Ingiusta detenzione. Torna in Aula la legge che “ punisce” i giudici di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 agosto 2019 La norma era stata approvata in Commissione. “La norma sull’azione disciplinare a carico dei magistrati in caso di ingiusta detenzione potrebbe, a questo punto, essere inserita all’interno della riforma della giustizia”. Ad affermarlo al Dubbio è l’onorevole Enrico Costa, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Montecitorio e promotore della proposta di legge bocciata il mese scorso dal Parlamento. Il ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, si sarebbe infatti dimostrato possibilista ed eviterebbe di dover aspettare i 6 mesi previsti dal regolamento della Camera per poter ridepositare un testo non approvato dall’Aula. Il testo originale modificava gli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale, prevedendo che l’ordinanza che dispone il risarcimento di una persona che sia stata ingiustamente in carcere venga inviata in automatico al ministro della Giustizia e, in caso di gravi violazioni, anche al procuratore generale della Cassazione perché valuti l’avvio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato. Il testo aveva avuto un iter “beffa”: approvato lo scorso 19 giugno all’unanimità in commissione Giustizia alla Camera, la settimana successiva era stato sonoramente bocciato dall’Aula. 242 voti contrari, 100 assenti e 5 franchi tiratori tra gli esponenti della maggioranza. Una doccia fredda per Costa che, dopo il voto in commissione, aveva ricordato come “dal 1992 ad oggi 27mila persone sono state arrestate ingiustamente e risarcite per una cifra complessiva che supera gli 800 milioni di euro. Ora sarà possibile promuovere l’azione disciplinare nei confronti di quei magistrati responsabili di ingiuste detenzioni”. Cosa aveva dunque fatto cambiare idea alla maggioranza di governo nello spazio di una settimana? Ufficialmente nulla, considerando il fatto che la discussione in commissione era stata articolata e molto approfondita: fra gli auditi anche i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, creatori del sito errorgiudiziari.com, il portale che da anni raccoglie i casi di ingiusta detenzione. E allora? I maliziosi ricordano, 36 ore dopo il voto all’unanimità in commissione, un lungo comunicato dell’Associazione nazionale magistrati con cui veniva annichilita la riforma voluta da Costa. Le ragioni poste alla base della proposta, spiegavano i magistrati, “laddove suggeriscono un accostamento non accettabile tra provvedimento giurisdizionale non confermato nei gradi successivi e grave violazione di legge da parte dei magistrati, tradiscono la mancanza di consapevolezza della inevitabile complessità del procedimento penale”. “La modifica proposta - secondo l’Anm - è inutile e può costituire un rischio di condizionamento nell’adozione di iniziative cautelari in palese contrasto con l’invocata necessità di un maggiore severità a tutela della sicurezza dei cittadini. Il nostro ordinamento - sottolineavano infine le toghe - già prevede efficaci strumenti per l’accertamento di eventuali errori e un rigoroso sistema di responsabilità civile e disciplinare”. Parole che, evidentemente, hanno fatto presa sulla maggioranza parlamentare. Voci contrarie, ma per motivi diversi, si erano però levate anche da parte di chi quotidianamente si occupa di risarcimenti per ingiusta detenzione. Per l’avvocato Baldassarre Lauria, direttore della Fondazione Giuseppe Gulotta per le vittime della giustizia, la riforma sarebbe stata comunque “inutile”. Questo perché già oggi il 90 per cento delle indebite detenzioni non viene più risarcito sul presupposto che il sottoposto a cautela ha “contribuito” colposamente all’errore. Vedasi i casi di Raffaele Sollecito o Diego Olivieri, l’imprenditore vicentino che con la sua storia ha aperto la serie televisiva Rai “Sono innocente”. La vera battaglia, a detta di tutti, dovrà pertanto essere quella di sganciare la riparazione dalle eventuali “colpe” dell’arrestato, spesso delle normali strategie difensive, come quella di avvalersi della facoltà di non rispondere. Ingiusta detenzione. Un’occasione persa per la cecità della maggioranza di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 6 agosto 2019 Il 2 luglio la Camera dei Deputati ha discusso la proposta di legge di modifica della disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione. Il Disegno di legge era stato votato all’unanimità in Commissione ma in Aula l’iter si è complicato perché è stato approvato, a scrutinio segreto, un emendamento presentato dal deputato di Forza Italia Enrico Costa e dal deputato del Partito Democratico Carmelo Miceli con il voto contrario dei partiti della maggioranza. La sconfitta della Lega e del Movimento 5 stelle (dovuta probabilmente al voto di alcuni franchi tiratori ed alle numerose assenze tra le fila della maggioranza) ha fatto esultare le opposizioni ed ha fatto nascere voci di crisi ben presto rientrate. La seduta è stata sospesa, su proposta del Movimento 5 Stelle, ed alla ripresa dei lavori la maggioranza ha votato contro l’intero testo di legge che è stato così bocciato. Fin qui la cronaca parlamentare ma cosa prevedeva il disegno di legge? La proposta avrebbe modificato gli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale, ampliando i presupposti del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione e prevedendo la trasmissione al Ministro della Giustizia ed anche al Procuratore generale presso la Cassazione, nei soli casi di grave violazione di legge, delle ordinanze di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione. Nello specifico, con riferimento all’art. 314 c.p.p., sarebbero state aggiunte alcune ipotesi a quelle considerate presupposto della riparazione per ingiusta detenzione, codificando quanto già affermato dalla Corte Costituzionale: 1) il caso di colui che sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto e, successivamente, sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, se non ha concorso a darvi causa per dolo o colpa grave; 2) il caso di colui che sia stato sottoposto ad arresto o fermo poi non convalidati con decisione irrevocabile; 3) il caso di colui che abbia patito la detenzione a causa di un erroneo ordine di esecuzione. Inoltre, era stato previsto l’inserimento del comma 3-bis nell’art. 315 c.p.p. per disporre che l’ordinanza di accoglimento della domanda di riparazione fosse trasmessa al Ministro della Giustizia e, in caso di grave violazione di legge o delle norme sulle misure cautelari personali, anche al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Nessuna rivoluzione della materia, quindi, ma un intervento mirato a razionalizzare la disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione. Gli accorgimenti proposti avrebbero da un lato cristallizzato delle ipotesi già previste dalla Corte Costituzionale e dall’altro avrebbero agevolato la conoscenza dei provvedimenti summenzionati da parte dei due soggetti titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati (il Ministro della Giustizia ed il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione). Le polemiche sull’ultimo punto, riguardante l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, sono apparse pertanto eccessive o pretestuose. La novella si limitava a modificare l’iter del procedimento disciplinare senza apportare novità di rilievo. Non si coglieva nella norma proposta alcun tentativo di condizionamento dell’operato dei magistrati. Quanto all’emendamento votato alla Camera, questo escludeva che il fatto che l’indagato si fosse avvalso, durante l’interrogatorio, della facoltà di non rispondere fosse da qualificarsi come comportamento affetto da dolo o colpa grave e quindi potesse comportare il mancato riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta detenzione. L’art. 314 c.p.p. prevede che si ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita qualora il soggetto non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Secondo un coriaceo orientamento della giurisprudenza di legittimità la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può in alcuni casi essere valutata dal giudice come comportamento gravemente colposo dell’indagato il quale, in tal modo, concorre a dare causa all’ingiusta detenzione, facendo venir meno il suo diritto alla riparazione della stessa. La modifica proposta mirava a rimuovere tale annoso paradosso per cui l’esercizio di un diritto (la facoltà di non rispondere, corollario del diritto di difesa costituzionalmente garantito) può precludere il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione. È assurdo che la maggioranza di Governo si sia opposta a questa norma di civiltà giuridica, così come è assurdo che abbia bocciato l’intera proposta di legge che pure aveva votato in Commissione. Ancora una volta le riforme in materia di Giustizia vengono sacrificate e strumentalizzate per ragioni politiche. Si è persa l’ennesima occasione di approvare una norma a tutela dei diritti delle persone contro i malfunzionamenti della macchina giudiziaria. Il decreto sicurezza bis è legge. Salvini esulta, il Pd: “Vergogna” di Carlo Bertini La Stampa, 6 agosto 2019 Solo 5 senatori del M5S si astengono. E il vicepremier leghista ringrazia la Beata Vergine. “Ottanta per cento sbarchi in meno, dimezzamento dei morti, stretta e sequestro delle navi di chi aiuta i trafficanti: quindi meno Carola e più Oriana Fallaci, per riassumere”. Pure se Matteo Salvini esalta le doti del decreto sicurezza bis, sono in molti a vederla diversamente nel Pd: che al Senato stancamente prova a dare battaglia in splendida solitudine, senza la sponda di azzurri e Fdi che si astengono. Ma il capo della Lega non vuole rovinarsi il suo bel giorno, che coincide - tanto per usare immagini ad alto impatto - “con il compleanno della Madonna di Medjugorie”. E come nel suo stile, sintetizza così quella che ritiene essere “una bella giornata a prescindere dai numeri”, in cui “il Parlamento, grazie alla Lega, regala agli italiani più sicurezza, più soldi e più mezzi alle forze dell’ordine”. Fa presto Salvini a dire “a prescindere dai numeri”, il decreto passa con 160 voti a favore, uno in meno della maggioranza assoluta. Ma sopra la soglia minima dei 158, malgrado 6 senatori dei cinque stelle non si facciano vedere alla chiama per la fiducia. Così come fanno presto gli stessi grillini a scrollarsi di dosso il tema della maggioranza autosufficiente in Senato. Prima del voto, il capogruppo M5S Stefano Patuanelli lanciava la sua previsione: “Si conteranno sulle dita di una mano quelli dei nostri che non voteranno la fiducia e nessuno voterà contro”. E infatti sono solo Virginia Mura, Matteo Mantero, Elena Fattori, Michela Montevecchi e Lello Ciampolillo a non votare la fiducia, mentre la senatrice Vittoria Deledda è assente da tempo per motivi di salute. Quindi M5S sconta cinque assenze politiche. L’altro dissidente, Alberto Airola, cita la celebre frase di Rino Formica sulla “politica sangue e merda” per giustificare il suo sofferto sì al decreto sicurezza. Votano no invece gli ex grillini Paola Nugnes, Carlo Martelli e Gregorio De Falco. Dai banchi del Pd si levano grida “vergogna” quando il ministro Fraccaro annuncia la fiducia. Tuona il Pd contro una legge “mostruosa che criminalizza chi salva vite umane”, per dirla con Francesco Verducci. Mentre Forza Italia e Fdi, favorevoli al provvedimento che stringe le maglie contro l’immigrazione clandestina, si astengono, così come gli esponenti delle Autonomie. Certo, rispetto alle funeste previsioni, lisciare di un voto la maggioranza assoluta è un buon risultato, date le premesse. 