Quell’esercito di minori “presi in carico” dallo Stato di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 agosto 2019 Secondo i dati del Ministero della Giustizia, per quello che riguarda i reati per cui è aperto un procedimento a carico di minorenni o di giovani adulti, il totale si assesta a quota 51.363. C’è un esercito di ragazze e di ragazzi “ospiti dello Stato”, ovvero affidati ai servizi della giustizia minorile. Gli ultimi dati raccolti ed elaborati dal ministero della Giustizia sono stati pubblicati lo scorso 17 luglio e il totale di quelli che nel gergo burocratico si chiamano “soggetti presi in carico” fa 13.473, di cui 12.064 maschi e 1.409 femmine. I numeri presi in analisi, comunque, non riguardano solo i minorenni, ma anche i cosiddetti “giovani adulti”, cioè fino a 25 anni di età, l’ultimo confine anagrafico prima della giustizia “dei grandi”. I presenti nelle strutture residenziali sono comunque molti meno (1.482) e sono divisi in quattro diverse tipologie di strutture: le comunità private (1.062 ospiti), gli istituti penali per minorenni (389), le comunità ministeriali (20) e i centri di prima accoglienza (6). A questi, poi, vanno aggiunti i minori che frequentano i centri diurni polifunzionali, quelli che la sera possono tornare a casa: 197 persone in tutta l’Italia. “La maggior parte dei minori autori di reato in carico - spiegano dal ministero - è sottoposta a misure da eseguire in area penale esterna. La detenzione, infatti, assume per i minori di età caratteri di residualità, per lasciare spazio a percorsi sanzionatori alternativi. Negli ultimi anni si sta assistendo ad una sempre maggiore applicazione del collocamento in comunità, non solo quale misura cautelare, ma anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari, per la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle contenitive di controllo”. In sostanza, l’istituzione tende, per quanto possibile, a tenere i più giovani lontani dalle carceri, preferendo forme diverse di custodia. Si tratta di una materia oltremodo complicata, con vari ordini di problemi e tante possibili soluzioni, sempre in bilico tra le onde degli umori di un’opinione pubblica che oscilla tra pulsioni giustizialiste e perdono, senza soluzione di continuità. Per quello che riguarda i reati per cui è aperto un procedimento a carico di minorenni o di giovani adulti, il totale si assesta a quota 51.363. Ovviamente, il numero è superiore a quello delle persone prese in carico perché ci sono diversi casi di soggetti ai quali sono stati contestati più reati. Oltre a quelli contro il patrimonio e quelli collegati agli stupefacenti (oltre 29mila in totale), i delitti contro la persona sono 13.068. Ad essere maggioritari, in questo senso, sono i reati di lesioni personali volontarie (5.563 casi) e di minaccia (2.038). Da sottolineare, poi, le violenze sessuali (953) e gli atti sessuali con minorenni (971). Sono 3.246 i reati contro lo Stato, le istituzioni e l’ordine pubblico, mentre si risale a quota 3.095 per le contravvenzioni (violazioni delle norme sull’ordine pubblico, armi e codice della strada). “L’utenza dei Servizi minorili è prevalentemente maschile - sostengono ancora gli autori del report del ministero della Giustizia. Le ragazze sono soprattutto di nazionalità straniera e provengono da paesi dell’area della ex Jugoslavia e della Romania. La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei servizi residenziali: i dati sulle provenienze evidenziano che negli ultimi anni alle nazionalità più ricorrenti nell’ambito della devianza, quali il Marocco, la Romania, l’ex Jugoslavia, tutt’ora prevalenti, si sono affiancate altre nazionalità, singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a rendere multietnico e più complesso il quadro complessivo dell’utenza”. Decreto sicurezza, governo alla conta sulla fiducia in Aula. Di Maio: “Passerà” di Amedeo La Mattina La Stampa, 4 agosto 2019 Chi sa fare i conti spiega che non ci sarà alcun rischio che la fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis