anni, impegnato nel Terzo settore da oltre vent’anni. Martedì mattina, prima di andare al Ministero, Di Donna ha mandato una lettera a tutti i soci lavoratori della cooperativa: “Ho scritto loro che il merito di ogni obiettivo raggiunto è racchiuso nel lavoro e nell’impegno di ciascuno”. Sono circa cento i soci della cooperativa Spes, 30 di loro sono persone con fragilità che, grazie al lavoro, sono rinate: disabili, ex detenuti, ragazzi giovani con problemi di tossicodipendenza, giovani con famiglie in difficoltà. Arrivano su segnalazione dei servizi sociali. E oggi fanno gli chef, i camerieri, i pasticceri. Ognuno di loro è inserito attraverso l’affiancamento di un tutor, che segue il percorso del nuovo lavoratore passo passo fino alla sua completa autonomia. E no, la produzione non viene rallentata, sottolinea il presidente Di Donna: “Semmai facciamo più fatica, perché ogni persona ha bisogno di maggiori attenzioni, ma non c’è alcun rallentamento”. Il successo di Spes nasce proprio da questa filosofia, esser consapevoli che “dentro ogni persona c’è un talento da trovare e valorizzare”. E così le persone “svantaggiate” crescono al fianco di chef e barman professionisti. Spes, il cui fatturato si aggira intorno ai 3 milioni di euro, è oggi uno storico marchio del cioccolato in Torino. Ha 6 cioccolaterie in città (una delle quali dentro il Consiglio regionale) ed è diventata produttrice di cioccolata. La cooperativa nasce nel 2011, rilevando lo storico marchio di cioccolato torinese Spes per farne un centro di produzione di eccellenza artigiana e di valore sociale. La storia di Spes affonda le sue radici nel 1970. Nacque per volontà dei frati francescani, che misero in piedi un piccolo spaccio nella periferia torinese per sostenere la loro missione a Capoverde. Oggi quello spaccio è una delle sei cioccolaterie. Il Gruppo Spes è un’impresa sociale aderente all’Opera Torinese del Murialdo, la comunità dei confratelli della Congregazione di san Giuseppe che segue giovani e famiglie in difficoltà attraverso percorsi di formazione. Rovigo: rieducare i detenuti con l’attività teatrale rovigoindiretta.it, 8 agosto 2019 Il progetto finanziato che vede il Teatro del Lemming entrare nella casa circondariale per “riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”. È partita pochi giorni fa la seconda edizione del progetto “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso dall’Acri (Associazione che riunisce le Fondazioni di origine bancaria), capofila del progetto, e sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo insieme ad altre 10 Fondazioni di origine bancaria. Per Aspera ad Astra (letteralmente “attraverso le asperità fino alle stelle”) ha come obiettivo formare e rieducare i detenuti per il loro reinserimento nel mondo esterno attraverso l’attività teatrale; persone che oggi vivono tra le mura di una cella, ma un domani lasceranno questo spazio per rientrare nella società. Trasformare il tempo della detenzione - un tempo vuoto, pesante - in un’occasione di riscatto, in cui maturare competenze fondamentali per poter tornare ad essere cittadini attivi. Una sfida che Fondazione ha scelto di accogliere con un sostegno di 50.000 euro. Esso permetterà all’associazione rodigina Teatro del Lemming di portare il progetto all’interno del carcere di Rovigo. In ambito nazionale, tutte le attività vengono realizzate da associazioni teatrali operanti nei territori, con il coordinamento della Compagnia Teatrale della Fortezza, attiva dal 1988 presso la Casa di Reclusione di Volterra. Gli strumenti utilizzati dalle associazioni teatrali sono principalmente due: corsi di formazione professionale (percorsi di attività teatrali e spettacoli) rivolti ai detenuti; meeting e workshop intensivi rivolti a operatori artistici e sociali, al personale direttivo delle carceri e al personale di polizia penitenziaria. La seconda edizione del progetto vanta un raddoppio del numero delle Fondazioni coinvolte (e di conseguenza dei territori raggiunti) rispetto alla prima edizione. La prima edizione, inaugurata a maggio 2018 e conclusasi lo scorso marzo, ha permesso di realizzare 6 percorsi in altrettante Case Circondariali: a Milano, Modena, Castelfranco Emilia, Palermo, Torino e La Spezia. Gorgona (Li): sull’isola-penitenziario i suoni di De Andrè per detenuti e agenti agenziaimpress.it, 8 agosto 2019 Canzoni e monologhi teatrali ispirati alla musica e alla