160 sì, 57 no e 21 astenuti con 289 presenti si può considerare un buon viatico alla tenuta del governo e Salvini e Di Maio lo sanno. “Il decreto Salvini è passato, l’Italia è più insicura. Grazie agli schiavi 5 stelle la situazione nelle città e nei quartieri rimarrà la stessa, anzi peggiorerà”, è il vaticinio di Nicola Zingaretti, leader del Pd. “Avevamo chiesto il contratto per i lavoratori delle forze dell’ordine, presidi nei quartieri a rischio, rilancio e risorse dei patti della sicurezza con i sindaci, investimenti per il recupero delle periferie. Ma niente. Di lotta alla mafia nemmeno l’ombra”. Salvini invece gongola: “Più poteri alle Forze dell’Ordine, più controlli ai confini, più uomini per arrestare mafiosi e camorristi: è Legge. Ringrazio Voi, gli Italiani e la Beata Vergine Maria”. Pene eccessive per Ong e cortei, i dubbi del Quirinale sul decreto di Concetto Vecchio La Repubblica, 6 agosto 2019 Mattarella firmerà la legge, ma non è escluso che accompagni il via libera con una lettera. E c’è l’ipotesi di uno stop della Consulta. Un sistema sanzionatorio non equilibrato rispetto alle condotte contestate. Pene eccessive, in alcuni casi draconiane. È questa la principale perplessità del Quirinale sul decreto sicurezza bis approvato ieri sera al Senato, sia per quanto riguarda la parte relativa al soccorso in mare sia per gli articoli sull’ordine pubblico. Una riserva sui contenuti della legge, che non impedirà al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di promulgarla. Non è tuttavia escluso che il Capo dello Stato accompagni la promulgazione, entro trenta giorni, con una lettera di accompagnamento nella quale dispiegherà i suoi rilievi, com’era accaduto del resto già nell’ottobre 2018, quando venne approvato il primo decreto sicurezza. All’epoca, in una lunga missiva inviata al governo, il Presidente della Repubblica aveva ribadito l’intangibilità di alcuni diritti degli immigrati, garantiti dalla Costituzione, richiamando l’esecutivo populista agli obblighi costituzionali e al rispetto dei trattati internazionali. Quella approvata è una legge che assegna al ministro dell’Interno Matteo Salvini poteri mai visti per un titolare del Viminale. Un ministro che può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi dei migranti per motivi di ordine pubblico e sicurezza pubblica. Un uomo di Stato che criminalizza le ong e disprezza le leggi del mare, che sembra ignorare i trattati internazionali che impongono di salvare sempre e comunque le vite umane. E che ha imposto pene durissime, da 150mila euro a un milione, al comandante della nave che disubbidisce (il testo originario prevedeva da 10 a 50 mila euro), e che in più rischia la sospensione o la revoca della licenza di navigazione. Da più parti si evoca lo Stato di polizia. Inutile girarci attorno: questa legge è quanto di più lontano ci possa essere culturalmente da un cattolico democratico come Sergio Mattarella. Un Presidente che visita i campi profughi, che parla di solidarietà, di terzo settore, che nei suoi tanti incontri con i giovani ribadisce il valore del senso della comunità. Da quel che trapela le riserve riguarderebbero anche la modulazione delle pene della seconda parte della legge, quella che disciplina l’ordine pubblico. L’articolo 7, che riguarda le manifestazioni in luogo pubblico, introduce circostanze aggravanti, per i reati di violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale, e di violenza o minaccia a un corpo politico. Durante l’esame parlamentare è stata aumentata la sanzione per l’oltraggio al pubblico ufficiale e per chi offende il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio. Il decreto inoltre trasforma da violazioni amministrative in reati le azioni di chi si oppone alle forze dell’ordine con qualsiasi tipo di resistenza. “La resistenza passiva sarà reato?”, si è domandata la politologa Nadia Urbinati sul sito Strisciarossa. “Sedersi a terra davanti alle forze dell’ordine, rifiutandosi di andarsene sarà reato? E gridare contro il governo e la polizia?”. Il decreto sicurezza bis connota l’anima di destra di questo governo. E farà discutere in Europa. “Oggi il grado di umanità del nostro paese si è corrotto” ha commentato amaramente don Luigi Ciotti, il presidente di Libera. I diciotto articoli del decreto vennero varati l’11 giugno, dopo le Europee. (Salvini voleva assolutamente approvarli prima del voto, ma fu persuaso dal Capo dello Stato a rinviare il suo proposito). Il Quirinale li vistò il 14 giugno. In attesa degli eventuali rilievi scritti di Mattarella, è convinzione diffusa, tra molti giuristi, che questa legge alla fine sarà smontata dalla Corte costituzionale. Decreto sicurezza bis, un’altra ferita al cuore del sistema democratico di Rosaria Manconi* Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2019 Nel caldo agostano, con il favore degli alleati di governo, finti oppositori al provvedimento all’esame del Senato, è stato approvato il decreto sicurezza bis. Un’altra ferita al cuore del sistema democratico, enfatizzata con il richiamo blasfemo alla Madonna e con il presunto favore degli italiani. Che, quindi, ora dovrebbero gioire e pure ringraziare per essersi visti comprimere le libertà fondamentali. Perché di questo si tratta. Di un bieco tentativo di limitare i diritti delle persone, di fermare il dissenso attraverso l’inasprimento delle sanzioni per i manifestanti, e di bloccare l’immigrazione, peraltro già ai minimi storici. Un provvedimento confezionato su misura per il ministro dell’interno che viola palesemente la Costituzione e gli obblighi internazionali sul soccorso in mare e che si fonda su una inesistente necessità ed urgenza di intervenire in materia di sicurezza. Laddove, invece, sulla base dei dati forniti dallo stesso Ministero, i reati sono diminuiti e non esiste alcun allarme criminalità, tantomeno collegato al fenomeno migratorio. Ancora una volta, quindi, dobbiamo registrare un uso demagogico da parte del Governo del diritto penale, finalizzato - anche attraverso la creazione di nuove fattispecie di reato, che, non a caso, vanno a colpire i poveri ed i più deboli, (zingari, immigrati, emarginati) strumentalmente individuati come causa di incertezza sociale - ad alimentare la paura ed acquisire consenso di massa. I profili di incostituzionalità di questa legge, per il contrasto con i principi umanitari inviolabili, sono già evidenti. Agli operatori del diritto l’imprescindibile compito di evidenziarli e sollevarli ogni volta che sarà possibile. *Presidente Camera Penale di Oristano Bonafede: “La Lega vuole la separazione delle carriere? Non interessa ai cittadini” Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2019 “E non riduce i tempi del processo”. Il Guardasigilli spiega perché la richiesta del Carroccio non può entrare nella riforma del processo penale: “Se il tema è lavorare per ridurre ancora di più i tempi del processo penale non ci sono problemi perché su questo vogliamo lavorare. Ricordiamo che parliamo di un disegno di legge delega in cui ci sono principi molto generali”. La separazione delle carriere dei magistrati? “Non ha nulla a che fare con i tempi della giustizia che interessano i cittadini”. Così il guardasigilli Alfonso Bonafede spiega perché l’ultima richiesta della Lega non può entrare nella riforma della giustizia. Una richiesta che ha infiammato il clima all’ultimo consiglio dei ministri con il guardasigilli andato allo scontro duro con la collega leghista Giulia Bongiorno. Alla fine, c’è il via libera “salvo intese”. Ma mentre sul Csm e il civile M5s e Lega hanno trovato un’intesa, le distanze rimangono marcate sul penale. “Se il tema è lavorare per ridurre ancora di più i tempi del processo penale non ci sono problemi perché su questo vogliamo lavorare. Se invece il problema e di inserire le cose che non hanno nulla a che fare con i tempi della giustizia che interessano i cittadini, la separazione delle carriere o altro, chiaramente quello è un provvedimento che riguarda solo i tempi della giustizia”, ha detto oggi Bonafede. “Ricordiamo - ha aggiunto il ministro della giustizia - che parliamo di un disegno di legge delega in cui ci sono principi molto generali. Ma si vuole inserire già a questo punto un intervento ancora più stringente sui tempi? Non ci sono problemi”. Il ministro ci ha tenuto a sottolineare un altro aspetto: “È passato sotto silenzio il fatto che la scorsa settimana il consiglio dei ministri ha dato l’ok alla riforma del processo civile e del Consiglio superiore della magistratura. Lo dico perché una svolta importante nell’ambito del processo civile è fondamentale per l’economia italiana. Rimane il nodo sul processo penale”. Nonostante le intese su civile e Csm, però, la polemica a distanza con l’alleato del Carroccio non accenna a placarsi. Oggi Matteo Salvini ha citato direttamente il guardasigilli, mentre attaccava un altro ministro del M5s: Danilo Toninelli. “Bonafede è una brava persona ma ha portato in Cdm una riforma della giustizia che non risolve i problemi della giustizia italiana. Per fare il ministro non basta essere delle brave persone. Non è mai un problema personale, però bloccare una opera fondamentale come l’alta velocità, che per me dovrebbe unire l’Italia, è dire di no al futuro e al progresso. È come dire no alla trivellazione per cercare petrolio e ai termovalorizzatori”, sono state le parole del ministro dell’Interno. Che hanno provocato la replica del titolare di via Arenula: “Il confronto deve essere costante nella lealtà e nella correttezza che ha contraddistinto questo primo anno di governo. Ma, chiaramente, non deve degenerare né nell’offesa, né nel litigio perché i cittadini non vogliono vedere politici che litigano, altrimenti riportiamo le lancette dell’orologio un tantino troppo indietro nel tempo. Qui abbiamo due forze politiche completamente diverse tra di loro, con Dna completamente differenti. Ma sul contratto di governo abbiamo trovato un perimetro comune perché abbiamo individuato le cose che interessano ai cittadini. Poi ogni giorno c’è un nuovo tema che magari ci ha visto divisi in passato, su cui confrontarsi. Ogni volta che c’è una divergenza, come è stato sul processo penale, dico: mettiamoci al tavolo, confrontiamoci e troviamo la soluzione che interessa ai cittadini. Questo è il punto”. Al leader della Lega ha replicato anche Toninelli. “Salvini deve capire che non sta governando con Berlusconi, ma con una forza politica con la schiena dritta che sa che sta operando per il bene del Paese. Salvini risponde di quello che dice, io sto dando una mano al Paese, abbiamo sbloccato opere ferme da anni, poi ci sono altri sì da dire, all’acqua pubblica e alla riforma della giustizia”. Per velocizzare i processi è ora di abolire quelli d’appello di Giancarlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2019 Purtroppo, nel nostro Paese la questione dell’eccessiva lunghezza dei procedimenti si trascina da tempo ed è sempre più acuta. Sappiamo, e non vanno sottovalutati, i sentimenti di angoscia, ira e delusione che provoca l’attesa interminabile del riconoscimento delle proprie ragioni, spesso riguardanti beni fondamentali. I rimedi approntati dalla politica sono stati, di solito, inadeguati se non peggio. Urge una vera, incisiva riforma. Il ministro Bonafede ha il merito di (ri)provarci, nonostante l’ostilità di quanti - gira e rigira - per salvaguardare certi interessi hanno come obiettivo non “più” ma “meno” giustizia. Stando alla bozza di cui si parla, un pregio del progetto Bonafede è non cedere alla suggestione della “separazione delle carriere”. Sinonimo di dipendenza del Pm dal potere esecutivo: nel senso che in tutti i Paesi in cui c’è, il Pm - per legge - deve ottemperare alle direttive del potere politico. Un suicidio in Italia: dove la classe dirigente continua a “ospitare” al suo interno soggetti ambigui se non peggio; cui sarebbe pernicioso offrire nuovi spazi per occuparsi “allegramente” delle indagini - che so - di corruzione o mafia. Per il resto, il progetto Bonafede, attento anche al profilo delle risorse, contiene vari punti che vanno in una direzione giusta. Si deve però avere l’audacia e il coraggio di affrontare il problema della riforma della giustizia - una buona volta - non con aggiustamenti ma con decisione e scelte radicali veramente innovative. La mia idea è di abolire il grado di appello. Immagino già le reazioni cattive di molti giuristi (soprattutto avvocati), ma nessuno mi convincerà che una risposta “ab irato” sia meglio di una misurata riflessione. Che parta da alcune semplici domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito, con eventuale ricorso a una suprema corte? È vero che anche in Italia è stato introdotto nel 1989 un sistema di tipo accusatorio? La risposta alle due domande è Sì. Allora, perché soltanto nel nostro Paese si registrano ancora più gradi di giudizio nel merito? Eliminare questa anomalia è una questione di sistema. Tenere i piedi in due staffe, non solo non risolve i problemi, ma crea confusione; mentre c’è un bisogno assoluto di nuova efficienza e funzionalità del servizio giustizia. Quali i vantaggi significativi che si avrebbero abolendo l’appello? Oltre all’allineamento agli altri Paesi di rito accusatorio, si potrebbe cancellare l’arretrato che pesa come un macigno sul sistema. E che sparirebbe in un paio d’anni se i magistrati e il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto a questo scopo. Dopo di che i magistrati e il personale amministrativo del “defunto” appello potrebbero essere convogliati sul primo