Un sistema due volte di classe di Francesca de Carolis remocontro.it, 5 agosto 2019 Quando in carcere il diritto alla salute diventa una questione di classe. L’appello per Mario Trudu, gravemente ammalato, in attesa di analisi e cure. “Ma volete mettervi in testa che voi detenuti non siete malati come gli altri?”. “L’invenzione della specie”, un libro per riflettere su corpi che non contano, quelli degli animali e degli umani animalizzati. Della cui carne, tecnicamente e metaforicamente parlando, possiamo tranquillamente nutrirci, dopo aver trasformato in spettri “emozioni, affetti, compassione, corporeità… finitudine”. Uomini o no, corpi che non contano degli umani animalizzati. La giustizia è questione di classe. E parafrasando quanto don Milani disse a proposito della scuola, si può ben dire che il carcere lo è due volte, perché in base alla classe seleziona e di classe è poi il suo insegnamento. Cos’altro pensare leggendo, appena dopo la notizia dei domiciliari concessi a Roberto Formigoni, il puntuale articolo di Damiano Aliprandi che, su Il Dubbio, parla di Giorgio C., piantonato in carcere nonostante avesse un tumore allo stadio terminale e poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano, fra atroci sofferenze. E di Giuseppe, malato di tumore ai polmoni, detenuto a Vigevano, morto nell’agosto di tre anni fa, all’ospedale di Pavia, al quale è sempre stata negata l’incompatibilità col carcere. E quanti altri… E rabbrividisco. Fra i tanti altri, so di Mario Trudu. In carcere da un tempo infinito e, da alcuni anni, molto ammalato. Parlo spesso di Mario, la cui vicenda seguo da anni, ma per riservatezza, e perché so quanto “fiero”, ho sempre solo appena accennato alle sue condizioni di salute. Mario che sempre dice che “non è nulla”. E cosa volete che sia, qualsiasi cosa, dopo quarant’anni in quell’inferno che possono essere le nostre carceri… Un tumore alla prostata e una fibrosi cistica, che può portare alla morte, non sono cosa da poco. Ma sembra che Mario, che si trova nel carcere di Oristano, non può ancora ricevere le necessarie cure. Riuscite immaginare quanto le lentezze, i rifiuti, le non risposte, possano diventare, per una persona che ha trascorso l’intera vita fra le quattro mura di una cella, un ulteriore incubo buio… “Il detenuto, al pari degli altri cittadini, ha diritto di essere curato e la sua salute deve essere salvaguardata specialmente quando ci sono evidenti segnali di malattia. È assurdo e inaccettabile che Mario Trudu con una fibrosi polmonare conclamata e una diagnosi di tumore alla prostata stia aspettando da due mesi una TAC per valutare l’opportunità di un intervento chirurgico o di una cura chemioterapica o radiologica. Ciò equivale a una condanna aggiuntiva e a un trattamento disumano e degradante che lo Stato non può permettersi”. Lo scrivono Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e il legale di Trudu, Monica Murru, che si rivolgono con un appello al Garante nazionale Mauro Palma perché valuti l’urgenza di far rispettare le norme che pure esistono. Principi e norme che recenti sentenze della Cassazione e perfino le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rimarcano con chiarezza in merito alla salute di chi è detenuto. “È forse opportuno ricordare che Mario Trudu - si osserva - ha 69 anni e si trova in carcere da 40 anni. Le sue condizioni di salute sono precarie e appaiono incompatibili con il regime detentivo. La fibrosi polmonare è una complicazione che può portare alla mortalità. Il tumore prostatico non si ferma in attesa che qualcuno si prenda la briga di avviare una cura adeguata… L’ergastolo ostativo non contempla l’esclusione del diritto alla salute che deve essere garantito a tutte le persone private della libertà in quanto diritto e valore umano”. Quindi si chiede “di procedere celermente alla diagnostica e a un ricovero in un Ospedale per l’intervento chirurgico e/o in una Residenza Sanitaria affinché l’anziano detenuto possa trovare l’assistenza indispensabile per la cura delle gravi patologie in atto. Non è la libertà al centro della vicenda ma il diritto umano che deve prevalere specialmente quando le condizioni di una persona appaiono davvero gravi”. I diritti umani… sembra proprio siano prigionieri, anche loro, di questioni di classe. Lo scorso anno, dopo la concessione dei domiciliari per questioni di salute a Marcello dell’Utri, l’associazione Yairaiha, che molto si occupa di persone sottoposte a limitazione della libertà, ha lanciato un appello pubblico per la scarcerazione delle persone gravemente ammalate. L’appello è stato sottoscritto da migliaia di cittadini, intellettuali e attivisti ed è stato inviato a tutte le istituzioni. La risposta? Un silenzio tombale. Ammalarsi in carcere… molto e di terribile ci sarebbe da dire. “Mi dice che devo mettermi in testa che noi detenuti non siamo persone normali, non possiamo avere lo stesso trattamento sanitario di una persona normale”. Così racconta di quando era nel carcere di Torino Monica Scaglia, malata di tumore, da qualche mese infine ai domiciliari per motivi di salute. “Già fantasmi prima di morire”, con questo titolo, che tutto dice, la sua storia sarà presto pubblicata da “Sensibili alle foglie” in collaborazione con l’associazione Yairaiha. Ne parleremo. Rabbrividendo, ora, non posso non ritornare a un libro che ho terminato di leggere proprio in questi giorni. “L’invenzione della specie” di Massimo Filippi, neurologo che da anni si occupa della questione animale, dal punto di vista filosofico e politico. La tesi, sintetizzando, è che la distinzione fra l’uomo e l’animale, dicotomia gerarchizzante, non è cosa naturale, ma “decisione normativa, performativa e (a)normalizzante che produce ciò che la presuppone”: l’Uomo. Con un dettaglio non da poco e che molto ci dovrebbe far pensare, e preoccupare, se per “Uomo” non si intende chiunque appartenga alla specie Homo sapiens, ma (come, si fa notare, nell’attuale frangente storico-politico si intende) l’appartenente a un genere preciso: maschio, bianco, eterosessuale, adulto, normale, sano, proprietario e carnivoro. Tanto più ci si allontana da questi tratti di riferimento, tanto più ci si avvicina alla specie “Animale”. E quanti siamo… neri, poveri, omosessuali, zingaracce (Salvini docet), malati, detenuti (fatte per carità le dovute distinzioni di classe), donne. Corpi che non contano, quelli degli animali e degli umani animalizzati. Della cui carne, tecnicamente e metaforicamente parlando, possiamo tranquillamente nutrirci, dopo aver trasformato in spettri “emozioni, affetti, compassione, corporeità… finitudine”. Avvocati difensori di Isabella Bossi Fedrigotti Corriere della Sera, 5 agosto 2019 In gioventù ho assunto, controvoglia, qualche patrocinio penale. È stata un’esperienza che mi ha segnato. Poi la vita mi ha portato altrove. La difesa penale è il compito più alto, giusto e nobile che possa svolgere un avvocato, anche la difesa dei più efferati criminali. Ma come? come può essere impresa meritevole difendere i criminali? Anche il peggiore degli assassini (o peggio) resta un essere umano. Dovrà giustamente sottostare alla sua giusta pena. Ma non può essere condannato per qualcosa che non ha fatto solo perché è “un infame”, non può essere picchiato o torturato perché “è un mostro”, non può essere condannato sommariamente, con prove dubbie, ad una pena esorbitante perché così chiedono i media, l’opinione pubblica o un magistrato troppo zelante. Devi farti dieci anni di galera? Va bene, ma siano dieci e non undici, le accuse siano chiare, le prove siano prove, e debitamente prodotte, la procedura sia rispettata. Per questo ci sono io che ti difendo. Non ti difendo contro la giustizia, ma per la giustizia. Perché tu, anche se assassino, resti un uomo e non diventi carne da macello. In secundis, la maggior parte dei criminali - non tutti - son gente ferita, squinternata, squilibrata, ignorante, grezza, impaurita, in una parola debole, che si ritrovano soli in un mondo di ufficiali di polizia, pubblici ministeri, giudici, periti, ecc., tutta gente laureata, di condotta integerrima, che fa il proprio lavoro, inserita in un sistema col suo complesso sistema di regole e regoline e che sono potenzialmente suoi nemici. È giusto che ci sia almeno uno laureato, in giacca e cravatta, che conosce il sistema e non ne è intimidito, che lavora per lui, che è dalla sua parte. Ma non diciamo anche noi nel Salve Regina “avvocata nostra”? Tutti finiremo di fronte ad un tribunale a dar conto di quello che abbiamo fatto e non fatto, detto e non detto. Ci vuole un avvocato anche lì, o no? Percentuali delle etnie in carcere: cosa dicono le statistiche? di Paolo Tuttotroppo paolotuttotroppo.com, 5 agosto 2019 Chi è più propenso a commettere reati? I bianchi, i neri? No: i poveri. L’esempio è quello, risaputo e molto “politicizzato”, della percentuale delle etnie in carcere, ossia l’incidenza della nazionalità sulla propensione al crimine. Nel 2017 c’erano 37mila detenuti italiani e 19mila stranieri. Rapportato al fatto che in Italia ci sono 55 milioni di italiani e 6 milioni di stranieri, apparirebbe evidente che l’incidenza al crimine sia estremamente più alta per gli stranieri. Questa conclusione potrà mai essere contestabile? Sì, e ora vi spiego perché. Il dato ovviamente non è falso; il problema qui è il bias di conferma, ossia il voler utilizzare come premessa dell’analisi quella che dovrebbe essere la conclusione cui voglio arrivare. In sostanza, partendo dal presupposto inconscio che “vogliamo dimostrare che gli stranieri delinquono di più” il nostro cervello tenderà sicuramente a raccogliere qualunque dato che, preso così da solo, possa sostenere quella tesi; e la usa come prova (ragionamento a compartimenti stagni). Non preoccupandosi, però, del fatto che i dati devono essere contestualizzati prima di trarre conclusioni. E nel caso di questa statistica la contestualizzazione del dato è fondamentale. Mi spiego meglio. Se voglio capire l’incidenza dell’etnia sulla propensione al crimine, non posso partire dal presupposto che l’etnia incida effettivamente e cioè verificare solo quel dato, perché così è inevitabile che io la individui (sto già presupponendo che esista); invece, per condurre una analisi “asettica” e scientifica dovrei preliminarmente valutare quali fattori in generale incidano su quella propensione e far partire l’indagine da quelli, a prescindere dal dato che voglio considerare io (cioè l’etnia). Se parto dall’etnia, infatti, il mio cervello tenderà a riadattare ogni dato a quel presupposto; perché in sostanza è questo che chiedo di fare al cervello. Quello che invece dovrei fare, in nome del metodo scientifico, è prendere quei dati e fare le dovute valutazioni a prescindere dal risultato cui voglio giungere (l’etnia), per capire se essa incida davvero e in che proporzione. Proviamo a farlo partendo dalle considerazioni più elementari. Il 95% dei carcerati è dentro per reati comuni (spaccio, violenza, furto, rapina). Il primo dato che devo considerare è dunque provare a ipotizzare quale sia la causa più incidente sulla commissione di quel tipo di reati. Chi è più propenso a commettere questi reati? I bianchi, i neri? No: i poveri. Chi non ha sostentamento, e generalmente ha anche un basso livello di istruzione, è naturalmente più