Ferragosto 2019 in carcere partitoradicale.it, 7 agosto 2019 Dal 15 al 18 agosto visite del Partito Radicale insieme all’Unione Camere Penali, parlamentari, Garanti dei detenuti, militanti nelle carceri di tutta Italia. Da giovedì 15 agosto a domenica 18 agosto, in tutta Italia, su iniziativa del Partito radicale con l’Unione delle Camere Penali Italiane, si terrà la terza edizione del “Ferragosto in carcere”, una massiccia visita ispettiva nei 190 istituti di pena sul territorio nazionale. Avvocati, parlamentari, garanti per i diritti delle persone private della libertà, nel week-end di Ferragosto si uniranno alla “comunità penitenziaria” per una ricognizione approfondita della difficilissima situazione delle carceri italiane in quello che si sta rivelando un anno molto duro. Al 31 luglio 2019 i detenuti ristretti nelle nostre carceri erano 60.254 per una capienza regolamentare di 50.480 e il personale di ogni livello ridotto nel suo organico. Ciò ha comportato e comporta che oggi - più che nel passato - il carcere sia sempre di più (e spesso esclusivamente) il luogo della pena che poco o niente ha a che vedere con quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione Italiana, secondo il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Per altro verso, anche il ricorso eccessivo, e spesso illegittimo, allo strumento della custodia cautelare in carcere stride con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza sancito dall’art. 27 comma 2 della Costituzione Italiana e dall’art. 6 comma 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane ci sono stati 29 suicidi. Riforma della giustizia, ecco cosa divide Lega e Movimento 5 Stelle di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 agosto 2019 Dalla prescrizione alla separazione delle carriere. Sono essenzialmente tre i punti di contrasto fra Lega e M5s in materia di giustizia. Tre punti in grado di stravolgere in maniera irreversibile il sistema giudiziario del Paese. Dal momento che nessuno di questi è nel contratto di governo, gli azionisti dell’esecutivo Conte hanno “mani libere”, con la possibilità di trovare una sponda anche fra i partiti dell’opposizione. Andiamo con ordine. Il primo argomento è senza dubbio la separazione della carriere. I leghisti sono a favore, i grillini sono nettamente contrari. La discussione è già in calendario alla Camera per settembre. Il tema non è nuovo. Le Camere penali ne hanno fatto la loro bandiera. Premessa: in nessun Paese con un sistema processuale di tipo accusatorio come l’Italia, il pm è un magistrato. Chi difende l’anomalia tricolore parte da una constatazione oggettiva. E cioè visto che per cambiare di funzioni è necessario cambiare distretto di Corte d’Appello (il pm di Milano che decide di fare il giudice deve trasferirsi a Torino), il deterrente del trasloco limiterebbe i cambi di casacca. Non molto, anche perché chi frequenta i palazzi di giustizia sa bene che quando due magistrati si incontrano per la prima volta, dopo le presentazioni di rito, la prima domanda è: “ma tu di che Dm sei?”, intendendo con quella sigla il decreto ministeriale con il quale sono stati nominati. Un po’ come avviene con gli ufficiali riguardo al corso d’accademia frequentato. È innegabile che fra chi è entrato in ruolo dopo aver vinto il medesimo concorso ci possa essere una certa “vicinanza”. Vicinanza ancora più stretta se questi magistrati hanno frequentato anche la stessa scuola di preparazione al concorso. Ma a parte il reclutamento, i magistrati, sia pm che giudici, per tutta la loro carriera saranno sempre insieme, valutati dallo stesso Consiglio giudiziario e dallo stesso Csm. Oltre al deterrente “trasloco” l’altro argomento utilizzato per difendere lo status quo riguarda il fatto che il pm, in quanto magistrato, sarebbe dotato della “cultura della giurisdizione” e quindi svolgerebbe indagini anche a favore dell’indagato. Tralasciando la valutazione di quante volte ciò avviene in concreto, la giustificazione cozza con i criteri di priorità nella scelta degli affari penali da parte dei procuratori. In un sistema giudiziario dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale i capi delle Procure hanno, infatti, da tempo poteri discrezionali tipici del pm elettivo o subordinato all’esecutivo. Subito dopo, lo stop della prescrizione. A favore i grillini, assolutamente contrari i leghisti. Molti giuristi hanno già definito la proposta in contrasto con quanto previsto dall’art. 111 della Costituzione a proposito della ragionevole durata del processo. A favore del blocco ragioni “economiche”, del tipo che i soldi spesi per le indagini non possono finire in fumo, e “giustizialiste”, cioè nessuno può farla franca. A mente fredda non è pensabile tenere una persona in ostaggio dei tribunali per tutta la vita. Le tempistiche, i 9 anni per i tre gradi proposti dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, sono già ora un tempo spesso insufficiente per celebrare un processo. Tanti i casi, celebri o meno, di processi che impiegano dieci anni solo per il primo grado. La prescrizione funziona come un grande “cestino” e permette al sistema di andare avanti. Poi c’è un aspetto che nessuno dice: non è affatto vero che tutti i magistrati siano a favore. Il motivo è semplice e va rintracciato nelle statistiche. Se il processo non viene definito resta sul ruolo della toga. Con gli attuali organici in Corte d’Appello lo stop significherebbe la paralisi. Ed infine l’elezione del Csm. Il M5S vuole il sorteggio. La Lega non si è espressa. Argomento ancora più tecnico dei primi due ma d’importanza vitale per i magistrati. Le cronache di questi mesi hanno dato conto delle lotte intestine tra le correnti della magistratura per il controllo della Procura di Roma. Le correnti, da luoghi di “elaborazione culturale” si sono trasformate negli anni in centri di potere. Anzi, come disse l’ex consigliere del Csm Aldo Morgigni, in un “ufficio di collocamento”. Molto si è detto sulle nomine a “pacchetto”, specialmente in Cassazione o al Massimario, dove i posti erano assegnanti in maniera proporzionale alla forza dei vari gruppi associativi. A parole tutti dicono, Anm in primis, di voler cambiare il sistema. Ma alla fine le tanto criticate logiche spartitorie permettono quasi sempre di trovare un punto d’incontro. “Non insistere per questa sede, ti propongo per un altra”, si sentono dire i candidati bocciati che vogliono presentare ricorso al Tar. È la cd “compensazione”, la nomina riparativa. L’anno scorso, alle ultime elezioni per il rinnovo del Csm, venne lanciato l’appello al non voto per protestare contro il sistema delle correnti: poco più di cento i magistrati che aderirono. Rompere un sistema collaudato per affidarlo alla dea bendata mette i brividi. Ed infatti all’interno dell’Anm sono tutti contrari. Su questo aspetto, chi avrà la forza di imporsi? Sia pur delegittimati dal caso Palamara, i magistrati fanno sempre paura. Decreto Sicurezza bis. Pene più severe per reprimere i disordini di piazza e negli stadi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2019 Decreto sicurezza bis convertito in legge. Modifiche alla legge Reale del 1975, alle norme sullo svolgimento di manifestazioni sportive del 1989, e anche al codice penale per aumentare la pena ai protagonisti, a ogni titolo, di “disordini pubblici”. Il decreto sicurezza-bis, convertito definitivamente in legge dal Senato lunedì pomeriggio, oltre al traffico di clandestini (si veda l’articolo sotto) punta a rafforzare le norme di sicurezza pubblica sia sul versante di manifestazioni di piazza, sia su quello degli eventi sportivi. Per quanto riguarda il primo aspetto, la legge di conversione conferma l’aumento di pena (minimo due, massimo tre anni e ammenda fino a 6mila euro) per chi si travisa - volto coperto da una maschera - in pubblico mentre aggiunge un’aggravante di pericolo per l’integrità delle cose per l’utilizzo di razzi e bengala (reclusione da sei mesi a due anni), pena applicabile anche per chi usi spray urticanti, bastoni, mazze oppure oggetti contundenti (e ovviamene a prescindere da eventuali danni a persone, puniti a titolo diverso). La pena sale fino a cinque anni per chi distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico.? Variegato l’intervento sul mondo che ruota attorno al tifo sportivo, (legge 401/89)a cominciare dal ventaglio di ipotesi di nuovi Daspo a disposizione del questore che riguarderà i denunciati per aver preso parte attiva a episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza. Daspo anche per chi ha fatto danni all’estero “sia singolarmente che in gruppo” e abbia avuto partecipazione attiva a episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione; divieto inoltre per i denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti per violazione della legge Reale e anche per i vigilati in sospetto di mafia. Daspo che potrà durare fino a dieci anni. Scatta poi il divieto per le società sportive di fornire aiutini a soggetti pericolosi per l’ordine pubblico - in genere i capi ultras e delle curve - che non potranno più ricevere “in qualsiasi forma, diretta o indiretta, sovvenzioni, contributi e facilitazioni di qualsiasi natura, compresa l’erogazione di biglietti e abbonamenti o di titoli di viaggio a prezzo agevolato o gratuito”, trattamento esteso anche ai soggetti vigilati dall’antimafia e a chi sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero per reati in materia di contraffazione di prodotti o di vendita abusiva degli stessi. Vietato infine per le società sportive stipulare contratti di cessione di diritti di proprietà industriale con questa platea di soggetti ad alto tasso di irrequietezza, ma anche corrispondere contributi, sovvenzioni e facilitazioni di qualsiasi genere ad associazioni di sostenitori, comunque denominate. Evidente in queste norme la finalità del legislatore di tagliare i canali di finanziamento classico delle organizzazioni “pericolose” del tifo, soprattutto calcistico. A corredo e a chiusura sistematica c’è poi l’intervento sulla parte generale del codice penale, con l’aggiunta di un’aggravante comune (l’avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette manifestazioni) e l’esclusione della “particolare tenuità del fatto” quando si procede per delitti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero nei casi di oltraggio, resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale. Infine l’arresto differito in flagranza diventa norma definitiva dell’ordinamento (sarebbe scaduta il 30 giugno del 2020). Decreto Sicurezza bis, i magistrati e l’ingiustizia di Armando Spataro La Repubblica, 7 agosto 2019 I magistrati non sono obiettori di coscienza, non possono rifiutarsi di ottemperare ai loro doveri ma è auspicabile che, ricorrendo alla Corte costituzionale appena ciò sia possibile, procedendo contro condotte illegali e disponendone l’interruzione, continuino a ignorare le aspettative di chi governa, qualunque ne sia il colore politico. Deve essere questa la risposta al decreto sicurezza bis voluto da Salvini. Grazie al voto di fiducia richiesto dal governo il provvedimento (emesso in assenza di qualsiasi urgenza) è stato convertito in legge. Potrà accadere che prima o poi, in vista di scadenze elettorali o per altre ragioni tattiche, arrivi anche un “decreto sicurezza-ter”, ma, con riferimento alle disposizioni approvate per il contrasto all’immigrazione illegale (oltre per alcune in tema di ordine pubblico), è davvero difficile immaginare qualcosa di peggio. La lettura di questa parte del provvedimento lascia trasparire cinismo e indifferenza rispetto al diritto di tutti gli esseri umani alla vita e a un’esistenza dignitosa, ma anche implicite intimidazioni a quanti, con navi delle Ong o imbarcazioni da pesca, intendano adempiere al dovere di soccorso in mare. Giuristi di ogni parte del mondo e autorevoli commentatori hanno più volte ricordato, anche su questo giornale, convenzioni internazionali e norme costituzionali secondo cui chiudere i porti ai naufraghi e ai migranti richiedenti protezione è consentito solo in casi eccezionali, come quello del “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello stato costiero”, condizioni inesistenti per tutti i casi che hanno interessato l’Italia. Ed esperti della materia, insieme a organismi sovranazionali, hanno inoltre confermato che la Libia non è un Paese sicuro dove rimandare i profughi. È stato giustamente sottolineato che tocca anche all’Europa farsi carico dell’emergenza degli stati costieri: ma perché allora negarsi al confronto attorno a un tavolo comune con gli altri governi come la politica alta - non quella dei diktat - imporrebbe? Di tutto questo si sa o si parla poco nel nostro Paese, ove spesso si ignora l’inattendibilità dei dati statistici che circolano, così come l’aumento degli sbarchi gestiti dagli scafisti e dei morti in mare. Ma il “ministro di tutto”, intanto, oltre ad estendere anche le proprie competenze, è riuscito - grazie al provvedimento approvato - a introdurre nel nostro sistema una serie di sanzioni definite “amministrative”, che hanno invece un vero e proprio contenuto penale: il pagamento di somme fino a un milione di euro e il sequestro cautelare con successiva confisca delle navi a carico di chi, per salvare esseri umani, ha violato il divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali, da lui emesso di concerto con i ministri della Difesa e delle Infrastrutture e trasporti. Pare evidente che lo spostamento di tali questioni dal piano strettamente giudiziario a quello amministrativo abbia un senso preciso: tagliare fuori da settori d’intervento cari all’esecutivo quei magistrati che, esercitando i loro doveri e in ossequio all’obbligatorietà dell’azione penale, emettono provvedimenti sgraditi, dissequestrando navi, archiviando denunce o inchieste a carico delle lodevoli Ong, chiedendo - sia pure invano - autorizzazioni a procedere a carico di ministri per comportamenti che potrebbero integrare reati. E per di più giustamente tacciono, auspicabilmente sorridendo, di fronte agli inviti a “scendere in politica”. Ceccanti (Pd): “Il dl sicurezza viola la Carta e le convenzioni internazionali” di Simona Musco Il Dubbio, 7 agosto 2019 Intervista al costituzionalista Stefano Ceccanti. “L’immigrazione non si ferma per decreto, si può gestire in sede europea ripartendo in modo equo i richiedenti. Il