poesia di Fabrizio De André sull’isola penitenziario della Gorgona, davanti a detenuti e agenti. È “Sulla cattiva strada”, lo spettacolo che andrà in scena il 9 agosto e che sarà realizzato da un gruppo di artisti livornesi. Riflessioni in musica L’iniziativa vuol essere “un modo per riflettere sulla condizione di chi è privato della libertà e vive uno stato di detenzione, propedeutico al recupero e al reinserimento nella società - spiegano in una nota gli organizzatori. Si può riflettere anche con la musica, soprattutto se, come nel caso di Faber, canta gli ultimi e gli emarginati”. Per Carlo Mazzerbo, direttore del carcere, “sarà un arricchimento reciproco, un modo per confrontarsi e dialogare su quello che si vive all’interno di un carcere. Sarà un momento ricreativo e di divertimento, ma questo concerto rivolto ai detenuti dovrà stimolare anche la riflessione sulla loro condizione attraverso i testi di De André. Queste iniziative fanno bene a tutti, perciò siamo lieti di poter ospitare lo spettacolo, che sicuramente potrà aiutare anche chi lavora nel carcere ad allentare la tensione con una serata di musica e belle canzoni”. “Noi che potevamo finire come Stefano Cucchi” di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana, 8 agosto 2019 Per la prima volta il film “Sulla mia pelle” è stato proiettato all’interno di un penitenziario. Ecco il toccante confronto tra il regista Alessio Cremonini e i detenuti. “Una volta menavano di più”, commenta laconico Federico (il nome, come tutti gli altri in questo servizio, è di fantasia), capelli bianchissimi e un quadernone fra le mani fitto di appunti, dopo aver visto Sulla mia pelle. Sì, proprio il film che ricostruisce la storia di Stefano Cucchi, il ragazzo morto nel 2009 mentre era in custodia cautelare e per il quale si sta svolgendo un processo che vede coinvolti alcuni carabinieri accusati di avere innescato, con le violenze a cui lo avrebbero sottoposto, la spirale di sofferenza che dopo una settimana lo avrebbe ucciso. Dopo aver fatto incetta di premi, per la prima volta è stato proiettato in un carcere, il Coroneo di Trieste. I detenuti che l’hanno visto hanno ora la possibilità di confrontarsi con il regista Alessio Cremonini. “Pensavo che quest’evento avvenisse prima”, dice. “Evidentemente in questo carcere c’è una sensibilità particolare”. È così: questa masterclass, organizzata dallo ShorTS International Film Festival, fa parte di un progetto, realizzato in collaborazione con Enaip, che da anni offre la possibilità ai detenuti di frequentare un corso di formazione sulle tecniche audiovisive, spendibile poi una volta tornati in libertà. Federico si accomoda con i suoi compagni nella saletta che ospiterà la masterclass e noi prendiamo posto accanto ai suoi compagni. Non c’è bisogno di far domande: basta tirar fuori un taccuino e tutti capiscono subito chi siamo. Ogni detenuto desidera ardentemente che qualcuno lo stia ad ascoltare. Specie se, come nel caso di Maurizio, ha vissuto sulla sua pelle un’esperienza molto simile a quella di Cucchi: “Quando mi hanno arrestato, mi hanno legato con le manette a un calorifero e poi massacrato di botte per sapere dove nascondevo la droga. Alla fine, mi hanno detto: “Se vuoi parlare con i tuoi genitori, devi firmare un foglio dove dichiari che sei caduto”. Io stavo già male di mio, ero in crisi di astinenza, così ho resistito solo un giorno e poi ho firmato. Quando ho visto il film, anche se sono passati tanti anni, ho rivissuto tutto: è stato tremendo”. Altri detenuti vorrebbero raccontare la loro storia, ma la masterclass inizia e tutti ascoltano con attenzione Cremonini. Che subito li spiazza: “Non ho fatto questo film per sostituirmi alla magistratura, per puntare il dito contro qualcuno. Ogni film nasce da un’idea e quella che mi ha guidato in questo caso è stata la mia fede. Sono cattolico e da credente ho visto nella vicenda di Stefano Cucchi una profonda analogia con il calvario vissuto da Gesù, la sua sofferenza, la sua solitudine. Un’impostazione evidente nella scena in cui la sorella Ilaria rivede Stefano all’obitorio. Prova a toccarlo, a dargli un’ultima carezza, ma non può perché quel povero corpo è stato chiuso in una teca di vetro. Ho immaginato questa scena come una Deposizione rinascimentale, con Stefano al posto di Gesù e Ilaria al posto di Maria”. Interviene allora Francesco per chiedere spiegazioni su un’altra scena che l’ha