incline a commettere quei reati (per ignoranza o esigenza); chi invece ha una buona posizione, un lavoro fisso e un’istruzione di base sarà ovviamente molto meno propenso a fare rapine in banca, derubare gli anziani e spacciare la droga. E questo a prescindere che sia italiano o straniero. Statisticamente parlando, dunque, le condizioni sociali incidono molto di più rispetto al colore della pelle e per questo non possono essere del tutto ignorate nel condurre l’analisi che sto facendo; anzi: devono necessariamente essere messe a sistema per interpretare i dati relativi alle etnie, che sono logicamente secondari. È necessario, cioè, partire da un dato di probabilità a priori, come sostiene anche Kahneman nei suoi studi. A priori, infatti, la commissione e dei reati comuni è legata alla condizione sociale del reo. Il corretto calcolo sull’incidenza dell’etnia, dunque, va fatto sul numero di poveri o disagiati sociali per ogni etnia, e non sul totale. Perché la stragrande maggioranza della gente benestante in Italia è, per ovvie ragioni, italiana, e non commette quei reati in quanto benestante, non in quanto italiana. Non possiamo sapere se commetterebbero reati comuni per esigenza, se fossero poveri e disagiati. Il dato delle condizioni sociali è dunque imprescindibile. Secondo il Censis in Italia ci sono 5 milioni di persone sotto la soglia di povertà. Di esse, 3,5 milioni sono italiane e 1,5 milioni sono straniere. La povertà per gli stranieri ha infatti un’incidenza in Italia pari al 30,3%, contro il 6,4% degli italiani (dati Istat). Se rapportiamo questo nuovo dato al numero di carcerati, ecco che abbiamo 37 mila detenuti italiani su 3 milioni e mezzo di poveri italiani, e 19 mila detenuti stranieri su 1 milione e mezzo di poveri stranieri. L’incidenza diventa dunque dell’1% circa per entrambe le etnie, dal che devo concludere che l’etnia non è un dato significante sulla propensione al crimine. Significa cioè che i benestanti stranieri sono onesti tanto quanto quelli italiani, mentre i poveri stranieri sono propensi al crimine tanto quanto quelli italiani. Tutto nella norma. Le percentuali delle etnie in carcere sono dunque insignificanti sulla valutazione della propensione al crimine. Giustizia, riforma ai box. E l’Anm “ringrazia” Salvini di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 agosto 2019 La riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, che presentava agli occhi dei magistrati molti punti assai discutibili, per il momento va in soffitta. Sereni per il pericolo scampato. È questo l’umore prevalente dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati all’indomani della decisione di mandare per il momento in soffitta la riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede. Per ironia della sorte, il “salvatore” delle toghe è Matteo Salvini, il politico che nell’ultimo periodo ha più di tutti polemizzato con i magistrati, non condividendone, spesso, alcune decisioni prese in materia di migranti e diritti civili. Nonostante a via Arenula sieda un ministro sulla carta tutt’altro che ostile, la riforma presentava agli occhi dei magistrati molti punti assai discutibili. Primo fra tutti il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Su questo aspetto le correnti della magistratura che, normalmente, non tirano indietro la gamba se devono fare qualche sgambetto al collega - vedasi la vicenda Palamara e la battaglia che si sta consumando per la nomina del procuratore di Roma - hanno immediatamente fatto quadrato, ricompattandosi. Scorrendo le agenzie degli ultimi mesi, infatti, non esiste alcuna dichiarazione di qualsiasi esponente dell’Anm che abbia espresso apprezzamento per il sorteggio, anche temperato, come nell’ultima versione proposta da Bonafede. “Non era neppure ipotizzabile affidare alla dea bendata la scelta dei membri del nostro organo di autogoverno”, dichiara al Dubbio un componente dell’attuale Comitato direttivo centrale che preferisce restare anonimo. “Noi magistrati prosegue - non siamo tutti uguali, dobbiamo finirla con questa ipocrisia. Non si possono mandare a Roma colleghi che non abbiano un minimo di capacità “ politica”: gestire la carriera di un magistrato non è la stessa cosa che scrivere una sentenza. Non è sufficiente essere dei bravi giuristi per far parte del Csm”, puntualizza il rappresentante dell’Anm. E poi i tempi del processo. In particolare modo quelli relativi alle indagini preliminari. E le sanzioni per i ritardatari. Su questo aspetto la “lobby” dei pm, molto forte nell’Anm, ha fatto sentire fin da subito la sua voce. Cosa succederà ora nessuno è in grado di dirlo. Modificare il Csm, va comunque detto, è un sogno irrealizzabile per qualsiasi governo. Anche Renzi quando provò solamente a toccare la composizione della sezione disciplinare, prevedendo una netta separazione con chi effettuava le nomine, fini impallinato. Dl Sicurezza, cresce la fronda nel M5S. Al Senato la conta sul quorum di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 5 agosto 2019 Tra oggi e domani si gioca tutto in Senato. Decisivo il numero dei presenti. Il decreto va convertito in legge prima della pausa estiva, altrimenti decadrebbe. L’appuntamento è per oggi a mezzogiorno, Aula del Senato. A quell’ora comincerà il dibattito sul decreto legge “sicurezza bis”, fortemente voluto dalla Lega e mal visto da buona parte del Movimento 5 Stelle. Si andrà di sicuro al voto di fiducia. In teoria ci sarebbero ancora 1.240 emendamenti di discutere e votare in commissione. Ma il decreto va convertito in legge prima della pausa estiva, altrimenti decadrebbe. I tempi saranno decisi oggi, dalla conferenza dei capigruppo. La maggioranza punta a chiudere stasera ma sembra probabile un rinvio a domani. In ogni caso sarà la prova del nove per il governo, in una settimana che presenta altri passaggi delicati, a partire dalle mozioni sulla Tav. Chi lascia l’Aula - In queste ultime ore la fronda interna al Movimento 5 Stelle sembra crescere. Ai cinque senatori che avevano già manifestato le loro perplessità, lasciando capire di essere pronti a non votare la fiducia, se ne sarebbero aggiunti altri due o tre. La maggioranza è sempre sul filo. Tendendo conto anche dei senatori a vita, che non sono tenuti ad iscriversi a un gruppo, il totale dei seggi a Palazzo Madama arriva a 321. Il quorum, nella remota ipotesi in cui tutti fossero presenti in un caldo lunedì di agosto, arriva dunque a 161. La maggioranza può contare in teoria su 165 voti (se teniamo conto di Bossi, che da tempo non vota). Basterebbero i malpancisti del M5S per andare sotto. Ma se alcuni voti potrebbero mancare, altri si potrebbero aggiungere. Ci sono i tre senatori della Sudtiroler Volkspartei, i due del Maie, il movimento degli eletti all’estero. E anche i due senatori espulsi dal M5S, Maurizio Buccarella e Carlo Martelli, iscritti al gruppo misto, e che finora non hanno mai fatto mancare il loro sostegno al governo in caso di fiducia. Non solo. Alcuni senatori di Forza Italia vicini al governatore della Liguria Giovanni Toti, e quindi a Salvini, potrebbero lasciare l’Aula in modo da abbassare il quorum. La stessa mossa potrebbe essere fatta da altri senatori azzurri, non per scelta politica ma più prosaicamente per tenere in piedi la legislatura e allontanare il momento delle elezioni. Dice la capogruppo al Senato di Forza Italia Anna Maria Bernini: “Noi condividiamo quasi tutto del decreto sicurezza ma servono più risorse per le forze dell’ordine”. Fratelli d’Italia, invece, non lascerà l’Aula, come pure molti continuano a sostenere, forse a sperare. Il partito non appoggia il governo ma condivide i contenuti del decreto. E per questo la scelta più probabile sembra quella dell’astensione. “Se il governo non mettesse la fiducia - dice il capogruppo Luca Ciriani - il provvedimento troverebbe sicuramente i nostri voti”. La conta al Senato sul decreto anti Ong che confisca e arresta di Silvio Buzzanca La Repubblica, 5 agosto 2019 Il Senato inizia oggi l’esame del decreto Sicurezza bis che scade il 13 agosto. La Camera lo ha già licenziato e Palazzo Madama dovrebbe fare altrettanto. O approvando il provvedimento o dicendo sì alla fiducia che dovrebbe chiedere il governo; con un voto in arrivo già oggi, al massimo domani. Un esito positivo, nonostante i mal di pancia che colpiscono alcuni senatori grillini e sollevano dubbi sui numeri della maggioranza. Anche questo passaggio parlamentare è entrato nella giostra impazzita del quotidiano scontro fra i giallo-verdi. I primi quattro articoli del decreto sono dedicati all’immigrazione. E a leggerne il contenuto sembra vedere aleggiare sull’austera sala di Palazzo Madama lo spirito di Carola, la comandante della Sea Watch. Il testo, infatti, concede superpoteri al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, per impedire l’arrivo di navi con migranti a bordo nei nostri porti. Deve solo concertare con Toninelli e la Trenta e informare il premier Conte. E siccome può accadere che qualcuno si faccia beffa degli editti del Viminale, sono in arrivo multe fino ad un milione di euro per i comandanti delle navi che non rispettino gli ordini. Poi è prevista anche la confisca delle imbarcazioni che non rispettino le regole e dopo un certo periodo il passaggio allo Stato. Questo punto lo hanno proposto i grillini ed è la loro buona ragione per dire sì al decreto. Per finire questo capitolo c’è anche l’arresto immediato e la reclusione da 3 a 10 anni per chi resiste o commette violenza contro una nave militare. Ma il decreto non si limita solo a reprimere le attività delle Ong. Vuole anche smascherare anche il presunto connubio fra organizzazioni umanitarie e trafficanti. E quindi via libera all’uso delle intercettazioni preventive per colpire sempre il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e soldi alle forze dell’ordine per agire sotto copertura con l’intento di scoprire chi favorisce l’arrivo degli immigrati. Poi ci si occupa delle manifestazioni pubbliche, del ritardo nelle notifiche delle sentenze, dei pasti dei poliziotti in missione, delle scuole di polizia, dei rimpatri, due milioni per riportare a casa i clandestini, delle violenze dentro e fuori degli stadi, con inasprimento di pene e Daspo. Non manca la lotta al bagarinaggio e, per finire, le intercettazioni e la loro pubblicazione. Ecco. Il Senato dovrà discutere di tutto questo prima di andare in vacanza. Ma prima dei saluti i senatori dovranno anche votare. Il testo o la fiducia. E in entrambi i casi non serve la maggioranza qualificata di 161 voti: si vince con un voto in più di quelli che sono presenti in aula. I senatori, grazie al recente contestatissimo arrivo della grillina umbra Emma Pavanelli, il posto spettava alla Sicilia, sono nuovamente 321. Il M5S, dopo espulsioni varie, conta su 107 senatori. Al momento sarebbero in 7 pronti a dire no. O riflettono: Elena Fattori, Mattia Mantero, Virginia La Mura, Alberto Airola, Leho Ciampolillo, Pietro Lorefice e Mattia Crucioli. Dunque, si scenderebbe a 100 voti. La Lega ha invece 58 senatori. Umberto Bossi, anche se vorrebbe proprio esserci, non sta troppo bene. E allora si scende a 57. Matteo Salvini nei giorni scorsi ha perso il suo seggio in Calabria: avevano sbagliato a contare i voti e avevano tolto il posto alla forzista Fulvia Caligiuri. Il ministro