punto, però, è che Salvini non vuole risolvere nulla, vuole che il problema si incancrenisca per lucrare elettoralmente sul problema insoluto”. Il giudizio del costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti sul decreto sicurezza bis è chiaro: oltre ad essere “inutile” e “irragionevole”, entra in conflitto con le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, inciampando in diversi profili di incostituzionalità. Ma non è il caso, dice al Dubbio, di “contare” sull’intervento del Capo dello Stato per vederlo tramontare: “saranno i giudici, approfittando del richiamo ai vincoli costituzionali, a non dare il via libera”. E la scelta di porre la fiducia, al di là della volontà di far cadere tutti gli emendamenti, nasconde la volontà di ribadire, ancora una volta, che chi comanda per davvero è il leader della Lega. Il governo ha incassato la fiducia sul decreto sicurezza bis, nonostante le critiche di incostituzionalità avanzate da molti. Ci sono punti che potrebbero portare Mattarella a intervenire? Eviterei di tirare in ballo la Presidenza della Repubblica soprattutto sul rinvio di leggi di conversione che è altamente problematico. Infatti, rinviando questo tipo di leggi il Capo dello Stato determinerebbe una mancata conversione e quindi la decadenza del decreto. Per questa ragione, in genere, anche in caso di emendamenti dubbi inseriti in sede di esame parlamentare, i Presidenti usano di solito formule di promulgazione con riserva. Già in precedenza su questa materia, in occasione del primo decreto, il Presidente Mattarella aveva comunque richiamato il dovere di non eludere i vincoli internazionali a cui la legislazione è subordinata in generale, secondo l’articolo 117 primo comma della Costituzione, e nello specifico anche secondo l’articolo 10 sul diritto di asilo. Penso che ognuno debba esporre le sue riserve, ma senza pretendere che il Presidente le faccia proprie, anche perché in ogni caso l’ordinamento non è privo di difese: i giudici possono benissimo rinviare varie norme alla Corte, oppure interpretarle direttamente in senso conforme alla Costituzione. Quali sono i profili di incostituzionalità? C’è un problema generale per il quale, come ho cercato di spiegare in Aula alla Camera, sul cuore delle norme - quelle contro le navi, articoli 1 e 2 - o il decreto è incostituzionale perché è concepito per eludere i vincoli internazionali da noi sottoscritti oppure, dal momento che comunque è costretto genericamente a citarli, se essi vengono presi sul serio è inutile. Richiamo per esteso il parere del Comitato per la legislazione, organismo parlamentare, votato all’unanimità su proposta della relatrice Dadone (M5S) e illustrato dalla collega Corneli (sempre M5S): “Andrebbe approfondita l’effettiva portata normativa dell’articolo 1, che appare suscettibile di determinare contenziosi. L’articolo 1 consente, infatti, con provvedimenti del ministro dell’Interno di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di determinate tipologie di navi nel mare territoriale, nel rispetto, però, degli obblighi internazionali. Anche se non esplicitamente richiamato nella relazione illustrativa - prosegue il Comitato - tra tali obblighi rientra evidentemente anche il principio di non respingimento, non-refoulement, come ricavabile dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Conseguentemente, un eventuale provvedimento del ministro dell’Interno che vietasse l’ingresso nel mare territoriale a una nave che avesse rifiutato l’attribuzione, in base alla Convenzione di Amburgo sulla sicurezza del salvataggio marittimo, di un porto sicuro, non italiano, invocando il principio di non respingimento, potrebbe essere comunque ritenuto in sede giurisdizionale in violazione del disposto dell’articolo 1, qualora il giudice ritenesse legittima l’invocazione di tale principio, vanificando così parzialmente la finalità della norma indicata nella relazione illustrativa”. Oltre questo problema generale, che assorbirebbe comunque tutto, c’è in quegli articoli chiave il problema di sanzioni oggettivamente sproporzionate contro i comandanti delle navi e, nella seconda parte, norme sproporzionate in materia di ordine pubblico. Dunque non può conciliarsi con le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia come Montego Bay, Unclos, Solas e Sar? Quali sono le conseguenze in caso di contrasto? No, non si concilia, per cui o i giudici, approfittando del richiamo testuale ai vincoli costituzionali, sceglieranno, come già accaduto, l’interpretazione conforme a Costituzione e non daranno il via libera a nessuna sanzione oppure manderanno il decreto alla Corte costituzionale che risolverà il problema in senso comunque conforme a quei vincoli. Mancano i presupposti di necessità e di urgenza, vista la riduzione degli sbarchi? Direi di sì, comunque, più in generale, anche se ci fosse in astratto un’emergenza sbarchi che si intendesse prevenire con norme deterrenti, norme incostituzionali non potrebbero mai essere necessarie e urgenti. Il pericolo principale, per Salvini, sono le Ong, che però partecipano ad una parte piccolissima degli sbarchi. Il decreto ferma davvero l’immigrazione, come vorrebbe il ministro? Quali sono le lacune, in tal senso? L’immigrazione non si ferma per decreto, si può gestire in sede europea ripartendo in modo equo i richiedenti asilo con la revisione del Trattato di Dublino e proponendo una legislazione realistica sui migranti economici, in modo che possano arrivare legalmente in relazione al fabbisogno effettivo della nostra economia. Il punto, però, è che Salvini non vuole risolvere nulla, vuole che il problema si incancrenisca per lucrare elettoralmente sul problema insoluto. Era necessario un ulteriore “decreto sicurezza”? Non era affatto necessario se non in termini politici, come strumento della campagna elettorale permanente di Salvini, che di questo vive, cannibalizzando progressivamente il M5s, sapendo che la debolezza di quest’ultimo lo porta ad accettare qualsiasi cosa pur di evitare le elezioni. Come valuta le norme più stringenti in fatto di manifestazioni pubbliche? Si rischia una forma di controllo del dissenso? Le norme previgenti sulle manifestazioni risalivano al periodo antiterrorismo e mi sembravano anche per questo già sufficientemente rigorose. Con quelle abbiamo battuto un terrorismo organizzato e radicato, davvero c’era bisogno di andare oltre? È pertanto sensato ritenere irragionevoli sia le nuove sanzioni aggravate sull’oltraggio al pubblico ufficiale sia la trasformazione da reato amministrativo a reato penale della fattispecie di resistenza alle forze dell’ordine. Discorso a parte per il cosiddetto Daspo, introdotto in origine in ambito sportivo e sulla cui legittimità, rispetto all’estensione, si possono avere molti dubbi, anche considerando che la Corte è appena intervenuta, ponendo dei limiti nell’ambito delle prestazioni sanitarie su cui era intervenuto il precedente decreto sicurezza. Cosa ci dice il fatto di aver posto la fiducia sul decreto in termini di stabilità del governo? La fiducia serviva in parte ad uno scopo tecnico, superare subito tutti gli emendamenti, e ad uno politico: ribadire, per l’ennesima volta, che la maggioranza è compatta sotto la regia di Salvini. Decreto Sicurezza bis. Il rispetto della Costituzione è un optional di Massimo Villone Il Manifesto, 7 agosto 2019 Il Decreto Sicurezza bis presenta vistosi elementi di incostituzionalità, e forse qualcuno aspetta da Mattarella un segnale, che non verrà. Se avesse inteso darlo, l’avrebbe fatto al momento dell’emanazione del decreto, che già conteneva elementi per una valutazione. Che però Mattarella ha evidentemente ritenuto non giungesse agli estremi di una manifesta incostituzionalità. Si sente fare l’ipotesi che la promulgazione sia accompagnata da una lettera - monito, come già è avvenuto in altra occasione. È possibile, anche se non è nell’interesse della Presidenza insistere troppo sulla strada di questa specie di esternazione rafforzata. Ne sottolinea ad un tempo il ruolo e l’impotenza, tradotta nella scelta di lasciare ad altri la tutela di un bene - la difesa della Costituzione - affidato in primis allo stesso Presidente. In ogni caso, la partita si giocherà ormai sul tavolo della Corte costituzionale. La Corte - sarà bene ricordare - è storicamente restia a intervenire sulla discrezionalità del legislatore in tema di sanzioni penali. Ma è incoraggiante la recentissima sentenza 195/2019, che sul primo decreto sicurezza (d.l. 113/2018, conv. l. 132/2018) ha dichiarato illegittimo il potere sostitutivo dei prefetti (art. 28, co. 1), e ha definito la lettura costituzionalmente compatibile del daspo urbano per i presidi sanitari (art. 21, comma 1, lettera a). Se fosse il segnale di una Corte propensa ad alzare l’asticella nella difesa della Costituzione, il giudizio non potrebbe che essere positivo. Viviamo una stagione in cui il rispetto della Costituzione per la maggioranza e il governo in carica è un optional. Talvolta, un fastidioso impedimento. Il decreto sicurezza bis è un caso, ma non il solo. Si pensi alla sinergia tra la riduzione del numero dei parlamentari, prossima alla votazione conclusiva, e la legge elettorale vigente. Gli studi e le simulazioni - da ultimo su La Stampa del 6 agosto - danno uno scenario in cui entrano in Parlamento tre o quattro forze politiche, e vengono lasciati senza rappresentanza milioni di elettori e parti significative del territorio. Ora, la legge elettorale di per sé probabilmente passa le maglie - troppo larghe - delle sentenze Corte cost. 1/2014 e 35/2017. Ma è dalla sinergia con la riforma costituzionale che viene il danno. Dobbiamo considerare un nuovo assalto per la via giudiziaria, volto a chiedere alla Corte una rivalutazione sulla legge elettorale alla luce della situazione nuova che venisse a determinarsi con la riduzione del numero dei parlamentari. Strano destino, quello delle riforme. Il Pd forzava l’approvazione del Rosatellum quando già era stabilmente il terzo partito dopo M5S e Lega, ed era dunque chiaro che ne avrebbe ricevuto un danno grave e irreparabile. La correzione maggioritaria di collegio del Rosatellum avvantaggia di molto il primo partito, meno il secondo, per niente il terzo. Ma a Renzi interessava soprattutto il voto bloccato sui capilista, per mantenere il controllo sui gruppi parlamentari. Oggi la domanda è: perché i 5Stelle, ormai decisamente proiettati verso la terza posizione dopo Lega e Pd, spingono tanto per la riduzione del numero dei parlamentari con la legge elettorale che c’è? A parte la sorte dei singoli parlamentari, che può non interessare, è il Movimento che finirà immediatamente nella marginalità politica, tornando ad essere il contenitore indifferenziato di proteste delle origini. Una parabola velocissima verso il basso dopo il 4 marzo 2018. Ancor più se prima del prossimo voto M5S avesse dilapidato sulle autonomie differenziate il tesoretto elettorale del Sud. Uno scenario di destra egemone, Pd ancora in mezzo al guado, M5S marginale, sinistra desaparecida. Questa potrebbe essere l’Italia prossima ventura, e che in fondo già ci viene data da leggi, decreti, riforme. Secondo un’espressione cara a filosofi e giuristi, il diritto è fare cose con parole. Ma che accade se dall’eloquio si passa al turpiloquio? Decreto Sicurezza bis. La resistenza di vescovi e sacerdoti di Paolo Rodari La Repubblica, 7 agosto 2019 Diventa un caso Salvini che ringrazia la Madonna per il via libera alla legge. Avvenire: “Accostamenti sconcertanti”. La replica del ministro: “I cattolici ragionano con la propria testa”. A Lucca in piazza il capo della diocesi. Lo scontro fra Matteo Salvini e gran parte del mondo cattolico è frontale. Dopo l’approvazione del decreto sicurezza bis è Avvenire, per conto dei vescovi italiani, ad andare all’attacco: “(In)sicurezza al bis”, è il titolo scelto per la prima pagina di ieri, in un’edizione che parla di “accostamenti sconcertanti” riferendosi alle parole del vicepremier sul fatto che il decreto sia passato nel giorno in cui i devoti della Madonna di Medjugorje festeggiano la natività della Vergine Maria (ma non è così ufficialmente per la Chiesa). “Questo è tempo di resistenza umana e civile”, incalza su Twitter padre Antonio Spadaro, gesuita come Francesco, direttore di Civiltà Cattolica, a dimostrazione che per lui l’uso distorto da parte di Salvini dei simboli religiosi è fatto acclarato. E posta una vignetta del Manifesto che ritrae la Madonna su un gommone in mezzo al mare. Sono diversi i preti contro Salvini. Molti condividono l’hastag diventato trending topic su Twitter: #Mattarellanonfirmare. Don Davide Milani, ex portavoce della diocesi di Milano, prevosto a Lecco e presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, commenta così su Twitter il fatto che la natività di Maria non cada, per Salvini, l’8 settembre: “Mi auguro, signor ministro, che sia più rispettoso, preciso e competente a proposito delle realtà terrene che è chiamato ad amministrare”. Mentre l’arcivescovo di Lucca, Paolo Giulietti, aderisce a una manifestazione di Libera assieme al sindaco Tambellini e si fa fotografare con un cartello con su scritto: “La disumanità non può diventare legge”. Salvini non usa i simboli religiosi a caso. C’è qualche esponente della gerarchia che lo sfrutta per far lievitare un certo dissenso cattolico contro Francesco. Lui lo sa e sta al gioco per guadagnare a sua volta consenso in una parte dei credenti. Così si spiega la reazione piccata del vicepremier ad Avvenire: “Sia i cattolici che gli italiani ragionano con la propria testa - dice. E ancora: “Nella cover del telefonino ho la medaglietta della madonna di Medjugorje. Spero che Avvenire me lo permetta. Bisogna resistere al fatto che tutti devono rispettare diritto nazionale e internazionale? Italiani, cattolici compresi, ragionano liberamente. Buona fortuna sia ad Avvenire che a Civiltà Cattolica”. Da tempo il solco fra il governo e la Chiesa si è fatto largo. Dopo un primo tentativo dei 5 Stelle di legare con le gerarchie, oggi la distanza sembra insanabile. Così anche fra il governo e i credenti di altre chiese: per le Chiese evangeliche il decreto sicurezza è “criminalizzazione”. Durissima la reazione dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). In un comunicato l’agenzia si è detta “preoccupata” per l’approvazione del decreto, un testo “che impone sanzioni più severe alle imbarcazioni e alle persone che effettuano operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo”. Il decreto, composto da 18 articoli, prevede tra le altre cose pene fino a un milione di euro per le navi private che effettuano il salvataggio di persone e che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali. Per Greenpeace si tratta di un “atto liberticida e inutilmente crudele”. Mentre Open Arms lancia l’hashtag #megliomultatichecomplici. “Il decreto sicurezza bis è legge. Difficile trovare le parole per spiegare alle persone a bordo che averle salvate ha un prezzo. Un milione di euro”, scrive la Ong. Molise: minori e detenuti, il bilancio del Garante della persona primopianomolise.it, 7 agosto 2019 Dalla conferenza stampa del Garante dei diritti della persona Leontina Lanciano, organizzata in giunta e aperta dal governatore Donato Toma, l’appello alle famiglie a pensare all’affido: prendersi cura temporaneamente di bimbi o adolescenti con storie difficili con l’obiettivo di farli rientrare nei propri nuclei di provenienza, rafforzati dall’affetto che solo una famiglia può dare. Il costo delle rette dei minori affidati ai centri lo sostengono i Comuni. Nel 2018 l’Ambito di Campobasso ha speso 900mila euro. Per questo, ha spiegato il presidente Toma, la Regione ha deciso di andare incontro alle amministrazioni con un contributo. I minori rappresentano uno dei settori di competenza del Garante. Figura istituita nel 2015 e che con il mandato di Lanciano, ha evidenziato Toma, “si è consolidata e ne è aumentata la conoscenza”. Interventi nei casi urgenti, comunicazione, protocolli, iniziative e progetti. Restando ai minori, sono una novantina quelli stranieri non accompagnati presenti in Molise: 80 i tutor formati. Un altro fronte è quello della lotta al bullismo, sono in cantiere iniziative con le scuole più periferiche e in corso di ultimazione il manuale anti bullismo realizzato insieme all’Usr. C’è poi l’attività di sensibilizzazione all’affido condotta insieme al vicepresidente del Consiglio Gianluca Cefaratti. L’invito di Lanciano è a non farsi condizionare da fatti gravi come quelli di Bibbiano. In Italia, dice citando un report dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, 26mila minori sono affidati, 12mila a centri residenziali per minori. Il Molise, nel rapporto con la popolazione totale under 18, è al secondo posto con il 2,9 per mille. Altra situazione difficile, quella delle carceri. Se Larino è “un fiore all’occhiello, non si può dire lo stesso di Campobasso e Isernia”. Il penitenziario del capoluogo di regione è stato teatro di rivolte e tentativi di evasione. Alla Garante arrivano in media dieci richieste al giorno da parte di chi è privato della libertà: sono 387 in totale i detenuti in Molise, a fronte di una capienza regolamentare delle strutture di 270. Oltre al filtro istituzionale per le richieste, l’ufficio guidato da Lanciano è attivo con il finanziamento di attività teatrali, ricreative, formative. Per rendere concreta la finalità rieducativa della pena. Un esempio per tutti, porta la Garante nella sala giunta di Palazzo Vitale: il libro del detenuto per reati di mafia (40 anni di pena) dal titolo “Da criminale a criminologo”, si è laureato appunto in criminologia. Pur con un organico ridotto all’osso, in questi due anni di mandato, Lanciano ha portato a casa molti risultati. La chiave del successo? La caparbietà, dice il governatore Toma. L’entusiasmo, aggiunge lei. Fra le altre cose ha promosso l’iniziativa culminata con lo stanziamento da parte della Direzione Salute della Regione di 130mila euro con cui l’Asrem acquisterà un sistema di refrigerazione del cuoio capelluto per prevenire l’alopecia quando si è sottoposti a chemioterapia. Padova: detenuto magazziniere con paga troppo bassa, risarcito di 2mila euro di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 7 agosto 2019 Azione legale della Cgil, ministero condannato a pagare. Avviate altre venti cause gemelle dopo il passaparola. Ha lavorato come magazziniere in carcere ma non è stato pagato il giusto. Così lui, detenuto napoletano quarantenne che sta scontando la pena al Due Palazzi, ha fatto causa al ministero della Giustizia e, assistito dall’avvocato Marta Capuzzo dello studio legale Moro si è visto riconoscere 2 mila euro di differenze retributive tra quanto ricevuto e quanto di spettanza, detratta la somma di mantenimento in carcere. L’azione legale è stata promossa dalla Cgil Funzione Pubblica di Padova con ricorso per decreto ingiuntivo. “Altre tre cause simili sono in discussione a settembre e stiamo partendo con un’altra ventina che riguardano tutti detenuti del carcere padovano” assicura l’avvocato Capuzzo. Infatti c’è stato un passaparola tra i detenuti e parecchi vogliono provare a racimolare qualcosa. La sentenza è del giudice del Lavoro Mauro Dallacasa che ha condannato il ministero della Giustizia a pagare in favore di un lavoratore i 2 mila euro di differenze retributive in relazione all’attività lavorativa svolta durante la permanenza in carcere. Il detenuto napoletano, dietro le sbarre da parecchi anni, fa il magazziniere a rotazione, assieme ad altri detenuti. Un lavoro di manodopera per mandare aventi la struttura penitenziaria. Si riceve la merce, la si porta nei magazzini, un’occupazione identica a quella che farebbe un magazziniere esterno al Due Palazzi. Ma ecco cosa dice la legge. Lo stipendio che il ministero deve corrispondere ai detenuti in base alle ore lavorate non può scendere sotto ai due terzi di quanto prevede il contratto nazionale di categoria. Inoltre e questo è stato determinante nella decisione di questa causa di lavoro, la paga prevista dal ministero non è stata aggiornata dal lontano 1993 e quindi da 26 anni. Secondo l’ordinamento penitenziario la Commissione ministeriale istituita per aggiornare periodicamente il trattamento economico dei detenuti teoricamente avrebbe dovuto riunirsi ogni 6 mesi per adeguare i salari dei detenuti. Infatti il conguaglio della retribuzione dovuta al detenuto campano era di circa 4 mila euro per circa 4 anni di lavoro, seppur a turnazione. Ma come detto è stata detratta la quota, non certo indifferente, di mantenimento dietro le sbarre. Il ministero aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo formulando varie eccezioni preliminari, tutte respinte. “I lavoratori” dichiarano Sergio Palma, della segreteria confederale della Cgil di Padova, Alessandra Stivali e Roberta Pistorello, della segreteria provinciale della Fp Cgil di Padova “sono tali a prescindere dallo status giuridico del momento e come tali hanno diritto alla giusta retribuzione, a non essere sfruttati, a vedere rispettati i propri diritti. Vale la pena ricordarlo in un tempo in cui ci sono ministri che invocano i lavori forzati, che sarebbero contrari ai principi fondamentali della nostra Costituzione, invece di adoperarsi per evitare che i crimini si compiano e che nessuna vendetta potrà risarcire”. Savona: un nuovo carcere a Cengio? Lì c’era la “fabbrica della morte” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2019 L’ex Acna, in Val Bormida, fu protagonista di un grande disastro ambientale. Il mese scorso è tornato in auge, con il beneplacito di comuni piemontesi, la proposta di costruire un nuovo carcere nelle aree ex Acna. Si tratta in realtà di una proposta già esposta due anni fa - poi ripresa nel mese scorso - dall’ex sindaco di Cengio (Savona) Sergio Marenco. Tutto è dovuto dalla chiusura, nel 2016, del carcere di Savona creando diverse difficoltà per lo smistamento dei carcerati obbligando il trasferimento nelle Case circondariali di Marassi a Genova, Sanremo- Imperia o in Toscana. Il progetto - ancora non presentato - sarebbe sul modello della casa circondariale di Bolzano. Francesco Dotta, il primo cittadino di Cengio, si dice convinto per la candidatura della sua amministrazione per la realizzazione del carcere. Ma è una buona idea? Per alcune associazioni ambientaliste, compresa Antigone che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, l’idea è pessima. Perché? Parliamo di terre fortemente inquinate, dove la bonifica non è tuttora completata, frutto di un disastro ambientale, forse uno dei più terribili che ha coinvolto l’Europa. A fine novembre 2016, un periodo di piogge intense è culminato con una grande piena dei corsi d’acqua del Piemonte meridionale. In alcuni fiumi la piena ha assunto carattere di vera e propria alluvione, testimoniata anche dall’emergenza in termini di protezione civile che ha caratterizzato quei giorni. Gli abitanti del posto hanno testimoniato la presenza di un odore acre, a tratti nauseabondo. L’alluvione è stata così dirompente che interi tratti di fascia ripariale sono rimasti stravolti e persino distrutti, con abbattimenti di alberi anche di grosse dimensioni. Inoltre, i sedimenti fluviali sono stati depositati nell’ampia fascia pianeggiante ai lati del fiume e grazie alla colorazione diversa del suolo dei terreni agricoli sono rimasti chiaramente visibili anche per diversi mesi dall’evento alluvionale. Da più parti sono state fatte segnalazioni di odori caratteristici dei sedimenti tipicamente associati alla pluridecennale vicenda dell’ex-Acna. In quell’anno, quindi, è ritornato a galla la memoria storica del grande disastro ambientale. Il 23 luglio di più di 30 anni fa una grande nube tossica si sollevò dallo stabilimento Acna di Cengio: in poche ore raggiunse numerosi comuni sul confine tra Liguria e Piemonte, causando intossicazioni e forti preoccupazioni tra la popolazione. La fuoriuscita di gas tossici era solo l’ultima di una lunga serie di incidenti e danni ambientali causati dall’Acna, contro la quale si battevano da tempo i comuni della val Bormida, valle che dall’entroterra di Savona si estende fino al Basso Piemonte lungo il corso del fiume Bormida. La vicenda dell’Acna e dei decenni che furono necessari per riuscire a chiuderla è esemplare nella storia dell’ambientalismo in Italia: l’incidente del 1988 contribuì alla fine dello stabilimento nel 1999, mentre i danni ambientali per la val Bormida e i suoi comuni sono evidenti ancora oggi. L’Acna nasce a Cengio nel 1882, col nome di Dinamitificio Barnieri e cresce nei primi anni del novecento. E fin da subito colora di ruggine il fiume Bormida. Nel 1912 produce 750 tonnellate di dinamite, buona parte delle quali scaricate sulla popolazione libica nella omonima campagna coloniale. E alla grande espansione corrisponde la grande carneficina, la Prima guerra mondiale. È all’Acna di Cengio che si fabbricano acido nitrico, fenolo, tritolo, acido pricrico, balistite. Poi, nel dopoguerra, coloranti e intermedi. Nel 1916 dall’impianto di acido picrico si scaricano nel fiume cinquanta metri cubi al giorno di acque di lavorazione. L’inquinamento si distende per settanta chilometri a valle della fabbrica. La certezza dell’inquinamento causato dalla produzione Acna emerge fin dal 1950. Ma è dai primi del novecento che il cancro alla vescica è considerata malattia professionale per chi lavora i derivati dell’anilina. Nel libro “Un giorno di fuoco”, del 1963, lo scrittore Beppe Fenoglio descriverà così il fiume che raccoglieva gli scarti dell’industria: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna”. Nel 1925 l’Italgas rileva l’impianto per renderlo una fabbrica di coloranti, nel 1929 il regime fascista rende lo stabilimento uno dei centri dell’immensa Acna (Aziende Chimiche Nazionali Associate), ma nonostante l’intervento del Governo il progetto è un fallimento e nel 1931 l’Acna viene svenduta alla Montecatini. L’Acna mantiene lo stesso acronimo, ma diventa “Società anonima colori nazionali affini” e poi “Aziende Colori Nazionali e Affini”. A parte la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, che vede l’Acna tornare alla produzione bellica, il centro di Cengio diventa un importante polo chimico dell’Italia repubblicana, con una storia che nei decenni successivi vede contrapposte da un lato le proteste degli abitanti della valle per i livelli insostenibili di inquinamento e dall’altra un fronte compatto di politica, industria e sindacati, più attenti alla tutela dei posti di lavoro. Nel 1938 l’Acna viene citata in giudizio dagli agricoltori della Valle del Bormida, tuttavia nel 1959 il Servizio idrografico di Genova ha stabilito che le acque sia pure inquinate non provocavano danni all’attività agricola e nel 1962 il processo si conclude dando torto ai contadini e condannandoli al pagamento delle spese processuali. Alla fine degli anni 60 l’acquedotto di Strevi viene chiuso, le sue acque si tingevano di colore diverso ogni giorno, nel 1970 il sindaco di Aqui Terme sporge una denuncia contro ignoti per l’avvelenamento delle acque per il consumo umano. Nel 1974 viene iniziata un’azione penale contro 4 dirigenti dell’Acna, ma verranno assolti 4 anni dopo. Con la promulgazione della Legge Merli “norme e tutela delle acque dall’inquinamento” del 1976, spuntò fuori la denuncia che l’Acna avrebbe iniziato a disfarsi dei rifiuti di nascosto e ad alterare le concentrazioni. La legge 426/ 98 “Nuovi interventi in campo ambientale” ha inserito il sito dell’Acna dei Siti di Interesse Nazionale (Sin), portando alla chiusura definitiva della fabbrica nel 1999, dopo più di 100 anni di attività. Nel 2000 la Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti ha accertato che una quantità di rifiuti dell’Acna pari a 800 mila tonnellate è stata smaltita illegalmente nella discarica di Pianura, nella periferia di Napoli. Si è avviata una bonifica che nell’ottobre del 2010 viene data per terminata dall’allora ministra Stefania Prestigiacomo, dal governatore della regione e dall’ex numero uno della Protezione civile Guido Bertolaso. Ma non è così. La conferma è arrivata direttamente dal sito di Eni-Syndial (società proprietaria dell’area dell’Acna), dove, nell’elenco dei principali interventi di bonifica in corso, si trova anche quello di Cengio, con la dicitura: “Completamento della bonifica del sito, mediante capping della zona A1”. Il sito di Syndial indica anche quali sono i tempi per portare a termine gli interventi e li fissa all’inizio del 2020, ossia a dieci anni dall’annuncio di fine bonifica da parte di Stato e Regioni. Syndial chiarisce inoltre quanto è costata finora quella che l’allora ministro dell’Ambiente Willer Bordon nel 2000 