grado (razionalizzando i criteri di assegnazione monocratica), con evidente accelerazione dei tempi del processo già di per sé molto abbreviati con un grado in meno. Così, il male cronico della nostra giustizia, la durata biblica dei processi, avrebbe finalmente qualche prospettiva di guarigione. L’obiezione è che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali: opponibili a piene mani da chi - potendosi permettere difese agguerrite e costose - punta all’impunità attraverso la prescrizione. Mentre sono di fatto arretrate le garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli. Con il triste risultato di un “doppio” processo, negazione non solo di reali garanzie, ma anche di principi di equità. C’è infatti un codice per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla collocazione sociale, per bene a prescindere); un altro per i cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo - con la sua interminabile durata - è destinato soprattutto a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione; nel secondo caso la giustizia, pur funzionando malamente, spesso segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. Sta nello sconcio del “doppio” processo un nodo della prescrizione e della battaglia pro o contro l’articolo della “spazza-corrotti” che finalmente ne prevede l’ interruzione, come antidoto a che non sia inghiottito tutto quel mare di processi che interessa soprattutto i “galantuomini”. Battaglia che vede il ministro Bonafede fermo su posizioni di giusta difesa della “nuova” prescrizione. I valori del branco negli antichi codici feudali di Dacia Maraini Corriere della Sera, 6 agosto 2019 Inquieta la completa mancanza di percezione dell’illecito. Presi con le mani nel sacco i giovani criminali si mostrano stupiti, quasi fossero interrotti in una pratica legittima. Difficile da capire questa esplosione di criminalità minorile. Anche perché sembra slegata da ogni questione sociale. Non sono gli adolescenti poveri, gli emarginati che delinquono ma ragazzi di famiglie agiate che interrogati, parlano di noia. Quasi sempre sono in preda all’alcol o alle droghe. Ma soprattutto quello che inquieta è la completa mancanza di percezione dell’illecito. Presi con le mani nel sacco si mostrano stupiti, quasi fossero interrotti in una pratica legittima. Il che significa che è saltato nella maniera più completa il senso del bene e del male. Penso ai due ragazzi americani che hanno preso a coltellate un onesto carabiniere. Ritenevano di avere colpito un truffatore e per loro era una giustificazione per reagire con inaudita furia omicida. Penso alle baby gang italiane che col peperoncino creavano panico per strappare alle vittime portafogli, collane, catenine d’oro, orologi preziosi. Ma è solo la droga che crea queste forme di ottundimento morale? Non potrebbe essere che questi ragazzi, essendo figli di un tempo in cui la supremazia virile è messa in discussione, si sentano impegnati, come una avanguardia di soldati in cerca di vendetta, a intraprendere una guerra cieca e crudele contro un nemico invisibile che li sta privando della più arcaica identità maschile? I valori che circolano presso questi branchi ricordano antichi codici feudali: disprezzo verso i deboli, sfida ai pericoli più rischiosi, propensione verso guerre devastanti contro un nemico odiato e misterioso che, come nei fumetti, viene da un cosmo ostile e minaccioso. In effetti la maggioranza assoluta di questi guerrieri da fumetto sono maschi e le prede che prediligono sono le giovani femmine, da condannare per le loro nuove libertà. Gli adulti certo non danno il buono esempio, e questo non fa che diffondere l’idea della legittimità del crimine. Sussiste l’associazione per traffico di stupefacenti anche per l’acquirente stabile di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 10 luglio 2019 n. 30410. Ai fini della configurabilità del delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti è sufficiente - ma necessaria - l’esistenza tra i singoli partecipi di una durevole comunanza di scopo, costituita dall’interesse a immettere sostanza stupefacente sul mercato del consumo, non essendo invece di ostacolo alla costituzione del rapporto associativo la diversità degli scopi personali e degli utili che i singoli partecipi, fornitori e acquirenti, si propongono di ottenere dallo svolgimento della complessiva attività criminale. Non è richiesto, pertanto, per i giudici della Cassazione penale sentenza 30410/2019 per il riconoscimento della fattispecie di cui all’articolo 74 del Dpr n. 309 del 1990, che le successive condotte delittuose dei singoli, di cui all’articolo 73 del medesimo Dpr, siano compiute in nome e per conto dell’associazione, ma solo che rientrino nel programma criminoso della stessa. Ne deriva, così, che integra la condotta di partecipazione ad un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti la costante disponibilità all’acquisto delle sostanze stupefacenti di cui il sodalizio illecito fa traffico, ove sussista la consapevolezza che la stabilità del rapporto instaurato garantisce l’operatività dell’associazione, rivelando in tal modo la presenza della c.d. affectio societatis tra l’acquirente e i fornitori: detta condotta, infatti, agevola lo svolgimento dell’attività criminosa del gruppo organizzato ed assicura la realizzazione del suo programma delittuoso, sempre che si accerti che essa è posta in essere avvalendosi continuativamente delle risorse dell’organizzazione, con la coscienza e volontà dell’autore di farne parte e di contribuire al suo mantenimento e, laddove l’acquirente abbia coscienza e volontà che il suo inserimento quale stabile acquirente della sostanza ceduta da una struttura organizzata sia funzionale alle dinamiche operative dell’associazione ed alla crescita criminale della stessa, la sua partecipazione al sodalizio può essere desunta anche dalla commissione di singoli episodi criminosi. L’acquirente stabile della sostanza stupefacente - Secondo il ragionamento della Cassazione, è ravvisabile il reato di partecipazione nell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (articolo 74 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309) anche nei confronti di colui che si pone nei confronti dell’associazione come acquirente stabile della sostanza stupefacente. Trattasi di affermazione senz’altro convincente e in linea con la costante interpretazione della giurisprudenza, secondo cui è pacificamente ammesso il vincolo associativo anche in presenza di soggetti che hanno motivazioni illecite diverse (acquirente, venditore, importatore, ecc.): vi è casistica, ad esempio, che ravvisa la configurabilità del vincolo associativo tra il fornitore “all’ingrosso” di droga e gli acquirenti “al dettaglio” che la ricevono stabilmente per poi reimmetterla sul mercato; ovvero, analogamente, tra colui che importa la droga per rifornire il mercato e la rete stabile dei rivenditori e piccoli spacciatori della sostanza che a questi si rivolgono per poi spacciarla al minuto ai tossicodipendenti. A supporto di tale soluzione interpretativa va in effetti considerato che l’elemento soggettivo del reato associativo de quo è integrato dal dolo specifico, il cui contenuto è rappresentato dalla coscienza e volontà di partecipare e di contribuire attivamente alla vita dell’associazione volta alla realizzazione del comune programma criminoso mirante alla commissione di una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti. Il dolo del reato associativo non va però confuso con il “motivo” squisitamente soggettivo che possa avere determinato un soggetto a far parte del sodalizio criminoso, nei termini suesposti; cosicché è indifferente che il contributo causale volontariamente prestato all’associazione risulti motivato pure dalla concorrente esigenza di realizzare finalità di ordine personale, come, esemplificando, l’approvvigionamento dello stupefacente necessario per l’uso personale, o simili. Ne consegue che, ai fini dell’apprezzamento del dolo, non è neppure richiesto che tutti gli associati perse­guano gli stessi scopi od utilità, purché ovviamente tutti agiscano nella consapevolezza delle attività degli altri partecipi volte alla realizzazione del comune programma criminale. Ciò che va peraltro sottolineato con chiarezza, per evitare indebite estensioni della fattispecie associativa, è che occorre pretendere un giusto rigore sulla valutazione dell’effettivo rapporto causale fornito dai diversi soggetti all’attività dell’associazione. È ovvio allora che il problema risiede nella dimostrazione - sotto il profilo oggettivo e, soprattutto, sotto quello soggettivo - del vincolo associativo: a tal fine, tanto per esemplificare, non basta, di per sé solo, l’apprezzamento di una serie, pur ripetuta con frequenza, di operazioni di compravendita di sostanze stupefacenti concluse tra le stesse persone, occorrendo un quid pluris, vale a dire la dimostrazione che tutti i compartecipi abbiano agito, sia pure per una finalità concorrente di profitto proprio, con la volontà e consapevolezza di operare quali aderenti ad un’organizzazione criminosa e nell’interesse della stessa; solo in presenza di dette condizioni (come precisato dalla sentenza in commento) i singoli atti di compravendita divengono altrettanti reati-fine dell’associazione, giacché, in difetto, rimangono singole illecite operazioni sinallagmatiche (cfr., per riferimenti, tra le tante, sezione VI, 16 marzo 2004, Benevento e altri; sezione IV, 6 luglio 2007, Cuccaro e altri; sezione VI, 11 febbraio 2008, Oidih e altro; sezione VI, 6 novembre 2013, Proc. Rep. Trib. Napoli in proc. Lentino e altro). Concorso in associazione mafiosa a stranieri che monopolizzano con estorsioni i trasporti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione I -Sentenza 5 agosto 2019 n. 35626. Concorso in associazione mafiosa per i cittadini ucraini che tengono sotto scacco, con estorsioni e minacce, gli autisti dei bus per acquisire e mantenere il monopolio del trasporto di passeggeri e merci tra Ucraina e Italia. Con la sentenza 35362, la Cassazione, respinge il ricorso contro la condanna per l’articolo 416-bis. Ad inchiodare i due imputati era stata la testimonianza di un collaboratore di giustizia, italiano, che dell’associazione era stato il promotore e l’organizzatore, e che aveva descritto obiettivi e modalità di funzionamento. A completare il quadro c’erano le intercettazioni e le deposizioni degli autisti. I giudici della prima sezione penale, respingono le tesi della difesa, secondo la quale l’impiego di violenza o minaccia non bastava a provare la connotazione mafiosa delle condotte, soprattutto in un territorio come la Calabria, luogo dei fatti, in cui è radicata la ‘ndrangheta, che aveva il pieno controllo delle attività estorsive. Ma sul punto la Cassazione, ricorda come l’articolo 416-bis sia ipotizzabile non solo in relazione alle mafie cosiddette tradizionali, con un alto numero di appartenenti, dotate di grandi mezzi finanziari e in grado di assicurare la sopraffazione e l’omertà, con il terrore e la messa in pericolo della vita di un numero indeterminato di persone. Come affermato nel verdetto a carico del clan Spada, (sentenza 44156/2018) lo “stile” mafioso è, infatti, riscontrabile anche riguardo alle piccole organizzazioni, con pochi “adepti”, non necessariamente armati, che assoggettano un limitato territorio, o un determinato settore di attività “avvalendosi del medesimo metodo di intimidazione, senza, peraltro che sia necessaria la prova che la forza prevaricatrice del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento”. Non passa neppure l’argomento sulla impossibile coesistenza di mafiose e malavitosi nello stesso territorio. La Corte di merito aveva già chiarito che il “pentito”, come da lui stesso raccontato, aveva espressamente ottenuto il via libera ad agire, e anche la protezione, da parte dei referenti della cosca locale. Maxi condanna per segreti industriali violati di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2019 Manager condannato a risarcire 4,5 milioni di euro alla società - una multinazionale tedesca - di cui era stato “ad” e dipendente. Interessante sentenza del tribunale di Ancona - sezione specializzata in materia di impresa - in tema di violazione di segreti industriali, sia per il metodo di calcolo del danno, sia per le ulteriori prescrizioni contro il convenuto (tra cui 100mila euro di penale per ogni violazione dell’inibitoria). I fatti di causa, che verosimilmente occuperanno l’autorità giudiziaria per altri gradi, risalivano al 2012, dopo che l’amministratore della collegata italiana aveva