dell’Interno recupera nel Lazio e la Lega resta con 57 senatori. Poi ci sono quelli di Fratelli D’Italia, 18, pronti a votare sì al provvedimento, ma no alla fiducia. Idem i 62 di Forza Italia. Ma qui bisogna fare i conti con la fresca scissione di Giovanni Toti. Sembra che saranno 5 i senatori che seguiranno il governatore ligure. Ma cambia poco: il voto sarà favorevole sul testo, astensione o abbandono dell’aula in caso di fiducia. Qualche altro voto potrebbe arrivare dal Gruppo Misto, tipo l’ex grillino Maurizio Buccarella. Voteranno no il Pd, 51 senatori, i 4 di Leu, gli ex grillini Paola Nugnes. Gregorio De Falco, Saverio De Bonis, oltre a Emma Bonino e Riccardo Nencini. E poi i 3 autonomisti della Svp e il senatore valdostano Albert Lanièce. Diranno no altri due del gruppo autonomista: Gianclaudio Bres sa e Pierferdinando Casini. Poi ci sono i 6 senatori a vita. Difficile pensare che Piano e Rubbia si presentino al Senato il 5 agosto. E che, se votino, Napolitano, Segre, Monti e Cattaneo dicano sì alla fiducia sul decreto sicurezza. Così la maggioranza potrebbe arrivare a 158, forse 160 voti. Molti di più se il governo rinuncerà alla fiducia, come chiedono quelli di Forza Italia, votando solo il decreto. Due esiti diversi dal diverso significato politico. In caso di discesa sotto la soglia dei 161 voti, le opposizioni grideranno infatti alla evaporazione della maggioranza e alla crisi di governo. Ma già a giugno la fiducia sul decreto Crescita era passata al Senato con soli 155 voti favorevoli e non era successo nulla. Anche perché i forzisti e quelli di Toti, più quelli di Fdi sono pronti a lasciare l’aula per dare una mano al governo. Decreto sicurezza bis. Tanto rumore per la legge che non serve di Marcello Sorgi La Stampa, 5 agosto 2019 Come ormai accade da molti anni - almeno un quarto di secolo, da quando, cioè, il Senato s’è trasformato in una Camera senza maggioranza - anche oggi, o domani se la seduta andrà per le lunghe e i senatori non vorranno allungare di un altro giorno il mesetto e mezzo di vacanze che si sono appena concessi, il governo vivrà il suo appuntamento con il brivido nel voto finale sul decreto “Sicurezza bis”. Un brivido inutile, va detto subito, dato che la legge, in quanto decreto, è già in vigore, e ha già dimostrato la sua incapacità a impedire gli sbarchi di immigrati clandestini salvati da navi delle Ong o della nostra Guardia costiera. Si tratti dell’esile capitana tedesca della “Sea Watch” Carola Rackete, che gli insulti sessisti di Salvini sono riusciti perfino immeritatamente a trasformare in un’icona della solidarietà internazionale, e in un futuro prossimo, chissà, forse anche nella leader politica di un nuovo movimento, odi un regolare ufficiale della Marina italiana, le norme che introducono multe, arresti e sequestri delle imbarcazioni usate per i salvataggi, si sono rivelate in tutti i casi recenti di difficile e non duratura applicazione, se è vero come è vero che negli stessi giorni in cui la comandante della “S e a Watch” veniva arrestata, scarcerata e lasciata libera di tornarsene a casa, nonché di rilasciare interviste molto battagliere, dalla magistratura italiana, un’altra nave incappata nella stessa rete di sicurezza e nella politica dei “porti chiusi” del ministro dell’Interno, la “Mare Ionio”, è stata dissequestrata. E come ha annunciato la portavoce della ong “Mediterranea Saving Humans” Alessandra Sciurba, si appresta indisturbata a tornare a pattugliare il Canale di Sicilia per trarre in salvo i disperati dei gommoni che vi si avventurano a frotte, complice il bel tempo estivo. Può piacere o non piacere, secondo i punti di vista, ma la realtà è questa. E il Senato si accinge a dividersi e ad approvare non si sa come, visto che sulla carta la maggioranza necessaria di 163 voti non c’è, a causa della defezione di una decina di senatori 5 stelle, una legge inefficace, scritta al solo scopo di poterla presentare come strumento di propaganda rivolto agli elettori più preoccupati - e sono ancora tanti - di una possibile, seppure non ancora avvenuta, malgrado la forte spinta del continente africano e della Libia destabilizzata, invasione di immigrati. Il Decreto Sicurezza 2 passerà, ci si può scommettere, come passò al Senato nello scorso novembre il Sicurezza 1, gravato delle stesse incertezze di quello che va in discussione oggi, e alla fine approvato a furor di popolo, anzi di eletti desiderosi di continuare a sedere sulle confortevoli poltroncine di Palazzo Madama, e non di mettere a rischio una legislatura appena cominciata. Se mancheranno i voti dei 5 stelle, basteranno a compensarli le uscite dall’aula dei forzisti di Berlusconi e dei Fratelli d’Italia della Meloni. Al dunque, a votare contro, sebbene a malincuore in certi casi per il timore di smentire la politica della durezza anti-immigrati in parte condivisa anche a sinistra, saranno il Pd e Leu. Magra consolazione. Il governo andrà avanti. Calerà il sipario, per sei-sette settimane, sull’esangue confronto parlamentare che si trascina da metà dell’anno scorso, mentre la vita politica del Paese scorre sul ritmo degli insulti e delle litigate quotidiane tra Di Maio e Salvini. Ce n’è una al giorno, o anche più, e ogni volta si sente dire che il momento della rottura è sopravvenuto e si preparano nuove elezioni anticipate, che invece non arrivano. Nel frattempo, nulla succede, tutto è rinviato, dalla nomina del nuovo commissario europeo a un’approfondita discussione su una rinnovata politica di redistribuzione dei migranti a livello dell’Unione, che revisioni gli effetti negativi per l’Italia del trattato di Dublino. Un’offerta molto interessante, fatta in questo senso dalla nuova presidente della Commissione di Bruxelles Von der Leyen al presidente del Consiglio Conte è purtroppo caduta nel vuoto. Non c’è più tempo né voglia, in un Paese come il nostro, di discutere seriamente di nulla. L’assalto del populismo allo stato di diritto di Massimo Adinolfi Il Foglio Quotidiano, 5 agosto 2019 E così li hanno scarcerati. Gli stupratori. Com’è? “Io una cosa del genere non posso accettarla”, scrive su Facebook, il 28 marzo 2019, Luigi Di Maio, capo della maggior forza politica italiana, che sui temi della giustizia ha costruito buona parte delle sue recentissime fortune elettorali. Il leader dei Cinque stelle dice di non voler entrare nel merito della decisione presa dal Tribunale del riesame, però, senza entrare nel merito, commenta così: “È evidente che c’è qualcosa che non va in questo paese. Chi compie uno stupro, per quanto mi riguarda, deve passare il resto dei suoi giorni in carcere. Ognuno ha il diritto di difendersi, lo prevede il nostro ordinamento giuridico, ma chi è accusato di violenza sessuale contro una donna deve poterlo fare dal carcere”. In breve: l’accusa è sufficiente, da sola, per trattenere qualcuno in carcere; non ci vogliono sentenze, giudici, tribunali. E la difesa non può interferire con l’esecuzione della misura cautelare. E l’ergastolo è l’unica pena che si meritano i “presunti stupratori”, i quali nel breve volgere di qualche riga diventano senz’altro “delinquenti”, nel post di Di Maio. E comunque quel che hanno pensato, deliberato, scritto i giudici non conta. Anche se sono ben tre, e distinti, i collegi giudicanti che hanno ordinato la scarcerazione. In realtà, la ricostruzione dei fatti non è ovvia né scontata, come mostrano le motivazioni delle ordinanze, e dunque occorrerebbe massima cautela, e un “silenzio rigoroso e assoluto da parte di tutti”, come ha giustamente chiesto il presidente delle Unione Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza. Invece Di Maio parla, parla e si indigna a gran voce, e non riesce nemmeno a immaginare che un giudice possa mettere in discussione un convincimento della pubblica accusa. C’è davvero qualcosa che non va in questo paese, il paese del “io so, anche se non ho le prove”. Ma almeno Pasolini (è lui che pronunciò sulle pagine del Corriere il più famoso degli “io so”, mettendo sotto accusa l’intera Repubblica) era un intellettuale. Ora è invece un politico, un potente, un uomo delle istituzioni che sa anche senza prove, e si vergogna se l’accusato rimane, prima di qualunque processo, libero di “farsi i cavoli propri” (parole, queste ultime, che sottintendono che la libertà del cittadino Di Maio è nobile e bella, mentre quella concessa a questi “delinquenti” è immeritata). Lui, Di Maio, sa. E sopra questo sapere fa, ovviamente, un numero da circo elettorale. “Giudizio e giustizia sono necessari non appena compare il terzo”: per Levinas, cui appartengono queste parole, non si tratta di una condizione ideale, bensì soltanto di una situazione necessaria. Perché la relazione etica fondamentale - quella da cui nasce tutta la morale, secondo il filosofo di origini lituane - mi mette dinanzi al Volto di Altri, nella sua irriducibilità a qualunque regola, misura, norma, concetto, numero. Qui, invece, si fa avanti un Terzo. Altri è il prossimo, quello che bisogna amare come sé stessi e che, nel vocabolario di Levinas, mi sollecita una responsabilità infinita: è, nella tradizione cristiana, l’uomo percosso e derubato che muove a compassione il buon samaritano. Ma poi c’è il Terzo, che richiede uguale trattamento. “A partire da questo momento - scrive ancora Levinas - occorre paragonare, pesare, pensare, occorre fare la giustizia, sorgente della teoria”. Occorre paragonare, e come si fa a paragonare volti e persone sempre uniche e irripetibili, ciascuno con la propria verità? Dove trovare la comune misura? Levinas cita un vecchio testo talmudico: gli stati, per battere moneta, ricorrono a un calco, e stampano monete tutte eguali l’una all’altra; Dio, invece, “con il calco della sua immagine, arriva a creare una molteplicità dissimile: degli io, gli unici nel loro genere”: come rendere loro giustizia? Poiché le figure teologiche possono apparire ingombranti, abbandono questo piccolo prologo in cielo e ritrascrivo tutta la scena in termini mondani: se sono coinvolto in una lite (con mio fratello, per esempio: è il caso di Esiodo e dell’inizio della civiltà occidentale), posso sperare di ottenere giustizia solo se accetto che un terzo sia chiamato a giudicare (a soppesare, a misurare). Ma per compiere questo passo devo accettare pure che il giudizio provenga da un’istanza che non è implicata nella contesa al modo in cui lo sono io (e, specularmente, mio fratello). Questo non è il caso in cui qualcuno mi ha derubato e io ricorro alla giustizia perché scovi il colpevole e lo punisca; è piuttosto il caso in cui io so di aver ragione, e tuttavia, per vedermela riconosciuta, devo passare per il verdetto di un terzo. Posso vendicarmi, ma non posso farmi giustizia da solo. Vendetta non è giustizia. La giustizia la si ottiene sempre da un altro. Il quale non sa le cose al modo in cui le so io, e a cui devo semmai sudare le sette camice per spiegarle. Io so, e il mio sapere è unico e irripetibile come l’incontro col Volto di Levinas. Più avanti scriverò con i trattini: “verità-che-io-so”, per riferirmi a questa verità che pretendiamo di possedere in prima persona, in presa diretta, con tutta la certezza della nostra buona coscienza, senza aver bisogno di mediazioni interpretative e di confronto con gli altri. Questa verità non è però fonte di giustizia: può