non passi. Fonti della Lega che seguono la vicenda a Palazzo Madama sostengono che non sarà necessaria la maggioranza assoluta di 161 voti: basta invece un voto in più di chi voterà contro, cioè una maggioranza semplice. Certo, può succedere di tutto, che i grillini che votino contro siano più del previsto, che i senatori di Fratelli d’Italia e Forza Italia siano tutti presenti alla votazione alzando il quorum, cosa improbabile. Ma Luigi Di Maio ha dato ampie garanzie a Matteo Salvini che non ci saranno problemi e il ministro dell’Interno non ha motivo di essere troppo preoccupato. “Anche perché - avvertono i leghisti - se dovesse succedere che il provvedimento non passa, la maggior parte dei 5 Stelle, con nuove elezioni, non torneranno più in Parlamento e non verrebbero eletti nemmeno nei loro consigli comunali”. Sicuramente mancheranno all’appello una decina di grillini. Tra questi Elena Fattori, Matteo Montero, Virginia La Mura, Lello Ciampolillo. Forse anche il voto di Alberto Airola, arrabbiato per il sì alla Tav da parte del premier Conte, verrà meno. Alcuni non si presenteranno in aula e non si faranno vedere nemmeno a Palazzo Madama. Non mancheranno però le sceneggiate agostane. Se i sì saranno molto meno della maggioranza, che oggi sulla carta sono 167, inclusi due senatori del gruppo misto, allora l’opposizione potrà gridare che il governo guidato da Giuseppe Conte non ha più i numeri per andare avanti. Lo stesso Matteo Salvini avrà modo di fare un po’ la faccia cattiva, evidenziare che Luigi Di Maio non è in grado di tenere saldo il suo gruppo parlamentare mentre il suo è granito. Ma soprattutto potrebbe essere l’occasione per il leader della Lega di ricordare ai naviganti 5 Stelle che a settembre si farà sul serio: si comincerà mettere mano alla flat tax. “Dovranno mettersi il cuore in pace - precisano nel Carroccio - perché i soldi dovranno essere trovati. E non sarà la presenza di un commissario europeo indicato dalla Lega a impedirlo”. Martedì Salvini ha convocato di nuovo le parti sociali (assente la Cgil) e sarà l’occasione per ritornare sulla manovra economica e sostenere che al momento opportuno sul tavolo del governo verranno calate le carte della tassa piatta, anche sulle coperture. Di Maio dice che per il momento è una sorta di oggetto misterioso, innanzitutto per quanto riguarda la parte sulle coperture. Ma l’alleato ostenta sicurezza: ci vorranno circa 12 miliardi e verrà spiegato al ministro dell’Economia Giovanni Tria come e dove. C’è nel Carroccio una sicurezza ostentata, a dispetto dei numeri e in contrasto con le altre richieste avanzate dai 5 Stelle che chiedono il taglio del cuneo fiscale. Oltre alla necessità di trovare 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. Ma Salvini per il momento non se ne cura e si gode le ultime ore di vacanza a Milano marittima dove ieri è tornato in consolle al Papeete beach, a torso nudo, in costume da bagno e infradito. La cosa paradossale sarebbe, tra l’altro, se alla fine sarà veramente il viceministro leghista Massimo Garavaglia ad andare a rappresentare l’Italia nella Commissione Ue, lo stesso leghista che insieme ad Armando Siri ha in mano il dossier flat tax. Forse a Bruxelles, sempre che ci vada, Garavaglia avrà modo di spiegarla direttamente al suo futuro collega che avrà il portafoglio dell’Economia. Senatori, fermate il Decreto sicurezza di Luigi Ciotti* La Repubblica, 4 agosto 2019 L’unico fine di queste norme è quello di restringere l’area dei diritti e della civiltà. Caro direttore, è una normativa perfino peggiore della precedente, questo “decreto sicurezza bis” in procinto di passare al vaglio del Senato. Finalità e scopi restano però gli stessi: restringere sempre più l’area dei diritti e dunque della civiltà. Il metodo è ormai evidente: estendere il già enorme potere del ministero dell’Interno in materia d’immigrazione, estensione che non si può più definire solo interferenza, evidenziandosi ormai come vera e propria invasione di