molto colpito: quella in cui Cucchi finalmente approda in un’aula di tribunale: “Possibile che né il giudice, né l’avvocato, né il Pm si siano accorti delle sue condizioni?” Cremonini rimanda la palla dall’altra parte: “Secondo voi, com’è potuto succedere?” “È un sistema costruito sull’omertà”, dice convinto Dario. “Giudici, avvocati, forze dell’ordine, medici: tutti si coprono a vicenda”. Giuseppe invece è più pratico: “I giudici hanno migliaia di fascicoli da leggere. Quando non ce la fanno, rinviano. E noi intanto soffriamo”. Il regista chiude il suo intervento con una nota personale. “Un mese dopo la ?ne del ?lm ho scoperto di essere malato di cancro. Mi sono quindi trovato a passare le giornate tra medici ed esami, come è successo a Stefano. E questo mi ha ancora più convinto della bontà della mia scelta narrativa: tutti prima o poi dobbiamo fare i conti con il dolore e la morte. Io per ora mi sono salvato. Stefano no. Non siamo riusciti a salvare un ragazzo per poi, eventualmente, fargli scontare in carcere le sue colpe. Come cittadini di un Paese democratico, è questa la nostra più grande sconfitta”. Prima di uscire dalla saletta e di ritornare nelle loro celle, Maurizio e Dario ci tengono a sottolineare che qui a Trieste tutti li trattano bene, ma che non sempre è andata così. “In altre carceri ho visto compagni prelevati alle cinque del mattino dalle guardie e portati in mutande su un furgoncino per un trasferimento”, ricorda Maurizio. “In un attimo, perdi tutte le tue cose. Perché questa cattiveria? E poi ci sono carceri dove tutto profuma e altre piene di cimici, dove entri sano ed esci malato. Quando la porta di una prigione si chiude, la tua vita diventa una lotteria”. Le idee di Gramsci nei dipinti dei detenuti di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 8 agosto 2019 Consegnati i premi del Concorso nazionale sul tema della libertà e della rieducazione. Loro, gli artisti, non c’erano. Solo i loro quadri sono potuti uscire dalle carceri dove vivono i 110 partecipanti al concorso nazionale di pittura che ormai da tre anni l’associazione Casa natale Antonio Gramsci riserva ai detenuti. Perché è a loro che vien chiesto di raccontare con colori e pennelli, la loro interpretazione di Gramsci, che riuscì a resistere a quello a cui la detenzione puntava: impedirgli di continuare a pensare. Tramite il concorso, infatti, l’associazione ha messo in rapporto l’esperienza della detenzione di Gramsci con quella dei detenuti che popolano le carceri italiane. Una iniziativa che si aggiunge a tutti quei progetti rieducativi e culturali che offrono a chi è in carcere la possibilità di “evadere” mentalmente dalla routine quotidiana permettendo un processo rieducativo. “È dimostrato che la recidiva fra i detenuti impegnati in tali percorsi è nettamente inferiore rispetto a chi non lo è”, spiegano infatti gli organizzatori di un concorso che quest’anno ha visto la partecipazione di 110 detenuti in 20 case di reclusione sparse in tutta Italia. Detenuti per storie di spaccio, ma anche di criminalità organizzata e di rapine, per fare un esempio dei partecipanti al concorso, dunque ben diversi dal detenuto politico Antonio Gramsci ma che come lui, vivono privati della cosa più importante: la libertà. Il primo premio è stato assegnato a Dimitri Cantarelli, detenuto nel carcere di Bollate. Durante la cerimonia, svolta nella sala conferenze del paese della Marmilla che diede i natali al pensatore e fondatore del Partito comunista italiano, il presidente della giuria, Paolo Sirena (direttore generale della Fondazione Meta di Alghero) e l’artista Massimo Spiga (art director, grafico e illustratore) hanno illustrato le decisioni della giuria. La valutazione delle opere ha infatti tenuto conto non solo della tecnica e dell’originalità dell’opera. Fra i vari elementi presi in considerazione, l’analisi si è soffermata sul messaggio, sia dal punto di vista umano (l’orizzonte di un carcerato), che politico (si parla di Gramsci). “I partecipanti non sono artisti professionisti, che sono sottoposti ai limiti del regime carcerario e che non tutti hanno ricevuto un’adeguata informazione e i mezzi necessari a svolgere il lavoro richiesto per il concorso”, hanno spiegato i giurati che hanno tenuto in considerazione che la qualità dei lavori presentati “risulta a tratti di buon livello e nel complesso di livello medio”. Valutazione che ha designato vincitore