generare odio oppure amore e perdono, amicizia oppure inimicizia assoluta, ma non giustizia, non imparzialità, non terzietà. Ora è finita anche l’introduzione in terra, e si è capito dove voglio andare a parare: l’idea del diritto è connessa strutturalmente alla posizione di un terzo, che si installa necessariamente a una certa distanza dalla “cosa del giudizio” (e dalla verità-che-io-so), per cui i convenuti in giudizio avranno sempre, almeno in linea di principio, lo spazio per recriminare, persino quando si vedranno riconosciuti le loro ragioni (perché un conto è che tu, giudice, mi dai ragione un altro è il modo in cui la ho, la soffro, la vivo nella mia carne). A un certo punto della nostra vita diveniamo maturi e mettiamo giudizio: cosa vogliono dire queste parole, se non proprio che impariamo a guardare noi stessi con un certo distacco, rinunciando ad alcune delle pretese più esorbitanti che fanno compagnia al nostro direio, alla nostra indomabile prima persona (o a quella ancor più ingombrante del popolo con cui pretendiamo di identificarci, di fare uno)? Mettiamo giudizio, ossia accettiamo che sul nostro conto giudichi un altro, a distanza, e non pretendiamo più che la verità sul nostro conto sia, per l’appunto, solo nostra. Ora, se davvero abbiamo messo giudizio, possiamo guardare ai principi di una giustizia liberale senza inorridire davanti al fatto che le sue pietre angolari sono tutte (ripeto: tutte) collocate a qualche distanza dalla verità-che-io-so. Farà meraviglia allora che a questa verità troviamo avvinti tutti i populismi? Non credo. Solo qualche esempio. Poniamo il caso che siano state raccolte prove che dimostrino inoppugnabilmente la colpevolezza di Tizio, ma che, per il modo in cui quelle prove sono state raccolte esse siano inutilizzabili: l’istanza del giudizio è salvaguardata sopra ogni altra cosa. Il modo in cui il giudizio si forma ha più importanza, in un ordinamento liberale, di qualunque cosa cioè gridi la vox populi: le prove inoppugnabili restano fuori dal processo. (Ma il populista griderà allo scandalo e si indignerà). Un ultimo esempio: poiché se non hai commesso nulla di male non hai nulla da temere - così dice la saggezza popolare -, le indagini degli organi giudiziari possono farsi sempre più invasive. Possono persino spingersi a provocare il reato, per dimostrare ancor prima della sua commissione la verità-che-io-so, che anche la voce del popolo sa: che il politico in questione è corrotto, aspettava solo l’occasione che - anche questo si sa - fa l’uomo ladro. Un diritto liberale, invece, tutela la libertà di fare il male più ancora della capacità di prevenirlo. I valori della libertà e della sicurezza vanno contemperati, ma in uno Stato di diritto il punto di equilibrio è cercato a vantaggio della libertà, non della sicurezza. E l’agente provocatore non compare in un codice ispirato ai principi liberali. Un governo populista proverà invece a introdurlo. Fin qui ho ragionato in termini alquanto astratti. In realtà, si tratta di faccende maledettamente concrete, e dietro gli esempi prodotti il lettore attento non avrà mancato di pensare a fatti e circostanze che alimentano la giostra mediatico-giudiziaria nostrana. Per restituire però l’atmosfera che domina il nostro dibattito pubblico su questi argomenti non bastano gli esempi addotti. Occorre aggiungere, molto brevemente, qualche ulteriore elemento. Il primo è il panpenalismo, cioè l’irresistibile tendenza a introdurre sempre nuove figure di reato, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale, da qualunque osservazione degli effetti che nuove pene hanno in concreto. Non essendo in grado di fornire risposte di tipo politico, o sociale, o culturale, o educativo, si ricorre alle pene, e che poi se la sbrighino i magistrati. Poi c’è il fatto che le pene, ci mancherebbe altro, devono essere inasprite: un inasprimento non lo si nega a nessun delinquente. Altra conseguenza da cui si sfugge sempre più a fatica, almeno nel discorso pubblico, è che pena significhi sempre più carcere, e soltanto carcere. Se la legislazione si è nel tempo evoluta, nel senso di affiancare alla detenzione pene e percorsi alternativi, nell’uso politico che si fa del tema tutto questo scompare, e fare giustizia significa quasi soltanto sbattere in galera e buttar via la chiave. Se qualcosa mi ha colpito nell’esperienza compiuta al ministero della Giustizia come consigliere dell’allora ministro, Andrea Orlando, è invece l’evidenza con cui, nelle considerazioni sullo stato degli istituti penitenziari, in Italia, si imponessero un paio di dati: uno è l’elevatissimo numero di coloro che sono detenuti in attesa di giudizio, per cui molti scontano una incomprensibile pena anticipata, quale che sia poi la sentenza che li raggiungerà; l’altro è invece il tasso di recidiva, che tanto più si abbassa quanto più i condannati si trovino a essere coinvolti in percorsi di reinserimento sociale. Ma voi avete mai ascoltato l’attuale Guardasigilli, Alfonso Bonafede (o il ministro dell’Interno Salvini, che tanto si occupa di sicurezza e che alla diminuzione dei reati dovrebbe tenere particolarmente), sottolineare con enfasi, in un discorso pubblico, l’importanza di migliori condizioni di vita in carcere, o magari insistere sul reinserimento sociale dei reclusi? Io no. Casomai mi succede di ascoltare il contrario. Io vedo che nell’ambito della riforma dell’ordinamento penitenziario (varata dal precedente governo), l’attuale Esecutivo ha ritenuto di non esercitare un buon numero di deleghe ricevute dal Parlamento, e tra esse, ha lasciato cadere in particolare quella relativa alle modalità di accesso alle misure alternative, in vista di una loro più ampia applicazione. Non se ne fa più nulla, insomma. Per soprammercato, capita di leggere sul maggior quotidiano del paese, a firma di uno dei suoi editorialisti più illustri, Ernesto Galli della Loggia, una preoccupata analisi della distanza tra popolo ed élites, dove tra i rimedi indicati per riavvicinare i cittadini alle istituzioni compare la non irresistibile idea di rendere più marcata la presenza di giurati popolari nei tribunali. La formula “in nome del popolo”, evidentemente, non basta più: anche a Palazzo di Giustizia il popolo deve potersi far sentire direttamente, senza la mediazione di un giudice parruccone. Della Loggia spiega che l’epocale riforma avrebbe un “fortissimo significato anticastale”, e su questo ha ragione: indipendentemente da qualunque considerazione sul buon funzionamento della giustizia, sarebbe di sicuro un modo per lisciare il pelo al popolo. Eppure, se uno volesse davvero dare un colpo alla “casta” dei magistrati, senza siffatte sbracature populiste, avrebbe da chiedere ben altro, in un’ottica liberale: la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, a cui il sindacato dei magistrati si oppone con tutte le sue forze. Ma, anche se nessuno oggi ne parla, è evidente che non c’è modo migliore per assicurare terzietà al giudice (si rilegga il prologo in cielo), per rafforzare la sua posizione di imparzialità nel processo, per garantirgli quella distanza da cui soltanto può provenire un verdetto improntato a giustizia. Invece ci azzuffiamo sulla riforma delle intercettazioni, la riforma della prescrizione, la riforma del codice antimafia. I problemi della giustizia italiana sono, anzitutto, di ordine amministrativo, ma far funzionare gli uffici significa cambiare la geografia dei poteri, dentro la magistratura e nei suoi rapporti con il resto della società, ed è per questo che è difficilissimo fare riforme davvero incisive. Invece di tutto ciò, il tema dominante diventa l’efficacia dell’azione repressiva, perché è quello che chiede il popolo. E azione repressiva significa pubblico ministero, il quale finisce col rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica l’intero mondo della giustizia. Fateci caso, infatti: chi sono i magistrati famosi, quelli che diventano star mediatiche? Non i giudici, ma i pubblici ministeri. E perché questo accade, se non perché è lui, l’accusatore, il più vicino alla verità-che-io-so e che tutti sanno? Così vicino che quando capita che un tribunale smentisca le tesi dell’accusa si rimane increduli. E invariabilmente si commenta: è come se la vittima fosse stata offesa, uccisa, stuprata, una seconda volta. Un tribunale che non si mette in scia con l’accusa si fa insomma complice del delitto, anzi lo commette a sua volta. Questo accade perché ai magistrati chiediamo ormai non di pronunciare un verdetto secondo giustizia, ma di dimostrare la verità-che-io-so e che tutti sanno: che lo stato non funziona, che i politici sono tutti corrotti, che la mafia inquina il tessuto democratico di intere regioni del paese. Noi lo sappiamo senza indizi né prove: non ne abbiamo bisogno. Ai magistrati chiediamo di trovarli, questi indizi e queste prove, per incastrare finalmente colpevoli della cui colpevolezza siamo già convinti. Come diceva infatti Piercamillo Davigo? Tra i politici non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti: eccola, la verità-che-io-so, la verità che tutti sanno e che sta alla base dell’intero ciclo della Seconda Repubblica, da Tangentopoli in poi, il sapere di cui si nutre l’ethos pubblico e che esercita una pressione deleteria sulle strutture liberali dello stato democratico. Quale meraviglia se allora la prescrizione significa solo che il colpevole la fa franca, l’intercettazione che devo dare modo al magistrato di beccarti e il codice antimafia che parlare di diritti e garanzie per un mafioso è moralmente indecente? Così il cerchio si chiude, e il populismo nell’ambito della legislazione penale contribuisce a sfigurare irreparabilmente lo stato di diritto. Ma dove si dovrebbe trovare lo stato di diritto coi suoi lineamenti liberal-democratici? Angelo Panebianco gli ha trovato un’ottima collocazione: a metà strada fra il panpoliticismo delle democrazie illiberali e il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie: “Concretamente, se nella democrazia illiberale è un delitto di lesa maestà contrapporsi al governo, nella democrazia giudiziaria lo è contestare le decisioni dei magistrati”. I due estremi però si tengono, e a tenerli insieme è, manco a dirlo, il populismo. Perché in un caso e nell’altro ciò che viene messo sotto tutela è la politica - nella sua forma rappresentativa e nella sua articolazione partitica. La politica o la fa direttamente il popolo, o è meglio che tolga il disturbo. E chi meglio dei magistrati può servire allo scopo? La domanda spero suoni retorica: vorrebbe dire che non siamo ancora arrivati al punto in cui la patente di legittimità fornita da un giudice è superiore alla legittimazione democratica rilasciata da un voto. Ma siamo però al punto in cui ci chiediamo se quel giusto mezzo in cui si situano le moderne democrazie possa resistere agli assalti che accendono le cronache politiche. Assalti che, siatene certi, verranno condotti in nome del popolo italiano, in nome della giustizia, in nome della verità-che-io-so, che ciascuno ritiene di sapere. Nulla di più nobile, ma nulla anche di più lontano da un’effettiva architettura giuridica liberale. Far funzionare gli uffici della giustizia in Italia significa cambiare la geografia dei poteri, dentro la magistratura e nei suoi rapporti con il resto della