definì “La madre di tutte le bonifiche”. Al 30 settembre del 2018 il costo dell’operazione era di 330 milioni di euro e Syndial stima di spenderne altri 5 per terminare i lavori. Più del doppio dei 300 miliardi di lire previsti vent’anni fa. Resta il fatto che c’è una discarica dove sono radunati i rifiuti industriali dell’impianto e c’è chi vorrebbe costruirci vicino un nuovo carcere. Sulmona (Aq): il Garante regionale dei detenuti in visita al carcere di Gaetano Trigilio ondatv.tv, 7 agosto 2019 Il Garante dei detenuti per la Regione Abruzzo Professor Gianmarco Cifaldi ha visitato la Casa di Reclusione di Via Lamaccio a Sulmona. Il professor Cifaldi è stato eletto “Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. il 23 luglio scorso dal Consiglio Regionale d’Abruzzo. Come prima visita alle 8 strutture penitenziarie dell’Abruzzo ha voluto visitare la Casa di Reclusione di Sulmona in quanto istituto complesso. Ma quali sono i compiti del Garante? Quali i poteri nei confronti dell’Amministrazione? Vigilare che ci sia il rispetto dei diritti della persona sia pure nel rispetto della certezza della pena questi in sintesi il compito del garante, come ha osservato Cifaldi al nostro microfono. Compito impegnativo quello del Garante, come dicevamo 8 sono gli istituti di pena in Abruzzo, ed una popolazione detenuta di oltre 2.000 unità contro una capienza regolamentare di 1.645 posti; notevole dunque il sovraffollamento. Dobbiamo dire che per svariati motivi, sia politici che di leggi regionali, in Abruzzo la figura del Garante dei detenuti è stata assente per oltre 10 anni. L’Abruzzo è stata una delle poche regioni inadempienti, rispetto alla legge nazionale che ha istituito la figura del Garante. Oggi il garante c’è ed è ben qualificato. Il Professor Gianmarco Cifaldi è sociologo, criminologo, professore aggregato presso l’Università D’Annunzio di Chieti - Pescara ma ha già insegnato all’Università dell’Aquila, Bari e Napoli, ha tenuto conferenze in molti paesi, tra cui Cina e Russia. Molte sono le sue pubblicazioni scientifiche, gran parte delle quali relative proprio all’universo carcerario. Come dicevamo Cifaldi ha voluto visitare in primis la struttura penale di Sulmona, dove è stato ricevuto, con ogni cordialità, dal direttore dell’istituto, dottor Sergio Romice e dal Comandante della Polizia Penitenziaria commissario coordinatore dottoresse Sarah Brunetti. Il Garante ha visitato la struttura ha incontrato gli operatori ed i detenuti. Ha cercato di inquadrare le problematiche di un istituto complesso con la presenza di oltre 400 detenuti. Firenze: Sinistra Progetto Comune in carcere a Ferragosto comune.fi.it, 7 agosto 2019 “La giornata di Ferragosto saremo in carcere - dichiarano i consiglieri comunali Antonella Bundu e Dmitrij Palagi (Sinistra Progetto Comune) - assieme alla delegazione organizzata dall’Associazione Progetto Firenze, con i suoi membri, Tommaso Grassi e Luca Maggiora (segretario della Camera Penale di Firenze). L’emergenza carcere non fa parte dell’agenda politica nazionale da ormai troppo tempo, in un contesto dove diminuiscono i crimini, aumentano le persone detenute ma continua a gonfiare un diffuso senso di insicurezza, colpevolmente alimentato da troppo forze politiche. La visita “cella per cella”, che si inserisce all’interno dell’iniziativa a nazionale “Ferragosto in carcere” del Partito Radicale, sarà indispensabile per proseguire il nostro impegno su questa tematica. Ribadiamo inoltre quanto chiesto il primo luglio, che il Garante dei detenuti del Comune di Firenze possa essere scelto dal Consiglio Comunale o almeno tramite bando, per dare la giusta rilevanza a una figura importantissima per creare un ponte tra Sollicciano, Gozzini e la città”. Il comunicato stampa La mancata approvazione del nuovo ordinamento penitenziario ha dato l’ultimo, e definitivo contributo, per distogliere l’attenzione dall’emergenza carcere, ormai divenuta ordinaria amministrazione. In un momento storico, come quello attuale, in cui si invocano continuamente politiche di carcerazione e di repressione, mortificando così l’istituto dell’esecuzione esterna, i luoghi dell’esecuzione della pena subiscono ulteriori forti stress strutturali e funzionali. Una lunga serie di emergenze continua a imporsi su un sistema in crisi cronica prendendo il sopravvento all’interno del già difficile meccanismo della carcerazione: sovraffollamento, grosse difficoltà strutturali, mancanza di prevenzione e di tutele e sanitarie, difficile applicazione dei percorsi di rieducazione e risocializzazione, mancanza di personale specializzato, scarsa attenzione alle misure alternative, ostacoli alla piena attuazione della legge 81 per la gestione delle patologie psichiatriche. Il carcere in Italia continua ad allontanarsi sempre di più dal rispetto dei precetti costituzionali sulla finalità della pena. Per queste ragioni, il Partito Radicale ha organizzato una nuova serie di visite in numerosi istituti penitenziari lungo tutta la Penisola. L’iniziativa, che si svolgerà nei giorni 15-18 agosto coprendo il maggior numero possibile di carceri, coinvolgendo parlamentari, sindaci, consiglieri regionali e comunali, per non pochi dei quali questa sarà la prima visita nei luoghi della pena in Italia. A Firenze, il prossimo 15 agosto, il carcere di Sollicciano sarà visitato da una delegazione composta da attivisti dell’Associazione Progetto Firenze, dal segretario della Camera Penale fiorentina e dai consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune. La loro sarà una visita “cella per cella” con l’obiettivo di verificarne di persona e in dettaglio le problematiche e continuare a costruire un ponte tra il carcere cittadino, le istituzioni, e la città. La delegazione sarà composta da: Antonella Bundu, consigliera comunale Sinistra Progetto Comune; Dmitrij Palagi, consigliere comunale Sinistra Progetto Comune; Luca Maggiora, segretario Camera Penale di Firenze; Grazia Galli, Associazione Progetto Firenze; Sandra Gesualdi, Associazione Progetto Firenze; Maria Milani, Associazione Progetto Firenze; Sandra Gesualdi, Associazione Progetto Firenze; Emanuele Baciocchi, Associazione Progetto Firenze; Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze (responsabile delegazione); Tommaso Grassi, ex consigliere comunale Firenze Riparte a Sinistra. Crotone: gli studenti del villaggio che sfida mafie e razzismo di Silvio Messinetti Il Manifesto, 7 agosto 2019 Il Riot Village di Uds, Link e Rete della conoscenza. Pronti a un “autunno caldo” di mobilitazione contro “il governo del peggioramento”. Al km 227 della statale Jonica uno sbiadito cartello arcobaleno indica “Sovereto another beach project”. Svolta a sinistra e si percorrono 2mila metri di sterrato tra buche, sassi e pozze d’acqua. Poi, finalmente, “l’altra spiaggia” si apre agli occhi, in un bosco di macchia mediterranea affastellato da centinaia di tende multicolori. Il campeggio studentesco più grande d’Italia, il Riot village di Uds, Link e Rete della conoscenza si è dato appuntamento qui, sulle rive dello Jonio, per il secondo anno di fila. In un’oasi naturalistica, in mezzo a una foresta ideale per la nidificazione delle tartarughe, incorniciata da dune di sabbia color tiziano. Il bosco e la spiaggia di Sovereto sono nel mirino di speculatori e ‘ndrine da anni, in uno dei territori più mafiosi e mafiogeni d’Italia. “Nel 2017 appiccarono in pieno agosto, in pieno giorno e in più punti un incendio immenso - ci racconta all’entrata Francesco Perri, animatore dell’Arci crotonese - e solo grazie ai campeggiatori e ai volontari si è riusciti a evitare una tragedia”. L’area è presidiata nel periodo estivo da questo camping gestito dall’Arci. Che nel giro di poco tempo è diventato meta ambita di festival politico-sociali. “C’è stato prima il meeting Tende rosse dei giovani del Pdci, poi sono arrivati i dottorandi dell’Adi e dal 2018 ospitiamo il Riot. L’anno scorso hanno messo le tende per la festa nazionale quelli di Dema, il movimento di De Magistris e a fine agosto attendiamo anche il camp di Potere al Popolo”. L’oasi di Sovereto rientra nella campagna RigeneriAmo la natura, concepita da Legambiente con il supporto di Intesa San Paolo e Notte della Taranta per salvaguardare l’habitat e frenare l’erosione costiera. Il Riot è un villaggio ripartito in piazzole regionali e una “piazza nazionale”. Poi c’è il palco dei concerti, l’area riunioni, lo spazio dibattiti e gruppi di lavoro, i punti ristoro. Al baretto incontriamo Giulia Biazzo, 22 anni, siciliana di Vittoria. Da qualche tempo è la coordinatrice nazionale di Uds: “Questo Riot si può definire un ecosistema felice in mezzo alla miseria del presente. Quest’anno festeggiamo i 25 anni e ne è passata acqua sotto i ponti dal 1994 quando Uds venne fondata dalla confluenza dei gruppi di Milano con i sindacati studenteschi tosco-emiliani e i collettivi antimafia di Sicilia e Campania”. Per il 25ennale sono scesi in Calabria Luciana Castellina, Don Ciotti, Francesca Chiavacci di Arci, Franco Sinopoli di Flc. Hanno dibattuto di ‘68, di social forum, di lotta alle mafie nei territori. Biazzo ripercorre la lunga storia dell’Uds. Dal primo statuto degli studenti nel 1998 alla decisione di estromettere le giovanili di partito nel 1999 “per una liberazione dei saperi fuori dalle geometrie di partito”. Poi la nascita della rete studentesca, Genova 2001, la decisione di andare ugualmente in Piazza Alimonda malgrado il niet della Cgil. La Cgil, appunto. “Con i confederali stringemmo un patto di lavoro, non neghiamo ci fosse una dipendenza economica da loro pur nell’indipendenza di azione politica, specie nei territori”. Poi il patto si rompe nel 2006, Uds prosegue da sola, subisce la scissione di Reds (Rete degli studenti medi) e nel 2010 guida il movimento dell’Onda. “Un grande movimento di massa contro la Riforma Gelmini, il berlusconismo, l’aziendalizzazione delle scuole, perché la crisi non volevamo né dovevamo pagarla noi”. Poi si arriva ai giorni nostri, a Renzi, alla legge 107, al 5 maggio 2017 con “lo sciopero sociale contro la buona scuola”. Infine il governo giallo-bruno, “con il 30% degli studenti che vota Lega - rammenta Biazzo - L’individualismo imperante che tuttavia non vuol dire necessariamente indifferenza quanto piuttosto crisi di partecipazione come necessità di una nuova partecipazione. Il mondo scolastico di oggi genera depressione, stress, affaticamento, competizione sfrenata, solitudine, vige un sistema punitivo e afflittivo, dove le telecamere fuori dagli istituti servono al controllo sociale mentre gli edifici sono logori e vetusti. Aprire un giornaletto d’istituto è ormai complicato e fare propaganda politica un’impresa. Ecco perché c’è la necessità di un vero sindacato studentesco, un sindacato politico come direbbe Trentin”. Ora la speranza degli studenti è riposta nei Fridays for future, “parole semplici per riconquistare il futuro a partire dal prossimo sciopero del 27 settembre per il futuro, il lavoro, l’ecologia”. L’autunno sarà caldo, anzi caldissimo, qui ne sono tutti convinti. “Sfideremo questo “governo del peggioramento” a cominciare dall’assemblea nazionale degli studenti di metà ottobre contro l’aziendalizzazione delle scuole, i Pcto che non superano l’alternanza scuola-lavoro ma anzi l’aggravano in nome dell’autoimprenditorialità e contro la graduale svalutazione del valore legale del diploma. E comunque reclameremo un nuovo modello di sviluppo contro razzismo e sessismo perché in ogni caso non vogliamo scuole d’oro in un mondo di merda!”. Anche gli universitari sono pronti a mobilitarsi in vista di settembre. “L’autonomia universitaria produce disuguaglianza, atenei di serie a e b - rimarca Camilla Guarino della Link - Così come nefasti sarebbero gli effetti dell’autonomia regionale differenziata. Già oggi regioni come la Calabria non coprono le borse di studio a differenza di altre come il Piemonte e rendere strutturale questa disparità sarebbe incostituzionale. Così come aberrante è il cosiddetto prestito d’onore che il ministro ha proposto. Anche noi siamo interessati ai Fridays e su questo movimento investiamo tanto, per riappropriarci del nostro futuro, cambiare la società per cambiare l’università, una università nuova, aperta, inclusiva, con finanziamenti per tutti, per dare una direzione nuova al paese”. Il village si è chiuso ieri e il bilancio è più che positivo. C’è un incremento di partecipazione inaspettato. Gli organizzatori calcolano 1.300 campeggiatori, il 40% in più del 2018. C’è fame di politica, di incontrarsi, di fare società reale, lontana dalle solfe delle dirette Facebook di Salvini e dalle panzane di “democrazia diretta” della Casaleggio Associati. La spiegazione di questo successo del Riot 2019 prova a darcela Stefano Kenji Iannillo, dell’Arci di Avellino, un attivista che di Riot non se ne perde uno da 13 anni. “Essere riusciti a ospitare il Riot in un luogo politico gestito da Arci, in cui si fa turismo responsabile, in cui un bene comune viene restituito alla collettività e sottratto alle grinfie della mafie è di per sé un fattore determinante per il successo. Questo è un luogo includente, non gerarchico e la sinistra sulla questione di come si sta insieme, di quali luoghi si scelgono per confrontarsi ha fallito in questi anni. Qui invece proviamo a fare pedagogia sociale, pedagogia della resistenza con prezzi popolari, Km 0, plastica 0, politica ovunque. C’è un convivere cooperativistico, turni di lavoro uguali per tutti, i giovani non sono a capo chino riversi sullo smartphone, a me sembra un piccolo socialismo eterodosso. E c’è persino l’abolizione del tempo, da buoni rivoluzionari”. Arrivederci, dunque, al 2020. Per riconquistare il futuro, abbandonando le miserie del presente. Bologna: la letteratura in carcere, un mezzo di redenzione di Chiara Pazzaglia Avvenire, 7 agosto 2019 La docente Paola Italia: “Testi come quelli di Sciascia stimolano una riflessione tra i detenuti sulla loro condizione”. Non sono letture “di evasione” quelle affrontate dal Circolo dei Lettori della Dozza, ma approfondimenti culturali sulla letteratura moderna e contemporanea, divenuti, poi, anche strumento di riflessione sulle proprie condizioni di vita. Al carcere bolognese della Dozza si è appena concluso il primo ciclo di incontri letterari ideato dalla professoressa Paola Italia, docente di filologia e letteratura italiana