lasciato la multinazionale. Contemporaneamente la società aveva avuto notizia di movimenti dell’ex dipendente nei mercati dell’Est asiatico, con il forte sospetto (anche documentale) di utilizzo di formule chimiche aziendali oggetto di tutela e a beneficio di società già clienti. Ne era seguita una perquisizione al domicilio dell’ex dipendente con sequestro di numerosi documenti “sensibili”? che, a termini contrattuali, avrebbero dovuto essere restituiti da tempo. Secondo i giudici lo sfruttamento abusivo dei dati tecnici riservati, mostra da parte dell’ex manager “l’intento parassitario di risparmiare sui costi e sui tempi per l’immediato avvio dell’attività, successiva alla sua uscita, in concorrenza con la medesima, e in specifica violazione di segreti tecnici e commerciali”. Per il tribunale “il regime di leale concorrenza viene violato anche se si risparmia, con la sottrazione o utilizzazione di dati riservati, in termini di tempi e costi per una autonoma ricostruzione delle informazioni industriali necessarie o utili, con il conseguente compimento di atti concorrenziali sleali, in relazione a ogni acquisizione avvenuta per sottrazione e non per autonoma capacità di elaborazione”. Nessun dubbio, infatti, che le informazioni segrete costituenti il know how di una impresa, frutto della ricerca e degli investimenti, sono a pieno titolo “diritti di proprietà industriale, pienamente tutelabili”. Quanto alle modalità di calcolo del maxi risarcimento, i giudici hanno avuto riguardo al lucro cessante della parte danneggiata, che può essere determinato “in una somma pari alle cosiddette royalties che le parti avrebbero ragionevolmente concordato, in caso di acquisizione del diritto di sfruttamento del know how”, e non invece in riferimento delle cifre appostate in bilancio per l’intangible. Secondo la società, rappresentata a giudizio da Dla Piper “risultato importante che rende giustizia a chi investe in ricerca e nella protezione del know-how, e che testimonia l’attenzione crescente dell’autorità giudiziaria alla proprietà intellettuale”. Lavori in appalto, paga il coniuge che ha commissionato i lavori di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2019 In materia di appalti e della sicurezza sul lavoro correlata nel nostro ordinamento non esiste una coincidenza fra la figura del proprietario dell’immobile che si avvantaggia dell’opera e quella del committente che la appalta. Il principio emerge anche dall’esame della sentenza n. 34893/19 della Cassazione, IV Sezione penale. Con tale principio la Corte, discostandosi dalla sentenza di condanna inflitta dai giudici di merito a due coniugi nell’esecuzione dei lavori per la responsabilità derivante da un infortunio mortale occorso a un operaio dipendente di una impresa appaltatrice dei lavori di ristrutturazione, ha assolto la moglie del comproprietario che aveva appaltato l’opera. Nella motivazione, la sentenza dà una nuova lettura all’articolo 89 del Testo unico della sicurezza (Dlgs 81/08) nella definizione del “committente” nei cantieri temporanei e mobili, con ciò aderendo a un filone introdotto dalla stessa Sezione con la precedente sentenza n. 10039/19. I giudici di legittimità, più nello specifico, non hanno condiviso le decisioni prima maturate secondo cui l’interpretazione da darsi alla definizione di cui all’articolo 89, comma 1, lett. b) del Testo unico, in merito alla definizione della figura del committente, come “qualsiasi persona fisica o giuridica per conto della quale l’opera viene realizzata”, non avrebbe potuto prescindere dal soggetto proprietario del bene, il solo che potesse trarre vantaggio dall’opera. Le due sentenze citate hanno invece stabilito il nuovo principio secondo cui il committente, così come definito dall’articolo 89, “è colui per conto del quale l’opera viene realizzata”, e che l’espressione per conto va intesa come “per incarico di”, o “in nome”, oppure “a favore di” chi abbia comunque interesse all’esecuzione dell’opera e in quanto tale stipuli il contratto, perché si avvantaggia della sua realizzazione o perché sia stato delegato ad occuparsene. In conclusione, quindi, nessuna responsabilità è configurabile a carico del proprietario non committente che non si sia ingerito nell’esecuzione delle opere, pur in assenza di delega delle funzioni. Ariano Irpino (Av): solo 2 educatori per oltre 350 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2019 Il fine settimana scorso ha tentato il suicidio provocando un incendio mentre era in cella di isolamento nel carcere campano di Ariano Irpino. Salvato in extremis grazie al gesto coraggioso di un agente penitenziario che, per liberarlo dalle fiamme, è rimasto intossicato dal fumo. Parliamo di Raffaele Amato, 24enne, che è tuttora in prognosi riservata al centro grandi ustionati dell’ospedale Cardarelli di Napoli. I familiari hanno raccontato che Raffaele era in isolamento da una decina di giorni e per protesta aveva iniziato uno sciopero della fame e delle sete. Il detenuto lamentava scarsa attenzione sanitaria a un suo problema fisico. Era previsto un piccolo intervento chirurgico per fine luglio che poi è stato annullato per mancanza di personale. Il giorno della tragedia aveva incontrato i familiari e durante il colloquio vi era stata una incomprensione con un agente penitenziario che aveva scatenato la sua ira tanto che poi il ragazzo aveva preferito tornarsene in cella. I familiari avevano avvertito la direzione del carcere che le sue condizioni di salute erano precarie e infatti tornato in cella Raffaele Amato ha tentato il gesto estremo del suicidio. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, dopo questo episodio, ha denunciato la situazione del carcere di Ariano Irpino: 350 detenuti, il 90% definitivi, con solo due educatori, mentre i professionisti esperti (psicologi e psichiatri) hanno 50 ore mensili. “Ci sono stati nel carcere nell’ultimo mese due Tso - ha spiegato Ciambriello. Nel carcere dove il 18% dei detenuti ha problemi psichici, vive forme di autolesionismo, a volte qualche detenuto ha aggredito anche agenti di polizia penitenziaria, lo psichiatra va due volte al mese! Benevento con poco più di 400 detenuti ha sei educatori. Arienzo con 85 detenuti ha due educatori, Vallo della Lucania con 56 detenuti ha due educatori. Insomma pochi educatori, poche figure sociali nelle carceri campane e a volte mal distribuite”. Un carcere, quello di Ariano, sempre secondo quanto denuncia il garante Ciambriello, “lontano dal mondo, con poche attività trattamentali, una infermeria da terzo mondo, che spero quanto prima sia messa a nuovo, con una sanità per visite specialistiche e ricoveri molte volte con ritardi inspiegabili”. Poi il garante ha sottolineato che “la stessa struttura risponde a logiche securitarie (con - ad esempio - altissimi muri di cinta) che ancora oggi riducono al minimo gli spazi per le attività trattamentali (si segnala l’assenza di un campo di calcio, di una palestra e di un teatro); il 7 maggio 2014 è stato consegnato un Padiglione di recente costruzione (padiglione B) con una capienza di 200 posti, costruito sul campo di calcio esistente e mai più ricostruito”. Infine, il garante campano, ha concluso con un auspicio: “Spero che il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, l’Asl di competenza eroghino, ciascuna per le sue competenze, prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, mettano in campo prestazioni finalizzate al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro dei diversamente liberi di Ariano Irpino”. Un problema, in realtà, generale e che quindi riguarda la maggior parte del sistema penitenziario. I tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno e quello riusciti sono 29 dall’inizio dell’anno. Prevenire i suicidi, come già ha spiegato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, non è mai semplice. Però si può fare molto, come ridurre al minimo l’isolamento e aumentare la possibilità di avere contatti con i familiari, aumentando il numero e durata delle telefonate. Compreso quello di introdurre la possibilità di avere contatti, anche intimi, con i proprio compagni o compagne. In una sola parola, non negare l’affettività. Novara: il farmaco manca, i parenti lo trovano ma non c’è l’autorizzazione del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2019 Più di un mese fa a un detenuto al 41 bis nel carcere di Novara era stato diagnosticato di essere affetto dal batterio Helicobacter Pylori, per la cui cura è necessario somministrare un farmaco di nome Pylera. Dopo circa una settimana dalla diagnosi, gli hanno spiegato che il farmaco per lui necessario non era rinvenibile dalla competente Asl. Alla luce di ciò, il detenuto è stato autorizzato dal direttore del carcere a farsi inviare detto farmaco dai familiari, ove fossero riusciti a rinvenirlo. Detto, fatto. Ma nonostante le continue richieste, secondo il legale Ernesto Pino, dalla direzione non è arrivata ancora nessuna risposta per l’autorizzazione. L’avvocato, quindi, con riserva di intraprendere ogni più opportuna azione giudiziaria, sabato scorso ha denunciato la vicenda al Dap, al magistrato di sorveglianza e al garante nazione delle persone private della libertà, compreso quello del Piemonte. Ad aver contratto il batterio è Antonino Cintorino, boss dell’omonimo clan operante a Calatabiano, rinchiuso da anni al regime di 41 bis nel carcere di Novara. Il batterio se non curato adeguatamente rischia di diventare pericoloso. Sì, perché tale batterio è un carcinogeno di prima classe ed è stata dimostrata una relazione diretta tra infezione da Helicobacter Pylori e tumore allo stomaco. Ecco perché è di estrema importanza eradicare il batterio al più presto. C’è stata una prima richiesta di autorizzazione inoltrata dalla titolare della farmacia presso cui è stato recuperato il farmaco, il quale consiste in due flaconi di “Pylera”, da 120 capsule ciascuno, sufficienti per una cura di 15 giorni. Non avendo ottenuto risposta, il giorno successivo, il 31 luglio, la titolare della farmacia ha telefonato, ma le hanno risposto che l’autorizzazione avrebbe dovuto essere richiesta dal legale del detenuto. Il pomeriggio stesso, l’avvocato ha quindi inviato una mail ed una pec all’indirizzo della direzione del carcere. Non avendo ricevuto risposta, il giorno dopo l’avvocato ha telefonato al carcere di Novara, e un’agente penitenziaria con gentilezza gli ha risposto che non poteva dare alcuna notizia in merito alla vicenda, trattandosi di competenza esclusiva del direttore del carcere, aggiungendo che quest’ultimo, appena letta la mail, che risultava corretta ed aveva come destinatario la segreteria del direttore, avrebbe sicuramente risposto. Ma l’avvocato, sabato scorso, denuncia di non aver ricevuto ancora nessuna risposta. “Alla luce di quanto sopra rassegnato - si legge nella denuncia - chiedo alle Autorità in indirizzo, ognuna per la rispettiva competenza, quanto appresso: la sospensione dell’esecuzione delle misure in executivis, ex art. 684, c. 2, c. p. p., ordinando la liberazione del condannato detenuto, posto che il protrarsi dello stato restrittivo potrebbe arrecare un grave pregiudizio alla persona, vista la riconosciuta (dall’istituto penitenziario) impossibilità di curare adeguatamente il detenuto; in subordine, l’immediata autorizzazione ad inviare il farmaco “Pylera” al detenuto Cintorino Antonino, per consentirgli di effettuare quella cura che la struttura ove si trova recluso non è in grado di assicurargli”. L’avvocato ha sottolineato anche di come sia stato sostanzialmente mortificato il suo ruolo, oltre all’indifferenza nei confronti di un detenuto ammalato che la struttura carceraria non è in gradi di curare. Genova: i detenuti contro il degrado, dalla pulizia dei parchi al taglio dell’erba di Emanuele Rossi Il Secolo XIX, 6 agosto 2019 Dall’accordo, firmato con il ministro Bonafede, esclusa Autostrade: “Il motivo? Questioni legali, nessuna demonizzazione”. C’è voluto un secondo passaggio del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a Genova, ma adesso il protocollo per i lavori di pubblica utilità dei detenuti è realtà. Rimosso l’ostacolo principale, (“un incidente di percorso”, lo ha definito il Guardasigilli) ossia la presenza di Autostrade tra gli enti che avrebbero fatto formazione ai detenuti-lavoratori. Inaccettabile, a Genova, città del ponte Morandi, per il ministro Cinque stelle. E pazienza se a Roma, su analogo protocollo, Aspi c’è e nessuno ha avuto da ridire. A Genova andava esclusa e così è stato fatto. “Non c’è alcuna demonizzazione - dice il ministro - ma in maniera legittima abbiamo deciso