società, e per questo è difficilissimo fare riforme incisive. Invece di tutto ciò, il tema dominante diventa l’efficacia dell’azione repressiva, perché è quello che chiede il popolo Ai magistrati chiediamo ormai non di pronunciare un verdetto secondo giustizia, ma di dimostrare la verità-che-io-so e che tutti sanno: che lo stato non funziona, che i politici sono tutti corrotti, che la mafia inquina il tessuto democratico di intere regioni del paese. Noi lo sappiamo senza indizi né prove: non ne abbiamo bisogno. La banda dello spray svela il nostro degrado di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 5 agosto 2019 Quei ragazzi sono perlopiù italiani di piccoli paesi a riprova del fatto che più che prendercela coi migranti dovremmo occuparci di quello che non va nelle nostre famiglie e nella nostra scuola. Che si può fare con uno spray al peperoncino? Una donna può difendersi da un aggressore oppure nelle mani di un ragazzo può diventare una pericolosa arma di offesa. Era successo nella discoteca “Lanterna Rossa” a un concerto sovraffollato, qualcuno aveva spruzzato il terribile spray provocando una calca di ragazzini e di genitori che li avevano accompagnati, lasciando per terra morti e feriti. Si è scoperta alfine una temibile banda di ventenni che agiva nei concerti e nelle feste provocando un panico incontrollabile per cui riuscivano a rubare soldi e catenine d’oro. Negli anni il branco di giovani si è scagliato contro migranti, persone con handicap, donne indifese provocando sofferenze, paure, lesioni fisiche anche gravissime. Ma questa volta se la sono presa con i coetanei che erano andati al concerto, bastava spingere il tasto di una bomboletta per sentirsi padroni della vita e della morte. Una pulsione onnipotente che li trasformava in esseri superiori in grado di travolgere la vita di centinaia e centinaia di ragazzi. Nessun segno di colpa e di ravvedimento nel branco, che ha continuato in questi mesi a infierire sugli altri per qualche soldo in più. Colpisce la callosità mentale di quei ragazzi che li rende invulnerabili ai sentimenti e ai principi morali della comunità umana, ma sarebbe fuorviante liquidarli dicendo che sono bestie, perché gli animali esprimono emozioni e anche gratitudine. Sono perlopiù italiani di piccoli paesi del modenese a riprova del fatto che il degrado educativo sta raggiungendo tutti i livelli della società. Più che prendercela coi migranti dovremmo occuparci di quello che non va nelle famiglie e nella scuola italiana. Mattarella e la strage dell’Italicus: “Le mancate condanne ledono il principio di giustizia” La Repubblica, 5 agosto 2019 Una bomba esplose sul treno che viaggiava sotto la galleria Direttissima: morirono 12 persone e 50 furono ferite. Il Capo dello Stato: “Colpendo cittadini innocenti, la bomba voleva colpire la Repubblica. “Quarantacinque anni or sono dodici persone inermi persero la vita a causa di un ordigno ad alto potenziale, collocato da sanguinari terroristi ed esploso sul treno Italicus, all’uscita della grande galleria dell’appennino, vicino alla stazione di San Benedetto Val di Sambro. I procedimenti giudiziari non hanno potuto portare a sentenze definitive di condanna e il mancato accertamento di così gravi fatti interpella le coscienze di ciascuno. Si tratta di una lesione al principio di giustizia solennemente affermato dalla nostra Costituzione, a cui una comunità democratica non può mai rassegnarsi”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ricorda la strage dell’Italicus, forse la più “dimenticata” tra quelle che hanno insanguinato l’Italia: una bomba esplose nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1974 sul treno sotto la galleria Direttissima, in provincia di Bologna, e fece 12 morti e 50 feriti. “Colpendo cittadini innocenti, la bomba - aggiunge il Capo dello Stato - voleva colpire la Repubblica e la convivenza civile degli italiani. Le indagini e i processi, pur non giungendo all’identificazione dei terroristi esecutori, hanno confermato il legame con altri attentati e con la strategia destabilizzante ordita in quegli anni. La matrice neofascista è resa esplicita nella sentenza della Cassazione e poi nelle stesse conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2”. “Numerosi - ricorda Mattarella - furono i feriti. Il ferroviere Silver Sirotti riuscì a salvare diversi viaggiatori imprigionati dalle fiamme, ma pagò con la morte quel gesto eroico di altruismo e solidarietà umana, espressione di autentico senso del dovere. In questo triste anniversario desidero esprimere la mia vicinanza ai familiari e a quanti sono rimasti segnati dalle ferite e dal dolore”. “La ferma risposta del popolo italiano - conclude il Capo dello Stato - sconfisse allora le trame oscure e criminali, difendendo l’ordine democratico. La solidarietà del Paese raccolta intorno ai beni cruciali e indivisibili della libertà e del rispetto della vita delle persone resta la risorsa contro l’insorgere di qualunque minaccia o di ogni forma di violenza”. “Ancora oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, non è stata fatta piena luce sulla strage dell’Italicus - dice la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Una lacuna grave e inaccettabile che va colmata al più presto”. “Il dolore dei familiari e lo squarcio aperto nella coscienza degli italiani, possono essere leniti - aggiunge - solo giungendo ad un esito giudiziario certo e definitivo che non si fermi solo alla matrice terroristica dell’attentato ma chiarisca tutte le responsabilità riaffermando così, in maniera inamovibile, i principi di giustizia e legalità su cui si fonda lo Stato di diritto. In questa giornata di commemorazione, voglio esprimere tutta la mia vicinanza - conclude Casellati - alle famiglie delle vittime e ribadire la più ferma condanna a tutti gli atti di natura terroristica che ancora oggi, in tutto il mondo, mirano a colpire persone innocenti e a mettere in discussione la stabilità delle istituzioni democratiche”. Posta elettronica e dati nel computer acquisibili con le forme del sequestro probatorio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2019 La posta elettronica e più in generale i dati conservati nella memoria di un computer sono qualificabili come documenti ai sensi dell’articolo 234 del Cppe, pertanto, possono essere acquisibili con le forme del sequestro probatorio, dovendosi escludere, invece, che tale attività acquisitiva soggiaccia alle regole stabilite per la corrispondenza ovvero, a maggior ragione, alla disciplina delle intercettazioni telefoniche. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 27 giugno 2019 n. 28269. Infatti, ha osservato la Cassazione, con specifico riguardo alla attività di intercettazione, va considerato che questa postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni nel momento stesso in cui si realizzano, cosicché il provvedimento di autorizzazione del giudice risulta necessario in quanto finalizzato, in via preventiva e in relazione al quadro accusatorio, alla verifica dell’esistenza di gravi indizi di reato, in una prospettiva di indispensabilità per la prosecuzione delle indagini preliminari. Invece, nell’acquisizione dei dati dalla memoria del computer il provvedimento di sequestro probatorio interviene per acquisire ex post i dati risultanti da precedenti e già avvenute comunicazioni telematiche, così come conservati nella memoria fisica del computer e come tali cristallizzati e documentati da quei flussi: l’apprensione ha pertanto riguardo al risultato, definito e non più modificabile, delle precedenti comunicazioni informatiche, come tali documentate e fisicamente acquisite, in ragione della finalità probatoria che le stesse conservano rispetto ad attività già completamente esaurite nel momento della apprensione mediante sequestro. Proprio da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato il provvedimento con cui il Tribunale del riesame aveva a sua volta annullato il decreto di sequestro probatorio emesso dal pubblico ministero, nell’ambito di procedimento nel quale si procedeva per il reato di cui all’articolo 353 del Cp,”limitatamente alle e-mail estratte dal server” di una società, sulla base dell’assunto - ritenuto erroneo dal giudice di legittimità - che la relativa apprensione, implicando la captazione di un dinamico flusso informatico di comunicazioni, avrebbe potuto essere eseguita solo nelle forme dell’intercettazione. Detenzione di armi e oneri di cautela nella custodia. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2019 Armi - Detenzione - Custodia - Diligenza - Adozione di cautele secondo l’id quod plerumque accidit. In materia di custodia di armi, la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 20, l. n. 110/75, posta a tutela della sicurezza pubblica, è prevista non solo per ostacolare i possibili furti nel luogo ove l’arma viene custodita, ma anche per evitare il pericolo che persone che frequentano o che si trovino nel luogo di custodia entrino con facilità in possesso dell’arma al di fuori del controllo del legittimo detentore. Il dovere di diligenza nella custodia consiste nell’adozione di cautele e di misure, nelle specifiche situazioni di fatto, usando l’ordinaria prudenza, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 luglio 2019 n. 29849. Armi - Omessa custodia - Reato di cui all’art. 20 bis della legge n. 110 del 1975 - Omissione di cautele per impedire l’impossessamento di armi da parte di soggetti minori, incapaci, inesperti o tossicodipendenti - Rappresentazione da parte dell’agente della situazione di pericolo - Necessità - Fattispecie. Ai fini dell’integrazione del reato di omessa custodia di armi, previsto dall’art. 20-bis, comma 2, della legge 18 aprile 1975, n. 110, è necessario che l’agente possa rappresentarsi, in relazione a circostanze specifiche, l’esistenza di una concreta situazione di fatto tale da richiedere l’adozione di cautele volte a impedire che uno dei soggetti contemplati dalla predetta disposizione - minori incapaci, persone inesperte o tossicodipendenti - riescano a impossessarsi delle armi. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso la configurabilità del reato in parola con riferimento alla detenzione di una pistola all’interno di un cestino riposto - ad un’altezza di oltre due metri - sull’ultimo piano di una cabina-armadio situata nella camera da letto dell’imputato e della convivente, rilevando l’impossibilità, per la figlia di cinque anni di quest’ultima, di raggiungere l’arma). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 maggio 2018 n. 20192. Armi - Omessa custodia - Omissione di cautele idonee ad evitare l’impossessamento di armi da parte di minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - Natura - Reati di pericolo - Fattispecie. Il reato di omessa custodia di armi (art. 20-bis, L. n. 110 del 1975) è di mera condotta e di pericolo e si perfeziona per il solo fatto che l’agente non abbia adottato le cautele necessarie, sulla base di circostanze da lui conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, indipendentemente dal fatto che una delle persone indicate dalla norma incriminatrice - minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - sia giunta a impossessarsi dell’arma o delle munizioni. (Fattispecie in cui la Corte ha precisato che la conservazione delle armi all’interno di un mobile o di uno scrittoio, chiuso anche a chiave, ma con chiave reperibile, non integra una cautela sufficiente ad impedire l’accesso all’arma medesima). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 30 aprile 2013 n. 18931. Armi - Omessa custodia - Omissione di cautele adeguate a evitare l’impossessamento di armi da parte di minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - Natura - Reato di pericolo concreto. Il reato di omessa custodia di armi, di cui all’art. 20-bis, L. n. 110 del 1975, è un reato di mera condotta e di pericolo che si perfeziona per il solo fatto che l’agente non abbia adottato le cautele necessarie, sulla base di circostanze da lui conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, indipendentemente dal fatto che una delle persone indicate dalla norma incriminatrice - minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - sia giunta a impossessarsi dell’arma o delle munizioni, in quanto è necessario che, sulla base di circostanze specifiche, l’agente possa e debba rappresentarsi l’esistenza di una situazione tale da richiedere l’adozione di cautele specifiche e necessarie per impedire l’impossessamento delle armi da parte di uno dei soggetti indicati. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 7 dicembre 2007 n. 45964. Ariano Irpino (Av): era in isolamento il detenuto che ha tentato il suicidio dandosi fuoco cronachedellacampania.it, 5 agosto 2019 Protestava per la mancanza di assistenza sanitaria. Bisognerà attendere la giornata di domani per poter avere notizie sulle condizioni di salute di Raffaele Amato, 24enne detenuto di Casoria che due giorni fa ha tentato il suicidio nel carcere di Ariano irpino dove è detenuto da quattro anni. Il giovane si è dato fuoco con una bomboletta del gas e solo grazie all’intervento di un coraggioso agente penitenziario che è entrato nella cella e lo ho aiutato, che è ancora vivo. Ha riportato ustioni sul 60 per cento del corpo. Ed è sempre in gravi condizioni al Cardarelli di Napoli. I familiari hanno raccontato che Raffaele era in isolamento da una decina di giorni e che che per protesta aveva iniziato uno sciopero della fame e delle sete. Il detenuto lamentava scarsa attenzione sanitaria a un suo problema fisico. Era previsto un piccolo intervento chirurgico per fine luglio che poi è stato annullato per mancanza di personale. Tra l’altro è scomparsa anche la sua cartella clinica. Il giorno della tragedia aveva incontrato i familiari e durante il colloquio vi era stata una incomprensione con un agente penitenziario che aveva scatenato la sua ira tanto che poi il ragazzo aveva preferito tornarsene in cella. I familiari avevano avvertito la direzione del carcere che le sue condizioni di salute erano precarie e infatti tornato in cella Raffaele Amato ha tentato il gesto estremo del suicidio. Ora Raffaele verso in gravi condizioni in ospedale e la sua storia non fa altro che alimentare ancora di più le polemiche attorno al sistema carcerario, alla mancanza di personale, al sovraffollamento delle carceri, alla mancanza di assistenza sanitaria e psicologica per i detenuti. Volterra (Pi): il teatro dentro il penitenziario si farà redattoresociale.it, 5 agosto 2019 Nei giorni scorsi la visita dell’assessore regionale Barni: “Un passo avanti decisivo verso la realizzazione del teatro stabile nel carcere di Volterra. Al termine del sopralluogo è stato convenuto che lo spazio più idoneo è l’attuale area passeggi”. “Un passo avanti decisivo verso la realizzazione del teatro stabile nel carcere di Volterra. Al termine del sopralluogo è stato convenuto che lo spazio più idoneo è l’attuale area passeggi, a ridosso della torre del Mastio. Adesso, insieme a tutti i soggetti coinvolti, ci metteremo a lavoro per arrivare nel più breve tempo possibile al raggiungimento dell’obiettivo”. Così la vicepresidente regionale Monica Barni al termine del sopralluogo che si è tenuto presso il carcere di Volterra. Il sopralluogo era stato fissato lo scorso 18 luglio, al termine dell’ultimo tavolo convocato dalla Soprintendenza presso i propri uffici, per valutare la possibilità di arrivare al termine del percorso. Al sopralluogo hanno preso parte la vicepresidente regionale Monica Barni, il garante regionale dei detenuti Franco Corleone, l’assessore alla cultura del Comune di Volterra Dario Danti, gli ingegneri della Sovrintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Pisa e Livorno, il provveditore alle opere pubbliche di Toscana Marche Umbria Marco Guardabassi, il viceprovveditore del Prap Rosalba Casella, architetti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i vigili del fuoco, rappresentanti della fondazione Michelucci e, per la compagnia della Fortezza, Armando Punzo e Cinzia De Felice. “L’incontro - ha aggiunto Monica Barni - ha finalmente sbloccato la situazione. Tutti i soggetti che hanno partecipato hanno dimostrato volontà di arrivare alla realizzazione del progetto. Al termine del sopralluogo si è convenuto che lo spazio più idoneo è l’attuale area passeggi a ridosso della torre del Mastio. La riunione che si è tenuta al termine del sopralluogo presso l’ufficio della direttrice del carcere di Volterra, la Dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, si è svolta in un clima collaborativo: tutti i soggetti hanno dimostrato di voler lavorare in modo condiviso per arrivare nel più breve tempo possibile al risultato finale. Il teatro consoliderà le attività teatrali, la cui metodologia, apprezzata a livello internazionale, ha modificato la vita all’interno del carcere, non solo per i detenuti, ma anche per tutti gli operatori”. Il primo passo del percorso sarà la richiesta alla sovrintendenza di Pisa, da parte del provveditorato alle opere pubbliche Toscana Umbria Marche, dell’esecuzione di saggi archeologici preventivi nello spazio indicato. Aversa (Ce): 6 detenuti addetti alla manutenzione del Parco Pozzi di Livia Fattore pupia.tv, 5 agosto 2019 Raddoppiano, passando da tre a sei, i detenuti della casa di reclusione “Filippo Saporito” di Aversa che partecipano al progetto “Lavori esterni…in corso” relativo alla manutenzione del Parco Pozzi. La decisione, dopo una variante della precedente convenzione, nel corso di una delle ultime sedute di giunta comunale, presieduta dal nuovo sindaco Alfonso Golia, su proposta dell’assessore alle Politiche sociali, Ciro Tarantino. Un raddoppio che ha visto consenzienti entrambe le parti in campo, la direzione del carcere aversano e l’amministrazione comunale normanna, poiché si è accertato il riscontro ottenuto dall’iniziativa sotto il profilo del reinserimento sociale dei tre detenuti utilizzati e si è verificata l’efficacia dell’attività manutentiva del parco urbano. L’iniziativa aveva avuto inizio con incontri tra la precedente direttrice del carcere e l’amministrazione de Cristofaro per poi continuare con la sottoscrizione di una convenzione da parte del commissario straordinario Michele Lastella e l’avvio con l’attuale amministrazione guidata dal giovane sindaco Alfonso Golia che ha deciso il raddoppio delle unità lavorative utilizzate. In precedenza, un progetto simile era stato utilizzato dall’amministrazione Sagliocco per pitturare i locali dell’ex macello. Sempre in tema di parchi, da segnalare la mozione presentata dal consigliere comunale di Noi Aversani Francesco Sagliocco per l’installazione di defibrillatori presso i tre parchi urbani cittadini, il Pozzi, il Grassia e il Balsamo e in tutti gli uffici comunali con accesso consentito al pubblico. Sagliocco, nipote del compianto sindaco Peppe, sottolinea come i nuovi modelli di defibrillatore consentano un utilizzo semplice da parte della popolazione e che, soprattutto, questo strumento consente di evitare il decesso di persone assicurando la sopravvivenza dei pazienti fino ad un 40% - 50%. L’Aquila: presentato il libro “Parole di vita nuova”. Detenuti, un altro futuro è possibile di Eleonora Del Castello Il Centro, 5 agosto 2019 Presentato il libro di Orazio La Rocca premiato dal presidente Mattarella. “È necessario creare delle condizioni per cui, una volta espiata la pena, i carcerati possano essere reinseriti nella società e lo Stato deve occuparsi di questa reintegrazione”. Sono queste le parole che Quintino Liris, assessore alle Aree interne della Regione Abruzzo, ha pronunciato a Rivisondoli durante la presentazione del libro “Parole di vita nuova”, scritto dal giornalista Orazio La Rocca, con la prefazione di don Luigi Ciotti. Dedicato agli elaborati svolti negli istituti penitenziari italiani in occasione del premio nazionale “Sulle ali della libertà”, il libro ha anche ottenuto la medaglia di rappresentanza dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “In tanti elaborati traspare un percorso di cambiamento. Questo a dimostrazione di quanto la cultura possa aiutare a migliorarsi”, ha detto Alessandro Pinna, presidente dell’associazione Isola Solidale. “È la prima volta che nell’Alto Sangro viene trattata una tematica di questo tipo. Il libro che stiamo presentando è importante perché dimostra come la cultura può abbattere le barriere e dare ai detenuti la possibilità di reinserirsi nella vita sociale”, ha spiegato Alessandro Amicone, presidente dell’associazione Roccaraso Futura. Durante la presentazione, promossa dalle associazioni “Isola solidale” e “Roccaraso Futura”, in collaborazione con l’agenzia giornalistica Comunicatio, sono intervenuti anche Gianluca Scarnicci, giornalista dell’agenzia Comunicatio, Angelo Caruso, presidente della Provincia dell’Aquila, Roberto Ciampaglia, sindaco di Rivisondoli, Gianmarco Cifaldi, garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Elisabetta Rampelli, presidente dell’Unione forense italiana, Angela Iantosca, scrittrice e direttore della rivista “Acqua e Sapone”. Benevento: domani concerto per i detenuti dell’Ipm di Airola larampa.it, 5 agosto 2019 Nella giornata di martedì 6 agosto alle ore 9:30, presso l’istituto penale per minorenni di Airola (BN), promosso dal Garante dei detenuti Campano Samuele Ciambriello, si terrà il concerto “Anima di strega” della cantautrice Vincenza Purgato insieme al chitarrista Edo Puccini che l’accompagna in questa sua volontà di cantare per i detenuti. Saranno protagonisti canori della giornata anche un gruppo di giovani ristretti presso l’Ipm di Airola, “ragazzi sospesi” con tanta voglia di fare, un momento che permetterà l’incontro dell’energia femminile con l’energia maschile. “Dopo il concerto del 10 Maggio presso la Casa Circondariale femminile di Pozzuoli è ora la volta dell’IPM di Airola. L’ incontro con i ragazzi per le prove è stato emozionante, ho conosciuto tutti i ragazzi, c’è stata una lunga conversazione, abbiamo parlato delle loro passioni, dei loro sogni, devo dire che sono stati molto incuriositi. Alla domanda chi è Anima di Strega? …allora il discorso si è aperto ad una visione più introspettiva, ho spiegato che Anima di Strega è la donna intuitiva, la donna risvegliata, è l’energia femminile che è dentro in ognuno di noi, l’energia accogliente, il grembo che libera le emozioni, l’energia che dona amore ma per troppo tempo è stata repressa, martoriata, ma se equilibrata all’energia maschile porta alla guarigione, all’accettazione del proprio sé. Solo con le due energie in equilibrio