campo, appropriazione indebita di ruoli e competenze altrui. Ennesimo segno di un’ambizione sfrenata e totalitaria, indifferente alla divisione dei poteri su cui si basa una vera democrazia. Tutto ciò, inoltre, nel più totale disprezzo di trattati internazionali che hanno ratificato per il nostro Paese l’obbligo di prestare soccorso a naufraghi e persone in difficoltà. Figli, quei trattati, di capisaldi della civiltà occidentale, carte che hanno inaugurato la stagione della pace, della democrazia e dei diritti come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e l’articolo 10 della nostra Costituzione sul diritto di asilo da garantire allo straniero. Carte in cui ho ritrovato l’anima e lo spirito del Vangelo, la sua etica esigente e intransigente: accogliere gli oppressi e i discriminati, denunciare le ingiustizie, costruire una società più umana già a partire da questo mondo. Nessuno nega la difficoltà e la necessità di governare il fenomeno migratorio in tutti i suoi risvolti e implicazioni, ma il governo deve essere ispirato dall’intelligenza, dalla lungimiranza, dalla conoscenza della Storia e dal rispetto di quei principi che ci rendono degni della qualifica di “esseri umani”. Ebbene, questo non è governo, è gestione cinica del potere tramite mezzi di cui la storia del 900 ci ha fatto conoscere gli esiti tragici: la propaganda ossessiva, la sistematica manipolazione della realtà, la rappresentazione della vittima e del debole come nemico, invasore, capro espiatorio. Mi auguro che i senatori sentano la responsabilità non solo politica ma anche etica di questo voto. Bocciare questo decreto significa riaprire nel nostro Paese un varco alla speranza, ricongiungere la nostra Italia alla parte migliore della sua Storia: quella costruita da tante persone oneste, ospitali e solidali, ribelli alle parole e agli atti dei demagoghi e dei prepotenti. *Fondatore e presidente dell’associazione Libera Cosa abbiamo seppellito quest’estate di Alessandro Gilioli L’Espresso, 4 agosto 2019 C’è un filo che collega tre episodi di questa estate. Il primo episodio è la storia della polizia che minaccia un cronista, “so dove abiti”, con il ministro dell’Interno che poco dopo dà del pedofilo al cronista stesso. La colpa del cronista: aver fatto il suo lavoro, documentando un piccolo episodio di malcostume familista del ministro. Nulla di così grave, il giro in motoscooter fatto fare al figlio, per quanto non encomiabile; molto di grave, invece, nelle successive minacce della polizia e negli insulti del ministro al videomaker. In sostanza, con quelle minacce e quegli insulti si è buttato a mare il principio (già consolidato) per cui compito della stampa è controllare i comportamenti del potere e il potere deve accettare (per quanto suo malgrado) questo controllo, perché sono queste le regole del gioco. Un principio base della democrazia, di regole del gioco appunto. Sbeffeggiando e insultando il cronista, il ministro ci ha fatto sapere che questo gioco, con queste regole, non vale più. Il secondo episodio dell’estate è un futile tweet del ministro medesimo, quello in cui usa il termine “zingaraccia”. Anche questo è il superamento di un principio fino a ieri condiviso: quello per cui in politica non era ammissibile un insulto su base etnica o territoriale. Tipo ebreaccio, negraccio, napoletanaccio e via a piacere. Prima non si faceva e basta: si insultava il singolo in quanto singolo, ma non in quanto appartenente a un’etnia o a un territorio. Adesso questo principio non vale più, l’insulto etnico è stato sdoganato da chi è al potere. Siamo ai limiti dell’istigazione all’odio razziale, ma non preoccupatevi, questi limiti verranno superati presto, la strada è spalancata. La terza vicenda è quella dei due americani che hanno ammazzato un carabiniere a Roma. Anche qui, la questione politica principale non è tanto che li abbiano bendati - bruttissima violazione di regole ma non inusuale e non tortura cilena. La questione politica più importante è invece che il ministro, attraverso