del concorso “Il rosso stato di Nino”, di Dimitri Cantarelli: “Opera impegnativa di grandi dimensioni, eseguita con buona tecnica, cita “Il quarto stato” di Pelizza Da Volpedo e vuol sottolineare, oscurandoi volti, come il carcere privi oltre che della libertà, anche dell’identità personale”, è scritto nelle motivazione della giuria. L’attualità del pensiero gramsciano, indicato come punto di riferimento per la società, è uno dei temi maggiormente ricorrenti nelle opere dei detenuti. Non è un caso che il secondo premio sia andato a Ruggero Battaglia, detenuto ad Agrigento con “Il faro”. L’alienazione contrapposta alla speranza “perché non si può fucilare un’idea”, è il tema che ha ispirato l’autore dell’opera terza classificata: Giacomo Sessa, detenuto a Bollate con “L’anima in fondo al muro”. Il quarto premio è andato a “L’inizio”, realizzato da Marco Tavoletta detenuto al carcere di Nuchis. Il quadro “Lacrime in fondo all’anima”, realizzato da un detenuto nel carcere di Pavia, Edoardo Conforme, si è aggiudicato il quinto premio; il sesto è invece andato a Francesco Maccarone, detenuto a Nuchis, con “A Gramsci”. Settimo premio infine per “Direzione e dominio” di Diego Pesandro, anche lui detenuto al carcere di Bollate. Menzioni speciali per “Gramsci a Ventotene” di Cesare Bove (detenuto a Ferrara); “Realtà e fantasia” di Sacha Galli (Bollate). Menzione speciale per il migliore autore straniero a Hussaini Abdul Ali (Carcere di san Vittore di Milano) che ha realizzato “Ideali” e per la migliore autrice donna, Alexandra Ivaskova (San Vittore) con “L’albero d’amore”. Migranti. Ricorso di Open Arms alla procura di Palermo: “Sbarcare i minori” di Adriana Pollice Il Manifesto, 8 agosto 2019 L’Ong: “È quanto prevede la Convenzione dell’Aja”. Preoccupano le condizioni a bordo. E acqua e cibo cominciano a scarseggiare. “Entreremo in Italia se avremo problemi gravi a bordo”: è la dichiarazione che ieri mattina Oscar Camps, il fondatore di Proactiva Open Arms, ha rilasciato a Radio Catalunya. La nave dell’Ong catalana da mercoledì fa la spola tra Lampedusa e Malta: attualmente ha 121 naufraghi a bordo e nessun porto di sbarco. Roma e La Valletta hanno negato l’ingresso nelle acque territoriali e Madrid rifiuta di prendere in carico il soccorso poiché la Spagna sta gestendo da sola l’emigrazione lungo la rotta del Mediterraneo occidentale. Quella di Camps era una constatazione (in caso di crisi grave non resta che virare verso la costa più vicina) ma il ministro dell’Interno Matteo Salvini l’ha trasformata in una dichiarazione di guerra: “L’Open Arms minaccia di entrare in Italia. Avrebbe avuto il tempo per raggiungere la Spagna, dove alcuni sindaci (Valencia e Barcellona ndr) si sono esposti a favore dell’accoglienza. Ma forse questi signori vogliono fare solo una provocazione: la vita delle persone non è la loro vera priorità, vogliono a tutti i costi trasferire dei clandestini nel nostro paese. Siamo pronti a sequestrare la nave”. Il leader leghista ha a disposizione il bazooka del decreto Sicurezza bis ma la sua norma bandiera solleva molti dubbi di costituzionalità e l’Ong mette in moto gli avvocati. Open Arms ieri ha presentato ricorso al tribunale per i Minori e alla procura minorile di Palermo affinché i minorenni a bordo “vengano fatti sbarcare e vengano nominati dei tutori per quelli non accompagnati, come prevedono gli articoli 6 e 11 della Convenzione dell’Aja. Noi rispettiamo la legge”. Sono in 32 ad avere meno di 18 anni, 27 viaggiano da soli, quattro sono piccoli: due gemelli di nove mesi con la mamma, due hanno meno di 13 anni. “Faremo di tutto - ha spiegato il direttore di Open Arms Italia, Riccardo Gatti - affinché le convenzioni internazionali, le normative e i diritti di queste persone vengano rispettati”. E su Italia e Malta: “Siamo testimoni della loro prepotenza e abuso istituzionalizzato nel silenzio dell’Unione europea”. L’UE per ora non interviene: “Non abbiamo ricevuto richieste di coordinamento per l’Open arms - ha ribadito ieri un portavoce dell’esecutivo comunitario -. Questo episodio dimostra l’urgente necessità di un meccanismo prevedibile e sostenibile”. La Commissione è ferma in attesa di una richiesta da Madrid e Madrid non interviene perché lasciata da sola a gestire le acqua al confine con il Marocco: “Se in questo momento c’è un paese che svolge attività di soccorso umanitario è la Spagna - ha commentato la