dell’Università di Bologna, che ha coinvolto una quindicina di detenuti e circa 20 studenti. “L’idea, subito accolta dall’amministrazione carceraria, è nata con uno scopo puramente culturale, dal momento che alcuni carcerati sono nostri studenti” spiega la professoressa. Col tempo si è trasformata in un’attività ad alto impatto sociale: “La scelta dei volumi, da “Il giorno della civetta” di Sciascia, a “Fine pena: ora” di Fassone, ha stimolato una riflessione più ampia sulla particolare condizione di vita che si trovano ad affrontare i detenuti. D’altra parte -prosegue la docente - oltre ad occuparsi della didattica e della ricerca, è compito dell’Università portare sul territorio, anche in luoghi insoliti, saperi e competenze”. Le letture affrontate “sono state scelte insieme agli studenti che, volontariamente, hanno aderito all’iniziativa”. Le Facoltà umanistiche sono spesso tacciate di scarsa aderenza alla realtà quotidiana, ma “un’esperienza simile ha senz’altro consentito agli studenti coinvolti di non vivere lo studio della letteratura finalizzandolo solo al superamento degli esami e all’apprendimento di nozioni, ma dandogli un senso concreto”. Ed è la studentessa Laura Fugazza a fornire la chiave di lettura di questa scelta: “Ero già impegnata in carcere per seguire i detenuti iscritti a Lettere - spiega. Ho capito che il confronto con i personaggi dei volumi proposti, tutti donati dai relativi editori, poteva stimolare una riflessione non solo di tipo culturale, ma anche morale”. Infatti, di fronte ad alcuni testi “i partecipanti hanno espresso le difficoltà della loro condizione. Ad un incontro ha partecipato la scrittrice Alessandra Sarchi, rimasta invalida a seguito di un incidente: nella sua limitazione fisica i detenuti hanno ravvisato la loro. Anch’essi si sentono vittima di un “incidente” che ha cambiato per sempre la loro vita, che li ha destinati ad un’esistenza che percepiscono senza possibilità di riscatto”. I partecipanti stanno tutti scontando pene di lunga durata: “Molti di loro si impegnano a studiare le leggi, per cercare di comprendere la loro condizione giuridica. Da questa esperienza, però, è emerso che il problema della consapevolezza del proprio status non deve essere affrontato solo in termini legali ma anche etici. La vera riabilitazione passa da una presa di coscienza morale, prima che giuridica, dell’errore commesso e in questo la letteratura può essere strumento di riflessione”. Lo sa bene Pasquale, ergastolano che ha scritto alcune poesie ispirate alle letture affrontate: esse descrivono lo sconforto, il dolore, il rimpianto comportati dalla detenzione con l’efficacia e il pathos che può esprimere solo chi la vive. Pasquale ha scoperto così, come gli antichi, il potere catartico della letteratura. Civitavecchia: “Liberi dentro”, la solidarietà di Sant’Egidio ai detenuti di Stefania Mangia Il Messaggero, 7 agosto 2019 Affollata presentazione, l’altra sera alla Mondadori, di “Liberi dentro”, libro di Ezio Savasta, seduto di fronte ad una platea interessata. Racconti emozionanti, i suoi, di un volontario della Comunità di Sant’Egidio che dal 1992 visita ed aiuta detenuti dei penitenziari romani, instaurando con loro rapporti di autentica amicizia. “Il sentirsi importanti per qualcuno, per uno di noi volontari, spesso allontana da gesti inconsulti detenuti soli, lontani da casa o privi di famiglia. - ha sottolineato Savasta. La speranza è che in queste pagine la distanza e la separazione tra il mondo degli uomini liberi e quello della detenzione si possa accorciare e che, dopo averlo letto, passando vicino alle mura di un carcere, che a Civitavecchia sono nella città, si abbia la consapevolezza di quanta umanità e sofferenza ci siano dietro quelle sbarre”. Una sofferenza forte, dura, come traspare anche dalle sincere parole del giudice onorario del Foro locale, Anna Puliafito, ospite della presentazione. Ma la città quanto sa di tutto ciò? Il libro di Savasta è servito a fare un po’ di luce sulla complessa macchina di attività quotidiane nei due penitenziari di Via Tarquinia e via Aurelia Nord, alimentate da una serie di realtà (la Asl è tra queste). Attività che sarebbe impraticabile senza la volontà della direzione della Casa Circondariale e della Casa di reclusione, e senza la collaborazione del personale tutto della Polizia penitenziaria con gli educatori. “Tra i primi nel Lazio ad entrare nelle carceri con il dipartimento di salute mentale, che abbiamo riorganizzato - ha raccontato il commissario straordinario Asl Rmf 4, Giuseppe Quintavalle - grazie al protocollo d’intesa con la direttrice Bravetti ora abbiamo le linee guida sulla prevenzione dei suicidi. Con la musicoterapia abbiamo avviato una progettualità di riabilitazione per pazienti con disturbi psichici che, subito visitati appena arrivano e sottoposti a test da parte del nostro personale, se valutati “a rischio” sono destinatari del corso di formazione per “Peer supporter” (arrivato alla quarta edizione). Che significa? Su base volontaria un detenuto diventa “coach”, quindi confidente ed amico del detenuto in difficoltà, per alleviare gli effetti dell’esecuzione della pena”. “La direzione ha consentito alla Asl di svolgere al meglio il suo lavoro all’interno delle carceri per mezzo di attività per detenuti con problemi psichici (attraverso l’azione congiunta di Sert e Csm), per offrire un servizio completo al territorio - ha spiegato la direttrice, Patrizia Bravetti. Era il 2009 quando autorizzai la campagna della Comunità di Sant’Egidio “Liberate i prigionieri in Africa” con la raccolta di 1 euro per liberare altri detenuti nel mondo. Nell’ottica di vicinanza agli ultimi, poi, i pranzi di Natale sono diventati fondamentali, con il risultato, grazie a Massimo Magnano e ai suoi collaboratori, di ben tre fatti quest’anno: uno al femminile e due per gli uomini. Ciò affianca innumerevoli altri progetti che come amministrazione penitenziaria portiamo avanti da tempo con il territorio per migliorare la vita del detenuto (Scuole, Associazione teatrale “Blue in the face”, Università, tenimento agricolo, etc.) - ha concluso - frutto dell’enorme lavoro di collaborazione svolto dal personale della Polizia penitenziaria in una ricca interazione tra carcere e territorio”. Trapani: arrivano nuove donazioni per i detenuti di Ornella Fulco trapanisi.it, 7 agosto 2019 L’appello lanciato qualche mese fa sulla pagina Facebook continua a produrre frutti. Nuove donazioni, infatti, sono giunte alla Casa circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani a beneficio dei detenuti. L’associazione Live Onlus, presieduta da Andrea Zalamena e rappresentato per l’occasione dalla tesoriera Francesca Fontana, ha donato tavolini e sedie di plastica e delle copertura in canneto da collocare nei cortili di passeggio dove i detenuti trascorrono le loro ore d’aria, un regalo particolarmente utile e gradito in questi mesi di gran caldo estivo. Costituita nel giugno 2008, la Live Onlus ha portato a termine progetti di varia natura con i fondi raccolti attraverso le aste benefiche. A sostegno dei suoi progetti collaborano numerosi club calcistici professionistici come Parma, Livorno, Genoa, Brescia, Latina e Trapani. Tra i suoi testimonial più prestigiosi i calciatori Leonardo Bonucci, Patrick Cutrone e Alvaro Morata. La Live onlus ha fatto sapere che continuerà nella beneficienza in favore dei detenuti, attraverso ulteriori iniziative che sono attualmente allo studio. Anche i detenuti della sezione “Ionio” del carcere trapanese hanno ricevuto in dono, dalla parrocchia “Madre della Divina Provvidenza” di Bari un calcio balilla che consentirà loro un po’ di svago durante la detenzione. “Siamo lieti - si legge sulla pagina della Casa Circondariale - di sapere che in Italia esistono ancora persone che credono nei valori della solidarietà verso i soggetti più deboli della società”. Sassari: dietrofront, il candeliere lunedì balla in carcere La Nuova Sardegna, 7 agosto 2019 Sembrava una impresa impossibile, un appuntamento ormai perso per questioni di tempo e per qualche disattenzione di troppo. Invece l’iniziativa della Nuova Sardegna che ha sollevato il rischio della cancellazione dell’esibizione del candeliere dei detenuti nel carcere di Bancali ha portato il risultato sperato. Il candeliere di San Sebastiano ballerà in carcere, a Bancali. La conferma è arrivata ieri pomeriggio direttamente dal Comune: “Alle 9,30 nella Casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” di Bancali, organizzata dalla direzione dell’istituto, ci sarà l’esibizione del Candeliere di San Sebastiano, alla presenza del sindaco Gian Vittorio Campus e della giunta. Durante l’evento il sindaco ringrazierà la direttrice Patrizia Incollu e consegnerà ai detenuti una targa in ricordo dell’iniziativa”. Non tutto quello che a prima vista non si può fare e si considera definitivamente saltato, quindi, deve essere considerato cancellato. Ed è curioso che questa lezione arrivi direttamente dal carcere. Anche il segretario dell’Integremio Fabio Madau aveva dichiarato alla Nuova che non c’erano più i margini per organizzare la sfilata in carcere. “Gli altri anni già da luglio avevamo preso accordi con la direzione dell’istituto, con il garante dei detenuti e con il Comune”. La corsa contro il tempo per difendere quella parentesi di libertà dentro il carcere e consentire ai detenuti di partecipare alle tradizioni di Sassari è salva. A volte si può fare. E basta davvero poco. Televisione. “Noi detenuti sulla Francigena”. La lunga marcia diventa un reality di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 agosto 2019 A dei carcerati è stato concesso di andare da Roma a S. Maria di Leuca a piedi. La serie “Boez-Andiamo via”, prodotta da Rai fiction, andrà in onda su Raitre dal 2 settembre. “Il giudice mi ha tolto la patria potestà e non ha sbagliato, perché la legge dice che con la vita che facevo io non potevo crescere i figli - racconta Francesco, boss figlio di boss, condannato per estorsioni, rapina e sequestro di persona. Questo viaggio serve per dimostrare anzitutto a me stesso che sono migliore di quello che ero, che ce la posso fare anche con una vita diversa da quella che ho fatto”. E Maria, origini nomadi, arrestata prima di compiere 16 anni per furto, un matrimonio imposto e vissuto “come uno stupro”, un’incurabile fobia per i serpenti: “Da noi i maschi sono viziati e considerati migliori, qui invece siamo tutti uguali”. Il traguardo è l’inizio - Francesco e Maria parlano mentre camminano insieme ad Alessandro, Kekko, Matteo e Omar, altri giovani detenuti dall’aspetto già adulto; un viaggio a piedi lungo e faticoso, da Roma a Santa Maria di Leuca, la punta estrema dello stivale: 800 chilometri in 60 giorni attraverso l’antica via francigena, che un tempo conduceva i pellegrini in Terrasanta e adesso consente a sei carcerati di riavvicinarsi al mondo che s’erano lasciati alle spalle entrando in prigione. Un presente senza sbarre e muri che può trasformarsi in futuro; un cammino verso la liberazione definitiva che passa dal recupero di se stessi. “Arrivare in fondo sarà un traguardo, ma anche un nuovo inizio”, confida Kekko, la pelle coperta di tatuaggi a testimonianza della vita vissuta finora - manette, pistole, il leone che credeva di essere - ma con uno spazio ancora intonso su una gamba: “Qui ci andrà la Statua della libertà, accompagnata dalla scritta “libero da tutto”. Tra tensioni e speranze - Il raggiungimento della meta diventerà il punto di ripartenza per un’esistenza diversa che comincia a prendere forma lungo il cammino: tappe da 15 o 20 chilometri, notti in tenda o in ricoveri che dipendono dall’ospitalità degli altri, 15 euro al giorno che devono bastare per tutto, l’aiuto e l’ascolto reciproco accompagnati da una guida di lunghe distanze, Marco, e un’educatrice con esperienza di dinamiche di gruppo, Ilaria. Un’esperienza resa possibile dal ministero della Giustizia che ora è narrata da “Boez-Andiamo via”, una serie tv di 10 episodi prodotta da Rai fiction trasmessa da Raitre a partire dal 2 settembre. Un reality innovativo e un po’ “rivoluzionario” come il progetto di base, scandito dai passi dei sei protagonisti che a volte s’interrompono per via di tensioni e contrasti che qualcuno vorrebbe risolvere secondo le vecchie abitudini; ma la logica del gruppo impone il confronto e la necessità di comprendere le ragioni degli altri. Pratiche sconosciute a chi rispettava solo la legge del più forte ma adesso, attraverso il dialogo, scopre una nuova dimensione delle regole e dell’amicizia: “Sulla strada non c’è amicizia ma solo interesse. Qui è diverso”. Da fuorilegge pensavano di essere liberi, sbagliando : “Sulla strada non sei mai libero; forse lo sei per la giustizia, finché non ti prendono, ma dentro di te no. Ora invece mi sento libero perché non devo dimostrare niente a nessuno”. Orgoglio e pregiudizio - La strada non è più terreno di conquista, ma diventa uno spazio dove incontrare persone che offrono ospitalità e svelano esperienze diverse, usi e costumi sconosciuti. È il mondo di fuori che aiuta a guardarsi dentro, a rivalutare il valore dei soldi guadagnati con fatica e difficoltà, che fanno svanire il fascino della malavita. “A me piaceva incutere il terrore nelle persone, e adesso se ci ripenso mi faccio schifo da solo”, confessa Alessandro, che però sceglie di sottrarsi a una serata con una comunità di profughi: “Sento un attrito verso di loro che non riesco a superare, e siccome è meglio prevenire che curare preferisco non vederli proprio”. Si apre un dibattito, Marco - la guida - spiega che se avesse seguito lo stesso pregiudizio nei confronti suoi e degli altri detenuti non avrebbe vissuto l’esperienza più importante della sua vita. Finché Alessandro ammette: “Devo ampliare le mie vedute”. E il cammino prosegue. Teatro. Armando Punzo e i detenuti della Fortezza: viaggio dentro le Nature di Alessandro Cannavò Corriere della Sera, 7 agosto 2019 Prende forma il nuovo spettacolo della storica compagnia del carcere di Volterra. E ora nella Rocca medicea che lo ospita si pensa di costruire un teatro stabile. Da oltre trent’anni Armando Punzo riesce a far “evadere” i detenuti del Carcere di Volterra attraverso il percorso teatrale che conduce con la Compagnia della Fortezza. Un’esperienza ormai conosciuta da un vasto pubblico e consacrata dalle istituzioni, anche se le ostilità e i