il sito del partito di cui è capo assoluto, abbia preso quella foto e rivendicato di fatto quella violazione dei diritti di un detenuto. In sostanza, il ministro dell’interno ci ha fatto sapere che è superato e obsoleto anche il principio per cui un detenuto (fosse anche il peggior stragista o mafioso del mondo) ha dei diritti. Per il ministro, siccome uno è un assassino allora gli si può fare ciò che si vuole. Amen. Abbiamo seppellito anche Beccaria. Ma la vicenda dei due americani ha pure una coda, che è perfino peggiore perché coinvolge purtroppo anche l’opposizione. Succede infatti che un parlamentare, Ivan Scalfarotto, esercitando una prerogativa pensata apposta per garantire i diritti dei detenuti, va in carcere a verificare le condizioni dei due. Anche questo è (era) un principio base dello Stato di diritto: le carceri non sono bui caveau di arbitrarietà extra legem, per questo si è deciso che i rappresentanti della democrazia possano entrarvi in ogni momento. Apriti cielo: nella narrazione salviniana questo atto di garanzia è diventato la prova che la sinistra “preferisce” i delinquenti alle vittime. Una porcheria assoluta. Un altro principio di base dello Stato di diritto buttato nel cesso a furor di popolo. Esercitare questo principio, entrare nelle carceri, significava ribadirlo. È - anzi era - una regola della convivenza civile. Oggi invece esercitare questo principio è diventato “stare dalla parte dei delinquenti anziché delle vittime”. Allucinante. Così come allucinante è che il tiepido e pavido partito a cui Scalfarotto appartiene non abbia ritenuto di difendere a testa alta lui e questo principio: anzi l’abbia attaccato (Calenda) o abbandonato a se stesso (Zingaretti). By the way, è proprio così che si perde: non trovando il coraggio di affermare con forza i principi di democrazia attaccati con violenza da chi oggi è al potere e ha cultura democratica zero ma ammirazione a mille per le democrature autoritarie, a cui non a caso va a chiedere milioni di euro. Cosa pensano Zingaretti e Calenda, che stare zitti sulle violazioni dei principi consenta loro di accaparrarsi una fettina dello spazio politico “marcisca-in-galera “ già saldamente occupato da Salvini e Meloni? Non è bastata la lezione Minniti, come emulazione dell’avversario? È così difficile capire che gli spazi politici non si occupano (specie se già occupatissimi!) bensì si creano - e per crearli serve proprio l’affermazione dei principi con la coerenza delle pratiche? Abbastanza triste è l’estate in cui il potere nega principi di democrazia secolari e in cui il principale partito di opposizione si vergogna di riaffermarli a testa alta, per paura di andare controvento anche quando il vento puzza così tanto di autoritarismo, democratura e Barabba. “La visita di Scalfarotto in carcere? È un diritto e anche un preciso dovere parlamentare” fanpage.it, 4 agosto 2019 “È un suo diritto e anche un suo preciso dovere. Se poi ne visitava anche altri era anche meglio, ma in ogni caso ha esercitato un suo diritto e una sua responsabilità come parlamentare”. Lo ha detto la senatrice Emma Bonino, riferendosi al deputato Ivan Scalfarotto che è andato in carcere per visitare i due americani accusati dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. In merito alle offese a Scalfaro in seguito al tweet di accusa del ministro Matteo Salvini, la leader di +Europa ha osservato: “se dovessimo rispettare diritti e doveri di ciascuno a seconda di quello che twitta Salvini saremo in un mare di guai. Salvini dica quello che gli pare e spari le sue stupidaggini. Ognuno può pensare quello che vuole ma Scalfarotto ha esercitato un suo preciso diritto, nonché un suo preciso dovere, visitando le carceri”. A La Stampa Scalfarotto ha rivelato che gli insulti sono cominciati “quando il ministro Salvini ha deciso di trasformarmi in target. Durante tutta la giornata c’erano stati 22 commenti sulla mia pagina Facebook, poi in due ore sono diventati oltre tremila, e immaginate i toni”. “È un tentativo di