possiamo vivere in tutta pienezza l’amore, esprimere i sentimenti, far emergere la parte di noi più fragile senza averne vergogna e sopperire così quella mancanza di affetto che nelle carceri è la prima causa di suicidi. L’ascolto dei brani è stato un momento emozionante, si è calato un silenzio, poi ognuno ha raccontato le proprie emozioni, hanno apprezzato molto i testi. Lunedì mattina con Edo Puccini incontreremo i ragazzi di Airola per le prove generali. Sono particolarmente emozionata sapere della presenza di Lucia di Mauro vedova della vittima, donna di grande coraggio con il suo perdono. A lei dedico il mio brano “Il miracolo dell’amore” A seguire la testimonianza della Sig. Di Mauro Lucia, familiare di vittima innocente della criminalità organizzata, moglie della guardia giurata, Gaetano Montanino, ucciso a Pizza Mercato a Napoli per opera di giovani adulti. “In questo periodo di meritato riposo credo sia utile non far sentire soli i giovani adulti ristretti, ecco il senso questa mattinata di festa e riflessioni, in cui parteciperanno, i giovani ristretti, i loro familiari, amministrazioni locali e volontari del territorio del Sannio - dice Samuele Ciambriello -. Si crea un ponte tra il dentro e fuori, concretizzandosi la consapevolezza che il carcere e la devianza minorile non può essere rimossa ma che si deve lavorare di prevenzione, vale il motto in questo caso: “meglio prevenire che curare”. Bollate (Mi): la boxe insegnata ai detenuti nel documentario “Pugni chiusi” La Repubblica, 5 agosto 2019 Un documentario racconta il progetto “Pugni chiusi”, ovvero il gruppo di pugilato creato dal volontario ed ex-pugile Mirko Chiari all’interno del carcere di Bollate, a Milano. La pellicola, diretta da Alessandro Best e patrocinata dal ministero della Giustizia e dalla Federazione pugilistica italiana, analizza lo sport come leva emotiva del detenuto per riemergere e costruirsi un futuro. “Lottiamo affinché cadano - spiega Mirko Chiari - certi pregiudizi appiccicati come un’etichetta a chi ha avuto un passato da detenuto. L’etichetta sociale è lo scoglio più difficile da superare”. Disponibile sulla piattaforma Infinity e co-prodotto da Bestvideos, “Pugni chiusi” porta lo spettatore all’interno del carcere da una prospettiva inedita: la preparazione fisica e mentale dei detenuti che, supportati da psicologi e criminologi, compiono il loro percorso per il ritorno in libertà. Motivazioni personali e odio etnico: i “terroristi di casa” devastano gli Usa di Guido Olimpio Corriere della Sera, 5 agosto 2019 Patrick Crusius era in missione. Voleva “uccidere il maggior numero di messicani possibili”. Ed ha dato l’assalto al Walmart di El Paso. Prima di lui il killer di Girloy. Anche lui in missione, animato dal razzismo, ha studiato per colpire la folla. Poi i clienti nel bar di Dayton, freddati a fucilate da Connor Betts, 24 anni. Un’altra storia, forse. Questo ragazzo dell’Ohio aveva giubbotto anti-proiettile, un’arma con caricatore ad alta capacità, ben 100 proiettili. Tutto acquistato online in Texas. Ha tirato sulle persone per un minuto, un giro di lancette che ha separato la vita dalla morte. Modus operandi simile agli altri, Betts ha assassinato anche la sorella e il suo fidanzato con i quali era arrivato davanti al locale sulla stessa. Ignoto per ora il movente, nel suo passato una sospensione - quando era al liceo - perché aveva scritto su una parete una lista di bersagli. Un particolare che se confermato solleva interrogativi sulla mancanza di successivi controlli. Non era una prova, ma un indizio di possibili azioni a rischio. Siamo davanti ad una sequenza spaventosa di mass shooters, killer di massa. Ventenni americani diventati terroristi “personali”, mossi da rabbia e motivazioni proprie. Altri innescati dal suprematismo. Una sfida in ascesa, ripetuta, con episodi collegabili a quanto è avvenuto all’estero. Crusius ha scritto nel suo manifesto di essersi ispirato all’autore della strage delle moschee in Nuova Zelanda, Brenton Tarrant, e quest’ultimo aveva ammirato l’estremista norvegese Andres Breivik, il mostro di Utoya. In questa offensiva - globale - non mancano esempi da copiare. È una violenza “a seguire”, senza necessario che vi siano ordini da ricevere o da impartire. Il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha messo in guardia sul pericolo: negli ultimi mesi abbiamo arrestato 90 terroristi suprematisti e 100 legati a quello internazionale. Gli specialisti sottolineano come nel 2018 gli attentati compiuti da estrema destra negli Usa siano stati 17, quattro in più dell’anno precedente. E aggiungono come siano i più letali. Il “bianco” mira a fare tante vittime, ha accesso facile alle armi, sa come aggirare controlli deboli. E una tendenza già vista per gli sparatori senza ideologia. Adam Lanza, prima di falciare i bimbi nelle aule di Newtown, ha fatto ricerche - da studioso - su chi lo ha preceduto. Stessa cosa Stephen Paddock, il cecchino di Las Vegas. È l’ossessione del record, per essere ricordati. Tacche su un cinturone, macabri trofei per distinguersi in una galleria affollata di massacratori. Lo xenofobo ha colorato di politica questa mania distruttrice. È convinto di essere l’ultimo paladino, paventa l’invasione dei migranti, rilancia frasi fatte. Imitando i qaedisti presenta la propria lotta in chiave difensiva. Crusius lo ha ribadito sostenendo che non è possibile restare passivi. È incoraggiato dal “clima” e - accusano i critici - da un presidente che si fa pregare per prendere le distanze, condanna in ritardo (lo ha fatto ieri in modo pubblico), sembra fiancheggiare certe spinte. Polemiche inevitabili, scontri che alla fine fanno il gioco di quanti cercano di provocare fratture nella società e di allargare quelle esistenti. Il neonazista ha i punti di incontro su Internet, i forum come 8chan, un vero pozzo di veleni. Luoghi dove trova altri come lui. Non è diverso dal militante del Califfato che vive Bruxelles e poi organizza un attentato. In entrambi i casi è un errore definirli lupi solitari in quanto aderiscono ad una comunità. Sono rinchiusi in loro stessi, però sono parte di un network ideologico. Hanno tanto da condividere, elaborano documenti “strategici”. Sono molti locali, agiscono in un raggio limitato, l’ambiente circostante è la trincea. Le posizioni misogine, le parole d’ordine anti-semite, l’odio per lo straniero si mescolano alle tesi cospirative. Alcune davvero elaborate, altre banali però con una diffusione capillare. Ed è interessante che all’interno dell’FBI c’è chi voglia classificarle forme di eversione. La paura dei jihadisti - mai domi - ha sottratto risorse, attenzione, contromisure. Solo adesso, con l’eccidio in Texas, la Giustizia statunitense non ha escluso di considerare terrorismo interno gli attentati degli xenofobi. Gli Stati Uniti di oggi sono i peggiori di sempre (ma l’Europa ha smesso di ribellarsi) di Fulvio Scaglione linkiesta.it, 5 agosto 2019 Gli Usa di oggi sono quelli dove avviene un mass shooting ogni 64 giorni, dove neri e ispanici sono ancora discriminati, dove si trova il 25% dei detenuti mondiali. E la politica estera (anche verso l’Europa) è ancora peggio. Ma tutti hanno smesso di alzare la testa. Domanda: c’è una versione degli Usa che a un europeo dabbene, un europeo con tutti i sentimenti, possa far più schifo di quella attuale? E perché non c’è nessuno che si agiti almeno un po’, manifesti davanti all’ambasciata, organizzi una raccolta firme? Dopo tutto l’abbiamo fatto, in tempi e condizioni assai diversi. Negli anni Ottanta durante la crisi degli euromissili, perché non volevamo i Pershing e i Cruise sul nostro continente. E di là c’era l’Unione Sovietica, mica bruscolini. E poi di nuovo all’inizio degli anni Novanta, quando George W. Bush voleva invadere l’Iraq e ci rifilava le balle sulle armi di distruzione di massa. E di là c’era Saddam Hussein, roba da far sembrare Brezhnev un vero signore. Non si ottenne nulla, arrivarono i Pershing, i Cruise e pure l’invasione dell’Iraq. Però si vide che gli europei almeno esistevano, pensavano, si scaldavano. E adesso? Il nulla, il vuoto. O forse vogliamo raccontarci che gli Usa di Jimmy Carter, Ronald Reagan e George Bush erano peggio di quelli attuali? Diamo un’occhiata. Quatto sparatorie nel mucchio in una settimana: a Gilroy in California, 3 morti; a Southaven in Mississippi, 2 morti; a El Paso in Texas, 20 morti; e a Dayton in Ohio, 9 morti. Quella di Dayton è la ventiduesima sparatoria del 2019, già cento persone sono morte così. Donald Trump? Sì, ma anche no. È da un po’ che le cose peggiorano. Tra il 1982 e il 2011 negli Usa c’era un mass shooting in media ogni 200 giorni. Dal 2011 ce n’è uno ogni 64 giorni. Gli Usa di oggi sono il Paese in cui il 71% dei neri sostiene che le relazioni con i bianchi sono “negative” e l’86% che le discriminazioni a sfondo razziale aumentano quanto più tu, nero, sei istruito o in possesso di titoli di studio. Il Paese in cui metà degli ispanici denuncia di aver subito con regolarità questo o quell’atto discriminatorio e in cui, secondo un sondaggio generale, l’82% dei musulmani e persino il 64% degli ebrei sono danneggiati, nella vita sociale, dalla loro pratica religiosa. Il Paese che ha il 5% della popolazione mondiale ma il 25% di tutti i detenuti e dove, a parità di reato, i membri delle minoranze etniche si beccano almeno cinque mesi di galera in più. E anche qui, Trump c’entra e non c’entra perché la tendenza, secondo lo studio dell’indiano Imran Rasul, è cominciata nel 2001, dopo le Torri Gemelle. Ecco, questo è il Paese che, nel frattempo, progetta di allungare e alzare il muro anti-migranti col Messico, quello che provoca tanti begli articoli di giornale ma nemmeno una protesta per strada. Lo stesso Paese, all’estero, offre un grosso aiuto all’Arabia Saudita che bombarda i bambini nelle scuole dello Yemen (e quando serve uccide e fa a pezzi i giornalisti, mica li manda a stendere in una conferenza stampa) e con l’ormai inutile embargo alla Siria favorisce la morte per malattia o mancanza di cure adeguate di migliaia di civili innocenti. Verso l’Iran (che, ricordiamolo, secondo la Ue rispettava in pieno il Trattato sul nucleare del 2015) ha avviato un embargo che sta facendo soffrire solo la gente comune, non certo la guida suprema Alì Khamenei. In Israele ha sputato in un occhio all’intera comunità internazionale, ha trasferito l’ambasciata e caldamente appoggiato gli israeliani quando fucilavano i manifestanti al confine con Gaza, in quello che l’Onu ha definito un crimine di guerra. Quando ha liberato dall’Isis le città di Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria) ha fatto secchi migliaia di civili. Ma tutto va ben, madama la marchesa. E che dire agli europeisti dell’Europa? Gli Usa di oggi applaudono freneticamente la Brexit, minacciano di rifilarci altre sanzioni (oltre a quelle già in vigore sulle importazioni di alluminio e acciaio), ci intimano di versare altri soldi per finanziare la Nato che è cosa loro e lavora per i loro interessi globali, tengono in casa nostra una settantina di bombe atomiche sotto il loro esclusivo controllo, ci rifilano gli F35 che funzionano come le bombe atomiche di cui sopra. Pretendono inoltre di decidere da chi dobbiamo comprare gas e petrolio e persino chi dobbiamo frequentare. La Russia