pregiudizi sono sempre in agguato. E però ogni estate, quando per alcune giornate i portoni della prigione si aprono agli spettatori esterni, la rappresentazione alla Fortezza diventa un evento memorabile mantenendo intatta la forza che scaturisce dal contrasto tra la fisicità possente del carcere e il valore spirituale della ricerca artistica. La doppia bellezza - Se parliamo di questa realtà all’interno de Il Bello dell’Italia è perché alla intatta bellezza di Volterra che ha nella fortezza medicea svettante sulla val Cecina il suo marchio inconfondibile, si aggiunge l’anelito incessante di un’altra bellezza, quella che può dare la speranza di una rigenerazione umana. Sia chiaro: Armando Punzo, autore, regista, attore, asciutto nei modi tanto quanto nel fisico, non ha mai avuto intenzione di creare un’attività artistico-sociale per i carcerati, una delle tante (benemerite) che cercano di riempire e dare un senso alle giornate di chi si trova dietro le sbarre. Ma ha trovato nel carcere (e quello di Volterra, per tanto tempo di massima sicurezza, risuona ancora, tra gli altri, degli echi sinistri della stagione del terrorismo) l’ambiente ideale per dimostrare il potere di trasformazione del teatro.Le vite drammatiche di persone condannate a lunghe pene (alcuni detenuti sono anche ergastolani) diventano il terreno fertile per una possibile metamorfosi. L’allontanamento da sé - C’è un’idea di fondo che guida il lavoro di Punzo attorno a questo trentennale: è il distaccamento graduale dalle umane passioni, quelle che portano alla sopraffazione, alla violenza, al dolore. Un percorso dantesco che ha come protagonisti-spettatori Lui e il Bambino. Già nel 2016, nel finale di Dopo la Tempesta, riflessione sulla tragedia shakespeariana, i due personaggi prendendosi per mano voltavano le spalle a quel mondo di intrighi raccontato dal grande drammaturgo inglese per intraprendere un viaggio di allontanamento da sé. Che l’anno scorso aveva trovato un primo approdo in Beatitudo, con la rievocazione (attorno a un suggestivo lago/liquido amniotico che occupava la superficie del cortile della fortezza) dei personaggi simbolisti e dunque senza tempo di Borges. Ora siamo alla terza fase, che come ogni nuova avventura teatrale di Punzo si articola in due anni di lavoro. Ed è la più ardua. Perché Naturae - Ouverture, questo il titolo dello spettacolo di cui è stata presentata una prima versione/studio in attesa della forma definitiva in scena nel 2020, non vuole riflettere solo sul rapporto tra l’uomo e il resto del creato, del tutto indifferente (e superiore) alle nostre esistenze; ma cerca, dice Punzo, “di scoprire quelle nature che sono dentro di noi, un mondo intero di qualità che cercano di emergere dal pozzo in cui le abbiamo relegate: Armonia, Letizia, Stupore, Innocenza”. L’astrazione che si fa spettacolo - Come si traduce sulla scena questa splendida utopia che aspira a trasformare l’Homo sapiens in Homo felix? Qui sta la cifra inconfondibile degli spettacoli della Fortezza: rappresentare l’astrazione con la forza e la bellezza concreta dei corpi e delle parole, dei costumi e dei trucchi, delle musiche e dei silenzi. Un lavoro corale di alta qualità che vede nel corso dell’anno i detenuti partecipanti a questa esperienza attorniati da molti professionisti e volontari, pronti ad aiutare e ad insegnare ogni aspetto della fabbrica teatrale. Quest’anno il “viaggio” è cominciato sotto una frondosa robinia, luogo di accoglienza e conforto che smorza l’inquietudine del cortile della prigione: un uomo che ruota su sé stesso con lo sguardo verso l’alto, una donna che sale su una scala diretta all’infinito. I versi declamati sono frutto di una scrittura drammaturgica che prende spunto da molti testi. Punzo ama citarne uno per tutti, il Verbo degli uccelli del poeta persiano Farid al-din Attar. Poi ecco avanzare ieratica l’armata (un’immagine ricorrente di Punzo) munita di canne di bambù al posto delle lance, di cappelli con piume di volatili invece che degli elmi. O addirittura di velieri. In mano, ogni “soldato” porta una piantina diversa, un “esercito” di specie vegetali da abbeverare con la speranza. Forme circolari di un sole dorato toccano i volti e si completano negli abiti. Le musiche originali sono coinvolgenti, i tamburi dal vivo accentuano il senso di ritualità. Nel gioco dei simboli, la mela rossa del peccato originale diventa lo strumento per recuperare l’innocenza, il totem da mangiare e poi si ripresenta moltiplicata nella forma armonica di una spirale. L’altro emblema ricorrente è rappresentato dal sale, elemento indispensabile per la vita. Lo svolgimento di questo studio prevedeva anche il passaggio degli spettatori nelle “gabbie” per l’ora d’aria dei detenuti sottoposti a trattamenti di detenzione di sicurezza. Qui gli attori sommersi dal sale declamavano riflessioni esistenziali. Immagini plastiche, come quella di una donna distesa su un tavolo e coperta da un panno bagnato, un “quadro” che rimanda al Cristo velato della Cappella San Severo a Napoli. E ancora, una scena corale all’interno di una chiesetta sotterranea, uno degli angoli sorprendenti che rivelano la storia stratificata della Fortezza di Volterra. Questo peregrinare visivo e interiore può affascinare o anche risultare eccessivo e faticoso. Sarà interessante, come sempre, vedere l’anno prossimo Naturae nella sua forma definitiva (magari del tutto trasformata). La scommessa del teatro stabile - Resta, questa della Fortezza, un’esperienza unica, che ha emanato la sua energia anche fuori dal carcere rilanciando l’immagine di Volterra. Ecco che si riaffronta (dopo tanti anni di dibattiti che non hanno avuto alcuno sviluppo) il tema della costruzione di un teatro stabile, un luogo più idoneo per lo studio, i laboratori, i workshop che costituiscono l’attività teatrale costante del carcere di Volterra durante l’anno; luogo in cui studenti, ricercatori, artisti, entrano in contatto con la realtà carceraria. Verifiche archeologiche permettendo, (Volterra rivela ovunque nel sottosuolo il suo glorioso passato etrusco e qui sulla rocca della fortezza nell’antichità c’era l’acropoli) si potrà avviare la fase progettuale. I finanziamenti in gran parte ci sono già. Sarà per Punzo e la sua Compagnia un punto di ripartenza. Che però si nutre di 30 anni di utopia coltivata e realizzata. Un tempo che il regista ha voluto ripercorrere con il libro “Un’idea più grande di me” (Luca Sossella Editore) nella forma di conversazione con Rossella Menna, da sempre testimone del lavoro della compagnia. È il ritratto di un uomo insofferente a ogni schema che ha trovato una grande, insolita famiglia per perseguire il suo sogno. Che poi è il sogno di tutti noi. Teatro. “Recitare aiuta le detenute a non perdersi nell’oblio” di Cinzia Valente gnewsonline.it, 7 agosto 2019 Intervista a Donatella Massimilla. regista teatrale del Cetec Dentro e Fuori San Vittore. Dello spettacolo teatrale “Diarios de Frida. Viva la Vida”, andato in scena a fine luglio nel giardino di Triennale a Milano, e della mostra fotografica che lo accompagna abbiamo già scritto in diverse occasioni. Oggi vogliamo parlare del progetto con Donatella Massimilla, regista e anima del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) - Dentro e Fuori San Vittore. Quali reazioni ha avuto il vostro spettacolo andato in scena il 23 luglio? Quali sono stati i giudizi degli spettatori? “Siamo stati molto colpiti dalla reazione del pubblico di Triennale. Sapevamo di avere, anche per motivi tecnici, il pubblico molto vicino, e si è creata una relazione diretta e intima: l’attenzione e il silenzio con cui ogni singolo momento e parola delle nostre Fride è stata accolta hanno regalato intensità e un’atmosfera davvero unica. Alcune attrici sono scese dalla pedana e andate a ‘parlarè sfiorando da vicino le persone intervenute. Gli sguardi si sono incrociati e le emozioni condivise”. Le attrici, detenute ed ex detenute, hanno portato sul palco la grande artista messicana Frida Kahlo, pittrice tra le più grandi e figura carismatica… Che cosa le protagoniste nel percorso di preparazione e recitazione portano con loro nel tempo? “Tantissimo. Il lavoro di avvicinamento all’opera di Frida è lungo, preparato con letture collettive, incontri, analisi delle opere improvvisazioni teatrali e visioni - oltre al celebre “Frida” hanno visto “Frida, Naturaleza Viva” film del 1986 interpretato dall’attrice messicana Ofelia Medina. Una reclusa, che interpreta il personaggio di Diego Rivera (marito di Frida Khalo, ndr) mi ha recentemente confidato che solo dopo un anno di lavoro sul percorso fra persona e personaggio ha compreso in modo profondo quanto sia stato necessario conoscere e rispecchiarsi in modo autentico nel mondo interiore della pittrice e di chi, anche tradendola, l’aveva sempre amata. Un’altra delle nostre Fride, ora lavora all’esterno ed è quasi libera, racconta che Frida è una donna molto contemporanea, che la sente vicina in ogni suo passo di reinserimento sociale e affettivo, le trasmette forza e coraggio nell’affrontare momenti difficili. Ci sono anche delle ex detenute che ci hanno chiesto di continuare il percorso artistico anche una volta uscite dal carcere, vogliono continuare a produrre materiali, come le lettere e i messaggi inviati alle Fride di Dentro. Da queste pagine di diario incrociate nascerà una prossima pubblicazione a cura di Diego Sileo, un docu-film. Ne siamo felici”. Quando ha preso corpo il progetto dello spettacolo su Frida Kahlo? “Il nuovo viaggio con le Fride di Dentro e le Fride di Fuori, come io amo chiamarle, ha inizio oltre un anno fa quando sono stata invitata a Città del Messico a incontrare le realtà di teatro e carcere del Paese centramericano dall’Unodc, Agenzia dell’Onu, ospite dell’Associazione per l’Alta Giustizia”. Nel corso della sua lunga esperienza di regista nel mondo delle carceri quali differenze ha notato tra le detenute che hanno intrapreso percorsi teatrali e coloro che non hanno partecipato a questo tipo di laboratori? “Il teatro consente di lavorare sulle emozioni in modo delicato e poetico, tema centrale in un percorso formativo ed educativo a favore di persone detenute in carcere. Uno dei rischi maggiori per chi abita il carcere è di rimuovere il passato e alienarsi dal presente, privandosi così di un futuro dove ricostruire il proprio Io. Il teatro aiuta a mantenere un legame con le proprie storie e a rielaborarle. L’abitare il carcere non dovrebbe mai comportare la perdita di riferimenti temporali, dei quali occorre invece prendersi massimamente cura. Ecco, noi aiutiamo in questo lavoro di cura di legame con le loro storie, con le loro emozioni. Per non ripeterle, per andare oltre. È un lavoro sul cambiamento e su quanto l’arte e la cultura possano essere uno strumento di cambiamento”. Lei non è da sola in questo lavoro… “No, ad accompagnarmi nel mio lavoro nelle carceri e nei luoghi del disagio da 15 anni c’è al mio fianco Gilberta Crispino. Un’amica, attrice, cantante e doppiatrice. Mi supporta nel lavoro pedagogico e di formazione attoriale conducendo laboratori espressivi fisici e vocali, ma soprattutto trasmettendo il suo sapere istintivo, non solo tecnico o professionale, nel comunicare emozioni attraverso la voce e il corpo. Corpo che le recluse in generale tendono, in modo diverso dagli uomini detenuti, a negare. Sicuramente chi ha svolto una formazione teatrale ha affrontato in modo diverso il suo reinserimento lavorativo. Penso alle sarte della cooperativa sociale Alice, o anche ad alcune cuoche della sezione femminile di San Vittore”. Film, libri, stereotipi: lo spettacolo delle mafie di Marco Demarco Corriere della Sera, 7 agosto 2019 Resta un dubbio: a cosa sono servite oltre trecento pellicole e tremila volumi dedicati alla criminalità organizzata? Cosa succede a Maria Capasso (Luisa Ranieri) nell’ultimo film di Salvatore Piscicelli? Siamo a Napoli, periferia operaia. È qui che il regista inizialmente la colloca. Da moglie e madre dolente, la ritroviamo però nei panni di una dark lady, con il senso morale sotto i tacchi a spillo. Ora gira con una pistola nella borsa griffata, fa affari con la droga, e porta a spasso il nipotino nella villa del quartiere bene. Non è la camorra che si è servita di lei, ma il contrario. Una metafora da tenere a mente. Romanzi, saggi, inchieste, memoriali: tra il 1948 e il 2018, in Italia sono state scritte 3.365 monografie che riportano nel titolo i termini mafia, camorra o ‘ndrangheta. Negli stessi anni sono stati realizzati 337 film, a partire da I contrabbandieri del mare di Roberto Bianchi Montero, il primo in assoluto. Senza contare quello che si è visto in tv e nel web. Cosa ha prodotto tutto questo? Un paradosso: non riusciamo più a distinguere la fenomenologia mafiosa dalla sua riduzione illusoria. La tesi di Marcello Ravveduto (Lo spettacolo della mafia. Storia di un immaginario tra realtà e finzione, edizione Gruppo Abele) è che siamo finiti in una gigantesca camera degli specchi il cui effetto addizionale/moltiplicatore sta creando nuovi stereotipi mafiosi. I quali, a loro volta, alimentano dall’interno il circuito autoreferenziale dei media, interponendosi tra realtà e memoria, tra Storia e fiction. La rappresentazione delle mafie ci sta dunque scappando di mano. Ultimo grido di allarme, quello di Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro, contro “chi scrive certe porcherie”. Questa storia - ricorda l’autore - comincia ai tempi di Alexandre Dumas padre, Maxime Du Camp, Marc Monnier e Jacques Élisée Reclus. Sono loro, tutti francesi, che tra il 1862 e il 1865 “inventano” la camorra come problema “a parte”, come espressione delle sole “classi pericolose”, dando così avvio al processo di “folklorizzazione” delle organizzazioni criminali. Ma poi le cose si complicano. Se ne accorge Sciascia, quando per recensire Salvatore Giuliano di Rosi (1961) decide di vederlo in mezzo a un pubblico di contadini poco abituati a frequentare le sale cinematografiche. Questi ridono all’apparire sullo schermo di una madre che piange il figlio morto, e si esaltano, come davanti a qualcosa di mistico, quando viene evocata la figura di Giuliano. Il regista va da una parte e il pubblico, quel pubblico, da un’altra. È il momento in cui inizia il grande equivoco della rappresentazione mafiosa, lo stesso che toccherà anche Il Padrino e Gomorra. Si arriva così