intimidazione, ma non funziona. Sono convinto del mio gesto, nonostante la tempesta perfetta messa su. La mia ispezione era una verifica della tenuta dello stato democratico”, ha affermato il parlamentare. E alla domanda sul perché non sia andato anche a trovare la famiglia della vittima, Scalfarotto ha risposto: “a rendere omaggio a Cerciello Rega sono andati tanti compagni di partito. Il partito era presente e io con il partito. Ma nessuno è andato in carcere. Se ci fosse andato Zingaretti io non ci sarei andato. Il collegamento è sbagliato: in uno Stato di diritto è doverosa la solidarietà per la vittima, ma lo Stato deve anche rispettare chi ha commesso il crimine più efferato”. E quando il giornalista ha individuato nelle critiche dei colleghi di partito una paura di perdere consensi, Scalfarotto ha commentato: “Probabilmente sì, ma non credo sia la strategia giusta. Si torna al governo rimanendo se stessi e difendendo i nostri valori, non scimmiottando la cultura dominante. La politica non può solo accodarsi al sentimento popolare, ha la responsabilità di testimoniare valori anche se minoritari. Ci sono state fasi nella storia in cui si sono affermare vere e proprie barbarie perché lo voleva il popolo. Il ministro dell’Interno anziché assicurare l’incolumità dei detenuti, come è doveroso, incita la vendetta. Bisogna prendere una posizione netta”. Mafie. La camorra e i padroni del Veneto orientale di Alessia Pacini e Francesco Trotta La Repubblica, 4 agosto 2019 Il 19 febbraio 2019, Polizia e Guardia di Finanza, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia sequestrano beni per un totale di 10 milioni; mettono in atto 9 provvedimenti tra obbligo di dimora e divieto di esercitare la professione di avvocato; e, infine, eseguono 50 misure cautelari, tra cui 3 ai domiciliari. L’elenco degli indagati nell’operazione “At least”, però, non finisce. In tutto sono 82 le persone coinvolte in un’inchiesta che fa luce su quella che è considerata una vera e propria “gomorra veneta”. L’epicentro che sconvolge la terra del Doge è Eraclea, comune che si affaccia sulla laguna adriatica, con poco più di dieci mila abitanti, località balneare che vive principalmente di turismo. Il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, ha sottolineato il fatto che per la prima volta in Veneto una cosca, seppur facendo riferimento al noto Clan dei Casalesi, “si era organizzata autonomamente”. La struttura criminale - secondo l’indagine degli inquirenti - si è formata a metà degli anni Novanta, quando nel Nordest la Mafia del Brenta veniva sgominata e lasciava un vuoto di potere criminale, riempito poi da altri malavitosi. A capo di questa organizzazione, secondo gli inquirenti, stavano Antonio Buonanno, Raffaele Buonanno - quest’ultimo imparentato con il capo Francesco “Ciccotto ‘e mezzanotte” Bidognetti - entrambi residenti in Campania, e Luciano Donadio, anche lui di origine meridionali ma da anni trasferitosi proprio a Eraclea. Il gruppo criminale, che inizialmente poteva contare su altri personaggi di Casal di Principe e dell’agro aversano, si è pian piano sviluppato, interagendo e integrandosi con altri malavitosi e soprattutto con individui apparentemente puliti, soprattutto locali; gente veneta, insomma, che non si sarebbe fatta remore a far affari illeciti, diventando di fatto tassello fondamentale di una cellula camorrista, che nell’arco di due decenni si è impadronita del Veneto orientale. E una lunga serie di gravi reati testimonia la pervasività e la sua capacità criminale: estorsione, usura, bancarotta fraudolenta, contraffazione di valuta, emissione di false fatture, truffe e truffe aggravate ai danno dello Stato, riciclaggio e auto-riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, rapina, ricettazione, sottrazione fraudolenta di valori, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, intermediazione illecita di manodopera, detenzione illegali di armi, danneggiamenti e incendi. In poche parole: controllo del territorio. Fatto assai grave, che