di escluderli per le questioni legali. Della formazione si occuperanno gli enti locali”. Il ministro ha inoltre annunciato che a rinforzare il tribunale genovese arriveranno 34 nuove assunzioni. Così ieri Bonafede si è seduto a fianco del sindaco Marco Bucci nel salone di rappresentanza di Palazzo Tursi e ha posto la sua firma sull’accordo quadro “Mi riscatto per Genova”. Alla firma hanno partecipato anche il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Gaetano Brusa e il segretario generale della Cassa delle Ammende Sonia Specchia. Il programma ministeriale promuove l’avvio di progetti di recupero e inclusione sociale di detenuti degli istituti penitenziari della città: saranno sottoscritti specifici protocolli d’intesa operativi che potranno riguardare il Comune e gli istituti penitenziari, ma anche soggetti privati e le società partecipate del Comune. Gli ambiti di applicazione del lavoro dei detenuti saranno prioritariamente: manutenzione degli immobili in concessione governativa e del patrimonio comunale, con particolare attenzione verso quelli inutilizzati o sottoutilizzati; gestione delle risorse idriche, elettriche e termiche; gestione dei rifiuti, con particolare attenzione all’educazione al riciclo e riuso; efficientamento energetico degli immobili; sviluppo di opportunità di lavoro penitenziario attraverso l’organizzazione di lavorazioni qualificate e qualificanti all’interno degli istituti penitenziari da parte di enti, imprese pubbliche e/o private e cooperative sociali; miglioramento dei modelli organizzativi per la gestione delle attività ambientali, sociali, culturali e lavorative in ambito penitenziario; sviluppo umano e delle capacità relazionali dei detenuti attraverso attività formative culturali e artistiche. L’ attività di lavoro dei detenuti sarà “volontario e gratuito” e non comporterà alcun onere a carico del bilancio comunale, ma i detenuti che parteciperanno potranno beneficiare di sconti sul debito contratto con l’amministrazione carceraria e avranno l’assicurazione. “Anche chi è in carcere è un genovese e vogliamo che possa contribuire alla città”, ha commentato Bucci. Caltanissetta: giustizia riparativa, convenzione tra Comune, Uepe e Casa circondariale radiocl1.it, 6 agosto 2019 Il richiamo all’articolo 27 della Costituzione che sancisce la funzione rieducativa della pena per i condannati è il primo punto della convenzione stipulata oggi tra il Comune di Caltanissetta, la Casa circondariale di Caltanissetta e l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Caltanissetta ed Enna, per l’impiego di cittadini detenuti o in fase di esecuzione alternativa delle pene, in attività di pubblica utilità. La convenzione della durata di un anno è stata siglata dal sindaco, Roberto Gambino, dal direttore della Casa circondariale, Francesca Fioria, e dal direttore dell’ufficio esecuzione penale esterna, Rosanna Provenzano. La convenzione s’inserisce nel solco della collaborazione tra gli Enti avviata ad agosto 2018. È finalizzata al reinserimento sociale di persone in esecuzione di pena attraverso il lavoro volontario, facendo collaborare i detenuti in attività utili verso la comunità secondo il principio della giustizia riparativa. I lavori di pubblica utilità possono consistere nella cura di aiuole e giardini pubblici e vengono svolti come attività di volontariato. Gli interventi saranno definiti anche con la direzione politiche sociali, presente oggi alla stipula della convenzione con il dirigente, Giuseppe Intilla, e con la responsabile sanzioni e misure di comunità dell’Uepe, Gabriella Chirumbolo. “Proseguiamo con convinzione la collaborazione del Comune con l’ufficio esecuzione penale esterna e con la casa circondariale - afferma il sindaco Roberto Gambino. Il condannato che intende riparare al danno prodotto lavorando per la comunità, ha diritto ad un’opportunità per riguadagnare la fiducia”. La convenzione ha la finalità di promuovere azioni di reinserimento di persone in esecuzione penale, sensibilizzando la comunità locale; promuovere attività riparative; favorire una rete che accolga i soggetti in esecuzione di pena. Soddisfatta per la firma del protocollo la direttrice della casa circondariale, Francesca Fioria. “Si è proseguito sulla scia dell’ottimo lavoro avviato nel 2018 con detenuti che hanno la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità. Un atto d’interesse dell’amministrazione comunale e di sensibilità verso l’istituzione carcere e l’amministrazione penitenziaria”. “È importante che si faccia un lavoro di comunità nell’ottica della giustizia riparativa con un’attività di prevenzione - spiega Rosanna Provenzano direttrice Uepe -. Quando soggetti condannati si mettono a lavoro con (e per) la comunità, ricuciono il patto con la società che era stato rotto con il reato e riabilitano se stessi. Questo approccio rappresenta lo sviluppo e il futuro dell’esecuzione penale in cui soggetti, al di fuori della vicenda giudiziaria, si prendono cura del luogo in cui vivono”. L’Istituto penitenziario e l’Uepe segnaleranno i nominativi dei soggetti con le indicazioni relative al tempo che possono dedicare e parteciperanno alle verifiche periodiche sull’inserimento. Il Comune s’impegna a individuare gli ambiti d’impiego, a stipulare l’assicurazione, individuare un referente e a preparare e accompagnare l’accoglienza nella struttura dove sarà impiegato. L’Uepe e la Casa circondariale collaboreranno con il Comune per sensibilizzare l’ambiente in cui i condannati saranno inseriti. Caserta: detenuti impiegati nei lavori socialmente utili v-news.it, 6 agosto 2019 L’assessore Corvino: “Favorire l’inclusione di queste persone”. L’assessora Maddalena Corvino è intervenuta alla presentazione dei progetti delle associazioni Noi Voci di Donne e Generazione Libera che hanno lo scopo di favorire l’integrazione sociale e culturale di persone condannate in esecuzione penale esterna. “L’Amministrazione - spiega l’assessore Corvino - è fortemente interessata al ruolo che la nostra comunità deve avere per favorire l’inclusione di queste persone. Il prodotto del loro lavoro sociale si misura sulla capacità che, localmente, riesce ad essere sviluppata in questa ottica. Avviate e portate a termine le procedure che la nostra amministrazione dovrà a breve concludere, queste persone saranno affiancate, formate e incoraggiate a svolgere lavori sociali nell’ambito della manutenzione e della cura di alcune piazze ed aree della città, per promuovere partecipazione, condivisione e la crescita di una loro rinnovata coscienza civica, nonché l’opportunità di una loro futura attività lavorativa in settori ormai divenuti fondamentali per la qualità della vita dei cittadini”. La manifattura del consenso di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 agosto 2019 Intervista a Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale. Perché le opinioni tendono sempre più a prescindere dalla realtà? Populismo e stato. Cosa succede alla democrazia se gli elettori rinunciano alle cerniere tra massa ed élite. Professor Cassese, Gianroberto Casaleggio ha detto una volta: “A me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica”. Ma quest’ultima non è un soggetto, non un’istituzione. Tuttavia, come “l’establishment”, gioca un ruolo importante. Quale è il suo ruolo, come si forma, come viene guidata e controllata? “Nel 1950, Benedetto Croce scriveva, a proposito dei rapporti tra società e Stato, “quando in un Paese dura la libertà, i parlamenti […] debbono tenere conto della pubblica opinione, la quale a un dipresso coincide con la libera stampa” (Benedetto Croce, ora in S. Cassese, “Il popolo e i suoi rappresentanti”, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019, p. 116). Se non si cerca di comprendere i modi di formazione dell’opinione pubblica e i modi in cui questa influisce sulle politiche, non si riesce a capire fino in fondo le trasformazioni che stiamo vivendo, perché questo è un capitolo della “manifattura del consenso” (una espressione usata dal linguista americano Noam Chomsky). Di recente, Carlo Galli (“Sovranità”, il Mulino, 2019) ha scritto che gli Stati sono divenuti “triadi del potere”, mentre erano prima “piramidi di potenza”. Negli Stati si intrecciano il potere politico tradizionale, quello economico e quello mediatico - narrativo, che - aggiunge Galli - sostituisce il discorso pubblico e la legittimazione argomentativa”. Che cosa è, allora, l’opinione pubblica? “Partiamo dal classico libro di Walter Lippmann, un giornalista americano, che scrisse nel 1922 un notissimo libro, “Public Opinion”, nel quale spiegava che i fatti sono influenzati da pregiudizi e preconcetti che inquinano e distorcono l’opinione pubblica. I mezzi di comunicazione, a quell’epoca giornali e radio, a loro volta influenzati da forze economiche, politiche e religiose, svolgono un ruolo preponderante nella formazione e nella manipolazione della collettività. Opposta l’idea secondo la quale l’opinione pubblica si forma mediante scambio di argomentazioni razionali tra organizzazioni rivali, che consente di raggiungere la verità, un’idea che ha percorso un tragitto che va da Edmund Burke (nel famoso discorso agli elettori di Bristol, del 1774, affermò che i “rappresentanti” non sono ambasciatori dei “rappresentati”, perché debbono formarsi una loro opinione dopo esame dibattimentale: quindi, la rappresentanza non è la somma delle opinioni dei “deleganti”) a Jürgen Habermas”. Perché si ha l’impressione che, oggi, in Italia, maggioranza e opposizione non solo non dialoghino, ma che addirittura parlino lingue diverse? “Proverò a spiegarlo, esaminando per ora solo i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e delle politiche delle due parti, che sono accomunate anche dall’età, dalla data di nascita. Una adotta un meccanismo che chiamerò ad ascensore, partendo dai sentimenti popolari, l’altra un meccanismo a cascata. I due circuiti sono diversi, chiusi l’uno all’altro. Naturalmente questa è una semplificazione, perché vi è anche un ulteriore elemento, costituito dall’apertura orizzontale nel secondo caso, che non c’è invece nel primo modello. Invece, il primo sfrutta anche le possibilità comunicative e di feedback del web. Sono due mondi culturalmente e tecnologicamente divisi, due modi diversi di fare politica”. Ma i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica sono rilevanti da tanto tempo e da tanto tempo esaminati. “Il loro esame è però divenuto più importante da quando si è capito che le politiche pubbliche non hanno a disposizione come strumenti solo leggi e incentivi economici ma anche - come ha lucidamente spiegato in un importante libro recente Riccardo Viale, “Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento”, Bologna, il Mulino, 2018 - “altre opzioni di impatto comportamentale come il design di architetture ambientali per indirizzare la scelta in una direzione voluta dal policy maker, l’utilizzo ispirato alle scienze comportamentali dell’informazione e della comunicazione pubblica; lo sviluppo di forme di istruzione e formazione per potenziare le competenze decisionali umane”. Cominciamo dal modello ad ascensore, quello di M5s e Lega... “A me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica”: la frase di Casaleggio padre. Questo è il punto di partenza: la voce del popolo. Non élite, non “opinion makers”. La politica all’epoca del digitale, per chi lo sfrutta, consiste in un ascolto continuo dei “sentimenti” popolari, una specie di continuo sondaggio. Controllo e analisi continua di post e tweet, ascolto continuo delle opinioni della gente, monitoraggio della rete in grado di leggere commenti e conversazioni, con un “listening tool”, mettendo sotto osservazione parole chiave, per poi rilanciarli, semplificandoli e arricchendoli, tramite “meme”, in modo da allargare l’area dell’ascolto e del consenso. Le reazioni ai messaggi inviate vengono poi esaminate, interpretate, e vengono rilanciati altri messaggi, con la tecnica dell’interesse composto, che si arricchisce continuamente di conoscenze dell’opinione del popolo, tramite “sentiment analysis”, e di “followers”, il cui cerchio si amplia continuamente mediante influenza continua di altre opinioni. Questo modello ha una capacità predittiva (consente di conoscere i comportamenti degli elettori) e una manipolativa (specialmente grazie alla formazione di “echo chambers” e ai “filter bubbles”, che creano e rafforzano l’impressione di sentirsi parte di un gruppo, sfruttando le identità liquide, ovvero mutevoli). Una indagine di “Sociometrica” su 3 milioni di record (tweet scambiati negli ultimi 10 giorni della