all’ultima dirompente novità. Nel recente passato, infatti, mafiosi e camorristi parlavano col silenzio, celandosi: mostravano il proprio potere dissimulandone gli effetti criminali. Ora, invece, addirittura si raccontano, e postano foto e video sui loro profili social. E questo - nota Enzo Ciconte nella prefazione - se da un lato ci conferma che tra i mafiosi ci sono anche i cretini (“nell’abbaglio dei nuovi media hanno dimenticato uno dei principi cardine della tradizione: ‘a megghiu parola è chidda ca ‘un si dici”), dall’altro ricorda anche quanto importante sia, per loro, almeno a partire da Raffaele Cutolo, la conquista del consenso attraverso l’occupazione della scena. Resta, però, una questione sospesa. Se il risultato è il labirinto in cui siamo, se Maria Capasso fa la fine che fa, si può essere soddisfatti di come cinema e letteratura hanno raccontato le mafie? E posto che i più temuti sono i film in cui i boss vengono ridicolizzati (come accade in quelli di Jûzô Itami contro la yakuza giapponese) si possono contare, in Italia, più di tre o quattro titoli di questo tipo? Perché, infine, è così frequente che certe produzioni di successo finiscano per alimentare il mito criminale e piacere agli stessi boss? L’impressione è che in Italia sia stato più facile fare antipolitica che fiction antimafia. Quando i migranti eravamo noi: ecco i diari di viaggio degli italiani di Valeria Dalcore Corriere della Sera, 7 agosto 2019 La partenza, il lavoro, la nostalgia, l’amore. Una piattaforma online aperta della Farnesina raccoglie i racconti di chi ha lasciato il nostro Paese. Tutti possono contribuire. È tutto scritto: i viaggi, i ritorni, il distacco, le difficoltà, l’amore, la guerra, la famiglia, i successi e le speranze. C’è Carola Zanchi, nata nel 1922 ad Arezzo, che ha raggiunto l’Argentina con il marito e il piccolo Giovanni dopo un viaggio drammatico che ha racchiuso in una memoria del 1988. C’è Antonio De Piero, classe 1875, rimasto orfano da piccolo. È operaio a soli 15 anni nei territori dell’Impero Austro-ungarico e seppur gracile sopravvive a duri lavori, si sposa, ha cinque figli e vola in Canada per lavorare sette anni nei giacimenti di ferro, oro e carbone. Tenta di tornare in patria nel 1919 ma la depressione che soffoca l’Europa brucia i risparmi di anni di fatiche. Luciano Giovanditti lascia la Puglia negli Anni 50 e va in Francia, dove il lavoro in fabbrica e la lontananza dalla madre lo fanno ammalare di depressione, curata solo dal ricongiungimento con il padre in Germania. Con sacrificio mette da parte qualcosa e torna a casa, restando per tutti “il francese”. Sappiamo di queste e di molte altre vite perché sono state raccontate da chi le ha vissute. Per la loro potenza narrativa sembrano sceneggiature cinematografiche e invece sono le vite di centinaia di italiani che tra l’Ottocento e oggi hanno lasciato questo Paese per attraversare il mondo. Ieri come oggi, loro come ogni popolo. Questi duecento narratori spianano la strada al progetto “Italiani all’estero, i diari raccontano” e non sono scrittori di professione, hanno semplicemente sentito il bisogno di affidare alla carta e alla parola la loro esperienza, per sublimare intimamente i fatti o semplicemente per lasciarli a qualcuno. Sono loro stessi o i loro discendenti ad averli dati in custodia con fiducia all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che li aveva catalogati tutti nella categoria “emigrazione”. Dopo un’accurata selezione di autori e pagine - alcuni ne hanno scritte migliaia - oggi sono diventati patrimonio collettivo mondiale sulla piattaforma www.idiariraccontano.org, realizzata grazie al contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e, come ci dicono gli archivisti, anche grazie alla sensibilità di Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie. Ogni pagina originale, che sia un diario, un quaderno di memorie o una lettera, è stata digitalizzata e trascritta, titolata, collocata nel tempo e nello spazio e indicizzata con parole chiave. La navigazione è ricca di storie sorprendenti: come quella di Luca Pellegrini, un ragazzo del 1822 che a 16 anni rimane orfano e sale come mozzo su un veliero che viaggia tra Trieste e Venezia. Impara tutto del Mediterraneo, scopre vite e culture lungo le coste di quelli che saranno Croazia e Montenegro, nella Turchia che era ancora Impero Ottomano. Si imbarca per Amsterdam, vive il naufragio, sopravvive e salpa alla volta del Sud America, poi diventerà capitano. Iniziano invece nel 1996 e proseguono nel nuovo millennio gli scambi epistolari tra Lino Rizzo e Andrea Francini, giovani laureati in ingegneria al Politecnico di Torino che scelgono di andare a lavorare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Una profonda amicizia coltivata a distanza. “I diari raccontano” è una piattaforma aperta e implementabile: chiunque può contribuire inviando una nuova, unica e autentica storia e farla diventare parte di un più ampio racconto culturale. “Lo abbiamo pensato per il puro piacere, per studio o per scopo didattico, ma anche per stimolare prodotti artistici o culturali - spiega Nicola Maranesi, coordinatore del progetto - Dagli scritti raccolti emergono tratti comuni molto forti e trasversali tra le epoche storiche, ci sono storie decisamente difficili, altre costellate di successo. Tutte però hanno a che fare con l’interesse storico delle singole traiettorie umane custodite negli scritti, autentici e spontanei”. Ne sarebbe molto orgoglioso Saverio Tutino, il giornalista giramondo che nel 1984 fondò l’Archivio dei Diari in questa fetta d’Italia al confine tra Toscana, Umbria e Romagna “per rispondere all’esigenza di memoria di un intero Paese e accogliere le testimonianze autobiografiche di un intero popolo”. Tutto è iniziato da un piccolo avviso sui giornali: oggi l’archivio conserva più di 8mila testi e lettere, tra i quali c’è anche il lenzuolo matrimoniale al quale Clelia Marchi di Poggio Rusco (Mantova) affidò la propria toccante memoria contadina. Migranti. Diritti violati, sotto accusa il “sistema Frontex” di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 7 agosto 2019 Un’inchiesta della tv tedesca Ard, insieme al Guardian e al centro di ricerca Correctiv, svela la complicità negli abusi dell’agenzia per la protezione delle frontiere dell’Unione europea in Bulgaria, Ungheria e Grecia. È l’inquietante “sistema Frontex” - l’agenzia per la protezione delle frontiere dell’Unione europea - scoperchiato dall’inchiesta della tv pubblica tedesca. Sotto i riflettori accesi insieme al Guardian e al centro di ricerca Correctiv, le gravi violazioni dei diritti umani dei funzionari della polizia di confine di Bulgaria, Ungheria e Grecia. Dimostrate non attraverso le testimonianze dei profughi o video “clandestini” ma con i documenti ufficiali dell’agenzia. Secondo cui i funzionari di Frontex sono perfettamente a conoscenza delle violenze sui migranti e le coprono sistematicamente. Così almeno risulta dall’inchiesta basata sull’analisi dettagliata di centinaia di rapporti a uso riservato. Un’indagine scioccante per la Commissione di Bruxelles attualmente presieduta da Ursula von Der Leyen, il suo portavoce ieri ha fatto ufficialmente sapere che “qualunque forma di violenza o abuso nei confronti di migranti o rifugiati è inaccettabile”; prima di precisare, però, che le accuse verranno esaminate “con Frontex che dovrà assumere adeguati provvedimenti”. Difficile, se come fa notare l’inchiesta “l’autorità stessa viola ripetutamente le norme sui diritti umani nei voli di espulsione”. Eppure “dentro Frontex esiste un meccanismo speciale: i funzionari possono segnalare episodi del genere. Poi la nostra agenzia contatta lo Stato interessato e discute della situazione. Possiamo anche interrompere le operazioni se necessario” spiega il portavoce Krzysztof Borowski. Peccato che nessuno abbia mai fatto scattare il protocollo. Anzi, per Frontex, nel ruolo di coordinatore dei confini esterni dell’Ue, si profila la collaborazione nel senso peggiore del termine. Ne sono consapevoli per primi i suoi funzionari. “L’agenzia deve stare ben attenta a non diventare complice delle violazioni dei diritti umani. Se il coinvolgimento di Frontex porta a ciò oppure non fa niente per eliminarle si deve ritirare. Questo deve essere il comportamento di un’agenzia dell’Unione europea” conferma Stefan Kessler che a Frontex fornisce la consulenza sui diritti umani. Soprattutto di fronte a un’inchiesta spaventosa sotto tutti i profili, come ben riassume il quotidiano Tageszeitung: “Il lavoro della libera informazione è riuscito a riprodurre almeno parzialmente il quadro esistente di arbitrarietà e disprezzo per l’umanità che oggi caratterizza la sicurezza delle frontiere europee. Ed è basata sui rapporti e relazioni interne della stessa Frontex”. Nella fotografia della gestione dei confini comunitari spicca l’informativa riservata dello scorso marzo che “fornisce approfondimenti su ciò che sta accadendo a bordo dei voli di espulsione, che l’agenzia sta effettuando sempre più; ovvero che i funzionari di Frontex violano sistematicamente le leggi sui diritti umani” dettaglia l’anticipazione del report di Ard, Guardian e Correctiv. Mentre l’ombudsman greco Andreas Potakis, impegnato nelle trattative tra Atene e Bruxelles proprio su Frontex, fa notare che “un’agenzia dell’Unione europea che utilizza o permette standard di diritto decisamente inferiori rispetto a ciò che richiede agli Stati membri perde la sua autorità morale”. Già fatto, a quanto risulta dalle frasi estrapolate dall’inchiesta che verrà trasmessa oggi in prime-time, come “colpire” (fisicamente), “uso eccessivo della forza” e “maltrattamento dei rifugiati”. Praticamente, una confessione. Come se non bastasse, in calce a un numero rilevante di informative riservate si può leggere: “caso chiuso”, mentre Kessler racconta che il suo Forum consultivo “ha chiesto più volte a Frontex di terminare le operazioni al confine ungherese ma senza successo”. Una brutta cornice, che non regge il bel quadro nelle mani della neopresidente Ue, Ursula von der Leyen: prevede di portare a 10mila gli attuali 1.500 dipendenti di Frontex entro il 2027. Fosse per lei l’obiettivo dovrebbe essere raggiunto già fra tre anni e mezzo, mentre si è appena assicurata l’esplosione del budget per i prossimi anni, quantificabile nello stratosferico aumento del 500%. A lanciare l’allarme su Ard sarà anche il trentenne eurodeputato dei Verdi, Erik Marquardt: “È molto pericoloso quando un’agenzia cresce così velocemente. Finora abbiamo cercato di ottenere almeno l’1% degli stanziamenti per la tutela dei diritti umani. Se va bene, ci verrà concesso lo 0,2%”. Cannabis light, la Procura di Parma sequestra tutto di Elia De Caro Il Manifesto, 7 agosto 2019 Dopo la sentenza n. 30475/19 del 30.5.2019 delle Sezioni unite della Cassazione sulla commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L il mondo dei produttori e dei commercianti di tali prodotti si sta interrogando sulle possibili applicazioni pratiche. In un primo momento sono intervenute tre distinte ordinanze dei tribunali del riesame di Genova, di Salerno e di Ancona i quali hanno stabilito che possono essere lecitamente commercializzati tutti i prodotti con una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,5% di Thc in quanto non stupefacenti o psicotropi e che i sequestri al fine di condurre le analisi per il rilevamento del principio vanno effettuati a campione e non su tutte le confezioni di tali prodotti. Queste pronunce avevano riaperto spiragli sulla commercializzazione dei derivati della canapa sativa L sempre che avessero un tenore di principio attivo inferiore allo 0,5%. Una più rigida applicazione dei principi statuiti nella sentenza delle Sezioni unite viene invece avanzata dalla Procura di Parma che ha proceduto ad una massiva azione di perquisizioni e di sequestri contro una serie di commercianti e produttori/commercianti di derivati della canapa. La tesi della procura parmense è quella per cui la cessione, la vendita e in generale la commercializzazione al pubblico dei derivati della cannabis sativa L quali infiorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al 73 Dpr 309/90 anche a fronte di un contenuto di thc inferiore ai valori indicati all’art. 4 commi 5 e 7 della L. 242/2016 (ovvero allo 0,6%) salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa secondo il principio di offensività. Si afferma quindi un divieto pressoché assoluto della commercializzazione di tali derivati e si dispone il sequestro di tutte le scorte di tali prodotti presso una serie di aziende che provvedono alla loro commercializzazione nonché di tutta una serie di prodotti la cui commercializzazione è senza dubbio lecita quali accendini, cartine, macinini, gas butano, estrattori ritenendoli cose pertinenti al reato in quanto comprovanti una finalità ricreativa dei prodotti messi in vendita. La Procura parmense porta alle estreme conseguenze l’interpretazione restrittiva data dalle Sezioni unite sulla materia, una pronuncia quella del 30 maggio che in alcune parti si palesa quale illogica. Si sostiene infatti che possono detenere solo i prodotti tassativamente elencati dall’art 2 comma II della L. 242/16 quali carburanti e/o fibre ma non “hashish” e “marijuana”, dimenticandosi volutamente che tra le destinazioni lecite della legge vi siano la produzione di alimenti e cosmetici (secondo la normativa di settore) e il florovivaismo che secondo la Enciclopedia Treccani è “attività professionale di coltura e vendita di piante e fiori recisi a scopo ornamentale”. Come autorevolmente sostenuto su questa rubrica dal Presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito, (il manifesto 31 luglio 2019) la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione non ha definitivamente chiarito l’estensione dell’ambito di applicazione della L. 242/2016, se da un lato, e con una certa coloritura ideologica, si sostiene il divieto di commercializzazione dei derivati quali olio, infiorescenze e resina dall’altro rimanda al Giudice di merito l’accertamento dell’offensività della condotta e della presenza di effetto drogante, giungendo anche a confondere il principio di offensività con il non penalmente rilevante. Vedremo come si pronunceranno sul punto i giudici del Tribunale del riesame parmense adito dagli indagati di quell’inchiesta e se