si abbina a quanto affermato dal Procuratore Bruno Cherchi, quando spiega che parlare di mafia in Veneto significa anche parlare di una “criminalità strutturata e penetrata nei settori economico e bancario”. In effetti, stando a quando emerge dalle indagini, all’utilizzo della violenza e alla commissione dei reati più “vistosi” - come lo spaccio e la gestione della prostituzione lungo il “Terraglio”, la strada che collega Mestre a Treviso (attività illecita spesso collegata solamente alla malavita dell’Est) - corrispondevano anche le potenzialità imprenditoriali del gruppo criminale, capace di coinvolgere commercialisti, funzionali pubblici, direttori di banca e, appunto, imprenditori. Sottolineiamo quest’ultimo aspetto per far comprendere il ruolo chiave dei “veneti”: se non ci fossero stati loro, probabilmente i criminali non sarebbero diventati così potenti da creare una cellula mafiosa in grado persino di intessere legami con l’apparato istituzionale. Il legame con la politica. “In più, in meglio”, si legge oggi sul sito internet dell’ormai ex sindaco di Eraclea, Mirco Mestre, 44 anni. E ancora: “Credo che la mia città possa rappresentare il paese in cui i cittadini siano felici di vivere. Non sono un politico ed il mio impegno nasce dalla sincera determinazione di poter aiutare il mio paese. Per far ciò abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e formulare questa nostra proposta per dire a tutti oggi si cambia!”. Mestre è tra gli arrestati del 19 febbraio. Il mondo dell’amministrazione pubblica di Eraclea, quindi, si sarebbe incontrato con quello dei Casalesi nella pratica del voto di scambio. Secondo le indagini la cellula camorrista sarebbe riuscita a fare affari d’oro con l’edilizia lungo la costa adriatica, accaparrandosi permessi, in cambio dell’elezione del sindaco di Eraclea. Sempre il Procuratore Bruno Cherchi ha affermato: “L’arresto del sindaco di Eraclea, Mirco Mestre, rappresenta il primo caso in Veneto di voto di scambio, accertato nel corso delle elezioni comunali del 2016”. Mentre però il sindaco viene messo in carcere e il vice, Graziano Teso è indagato, la maggioranza al comune non vuole lasciare il proprio posto di potere, sottolineando che l’amministrazione sia in realtà estranea dalle attività mafiose di cui è accusato il sindaco. Tra gli arrestati del 19 febbraio anche Denis Poles, direttore di banca che avrebbe lasciato via libera ai presunti mafiosi, operando sui conti societari, omettendo sistematicamente di segnalare le operazioni sospette e concordando persino i prestanome da utilizzare. Il nome di Poles è finito alla ribalta poiché si sarebbe rivolto nel 2002 direttamente al gruppo criminale per recuperare una valigetta che gli era stata rubata dalla macchina, in cui c’era la tesi di laurea della fidanzata. Efficientissimi sono stata i casalesi di Eraclea, in grado di far riavere a Poles la valigetta in ventiquattro ore, come annotano gli inquirenti nell’ordinanza di arresto. Un altro Poles, questa volta Graziano, è stato coinvolto nell’indagine. L’imprenditore veneziano di settantanni è una vecchia conoscenza delle cronache giudiziarie locali causa il fallimento delle sue società per cui già nel 2013 si sospettava l’interessamento da parte della criminalità organizzata. Poles, insieme alla figlia e alla moglie, aveva creato una holding, attorno alla quale gravitavano altre undici società, costruita su debiti bancari; tutti soldi mai restituiti: un bancarotta da 7,5 milioni. Nel suo impero c’era anche l’Hotel Victory, che l’allora sindaco Graziano Teso avrebbe cercato di vendere in cambio di autorizzazioni edilizie e concessioni. Le società di Poles, secondo la Procura, erano in parte controllate da Luciano Donadio e sodali. Attraverso i prestiti ad usura il gruppo criminale avrebbe ottenuto il controllo anche di altre aziende, i cui titolari in certi casi dapprima vittime, si sarebbero poi trasformati in complici del “sistema”, come nel caso - secondo la magistratura - di Giorgio Minelle, titolare di Soluzione