no, la Cina no, l’Iran no, il Venezuela no, e anche sui miei vicini di casa hanno qualche dubbio. Nessuna nostalgia del passato ma una volta sarebbe bastato molto meno per incazzarsi almeno un po’. E adesso? I sovranisti hanno deciso che gli americani bisogna aiutarli a casa loro e a casa nostra, e dire sempre sì, anche ai progetti più bislacchi, ed essere pure felici (vero Salvini?). Come gli stalinisti del buon tempo che fu quando si parlava dell’Urss. I buoni, i progressisti e gli europeisti, invece, continuano a succhiarsi il pollice e vanno in cerca del papà. Abbiamo appena sentito dire (vero Zingaretti?) che senza gli Usa e la Nato il multilateralismo sarebbe andato a banane. Il multilateralismo, pare, in cui o siamo d’accordo con gli Usa o siamo d’accordo con gli Usa. Altri versano lacrime commosse sulla fine di John McCain, uno che avrebbe bombardato anche sua nonna. Altri si fanno le pippe con gli hacker e le fake news, sempre in attesa dell’inevitabile invasione russa come i loro nonni negli anni Cinquanta, fantasma sempre buono per giustificare la posizione a novanta gradi. Ma se vi commuovono tanto i bambini che fanno l’altalena da un lato e dall’altro del muro con il Messico, perché non fate anche qualcosa? Che so, una delegazione di parlamentari che fa la sciopero della fame accanto al muro, per dire. Troppo? Una lettera aperta, allora. Oppure, vista la mancanza di allenamento, poiché è dalle guerre dei Balcani di Bill Clinton che non apriamo più la bocca, anche solo un telegramma. Aperto, però. Iran. Salvare le vite delle prigioniere politiche detenute nel carcere di Qarchak ncr-iran.org, 5 agosto 2019 Il Comitato delle Donne del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana condanna con forza la brutale aggressione ai danni di quattro prigioniere politiche avvenuta nel carcere di Qarchak, a Varamin. Il Comitato delle Donne del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana richiama l’attenzione delle istituzioni internazionali che difendono i diritti umani e delle donne sulle drammatiche condizioni in cui versano i prigionieri politici, in particolare le donne, chiedendo un’azione urgente che garantisca il loro rilascio. Lunedì 29 Luglio 2019 quattro prigioniere politiche detenute nel tristemente famoso carcere di Qarchak, a Varamin, sono state brutalmente picchiate da criminali comuni, incitati dalle autorità penitenziarie e dai dipendenti dell’infermeria. Una delle vittime sarebbe in condizioni critiche. Precedenti rapporti, risalenti al 6 ed al 12 Luglio, contengono anch’essi riferimenti al pestaggio di prigionieri politici nelle carceri ad opera di pericolosi criminali. Il pestaggio dei prigionieri politici per mano di comuni criminali incitati dalle autorità e dalle guardie è diventato uno strumento largamente usato dal fascismo religioso al potere per fare pressioni sui prigionieri politici. Il 10 Giugno 2019, nel Grande Penitenziario di Teheran, conosciuto anche come “Fashafuyeh”, il prigioniero politico 21enne Shir Ali Mohammadi è stato giustiziato per mano di comuni criminali. La Sig.ra Maryam Rajavi, Presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, ha ripetutamente sollecitato le istituzioni internazionali per la difesa dei diritti umani ad inviare una delegazione investigativa internazionale che ispezioni le carceri iraniane e visiti i prigionieri politici. L’Europa intervenga per arginare la pirateria iraniana nel golfo di Gianni Vernetti La Stampa, 5 agosto 2019 Lo stretto di Hormuz fra la penisola omanita di Musandam e le coste della Repubblica Islamica dell’Iran è da sempre uno dei punti più “caldi” del pianeta: da lì passano ogni giorno migliaia di tonnellate di greggio proveniente dai produttori del Golfo per essere esportati lungo le rotte marittime di tutto il pianeta. E i Guardiani della Rivoluzione, noti anche come Pasdaran, il braccio armato più oltranzista del regime di Teheran, stanno usando in queste settimane lo stretto come un’arma di ricatto nei confronti di Usa e occidente. Il sequestro di ieri della petroliera con i suoi 700mila litri di greggio e l’arresto dei 7 membri dell’equipaggio (di cui non è ancora nota la nazionalità), ne è l’ennesima conferma. Sebbene l’agenzia ufficiale del regime, la Fars, abbia motivato l’operazione per contrastare il “traffico illecito di greggio” verso alcuni paesi arabi, in realtà si tratta di un atto di “pirateria di Stato”, che viola decine di norme internazionali sulla libertà di navigazione. Il sequestro di ieri è l’ennesimo episodio di una pericolosa escalation che il regime degli Ayatollah ha messo in cantiere da quando, lo scorso 2 maggio, è entrato in vigore il nuovo regime di sanzioni nei confronti della produzione petrolifera iraniana da parte dell’amministrazione statunitense. Prima gli attentati e il sabotaggio alle quattro petroliere al largo del porto emiratino di Fujarah il 12 maggio; poi l’attacco alla petroliera norvegese Front Altair ed a quella giapponese Kokuka Courageous il 13 giugno; poi il sequestro delle petroliera panamense Mt Riah e della britannica Stena Impero il 13 e il 22 luglio. Infine l’ultimo sequestro che rappresenta una minaccia sempre più concreta per le forniture energetiche globali, per la stabilità dei mercati e per la sicurezza degli approvvigionamenti di molti paesi. L’azione di ieri risponde anche ad un disegno preciso di Teheran con motivazioni “esterne” ed “interne”: dimostrare all’occidente la sua capacità di azione militare destabilizzante nello stretto di Hormuz; dimostrare la “solidità” del regime oramai sempre più sotto il controllo delle componenti più oltranziste dei Pasdaran; ricattare l’occidente con la minaccia di una nuova “guerra del petrolio”. Ma nelle azioni di pirateria di questi giorni c’è anche il bisogno per il regime di Teheran di richiamare il paese a una “unità nazionale” contro la minaccia esterna di Usa e occidente. Il paese è sempre più inquieto e il regime degli Ayatollah teme più di ogni altra cosa la possibile saldatura fra i ceti popolari, che diedero vita alla improvvisa “rivolta del pane” del 2018, e le classi medie di studenti e intellettuali. Ed un indicatore di questa inquietudine sono le migliaia di donne che ogni giorno sfidano la “polizia morale” levandosi il velo in luoghi pubblici e postando brevi video nei social network delle loro azioni simboliche. Ora però spetta ad Usa ed Europa definire una strategia comune per contenere l’azione di Teheran. L’amministrazione Trump ha proposto la formazione di una coalizione internazionale per garantire la libertà di circolazione nello stretto di Hormuz e per scortare le petroliere, sul modello di quanto già realizzato nel Corno d’Africa e nello Stretto di Bab el Mandab contro la pirateria più tradizionale. La Gran Bretagna è il primo paese europeo ad avere aderito alla “coalizione per la libertà nei mari” e per Boris Johnson sarà il primo test della sua tenuta in una crisi internazionale. Il vero assente è ancora l’Europa, che ha finora reagito alla proposta statunitense con silenzi e disinteresse da parte dei singoli paesi e che non può attendere oltre nel definire una nuova strategia sull’Iran dopo il fallimento dell’accordo sul nucleare. Cambogia. Morto Noun Chea, l’ideologo dei Khmer Rossi di Raimondo Bultrini La Repubblica, 5 agosto 2019 Era il braccio destro di Pol Pot: fu condannato per crimini contro l’umanità per il suo ruolo nel genocidio di milioni di cambogiani. Sono passati 40 anni da quando i cambogiani tremavano soltanto a sentire pronunciare il suo nome, 12 da quando è stato arrestato e appena uno dall’ultima delle due condanne all’ergastolo per “crimini contro l’umanità”, “sterminio, riduzione in schiavitù, torture, persecuzioni per motivi politici, razziali e religiosi”. A molti giovani il nome di Nuon Chea, morto oggi a 93 anni, dice poco o niente. Ma durante il regime sanguinario dei Khmer rossi che impose con la forza una società di contadini senza privilegi, né classi, né intellettuali, tutti lo conoscevano come “Fratello numero due”, gerarchicamente inferiore solo al numero uno Pol Pot, il capo del movimento ultracomunista su modello maoista del quale Chea era lo spietato ideologo. Assieme all’ex capo di Stato Khieu Samphan ancora vivente coi suoi 88 anni, Chea era uno degli ultimi due leader politici del Partito comunista e della “Kampuchea Democratica” sopravvissuti ai giorni nostri (il 77enne capo dei torturatori Kaing Guek Eav, detto “Duch” non ebbe mai un ruolo nazionale di primo piano), per ricordare al mondo le atrocità di un regime responsabile del più grande genocidio della storia umana moderna, lo sterminio in meno di cinque anni (1975 - 1979) di un quarto della popolazione khmer, tra i due e i tre milioni di uomini, donne e bambini. Arrestato soltanto nel 2007 e condannato a vita per due volte nel 2014 e nel 2018 dallo speciale Tribunale di Phnom Penh imposto dalle Nazioni Unite, Brother number 2 aveva espresso “rammarico” ma mai pentimento per i crimini commessi - disse - “intenzionalmente o non intenzionalmente, indipendentemente dal fatto che ne fossi a conoscenza o meno”. Eppure fu lui - secondo i giudici cambogiani e internazionali - uno dei principali responsabili anche del “genocidio” di vietnamiti e popolazioni Cham sterminate in massa prima dell’arrivo delle truppe di Hanoi che liberarono un Paese ridotto allo stremo. È stato un portavoce dello stesso tribunale a dare la notizia della sua morte avvenuta nell’“Ospedale dell’amicizia Khmer Soviet”, dove per motivi di salute scontava le condanne. Dopo la fine del loro regime noto come “Angkar” (l’Organizzazione) e l’ingresso dei vietnamiti a Phnom Penh il 7 gennaio del ‘79, Nuon Chea - che era un intellettuale di agiate origini khmer cinesi - continuo’ a vivere da libero cittadino con la sua famiglia nella città di Pailin, una delle ultime roccaforti dei capi khmer assieme ad Anlong Veng, dove lo stesso Pol Pot ha vissuto impunito fino alla sua morte avvenuta nel ‘98 in circostanze misteriose. Il legame tra Nuon Chea e Pol Pot, basato su una inviolabile segretezza, resto’ strettissimo anche durante i tentativi di eliminazione delle sacche di resistenza comuniste dal Paese. Quei tentativi durarono molti anni per i rischi di una ripresa della guerra civile temuta dall’attuale premier cambogiano Hun Sen, un khmer rouge della prima ora passato dalla parte dei vietnamiti. Hun Sen si oppose a lungo all’intromissione di giudici stranieri nel processo contro i suoi ex compagni e impedì che finissero alla sbarra anche i capi militari e di villaggio responsabili di stragi, torture e fosse comuni disseminate in tutto il Paese. L’enorme mole di testimonianze raccolta dai magistrati rese evidente col tempo la “estrema crudeltà” di Nuon Chea, “in confronto al quale - hanno detto in molti - Pol Pot era considerato un esempio di gentilezza”. Eppure Fratello numero 2 ha sempre insistito nel negare perfino l’evidenza. “Non voglio che la prossima generazione - disse nel 2011 - fraintenda la storia. Non voglio che credano che i Khmer Rossi siano stati cattivi, criminali”. Neanche le fosse comuni erano loro responsabilità - giurò - ma “delle truppe vietnamite”. Nuon Chea si arrese con i suoi uomini nel ‘98 dopo la morte del suo capo, ottenendo da Hun Sen la promessa di non essere processato, mantenuta per i successivi 9 anni.