campagna elettorale per il Parlamento europeo) ha consentito di notare che i temi “Salvini” e “Sea Watch” hanno dominato e che la campagna condotta da Salvini ha alimentato, influenzato, rafforzato, orientato pensieri e sentimenti popolari”. Modello complicato da realizzare... “Perché fondato su molti elementi costitutivi. Primo: dire al popolo quello che esso vuol sentirsi dire. Secondo: seguire una tecnica incrementale. Terzo: accettare di stare continuamente in campagna elettorale. Quarto: esprimersi per slogan, con dei “meme”, battendo sempre sugli stessi punti (pare che sia stato Goebbels a dire: “Una menzogna detta una volta rimane una menzogna, ma una menzogna ripetuta un migliaio di volte diventa verità”). Quinto: non replicare, precisare, smentire, mettere a punto (questo comporterebbe un dialogo orizzontale, con competitori, quello che interessa l’altro modello). Sesto: scegliere un nemico e batterlo ogni giorno, non discutere”. Questo processo incrementale, che si arricchisce continuamente, richiede un grande uso del web... “Sì, ma in un modo inconsueto. Come è noto, i modi di comunicazione sono tre. “One to one” (ad esempio, la lettera scritta a un amico). “One to many” (ad esempio, la radio e la televisione). “Many to many” (il web). Ora, in questo modello il web viene utilizzato sia come mezzo di comunicazione “many to many”, sia come mezzo di comunicazione “one to many”. Si può dire che il modello ad ascensore ha sviluppato un quarto tipo di comunicazione, che mette insieme il secondo e il terzo modello”. Tutto questo incide anche sul sistema politico costituzionale? “Certamente. Questo modello è legato all’idea del parlamentare - portavoce, che riferisce non in Parlamento, ma tramite la rete, direttamente agli elettori. Manca il soggetto collettivo, ci sono i leader e i mandanti. Con questa tecnica non potrebbe succedere quello che veniva raccontato nel film “Magic Town”, del 1947 (quindi all’epoca del successo degli “opinion polls” e dei “pollsters”), di “Grandview”, una cittadina - specchio dell’America: quando gli abitanti se ne resero conto, e cominciarono a pensare di poter manipolare l’opinione pubblica, perdettero la qualità di rappresentare l’opinione americana”. Passiamo all’altro modello, quello a cascata, che sarebbe oggi quello di Forza Italia e del Partito democratico... “È quello tradizionale. Tra le élite maturano e circolano idee, che vengono dibattute; quando si sviluppano, vengono sottoposte all’attenzione delle “masse”, con ulteriori passaggi, sia dal basso in alto che dall’alto al basso. In questo modello vi sono “opinion maker” e “opinion leader”. I temi sono più elaborati. Vi è una dirigenza che interpreta, filtra, elabora, tramuta “sentimenti” e idee insieme in programma. Lo strumento utilizzato non è tanto la rete, quanto televisione e giornali. Donde anche un deficit digitale. I modi del dialogo vertice - base sono - dove resta un’ombra di quello che furono i partiti - la sezione e il congresso, oppure i sondaggi. In compenso, questo modello, essendo più elitista, è anche più aperto orizzontalmente alla discussione con le opinioni degli oppositori”. Quale dei due è più democratico? “Non so se sia questa la domanda giusta da porre. In ambedue i modelli c’è un dialogo base-vertice, in ambedue c’è una élite. Nel secondo più apertura orizzontale, nel primo più ascolto della base. Per la valutazione comparativa, comincerei da un altro punto. La democrazia e le sue teorie non hanno sufficientemente affrontato e studiato il problema che sorge dal fatto che le opinioni non corrispondono automaticamente alla realtà. Ci sono limitazioni cognitive, perché non siamo in grado di interpretare un mondo troppo grande e complesso. Abbiamo quindi quelli che Lippmann chiamava stereotipi, immagini mentali riassuntive, che si inseriscono tra le persone e il loro ambiente. Da qui la difficoltà di fondare su una cosiddetta volontà popolare le politiche pubbliche. Il modello ascensore, quello che pare più vicino al valore della democrazia intesa nel senso comune, presenta non pochi inconvenienti. Il primo è che mette la leadership su un tapis roulant, sul quale deve necessariamente muoversi per non cascare, rendendo quindi i leader dei precari, costretti ad “apparire” ogni giorno. Ma governare non è apparire. Il secondo è che costringe a un continuo racconto di fatti e della realtà non per quello che sono, ma per quello che la gente vuole che sia. Il terzo è che costringe a una ottica di brevissimo periodo, perché bisogna annunciare continuamente, all’inseguimento continuo di sentimenti e richieste, e quindi anche dei cambi di umore dell’opinione pubblica. Il quarto è che è costruito in un circuito chiuso, in cui parlano solo quelli che entrano nel circuito, e non c’è quindi un dibattito pubblico e una vera e propria sfera pubblica alla Habermas. Il quinto è che spinge a un uso separato di mezzi di comunicazione, che poi si rivela insufficiente (infatti, il M5s, che si è rifiutato a lungo di apparire in televisione e di dichiarare ai giornali, è stato poi costretto a farlo)”. Quali le conseguenze sull’opinione pubblica? “Una rivoluzione è in corso, legata alla manifattura del consenso. I mezzi di comunicazione, la “libera stampa” di cui parlava Croce, che giocava un ruolo di educazione, di filtro, di guida ha perduto il “ruolo di cerniera tra élite e massa” (sono parole di Alessandro Barbano in una intervista al Foglio del 19 aprile 2019), a favore del web, che permette di arrivare alle notizie senza filtro. I mezzi tradizionali, specialmente i giornali, perdono quota a ritmi dal 7 al 10 per cento all’anno. Questo vuol dire “a loss of gatekeepers”. Il 70 per cento della popolazione ha accesso a internet tramite smartphone e personal computer. Le forze politiche si dividono non solo in base alle politiche, ma anche in base alla loro capacità di utilizzare i mezzi di comunicazione. Mai come oggi i media sono il messaggio. Questa divisione fa crescere un muro tra le forze politiche, crea una sordità tra di esse. Produce anche quindi poco dibattito diminuendo la componente schumpeteriana della democrazia, che rende il potere visibile, permette il controllo. In conclusione, il governo rappresentativo non può funzionare bene se non ci sono una o più organizzazioni indipendenti per rendere intelligibili i fatti a quelli che devono decidere e che aiutino questi a vedere quelli non visti, senza dimenticare che “i fatti sono carichi di teoria” (come aveva osservato Paolo Rossi, “A mio non modesto parere. Le recensioni sul Sole 24 Ore”, Bologna, il Mulino, 2018, p. 37). E sarebbero necessari “national town meetings” e tanti altri strumenti per eliminare o almeno ridurre le aree di ignoranza”. Quali le conseguenze sulla società e sulle istituzioni? “Sulla cittadinanza, sull’opinione pubblica, sul modo di far politica. Per quanto riguarda la prima, la possibilità di collegarsi alla rete e di comunicare a gruppi di persone e persino di indirizzarsi a tutti gli utenti modifica atteggiamenti ed aspettative dell’individuo rispetto alla collettività, costruendo una percezione soggettiva di potenza, dando l’impressione di poter far sentire la propria voce come un politico in un comizio o l’autorità in una trasmissione televisiva. Questo cambia le condizioni di cittadinanza, dà l’idea di avere un potere non mediato, rafforzato dall’illusione di poter decidere tutto mediante referendum. Le conseguenze sull’opinione pubblica sono state indicate con intelligenza da Alessandro Campi in due articoli apparsi sul Messaggero del 19 ottobre 2018 e del 23 aprile 2019: trasformazione dell’opinione pubblica in emozione pubblica, colonizzazione della sfera pubblica ad opera di quella privata, prevalenza dell’immediato sul passato, indistinzione tra il reale e l’artefatto, la “narrazione” o il falso, trasformazione del leader in un “follower” del suo pubblico, rifiuto della competenza a favore di una concezione egualitaria dei rapporti sociali, abbandono del linguaggio complesso a favore di uno semplificato. La possibilità di “osservare il mondo non per quello che è ma per quello che sembra” (osservazione di Claudio Cerasa, il Foglio del 3 luglio 2018) consente di ingigantire fenomeni come la corruzione, il numero degli immigrati, la diffusione della criminalità. I problemi connessi e le conseguenze sono molti: ricorso al “nudging”, falle nella “cybersecurity”, difficoltà di tutela e gli utenti (per esempio, “right to be forgotten” o diritto all’oblio). Infine, la dimensione digitale trasforma il modo di fare politica: le campagne politiche divengono forme di “marketing” con “micro-targeting degli elettori e la politica diventa quantistica, per adoperare la felice intuizione di Giuliano da Empoli in “Gli ingegneri del caos. Teorie e tecnica dell’Internazionale populista” (Venezia, Marsilio, 2019), che spiega come emerga una forma politica nuova in cui nulla è stabile, le interazioni sono importanti, più verità contraddittorie possono coesistere”. Quali le conseguenze sui processi cognitivi? “Rispondo con le parole di Massimo Adinolfi (“Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia”, Roma, Salerno editrice, 2019, pagine 36-37, 76-77, 81): sono in crisi non il concetto di verità dei fatti, ma le cornici interpretative in cui i fatti sono inquadrati; il problema della postverità non riguarda tanto l’indebolimento del suo statuto teorico, quanto piuttosto le condizioni della sua produzione. Quindi - sono sempre parole di Adinolfi - occorre tenere viva una solida infrastruttura intellettuale che consenta la più ampia circolazione di idee e incentivare pratiche che consentano attriti, di mescolare le carte, di coltivare il dissenso”. Ma non è in dubbio la stessa verità? “Infatti, la storica americana Sophia Rosenfeld ha in un libro recente spiegato che i rapporti di verità e democrazia sono stati sempre fragili, precari, ma ha aggiunto che la democrazia ha la straordinaria virtù di assicurare sempre la possibilità di una seconda “chance”, ed elencato una serie di “antidoti” che consente il pluralismo, strumentale al raggiungimento della verità: libertà di parola e opinione, una stampa attenta nel verificare e riportare i fatti, un sistema che assicuri libertà di voto, un ordine giudiziario indipendente, efficaci sistemi di istruzione (il libro è intitolato “Democracy and Truth. A Short History”, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2019)”. Contro i razzismi servono “relazioni dettagliate” di Alberto Leiss Il Manifesto, 6 agosto 2019 Il punto decisivo è trovare il linguaggio capace di offrire alternative simboliche. Non serve a molto scandalizzarsi se Salvini canta l’inno di Mameli sulla spiaggia con le cubiste, ma se il ministro risponde “zingaraccia ti mando la Ruspa” a una persona che gli augura la morte, bisogna seguire la lezione de “La lingua materna” di Hannah Arendt. Non credo che servano a molto le analogie con gli anni 30 per reagire adeguatamente alla deriva autoritaria, razzista e machista che è attualmente impersonata dal ministro dell’interno, il quale dà evidentemente voce, e sponde, a pulsioni aggressive e irrazionali diffuse tra molte persone che vivono in questo paese. Tuttavia ripassare la storia è sempre utile, specialmente se non la si conosce già bene, e si può trovare qualcosa che ci ispira orientamenti mentali e pratici adatti all’oggi, con le necessarie traduzioni in un tempo tanto diverso. Mi è capitato leggendo un breve testo di Hannah Arendt (La lingua materna, recentemente riedito da Mimesis) in cui l’autrice della Banalità del male, durante una conversazione televisiva (condotta da Günter Gauss nell’ottobre 1964) racconta come sua madre le insegnava a reagire agli atteggiamenti razzisti che potevano essere rivolti a una bambina ebrea. Il racconto, tra l’altro, ci dice che l’antisemitismo era una realtà già nell’immediato primo dopoguerra, quando Hannah, nata nel 1906, andava a scuola, ben prima dunque dell’avvento di Hitler. “Tutti i bambini ebrei - racconta Arendt - hanno avuto a che fare con l’antisemitismo. Ha avvelenato l’anima di tanti bambini. La differenza per noi era che mia madre partiva sempre da questo punto di vista: non bisogna abbassare la testa! Bisogna sempre difendersi! Se i miei professori avessero fatto delle osservazioni antisemite - per lo più non in riferimento a me ma alle altre studentesse ebree, per esempio ebree orientali - ero stata istruita ad alzarmi, abbandonare la classe, tornare a casa e stendere una relazione dettagliata su ciò che era avvenuto. Mia madre scriveva una delle sue tante lettere raccomandate; e per me l’incidente era assolutamente