Mipa a Padova, che dopo le minacce e la cessione della sua attività a Donadio per i debiti insoluti, si sarebbe rivolto insieme a Vittorio Orietti di Galzignano, al gruppo criminale per farsi dare centomila euro dall’imprenditore Domenico Chiapperino. Scrivono gli inquirenti:”Di quest’ultima famigerata e assai temibile organizzazione criminale [Clan dei Casalesi, ndr.] il sodalizio in questione ha riprodotto in queste terre i metodi violenti ed intimidatori, le strutture organizzative e i fini illeciti nei più diversificati ambiti illeciti imponendosi, in breve tempo, come compagine criminale assolutamente egemone nei confronti delle preesistenti formazioni locali, sia quelle che costituivano i residui della banda Maniero sia i gruppi successivamente costituitisi prevalentemente nel settore del traffico di stupefacenti e nell’attività di sfruttamento della prostituzione. Per ottenere questo risultato il sodalizio si è fin da subito accreditato come formazione incondizionatamente disponibile alla commissione di qualsivoglia violenza con uso di armi ed esplosivi.[...] Negli anni successivi il sodalizio mafioso ha accresciuto la sua nomea non solo negli ambienti delinquenziali ma anche in vasti settori, imprenditoriali e non, della comunità locale tanto da divenire il ricettacolo di richieste di occuparsi - con modalità ovviamente estorsive - della riscossione di crediti o di attività di ritorsione e punitive ovvero di proteggere da legittime richieste di pagamento gli imprenditori che si sono affidati al sodalizio stesso”. Altro nome illustre nell’inchiesta è quello di Annamaria Marin, la Presidente della Camera penale veneziana, difensore di Luciano Donadio, al quale avrebbe fornito informazioni su indagini e arresti. Ma non solo: a prender parte a queste operazioni “mafiose”, secondo la Procura di Venezia sarebbe stato anche Moreno Pasqual, della Polizia di Stato, che avendo accesso alle banche dati di pubblica sicurezza, sarebbe riuscito a passare informazioni riservate. Non mancano all’interno del sodalizio personaggi già noti alle Forze dell’ordine, come Angelo di Corrado, consulente del lavoro, e Michele Pezone, già colpito in passato da provvedimenti di confisca. Sorprende - ma non troppo - che all’interno dell’organizzazione avesse un ruolo apicale il venetissimo Christian Sgnaolin, titolare dell’azienda “Imperial Agency”, che si occupa di sicurezza sul lavoro e nel caso dell’assenza di Donadio, gestiva gli affari dell’associazione criminale. Troviamo scritto nell’ordinanza di arresto: “Questa inquietante presenza criminale, sviluppatasi nel corso dello scorso decennio e consolidatasi negli ultimi anni, è tuttora viva è vegeta ancorché potata in alcuni dei suoi rami più spinosi attraverso indagini collegate condotte da questo Ufficio”. Come ci ha candidamente ammesso una signora incontrata ad Eraclea. “Io ho ancora paura, perché ne hanno arrestati parecchi, ma molti altri li vedo ancora passeggiare tranquillamente in giro”. Calabria: Agostino Siviglia nominato Garante dei diritti dei detenuti Gazzetta del Sud, 4 agosto 2019 Agostino Siviglia è il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La nomina di Siviglia è stata disposta con decreto del presidente del Consiglio regionale, Nicola Irto. Siviglia, nell’esercizio del potere sostitutivo delle nomine di competenza dell’Assemblea. Siviglia, 46 anni, è stato scelto dall’elenco dei candidati risultati idonei dopo l’avviso pubblico del maggio 2018 dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale. Il Garante dei diritti dei detenuti - si legge nella legge regionale istitutiva della figura, la numero 1 del 2008, - è “un organismo di monitoraggio indipendente che contribuisca a garantire i diritti, promuovendone e assicurandone il rispetto, delle persone detenute e di coloro che sono sottoposti a misure comunque restrittive o limitative della libertà personale, favorendone, altresì, il recupero e il reinserimento nella società”. Calabria: nominato (e non eletto come prevede la