vicepresidente, Carmen Calvo. Stiamo esercitando la maggior pressione in Ue affinché la questione migratoria sia affrontata a livello comunitario”. Il gioco delle parti lascia però i 121 da soli a vagare per il Mediterraneo. “Che cosa dovremmo fare, smettere di salvare le persone perché si fanno delle leggi ingiuste? - ha commentato Veronica Alfonsi, coordinatrice italiana di Open Arms -. Siamo a 30 miglia da Lampedusa, anche le evacuazioni fatte nei giorni scorsi delle tre donne, due in stato di gravidanza avanzato, sono state fatte a Lampedusa perché era il porto più vicino”. Scatta oggi il settimo giorno a bordo: “Tra poco finiremo cibo e bevande - ha spiegato ieri la comandante della nave, Anabel Montes Mier - e siamo preoccupati per lo stato psicologico di chi è a bordo, reduce dalla torture libiche. Più tardi arriva una risposta e più la situazione peggiorerà”. Rabiya è la madre dei gemelli di nove mesi: “È fuggita dal Camerun per un conflitto legato alla terra nella sua regione, conflitto che è costato la vita al marito - raccontano da bordo -. Hortensia è gravemente ustionata perché il trafficante libico le ha buttato addosso della benzina prima che si imbarcasse e, a contatto con l’acqua di mare, le ha bruciato la pelle. Vengono quasi tutti da paesi per i quali è possibile la richiesta d’asilo”. Camps sui social ieri ha postato: “Scompare dal sito l’Imo la zona Sar italiana, con tutti i suoi dati. Curiosamente c’è la Libia, un paese senza stato dove c’è la guerra civile”. Il cammino abolizionista dell’Africa: un libro per accompagnarlo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 agosto 2019 Malgrado i mille problemi che l’affliggono (conflitti, corruzione, povertà e altro ancora), l’Africa per diversi aspetti sta dando un contributo al progresso della civiltà, dell’umanità e del diritto. Uno degli indicatori è, dati alla mano, la riduzione reale dell’applicazione della pena capitale, grazie alla coraggiosa scelta di alcuni governi - anche di stati a maggioranza musulmana - per la sua totale abolizione. Mentre negli Usa l’amministrazione Trump intende ripristinare la pena di morte a livello federale e in Asia Sri Lanka e Filippine premono per la sua reintroduzione, l’Africa è, dopo l’Europa, il secondo continente sulla strada della rinuncia definitiva alla pena di morte. Di questo, con speranza e ottimismo, parla Antonio Salvati ne “L’Africa non uccide più” (Infinito Edizioni). Chi lo leggerà, e questo è un invito a farlo, vi troverà una messe di notizie e analisi sulla situazione della pena di morte nel continente, la sua applicazione, le moratorie “de facto” esistenti e la lotta per abolirla, stato per stato. Il libro dà doverosamente conto dell’impegno contro la pena di morte e della campagna mondiale per la moratoria della Comunità di Sant’Egidio, illustrandone nel dettaglio le ragioni e descrivendone le situazioni particolari. Impegno che vede coinvolto l’autore da oltre 20 anni. Una delle più importanti sottolineature di Salvati è che molti stati africani hanno compreso che la lotta alla pena di morte, e più in generale il rispetto delle convenzioni e degli standard sui diritti umani, sono diventati elementi importanti nell’ambito delle relazioni internazionali. Sempre quegli stati, e le loro società, avvertono sempre di più la pena di morte come una violazione irrimediabile della sacralità della vita e della dignità umana, che impoverisce e non difende le società che la applicano. La battaglia contro la pena di morte è, dunque, un modo per gli stati e la società per difendersi dal rischio di abbassarsi allo stesso livello di coloro che hanno commesso gravi crimini contro la persona. Insomma, sul tema della pena di morte, l’Africa ha molto da insegnarci. Mass shooting e suprematismo bianco: che cosa sta succedendo davvero negli Usa di Guido Olimpio Corriere della Sera, 8 agosto 2019 Dalla volontà di diventare qualcuno al desiderio di vendetta, dal semplice odio alle ideologie estremiste: le motivazioni dietro le stragi dal 1927 ad oggi. Dopo ogni strage da parte dei killer di massa Usa polemiche, critiche, proposte che evaporano dopo una settimana. E la tentazione di trasformare tutto in faida politica. Proviamo a sintetizzare. Primo. I mass shooter non sono “nuovi”, il primo attacco risale al 1927, a Bath,Michigan, con una scuola fatta esplodere da un dipendente. La novità sta nel tentativo di alcuni di presentarsi come una