chiuso. Avevo un giorno di vacanza in più, ed era molto bello. Ma se le osservazioni venivano fatte dagli altri bambini, io non dovevo raccontare nulla a casa. Non valeva la pena. Con i bambini ci si difende da soli (…) A casa mia esistevano delle regole di condotta che mi consentivano di mantenere e di proteggere assolutamente la dignità”. Questo racconto mi ha fatto pensare che il punto decisivo è trovare, anche oggi, il linguaggio capace di offrire alternative simboliche. Immagino che non serva a molto scandalizzarsi se Salvini canta l’inno di Mameli sulla spiaggia con le cubiste, ma se il ministro risponde “zingaraccia ti mando la Ruspa” a una persona che gli augura la morte, bisogna “fare una relazione dettagliata” perché a chi ha giurato sulla Costituzione e tendenzialmente ci rappresenta tutti non può essere consentito di parlare e comportarsi in modo di coprire e aizzare comportamenti razzisti. Nella “relazione dettagliata”, però, va anche affrontata l’origine della battuta inaccettabile del ministro. Perché una persone, zingara o meno che sia, non deve minacciare di morte nessuno. E forse bisognerebbe dire qualcosa anche sulla situazione - una porzione di territorio milanese tra degrado e villette abusive, ripresa per alcuni minuti da una videomaker del Giornale - che a un primo sguardo non sembra corrispondere agli standard di una città civile come Milano. Approfondire questi “dettagli”, a mio parere, non indebolirebbe affatto la denuncia delle parole inammissibili e molto gravi di Salvini, ma anzi rafforzerebbe l’idea che le soluzioni ai problemi che l’episodio sottende non possono essere l’odio contro gli zingari o l’uso minaccioso di ruspe. Così come combattere chi salva i naufraghi non potrà risolvere in alcun modo il dramma delle migrazioni contemporanee. Armi. In Italia le maglie si allargano, la lobby sorride di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 6 agosto 2019 Il governo Conte ha raddoppiato il numero di armi sportive detenibili invece di ridurlo. Ma il numero degli “sportivi” è meno della metà di quello dei fucili semiautomatici in circolazione. Mentre le associazioni armiere lavorano al “modello Usa”. Odio razziale e religioso di stampo etno-suprematista misto a fascinazioni nazifasciste e facile accesso alle armi. È la miscela esplosiva che continua ad alimentare i mass shooting negli Stati uniti e non solo. Patrick Crusius afferma di essere “un sostenitore della strage di Christchurch” in Nuova Zelanda. Lo fa nel suo delirante manifesto postato poco prima di compiere la strage nel supermercato Walmart a El Paso in Texas. L’autore della strage di Christchurch, l’etno-nazionalista australiano Brenton Tarrant, scriveva di essersi ispirato a Luca Traini, l’attentatore xenofobo che dalla sua auto sparò all’impazzata sugli immigrati di colore di Macerata. “Difendo il mio Paese dalla sostituzione etnica e culturale portata da un’invasione”, aggiunge Crusius nel suo allucinante manifesto. Crusius e Tarrant non sono soli. Prima di loro vi è stato il simpatizzante dell’ultradestra antisemita Robert Bowers, autore della strage nella sinagoga di Pittsburgh; il giovane razzista e islamofobo Nikolas Cruz, della sparatoria di Parkland in Florida; il giovane suprematista neonazista Dylann Roof della carneficina della chiesa degli afroamericani di Charleston nel Sud Carolina. Solo per ricordarne i più recenti. Un lungo elenco nel quale - non dovremmo mai dimenticarlo - va annoverato anche il filonazista norvegese Anders Breivik che nel luglio del 2011 ha compiuto la strage con un fucile semiautomatico regolarmente detenuto sui giovani del Partito laburista radunati nell’isola di Utoya. Dagli Stati uniti alla Nuova Zelanda, dall’Italia alla Norvegia con un unico filo conduttore: l’odio xenofobo, religioso e razzista. Ma con un’altra costante, troppo spesso sottovalutata: gli autori di queste stragi erano tutti in possesso di una regolare licenza per armi. Così, mentre la propaganda politica razzista arma il cervello, il facile accesso alle armi ne agevola l’esecuzione. Il mix è letale e ci riguarda da vicino. La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza inviata al Parlamento italiano nel febbraio scorso indica un crescente “dinamismo della destra radicale”, il cui “attivismo, di impronta marcatamente razzista e xenofoba, si è accompagnato a una narrazione dagli accenti di forte intolleranza nei confronti degli stranieri” (p. 100). Il terreno è pronto e, non serve dirlo, è costantemente fertilizzato da espliciti messaggi di stampo identitario lanciati dai leader della destra europea e italiana, non ultimo il ministro degli Interni, Matteo Salvini. Ma - si dice - da noi non è come negli Stati uniti in cui le armi si possono comprare al supermercato. “Sulle armi, l’Italia ha le norme più restrittive d’Europa”, aggiunge la propaganda delle riviste patinate. Chiunque abbia preso una licenza per armi sa che non è vero. A qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è infatti generalmente consentito di ottenere una licenza dopo aver superato un breve esame di maneggio delle armi. E non sono poche. Il governo Conte, su pressione della Lega e con il tacito consenso del Movimento Cinque Stelle, l’estate scorsa è infatti riuscito, unico in Europa, a recepire in senso estensivo la direttiva comunitaria che avrebbe dovuto restringere le maglie sulle armi: il numero di “armi sportive” (tra cui i fucili semiautomatici tipo Ak-47 o Ar-15, quelli cioè più usati nei mass shooting) detenibili è stato raddoppiato, portandolo da sei a dodici ed è stata raddoppiata anche la capacità dei caricatori acquistabili senza denuncia (da cinque a dieci colpi). Un autentico regalo ai produttori di armi. Così oggi, con una semplice licenza per tiro sportivo, per la caccia o per mera detenzione (nulla osta), è possibile tenersi in casa tre pistole con caricatori fino a 20 colpi, dodici “armi sportive” con caricatori da 10 colpi e un numero illimitato di fucili da caccia. Un autentico arsenale. Secondo alcune stime, sarebbero più di 700mila i fucili semiautomatici presenti nelle case degli italiani. Tutti con regolare licenza, certo. Ma viene da chiedersi a cosa possano servire, visto che le federazioni nazionali di tiro sportivo affermano che i loro soci sono poco più di 100mila. Anche includendo le associazioni locali e i poligoni privati non si arriva a 200mila aderenti. Mancano all’appello almeno 400mila possessori di armi con licenza per “tiro sportivo”. Per non parlare di molti altri, probabilmente due milioni che, pur continuando a possedere armi, da anni non rinnovano la licenza. Tutti armati. Fino ai denti. E la lobby delle armi si è organizzata. Le tre principali associazioni di settore armiero (Anpam per i produttori, AssoArmieri per i commercianti e Conarmi per gli artigiani) l’anno scorso hanno diramato un comunicato nel quale invitano gli appassionati a tesserarsi a uno dei gruppi più attivi nel difendere gli interessi dei legali detentori di armi: il Comitato D-477, oggi Unarmi. L’obiettivo del gruppo, che fa parte della rete Firearms United e con contatti diretti con la Nra statunitense, è introdurre anche in Italia una sorta di “diritto alle armi”. Proprio come quello in vigore negli Stati uniti. I cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. *Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (Opal) Migranti. La stretta anti Ong è legge. Zingaretti: “M5S schiavi della Lega” di Carlo Lania Il Manifesto, 6 agosto 2019 Al Senato con 160 voti a favore passa la fiducia al decreto sicurezza bis. Salvini: “Meno Carola e più Oriana Fallaci”. E Grasso evoca il fascismo. Manette, multe milionarie e navi sequestrate. Ma anche più poteri al ministro dell’Interno che potrà decidere se vietare o meno l’accesso alle acque territoriali italiane. Le ong - e con esse quanti si permettono ancora di salvare vite nel Mediterraneo - sono servite. Da ieri un altro pezzo della visione che del mondo hanno Lega e M5S è diventata legge dello Stato con l’approvazione definitiva del decreto sicurezza bis da parte del Senato. E non è certo una bella visione. A Matteo Salvini è andata di lusso: 160 i voti a favore del decreto, uno in meno della maggioranza assoluta, anche se per approvarlo ne sarebbero bastati di meno (il quorum era fissato a 109). 57 quelli contrari (Pd, Leu, una parte dei senatori del gruppo Misto e della Svp) e 21 gli astenuti, tra i quali il gruppo di Fratelli d’Italia (Forza Italia è stata presente in aula ma non ha partecipato al voto). E infatti il ministro leghista esulta: “Meno Carola e più Oriana Fallaci - dice rivolto ai suoi senatori - Ringrazio voi, gli italiani e la Beata Vergine”. Durissimo, invece, il commento di Nicola Zingaretti: “Il decreto Salvini è passato, l’Italia è più insicura. Grazie agli schiavi 5 stelle”, scrive il segretario del Pd. Non che l’esito della votazione sia mai stato in dubbio, ma il dissenso manifestato nei giorni scorsi da alcuni senatori grillini aveva creato qualche incertezza nella maggioranza. Invece tutto è filato liscio. Al dunque in cinque - Montevecchi, La Mura, Ciampolillo, Fattori e Mantero - escono dall’aula al momento del voto di fiducia voluto dal governo. Per certi versi plateale la marcia indietro del senatore Alberto Airola, che pure aveva firmato alcuni degli emendamenti grillini al testo. Dopo aver citato l’ex ministro Rino Formica (“La politica è sangue e merda), il senatore No Tav ha annunciato di votare a favore della fiducia perché il decreto “non è l’Anticristo dei decreti” mentre il M5S deve realizzare “provvedimenti che cambieranno la vita dei cittadini” e può farlo solo restando al governo con la Lega. Tra le misure che da ieri sono legge oltre alla possibilità di arrestare il comandante di una nave che non rispetta l’ordine di fermarsi impartito dalle autorità e al sequestro della nave, sono previste multe da 150 mila a un milione di euro per le Ong che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, ma anche l’uso delle intercettazioni preventive nelle indagini su favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e soldi alle forze dell’ordine per agire sotto copertura. Stanziati anche due milioni di euro per i rimpatri dei migranti irregolari. Legge inutile, oltre che crudele, visto che solo un migrante ogni dieci arriva in Italia sulle navi delle ong mentre ogni giorno decine di barchini sbarcano altrettanti migranti senza alcun clamore. E proprio per questo fortemente ideologica. “Questo decreto traduce in norme i tweet di Salvini. Avete fatto dei post di Facebook una fonte del diritto”, ha detto nel suo intervento l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che ha anche paragonato quanto accade oggi al Ventennio fascista. “Il fine non giustifica i mezzi”, ha proseguito Grasso. “I metodi che state testando sono senza dubbio efficaci nel breve periodo, e magari faranno fare a voi il pieno dei voti, quando avrete il coraggio di chiederli, ma questo metodi non sono quelli di uno Stato civile, di diritto”. Amaro anche il commento di don Luigi Ciotti: “Oggi il grado di umanità del nostro paese si è corrotto”, ha detto il fondatore di Libera. “La politica ha tradito al Costituzione, i sogni e gli ideali di chi l’ha pensata e scritta e delle convenzioni internazionali”. Migranti. Persino il codice Rocco dà lezioni di garantismo al ministro della paura di Sergio Moccia Il Manifesto, 6 agosto 2019 Decreto sicurezza bis. Tra le varie castronerie incostituzionali vi è un’ennesima norma spot, quella che innalza a un milione di euro la sanzione per l’ingresso senza permesso di una nave con naufraghi a bordo. Si tratta di una norma utile solo alla propaganda, ma destinata all’ineffettività. Necessitas non habet legem, da intendersi nel senso che allo stato di necessità non può opporsi alcuna legge contraria. Si tratta di una prerogativa che taluni illustri giuristi ritenevano sussistesse, prima del contratto sociale, già nello stato di natura. Dunque risultava connessa alla stessa qualità di essere umano. Il soccorso di necessità, è specificamente richiamato nel codice penale vigente al primo comma dell’art. 54. Ebbene sì, si tratta del codice Rocco, del codice fascista che anche in questo caso, come già per la legittima difesa, dà lezioni di garantismo a Salvini. Ma, a ben riflettere, tutta la normativa internazionale - quella che in base al combinato disposto di cui agli artt. 10, 11 e 117 Cost. impone allo stato italiano di legiferare nel rispetto della medesima - in materia di soccorso in mare rappresenta il precipitato normativo del necessitas non habet legem. La Convenzione di Londra del 1974 e