daranno un’interpretazione in linea con tale orientamento o se invece si attesteranno sulle posizioni assunte dalla Procura. Migranti. Piano della Ue: detenuti nei Centri della Libia trasferiti in Ruanda Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2019 L’Unione europea e le agenzie per i rifugiati stanno discutendo con il Ruanda un piano per trasferire nel piccolo Paese centroafricano migranti che si trovano rinchiusi nei Centri di detenzione in Libia. Il piano di emergenza, riportato ieri dal Financial Times, prende le mosse dall’offerta fatta già nel 2017 dal presidente del Ruanda, Paul Kagame, che si era detto disposto ad ospitare fino a 30mila migranti africani, in più anni, in arrivo dalla Libia. Due anni fa il governo di Kigali aveva offerto supporto logistico a coloro che volessero tornare dalla Libia nei Paesi di origine e asilo a chi non intendesse farlo. E aveva presentato un piano all’Unione africana chiedendo a tutti gli Stati del Continente di fare la propria parte. “Abbiamo poche risorse - aveva detto la portavoce del ministero degli Esteri ruandese - e non siamo certo in grado di prendere tutti gli immigrati ma faremo la nostra parte”. La situazione nei campi di prigionia in Libia è molto grave, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani. Violenze e abusi su larga scala sono stati ampiamente documentati e il 3 luglio scorso un raid aereo ha bombardato un centro di detenzione a Tajoura, nella periferia orientale della capitale Tripoli, uccidendo decine di persone e ferendone un centinaio. Le vittime erano per lo più profughi arrivati da Eritrea, Sudan e Somalia. Il governo libico di unità nazionale guidato da Fayez al-Sarraj ha accusato del crimine gli uomini del nemico, il generale Khalifa Haftar, il quale ha negato di aver fatto sganciare le bombe sul centro. “Questo attacco equivale a un crimine di guerra” ha commentato l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet. La strage di Tajoura ha riacceso le critiche nei confronti dell’Unione europea che ha addestrato la guardia costiera libica le cui motovedette dopo aver fermato le imbarcazioni dirette verso l’Italia rispediscono i migranti nei centri di detenzione dove subiscono torture da parte delle milizie libiche. Secondo quanto riporta il Financial Times, il mese scorso l’Alto commissariato per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite hanno dunque scritto una lettera all’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini e al presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, nella quale propongono di dare attuazione a un piano di emergenza per evacuare i migranti in Ruanda. Il trasferimento volontario delle persone richiuse nei campi libici permetterebbe di cominciare ad affrontare le “politiche di pervasiva e inumana detenzione dei migranti che si trovano in Libia”. Fonti governative ruandesi citate dal quotidiano economico britannico hanno aggiunto che si sta discutendo di circa 500 rifugiati che verrebbero inseriti in un “meccanismo di emergenza di transito” finanziato da Unione europea e Nazioni Unite. Stati Uniti. “Dopo ogni mass shooting si vendono più armi” di Marina Catucci Il Manifesto, 7 agosto 2019 Intervista al ricercatore della New York University, Maurizio Porfiri: “La tendenza delle persone ad acquistare armi dopo una strage non è data dal timore per la propria sicurezza, ma dalla paura che vengano emanate leggi più severe sul loro acquisto”. Maurizio Porfiri è professore di ingegneria meccanica e aerospaziale e di ingegneria biomedica alla Tandon School of Engineering della New York University. Il suo ambito si concentra sulla teoria delle reti, sistemi dinamici e la modellazione multifisica di sistemi complessi. La sua creatura è il Dsl (Dynamical Systems Laboratory), laboratorio di sistemi dinamici dove lavora con circa 20 studenti che provengono da diversi settori disciplinari e da varie parti del mondo. Ha lavorato a uno studio sulla correlazione tra uno mass shooting e il successivo incremento di armi nella società americana. Perché uno studio su ciò che chiama “un triangolo complicato tra media, leggi e armi”? Nel 2007, avevo appena lasciato l’università di Virginia Tech per trasferirmi a New York e l’istituto dove lavoravo ha subito uno dei più raccapriccianti atti di violenza di massa: sono morte 32 persone, tra cui un membro del mio comitato di dottorato e modello per la mia carriera accademica, il professor Liviu Librescu. Da qui è nato il desiderio di contribuire con strumenti metodologici che potessero aiutare a capire e prevenire la violenza di massa. Il suo studio dimostra che dopo ogni mass shooting la vendita di armi aumenta a fronte di un sentimento di insicurezza... È una parte dello studio. Ho iniziato a lavorarci nel 2017 con un ricercatore post dottorato della Tandon School of Engineering della New York University, Shinnosuke Nakayama, estendendo alcuni dei nostri lavori in corso sull’analisi della causalità per studiare il potenziale legame tra sparatorie di massa e acquisti di armi. Un piccolo finanziamento della New York University ha dato il via allo studio pubblicato su Nature Human behavior. A inizio 2018 si sono aggiunti Raghu Ram Sattanapalle, studente di master presso la Nyu Tandon, e Rifat Sipahi, professore del Northeastern University College of Engineering in congedo sabbatico nella nostra facoltà. Quando abbiamo iniziato a raccogliere dati ci siamo resi conto che il progetto era molto più impegnativo di quanto ci aspettassimo. I dati sono difficili da recuperare e interpretare: anche la definizione di “sparatoria di massa” deve ancora essere pienamente concordata dalla comunità scientifica. Raghu ha fatto un lavoro meraviglioso scavando nella letteratura e contattando l’Fbi e i negozi di armi per raccogliere dati per la nostra ricerca. Una volta assemblato il set di dati, è iniziata la ricerca matematica, non senza difficoltà nel gestire gli effetti di scarsità, tendenze e stagionalità nelle serie temporali, nessuna delle quali è desiderabile quando si intraprende un’analisi come la nostra, basata sulla teoria dell’informazione. All’inizio ci siamo concentrati sulla relazione tra i dati relativi a sparatorie di massa e acquisto di armi, ma non siamo riusciti a trovare alcuna relazione forte. Dopo diversi mesi di insuccessi abbiamo coinvolto James Macinko, professore alla Fielding School of Public Health dell’Università della California, a Los Angeles. In uno di quei rari incontri di gruppo illuminanti ci è venuta l’idea che la relazione tra questi due insiemi di dati sia mediata dal modo in cui le persone reagiscono agli eventi di mass shooting. Come specchio delle reazioni delle persone all’indomani di una sparatoria di massa, abbiamo usato la copertura mediatica sul possibile inasprimento delle leggi sull’acquisto di armi come potenziale collegamento tra sparatorie di massa e acquisti. Questa è stata la svolta che ci ha aiutato a identificare l’output dei media sul controllo delle armi come una potenziale guida per gli acquisti di armi. Qual è stato il passo successivo? Dopo aver effettuato le nostre prime analisi, abbiamo cercato un riscontro eseguendo uno studio di causalità sulle notizie riguardanti le sparatorie di massa, escludendo quelle sull’inasprimento del gun control. Abbiamo potuto confermare la nostra teoria: la tendenza delle persone ad acquistare armi dopo un mass shooting è data dal timore che possano essere emanate leggi più severe sul loro acquisto più che a causa del timore per la propria sicurezza. Abbiamo anche intrapreso un’analisi a livello statale che ha chiarito l’influenza della restrittività delle singole leggi statali sulla tendenza delle persone ad acquistare armi in risposta all’output dei media riguardo al gun control. Abbiamo trovato che dove le leggi sono più restrittive la tendenza ad acquistare armi dopo un mass shooting è decisamente inferiore. Quindi leggi restrittive a livello federale arginerebbero le ondate di vendita di armi consequenziali ai mass shooting? Il nostro studio risponde ad alcune domande relative all’”ecosistema delle armi da fuoco”. Molte altre sono ancora aperte e richiedono ricerche interdisciplinari tra ingegneria, sanità pubblica e criminologia. Ricerche che speriamo si moltiplichino. Indonesia. Relazioni amorose contrarie alla sharia, 14 giovani fustigati di Mathias Hariyadi La Repubblica, 7 agosto 2019 La scelta tra punizione corporale e il carcere. È accaduto ad Aceh. Tutti i condannati sotto i vent’anni. Tra loro un buddista, sorpreso con una donna che non è la moglie. Proibite anche “le coccole”. Fustigati perché intrattenevano relazioni amorose contrarie alla sharia: vi è anche un giovane buddista tra i 14 ragazzi e ragazze che, nell’ultima settimana, sono stati costretti alla esecuzione pubblica della pena dalle autorità della provincia indonesiana di Aceh - “territorio speciale” dell’isola di Sumatra, dove vige la legge islamica. Lo si apprende da Asianews. Quei 32 colpi di canna sulla schiena. Lo scorso primo agosto, decine di persone erano presenti quando 11 persone venivano portate in piazza da una moschea nel centro di Banda Aceh, capoluogo della provincia. Alla presenza del sindaco Aminullah Usman, il giustiziere ha fatto piovere sulla schiena dei condannati tra gli otto ed i 32 colpi di canna (in rattan). Le autorità avevano sorpreso i sei uomini e le cinque donne - tutti nella tarda adolescenza o 20enni - in atteggiamenti amorosi con persone dell’altro sesso. Sorpreso in una stanza d’albergo con una donna. I funzionari hanno fornito dettagli solo sul caso dell’unico imputato non musulmano, un buddista identificato con le iniziali R.O. La polizia lo ha sorpreso all’interno di una stanza di hotel, con una donna che non era sua moglie. Di solito, i non musulmani possono scegliere se essere puniti o no sotto la legge islamica, nota nella regione come Quanun. Perciò R.O. ha scelto 27 frustate per evitare un lungo procedimento giudiziario e la prigione. Il giorno dopo, il sindaco Usman ha ammonito hotel ed imprese: “Abbiamo avvertito gli hotel di non pensare nemmeno ad infrangere le regole, affittando camere a coppie non sposate. Altrimenti, revocheremo le loro licenze”, ha dichiarato ai giornalisti. Anche “le coccole” sono un reato grave. Il 31 luglio scorso, tre persone di Lhokseumawe (villaggio a poche ore da Banda Aceh) sono state frustate 100 volte ciascuna per aver fatto sesso prematrimoniale. Tra queste vi era un 19enne che aveva avuto rapporti con una ragazza minorenne. Circa il 98% dei cinque milioni di residenti di Aceh sono musulmani. La sharia è entrata in vigore intorno al 2005 in seguito a un accordo di pace fra Jakarta ed il Movimento per la liberazione di Aceh (Gam), gruppo separatista islamico. Secondo la legge islamica, persino “le coccole” fanno parte di una serie di reati (come gioco d’azzardo, consumo di alcolici o rapporti extraconiugali) punibili con uno specifico numero di colpi di canna. Nepal. Giustizia ferma per i crimini commessi nel conflitto armato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 agosto 2019 Sono passati 13 anni dalla firma dell’Accordo di pace che pose fine a un conflitto armato durato un decennio e ancora i leader politici all’interno e all’esterno delle istituzioni del Nepal continuano a prendere in giro i sopravvissuti e i familiari delle vittime. L’accusa è stata resa nota alla fine di luglio da Amnesty International, Commissione internazionale dei giuristi, Human Rights Watch e Trial International. Dopo la sua elezione nel 2018, il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli si era impegnato a riformare la legge del 2014 concernente il processo di giustizia transizionale, in modo che fosse in linea - come ripetutamente sollecitato dalla Corte suprema - con gli obblighi di diritto internazionale assunti dal Nepal. Il governo non ha mai modificato la legge e ha favorito, senza una consultazione adeguata, la costituzione di un opaco comitato per la nomina dei componenti degli organi della giustizia transizionale. Proprio per questo, le quattro organizzazioni hanno preso una dura posizione contro la mancanza di trasparenza nella nomina dei membri della Commissione per la verità e la riconciliazione e della Commissione d’inchiesta sulle sparizioni forzate (nella foto, le immagini degli scomparsi). Le loro richieste sono chiare: sospendere l’attuale procedura di nomina e avviare una procedura trasparente per la candidatura e la nomina dei componenti delle due commissioni, rispettare l’impegno a emendare la legge del 2014 e adottare e rendere pubblico un programma per il futuro della giustizia transizionale. Brasile. Si è suicidato il boss che si era travestito come la figlia per evadere di Guido Olimpio Corriere della Sera, 7 agosto 2019 I responsabili del penitenziario hanno rivelato che Claudino si è suicidato usando un cappio improvvisato. Sabato aveva tentato la fuga con un fantasioso camuffamento. Sabato ha tentato di fuggire indossando una strana maschera. Dopo pochi giorni - segnala l’agenzia Reuters - lo avrebbero trovato senza vita nella sua cella: per le autorità si sarebbe impiccato. Tragico epilogo, tutto da chiarire, in una prigione brasiliana. Il tentativo di evasione - Le foto di Clauvino da Silva, 42 anni, boss di una gang, avevano fatto “notizia”. Il bandito, rinchiuso in un carcere di Rio (zona di Bangu), ha tentato l’evasione con un elaborato piano. In occasione della visita della figlia teen ager, è riuscito a indossare un singolare travestimento femminile, compresa una maschera di lattice. Voleva farsi passare per la ragazza. Ma il suo piano - secondo la ricostruzione - è saltato in quanto era troppo nervoso e le guardie lo hanno scoperto. Quindi hanno diffuso un video subito rilanciato sui media. Aperta inchiesta - Oggi i responsabili del penitenziario hanno rivelato che Claudino si è suicidato usando un cappio improvvisato, nel contempo hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta per accertare le circostanze di una fine drammatica verificatosi in una sezione di massima sicurezza dove era stato trasferito per evitare altre sorprese. Il criminale era già scappato nel 2013 insieme ad una trentina di “compagni” usando i tunnel della fognature. La storia carceraria di da Silvia segue una ancora più dura e al centro di polemiche: la morte di 57 detenuti durante una sanguinosa rivolta nel complesso di Para.