forma diversa. Già i due di Columbine avevano redatto dei diari - inizialmente ignorati - dove ipotizzavano la loro “rivoluzione”. Secondo. Alcuni di questi assassini seguono una sorta di “ideologia”. Alla base c’è la doppia volontà: di diventare qualcuno e di fare il maggior danno possibile. Quindi si organizzano, studiano e uccidono con questa finalità. Non necessariamente devono avere un movente o una ragione “politica”. Esempio chiaro è il massacro di Las Vegas. Terzo. Per molti c’è solo odio, voglia di vendetta, rabbia. Li definiscono dei “collettori di ingiustizia” (vere o presunte, importa poco). Sono dei terroristi “personali”. L’instabilità mentale di alcuni è un fattore significativo. Quarto. Negli ultimi anni il sentiero del mass shooter senza causa si è incrociata conquello animato dall’estremismo. Prima quello jihadista, riconducibile ad al Qaeda e allo Stato Islamico. Quindi quello razzista e, a volte antisemita (neppure questo inedito negli Usa). Sono assassini che offrono il massacro ad un movimento o si muovono sotto il suo cono. Post su Internet, gli ormai immancabili manifesti, un breve video sono sufficienti a creare il legame con una realtà “senza leader” apparenti, ma parte di un progetto globale con obiettivi condivisi e suggeriti. Quinto. L’autore dell’attacco di Dayton e in parte quello di Girloy sono più confusi. Uno aveva simpatie di sinistra mescolate a misoginia e ossessione della violenza (da usare contro il prossimo). L’altro non ha nascosto posizioni di destra, ma secondo inquirenti non ha tralasciato di studiare la barricata opposta. Comune denominatore l’assalto con armi potenti, corpetto anti-proiettile e tante munizioni. Non possiamo escludere che abbiano cercato il suicidio per mano della polizia. Sono personalità “ambigue”, dove confluisce di tutto: passato turbolento, eventuali problemi personali, passioni, instabilità. Sesto. Il pericolo dei neonazisti è in crescita, va affrontato con la stessa determinazione riservata alla lotta ai seguaci dei Califfo. Il contrasto però deve essere allargato a qualsiasi mass shooter. Proprio l’eccidio di Las Vegas ha dimostrato quanto possa essere letale un cecchino che non sventolava alcuna bandiera. Un assassino “scientifico”. Ottavo. I profili degli sparatori vanno esaminati con pazienza. Gli elementi che trapelano nell’immediatezza di un evento possono cambiare nel tempo, man mano che inquirenti raccolgono non solo gli immancabili racconti dell’ex compagno di scuola ma dati concreti. Nono. I killer anticipano spesso le loro intenzioni. Con gesti, confidenze, parole, testi. Lo ha certificato l’Fbi, l’ho costatato personalmente con lo studio dei casi. Famiglie, amici e professori sono le prime vedette. Mai sottovalutare certi segnali. E i congiunti devono superare la naturale riservatezza e il peso di situazioni anomale. Un dovere che ricade poi su sicurezza e strutture sanitarie, sempre che abbiano la possibilità di intervenire. Negli Stati Uniti non è facile. Decimo. Lo studioso Peter Langman ha lanciato un monito. A suo avviso ogni volta che viene superata una soglia di violenza ciò può spingere altri, che sono già su questo percorso a colpire: “Pertanto, il fenomeno potrebbe alimentarsi, crescendo ad ogni nuovo incidente”. Turchia. Le tre partite di Erdogan: la prima nel Rojava di Alberto Negri Il Manifesto, 8 agosto 2019 La Turchia si accorda per una safe zone in Siria con Washington, poi si accorda con Mosca per ritirare i jihadisti da Idlib in cambio di mano libera contro i curdi. Gli unici a pagare i giochi internazionali. Erdogan e Putin si sono messi d’accordo. Tu fai un favore a me lasciandomi mano libera sui curdi e io mi porto via i jihadisti da Idlib e li uso contro le brigate curde Sdf-Ypg, inchiodando gli americani al dilemma siriano: proteggere gli alleati di Washington contro il “califfato” o cedere alle pretese territoriali di Ankara per eliminare la resistenza curda ritenuta vicina al Pkk. Gli Usa stanno in mezzo ai contendenti con il loro contingente siriano, sotto pressione da mesi tra Manbij e Ain Issa. Erdogan oggi ha tre fronti aperti: la Nato e gli Usa per la fornitura dei missili russi S-400, la Siria e i curdi, l’Egeo per la partita strategica del gas, un great game di cui si parla meno ma che è questione incandescente per Grecia, Cipro, Israele e tutto il Mediterraneo orientale, compresi Libano, Palestina ed Egitto. Tra l’altro ci coinvolge