la Convenzione di Amburgo del 1979, unitamente ad altre Convenzioni tutte riconosciute dall’Italia, integrate nel 2004 da emendamenti da parte dell’International Maritime Organisation, disciplinano fondamentalmente la materia. Il comandante che soccorre naufraghi ha l’obbligo non solo morale, ma anche giuridico, di individuare un luogo sicuro di sbarco. Si tratta di adempimento di un dovere, art.51 c.p., che scrimina la condotta del comandante e di chi con lui coopera anche a fronte di un ordine perentorio di un Ministro, al di là delle sbruffonate bulliste da parte di Salvini, dato che quando si arriverà all’eventuale processo il giudice non dovrà fare altro che applicare le norme che dicono tutto il contrario di quel che urla il ministro dell’interno. E a questo proposito, vorrei far notare al ministro che, tra le altre castronerie incostituzionali, in via di approvazione nel decreto sicurezza bis, vi è un’ennesima norma spot. Mi riferisco a quella che innalza a un milione di euro la sanzione per l’ingresso senza permesso di una nave con naufraghi a bordo. Si tratta di una norma utile solo alla propaganda, ma destinata all’ineffettività. Tanto per capirci meglio, anche se la sanzione fosse portata ad un miliardo di euro, in base al complesso della normativa scriminante vigente, non la pagherebbe alcuno. Vale la pena ricordare che, se la nave batte bandiera italiana ed ha raccolto i naufraghi a bordo, l’obbligo di sbarco in un porto sicuro conferisce alle persone soccorse in mare una condizione di libertà personale. In genere viene ventilata l’idea che sulla nave italiana soccorrente fossero presenti non aventi diritto di asilo, né qualificabili come rifugiati, per cui il divieto di farli sbarcare sarebbe stato funzionale ad esigenze di “interesse generale”. Ma l’argomento non regge. Innanzitutto, perché l’ipotesi aprioristica dell’irregolarità dei naufraghi è smentita costantemente dal fatto che sono tantissime le persone che, una volta sbarcate, dimostrano di avere diritto allo status di rifugiato, secondo quanto stabilito all’art.33 della Convenzione di Ginevra, che compete a chi ha “il giustificato timore d’essere perseguitato” per razza, religione, opinione politica e così via. In questo caso opera il principio di non respingimento, art. 33 par. 1 della Convenzione di Ginevra, che vieta allo Stato interessato di respingere i naufraghi verso altra destinazione. A questa ipotesi va aggiunta quella della presenza a bordo di persone che necessitano di soccorsi urgenti - caso frequentissimo - per le condizioni di salute. Dunque, anche in tali evenienze, si impone lo sbarco senza ritardo, pena la violazione delle Convenzioni richiamate. Essendo presente un obbligo di sbarco dei naufraghi, costoro non possono essere costretti a restare sulla nave: si determina, altrimenti, un’ingiustificata compressione della libertà personale attraverso la costrizione in un spazio chiuso, al di fuori dei casi consentiti dall’ordinamento giuridico ed in mancanza di un provvedimento legittimamente dato dall’autorità giudiziaria, così come dispone l’art.13 Cost. E per chi dovesse impedire lo sbarco dovrebbe aprirsi la strada di un processo penale, a seconda dei casi, per sequestro di persona aggravato, 605 co.3 c.p., o per finalità di coazione, art.289-ter c.p. Ma finché Salvini sta al governo, la vedo difficile. Stati Uniti. “Chico Forti, ora Salvini se ne occupi” di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 6 agosto 2019 Una mozione per riaprire il caso di Chico Forti, l’imprenditore condannato all’ergastolo a Miami e in carcere da 21 anni. Lo annunciano i familiari del filmaker che si è sempre proclamato innocente. Il consiglio provinciale farà una mozione congiunta da presentare a Roma per chiedere un intervento diretto del governo giallo-verde nel caso di Chico Forti, l’imprenditore e filmaker trentino di 60 anni, in carcere da 21 anni a Miami, oltre ad un incontro con il ministro dell’interno Matteo Salvini. Lo annunciano i familiari di Chico, che sperano, dopo 21 anni di battaglie legali e campagne a favore dell’innocenza del loro caro, di riportarlo a casa. “La nostra richiesta è che torni libero - spiega lo zio Gianni Forti - ci sono tutte le prerogative perché sia liberato e sia annullato il processo”. E sulle ultime mosse intraprese, i familiari dell’imprenditore trentino ricordano proprio la richiesta di un incontro con il vicepremier e ministro dell’Interno attraverso una mozione congiunta in preparazione in consiglio, dopo quella già presentata un mese fa dalle minoranze dove si chiedeva per Chico Forti “di intervenire presso le autorità competenti degli Stati Uniti affinché sia presa in seria considerazione la richiesta di revisione del processo”. In quel testo si chiedeva anche che la Provincia “si faccia da tramite, d’intesa con il governo italiano, di questa richiesta anche attraverso un’apposita missione ufficiale presso negli Stati Uniti”. Su questa mozione la famiglia Forti spera molto: “Chico è innocente. Non c’è alcuna prova che lo colleghi al delitto. È ora che il governo incarichi un funzionario che si occupi della vicenda e si rivolga al governatore della Florida”. Intanto, emergono in queste ore alcune indiscrezioni sul possibile scambio del trentino che si trova da 21 anni nelle case circondariali della Florida dove è stato condannato all’ergastolo per omicidio, con prigionieri americani. La novità sarebbe racchiusa in alcune anticipazioni fatte da vari media, riprese poi dai social e a oggi non smentite, che vedrebbero le ambasciate d’Italia e Stati Uniti trattare per uno scambio di prigionieri. Tradotto: il film-maker trentino sconterebbe la pena in Italia mentre Lee Elder Finnegan e Gabriel Christian Natale Hjorth, i due giovani americani responsabili dell’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, potrebbero fare altrettanto scontando l’eventuale pena negli Stati Uniti. Al momento, è bene ribadirlo, siamo davanti a un’ipotesi, tutta da verificare, tenendo anche contro che sulla vicenda dei due ragazzi americani regna la massima cautela. Certo è che una simile prospettiva darebbe nuova linfa alle speranze dei familiari di Forti, che con il legale Joe Tacopina da tempo si stanno battendo per fare ritornare in Italia l’imprenditore ed ex campione di vela. Sull’eventuale scambio, l’avvocato Giuliano Valer, vice presidente della Camera penale di Trento, spiega nel dettaglio cosa potrebbe accadere usando la massima cautela: “I due americani potrebbero scontare la pena eventuale in un penitenziario statunitense - dice - e viceversa Forti si farebbe l’ergastolo in una nostra prigione anziché nell’istituto di massima sicurezza, il Dade Correctional, in Florida”. E aggiunge: “Non è la prima volta che si prova a farlo venire in Italia ma ad oggi è sempre stato tristemente negato”. Ma nell’accostamento dei due casi, l’avvocato Valer chiede la massima cautela: “Al di là delle specifiche vicende processuali, vi sono da un lato due presunti innocenti sino a condanna definitiva e dall’altro non appare opportuno alimentare speranze senza elementi concreti a chi da anni invoca un’apertura da parte dello Stato giudicante”, aggiunge. “Il rispetto da ambo le parti per i soggetti coinvolti, per i familiari, e per il lavoro di legali e magistrati è in questa doveroso: ciò premesso e senza entrare in tecnicalità troppo specifiche - prosegue - va comunque tenuto presente che la applicazione della convenzione di Strasburgo che consente nei rapporti fra Stati firmatari a un condannato definitivo di espiare la pena inflitta all’estero nel proprio Stato di origine costituisce non già un obbligo, ma una semplice opportunità lasciata - come hanno insegnato illustri precedenti - alle decisioni e volontà diplomatiche, spesso legate a peculiari contingenze politiche”. Tornando a Chico Forti e ai due americani, “è indiscutibile - prosegue Valer - che consentire a un detenuto definitivo di potere espiare la pena inflitta all’estero nel proprio Stato, ove per quanto possa essere gravosa l’esecuzione della condanna, la vicinanza ai propri affetti familiari e la possibilità di ricevere le rispettive visite, oggi, più che mai, risponde ad un obbiettivo senso di umanità prima ancora che di giustizia sostanziale nell’esecuzione della detenzione”. Nepal. Giustizia ferma per i crimini commessi nel conflitto armato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 agosto 2019 Sono passati 13 anni dalla firma dell’Accordo di pace che pose fine a un conflitto armato durato un decennio e ancora i leader politici all’interno e all’esterno delle istituzioni del Nepal continuano a prendere in giro i sopravvissuti e i familiari delle vittime. L’accusa è stata resa nota alla fine di luglio da Amnesty International, Commissione internazionale dei giuristi, Human Rights Watch e Trial International. Dopo la sua elezione nel 2018, il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli si era impegnato a riformare la legge del 2014 concernente il processo di giustizia transizionale, in modo che fosse in linea - come ripetutamente sollecitato dalla Corte suprema - con gli obblighi di diritto internazionale assunti dal Nepal. Il governo non ha mai modificato la legge e ha favorito, senza una consultazione adeguata, la costituzione di un opaco comitato per la nomina dei componenti degli organi della giustizia transizionale. Proprio per questo, le quattro organizzazioni hanno preso una dura posizione contro la mancanza di trasparenza nella nomina dei membri della Commissione per la verità e la riconciliazione e della Commissione d’inchiesta sulle sparizioni forzate (nella foto, le immagini degli scomparsi). Le loro richieste sono chiare: sospendere l’attuale procedura di nomina e avviare una procedura trasparente per la candidatura e la nomina dei componenti delle due commissioni, rispettare l’impegno a emendare la legge del 2014 e adottare e rendere pubblico un programma per il futuro della giustizia transizionale. Arabia Saudita. Prigioniero politico muore in carcere per cure mediche negate asianews.it, 6 agosto 2019 Un prigioniero politico saudita è morto in carcere per problemi al cuore, dopo che le autorità - non più tardi di una settimana fa - gli avevano negato l’impianto di una nuova pompa cardiaca. Secondo quanto riferisce Middle East Eye, che rilancia la denuncia di alcuni familiari, il 60enne Saleh Abdelaziz el-Dhamiri avrebbe sofferto di problemi cardio-circolatori nell’ultimo periodo e necessitava con urgenza di un nuovo apparecchio meccanico. L’uomo è deceduto il 2 agosto scorso ma la notizia è filtrata solo nelle ultime ore. Egli era rinchiuso nel carcere di Tarafeyya, a nord di Riyadh. È stato sepolto il giorno successivo (entro le 24 ore come prevede la tradizione islamica) nella cittadina natale di Sakaka, nel nord-ovest del Paese. Secondo quanto riferisce l’attivista Sami al-Shadukhi, anch’egli con trascorsi in carcere per la sua opera pro diritti umani, Dhamiri ha trascorso oltre quattro anni in isolamento per le sue campagne a favore delle famiglie dei detenuti politici sauditi. La scorsa settimana egli aveva un bisogno urgente di cambiare il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra, una sorta di pompa cardiaca artificiale. Tuttavia, i vertici della prigione hanno negato la richiesta portandolo così alla morte in pochi giorni. Prima dell’arresto, Dhamiri aveva promosso numerose campagne di raccolta fondi per i parenti di detenuti politici. Egli aveva sostenuto in passato l’opposizione interna e aveva criticato con forza l’ascesa al potere dell’attuale numero due del regno e uomo forte del Paese, il principe ereditario Mohammad bin Salman (Mbs). La morte in carcere di detenuti e attivisti non è una novità in Arabia Saudita: nel gennaio scorso è deceduto in cella un altro leader religioso dissidente, Ahmed al-Emari, vittima di torture e maltrattamenti. Con bin Salman al potere (dal 2017), il numero di casi di torture, maltrattamenti e omicidi mirati è cresciuto in maniera esponenziale, così come si moltiplicano vicende di cure mediche negate e abusi in prigione verso detenuti politici, leader religiosi e attiviste femminili. A marzo alcuni documenti trafugati hanno rivelato numerosi casi di detenuti per reati di opinione oggetto di bruciature, torture e malnutrizioni; fra le vittime vi sarebbe anche Loujain al-Hathloul, in prima fila nella battaglia per il diritto alla guida delle donne. Maltrattamenti e abusi si sono verificati anche nel contesto della campagna anti-corruzione voluta con forza da Mbs nel 2017, e che ha portato in prigione numerose personalità di primo piano del regno wahhabita.