direttamente per la realizzazione del gasdotto East-Med Pipe, progetto firmato dall’Italia con Grecia e Israele nel 2017. Una pipeline che, sfruttando anche il giacimento egiziano di Zohr, piace molto agli americani per limitare la dipendenza europea dal gas russo e come carta diplomatica per dare consistenza al piano di “Nato araba” a guida israeliana. Piace meno a Erdogan, per l’alleanza tra Grecia e Israele e che rivendica i diritti suoi e di Cipro turca. Pronto a sfidare le sanzioni della Ue che intende proteggere la “zona esclusiva” di sfruttamento delle risorse sottomarine greco-cipriote. Il presidente turco ha deciso quindi di tornare alla carica contro i curdi siriani minacciando un’offensiva militare a est dell’Eufrate mentre ad Ankara gli americani trattano sulla richiesta dei turchi di una safe zone in Siria profonda 30 km e lunga 150: una sorta di provincia siriana nelle mani di Erdogan. L’ennesima zona di sicurezza mediorientale che in questo caso serve a mangiare altro territorio ai curdi, già privati del cantone di Afrin. In poche parole la Turchia sta testando gli americani che si sono appoggiati ai curdi nelle battaglie contro l’Isis. È il copione preferito da Russia, Iran e Siria di Assad che hanno raggiunto nei giorni scorsi un accordo con la Turchia per una tregua a Idlib, il vero nervo sensibile della vicenda siriana perché qui, nella provincia del nord confinante con la Turchia, ci sono ancora migliaia di jihadisti e le milizie fedeli ad Ankara. Secondo questa intesa tra Russia e Turchia, stilata con la mediazione del Kazakhstan, Erdogan si è impegnato con Putin a rimuovere da Idlib i gruppi jihadisti e le sue milizie. Non solo, l’accordo di Nursultan (Astana) prevede un compromesso con Damasco per l’insediamento di un comitato costituzionale sul futuro della Siria. I turchi sono soddisfatti dell’intesa con Mosca, al punto che sono appena ricominciati i viaggi tra i due Paesi senza necessità di un visto. Con la tregua di Idlib la Turchia riapre, in funzione anti-curda, l’”autostrada del Jihad” inaugurata per abbattere il regime di Assad con l’afflusso di combattenti da ogni parte del mondo musulmano. Non solo Ankara sta ammassando migliaia di soldati al confine a ridosso di Kobane, la roccaforte curda protagonista della resistenza all’Isis. Ma si prepara a usare le milizie jihadiste del nord-est siriano che compongono una parte del Free Syrian Army (35mila combattenti). Una di queste, la Sultan Murad Brigade, ha partecipato alla campagna turca “Ramoscello d’Ulivo” che ha portato all’occupazione di Afrin e l’uccisione di 4-500 civili. Risorgono così i fantasmi di un recentissimo passato. L’”ambasciatore” del califfato, Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino, trattava direttamente con l’esercito e i servizi turchi embedded nelle milizie Isis. Lo ha raccontato con un’intervista in un carcere iracheno a Homeland Security Today, testata diretta da Michael Chertoff, ex segretario della sicurezza nazionale americana. “La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 km. Avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e ottenere rifornimenti di ogni tipo, mentre Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: lo Stato islamico era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo”. E ora i jihadisti sconfitti a Raqqa o a Duma tornano ancora utili al presidente turco. Una ricomparsa dell’Isis in Siria sarebbe un grave colpo anche per Trump ma una nuova carta da giocare per Mosca, Assad e l’Iran. Ecco perché la guerra mondiale a pezzi della Siria non finisce mai. Israele. Prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri nena-news.it, 8 agosto 2019 40 prigionieri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina si sono uniti allo sciopero della fame in corso nelle carceri israeliane contro l’arresto arbitrario (amministrativo) ed in solidarietà con gli altri prigionieri già in sciopero, alcuni di loro anche da 37 giorni. Lunedì decine di prigionieri amministrativi palestinesi affiliati al Fronte popolare per liberazione della Palestina (Fplp) nelle carceri israeliane hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame a tempo indeterminato e in solidarietà con gli altri detenuti già in sciopero. Chiedono al servizio penitenziario israeliano da oltre un mese di interrompere l’estensione dei loro ordini di detenzione amministrativa, tuttavia senza ottenere risposta. Perché 29 prigionieri palestinesi sono in sciopero della fame da diversi giorni nelle carceri israeliane (alcuni di loro anche da 37 giorni per protestare contro la loro detenzione amministrativa)? Le forze armate israeliane hanno emesso 51 nuovi mandati di arresto amministrativo nel mese di luglio. I prigionieri palestinesi che sono stati arrestati da Israele nel solo mese di luglio scorso sono 450. Tra gli arrestati ci sono 10 donne, 62 minorenni, un deputato del Consiglio legislativo palestinese (Clp). Inoltre, 14 degli arrestati sono di Gaza - tra cui 4 pescatori, 10 giovani e minorenni che avevano tentato di attraversare la barriera di separazione a est della Striscia. L’esercito israeliano ha riarrestato il deputato del Cpl Azzam No’man Salhab (63 anni), di Hebron, dopo aver invaso e messo a soqquadro la sua casa. Salhab è stato arrestato e liberato sei volte e ha passato otto anni nelle carceri israeliane, dove ora si trova agli arresti amministrativi. Inoltre, dal 1967 al luglio 2019, sono 220 i prigionieri deceduti in carcere. Tra questi vi è anche quello del prigioniero Majed Taqatqa (31 anni), di Bait Fujar, nel sud-est di Betlemme, morto a seguito di torture e negligenza medica. I soldati israeliani l’avevano arrestato il 19 giugno scorso. Di questi 29 prigionieri hanno condotto lo sciopero della fame per protestare contro l’arresto amministrativo. Il prigioniero Hudhayfah Badr Halabia continua la battaglia con lo sciopero della fame da 37 giorni, rifiutando la detenzione amministrativa, in condizioni di salute difficili, accompagnato dallo sciopero a sostegno delle sue richieste di un gruppo di prigionieri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pflp) nelle carceri israeliane ha confermato che il prigioniero Halabia continuerà il suo sciopero della fame fino a quando le sue richieste non saranno accolte, “con e il sostegno dei compagni nelle varie carceri sioniste”. Si sono uniti allo sciopero nelle ultime ore (16) altri prigionieri del Fronte popolare distribuiti in (3) prigioni, nella prigione di “Ramon” i seguenti attivisti: Hikmat Abdel Jalil, Daoud Hermas, Hakim Awad, Mahdi Jarashi, Amjad Shobaki. Nella prigione di “ Nafha “ i seguenti attivisti: Hani Abu Mosaad, Nadim Kanaan, Mohammed Hawarin, Mohammed Salah. In quella di “ Ofer “ invece i seguenti attivisti: Thaer Taha, Khaled Taha, Mohammed Maarouf, Mohammed Ibrahim Barghith, Mahmoud Saifi, Mohammed Effendi, Hassan Fatafta. Il FPLP ha invitato il popolo palestinese a intensificare le attività di solidarietà a sostegno dei prigionieri in sciopero per eliminare questa politica ingiusta. “Noi e i nostri compagni prigionieri, consideriamo ogni vittoria ottenuta dalla lotta dei prigionieri contro la politica di detenzione amministrativa come un altro chiodo nella bara di questa politica criminale contro i prigionieri “. Ha anche annunciato l’aggiunta di un nuovo gruppo di prigionieri a sostegno dello sciopero: Raed Alian Shafei, Nader Sadaqa, Moayad Issa, Saied Salama, Bahaa Qadan. Il Centro per prigionieri Handala ha affermato che circa 40 prigionieri del Fronte Popolare, con l’arresto amministrativo, hanno iniziato lo sciopero della fame da lunedì mattina. Da 36 giorni vanno avanti lunghe trattative tra l’amministrazione della prigione, la direzione della sezione carceraria e il Fronte popolare. La situazione si è fatta tesa quando le autorità israeliane hanno preso la decisione di estendere la condanna del prigioniero Abu Akar per un periodo di 6 mesi. Tuttavia, grazie alla riduzione di pena di 3 mesi per buona condotta del prigioniero, l’Intelligence israeliana ha deciso di chiudere il caso. Altri 29 prigionieri nelle carceri dell’occupazione israeliana continuano lo sciopero della fame nella battaglia dell’”unità e volontà”, volta a rovesciare e porre fine alla politica di detenzione amministrativa arbitraria che è diventata un approccio punitivo da parte di Tel Aviv. Il Fplp ha invitato le istituzioni internazionali e dei diritti umani a mantenere le proprie responsabilità, prestando particolare attenzione alle condizioni dei prigionieri in sciopero della fame. Tra questi vi è il prigioniero Hudhayfah Halabiya che è in gravi condizioni di salute. Il Fronte ha poi invitato i popoli del mondo a organizzare una grande campagna in sostegno dei prigionieri palestinesi che miri a fare pressioni su Israele affinché termini la sua pratica della detenzione amministrativa.