Legge) il Garante dei detenuti di Emilio Enzo Quintieri* emilioquintieri.com, 4 agosto 2019 Il Presidente del Consiglio Regionale della Calabria Nicola Irto, con Decreto n. 5 del 30 luglio 2019, ha proceduto alla nomina del Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, scegliendo l’Avvocato Agostino Siviglia di Reggio Calabria, peraltro in carica dal 2015 come Garante dei Diritti dei Detenuti della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Il Presidente Irto, per come si desume dal Decreto, ha inteso nominare il Garante Regionale visto che il Consiglio, nonostante la questione sia stata iscritta per ben tre volte all’ordine del giorno (11 marzo, 15 aprile e 29 aprile), non ha proceduto alla “nomina” del Garante. Ma, in realtà, non si tratta di una “nomina” come sostiene il Presidente del Consiglio, bensì di una “elezione” poiché l’Art. 3 della Legge Regionale n. 1/2018, istitutiva dell’Autorità di Garanzia, prevede che il Garante debba essere eletto dal Consiglio Regionale con deliberazione adottata a maggioranza dei due terzi dei Consiglieri assegnati. In mancanza di raggiungimento del quorum, dalla terza votazione, l’elezione avviene a maggioranza semplice dei Consiglieri assegnati. La “nomina” del Garante appare illegittima e annullabile sia perché avvenuta in violazione di legge e sia per carenza di potere, visto che la Legge Regionale n. 1/2018 non conferisce espressamente tale compito al Presidente del Consiglio Regionale. Invero, il potere sostitutivo, come prevede l’Art. 113 del Regolamento interno del Consiglio Regionale della Calabria, può essere esercitato dal Presidente per le nomine e designazioni di competenza del Consiglio Regionale. Tale potere riguarda le nomine e designazioni scadute, terminato il periodo di prorogatio, nonché le nomine e designazioni relative a organi di nuova istituzione qualora la Legge attribuisca esplicitamente tale potere al Presidente del Consiglio. Mi sembra che il Regolamento sia abbastanza chiaro e preciso ! Come già detto, il Garante Regionale, non doveva essere “nominato” ma “eletto” (sono due cose diverse, con procedimenti altrettanto diversi) e la Legge Regionale non prevede l’intervento sostitutivo del Presidente del Consiglio in caso di inadempienza da parte dell’Assemblea. Ma, a quanto pare, in Calabria, si può fare di tutto, giocando con cavilli, silenzi e ritardi. Anche quando si tratta di un organismo estremamente importante, appositamente istituito per vigilare sulla tutela dei diritti umani fondamentali delle persone detenute o private della libertà personale. Per tali ragioni, ritenendo che la “nomina” del Garante Regionale non sia avvenuta nel pieno rispetto della Legge e delle procedure da essa stabilite, presenterò ricorso al Tar della Calabria, Sezione di Reggio Calabria, per chiedere l’annullamento del Decreto del Presidente del Consiglio Regionale. *Già Consigliere Nazionale Radicali Italiani Ariano Irpino (Av): Ciambriello denuncia “pochi educatori e poche attività trattamentali” irpinianews.it, 4 agosto 2019 “Un giovane detenuto nel carcere di Ariano Irpino (Avellino) si è dato fuoco all’interno della sua cella. Era solo in cella perché aveva chiesto il divieto di incontro con gli altri. Si tratta di un giovane napoletano di 24 anni che ha riportato gravi ustioni (è in prognosi riservata) ed è stato trasportato ieri in elicottero al Cardarelli di Napoli. La direzione del carcere è stata in costante contatto con la mamma e l’avvocato del giovane. Era giunto nel carcere avellinese nel 2018 da Secondigliano. Aveva iniziato una serie di proteste perché voleva tornare a Napoli. La direzione del carcere aveva chiesto la ritraduzione, che però gli veniva negata. Il carcere di Ariano Irpino con i suoi 350 detenuti, il 90% definitivi ha solo due educatori, i professionisti esperti (psicologi e psichiatri) hanno 50 ore mensili. Ci sono stati nel carcere nell’ultimo mese due Tso. Nel carcere dove il 18% dei detenuti ha problemi psichici, vive forme di autolesionismo, a volte qualche detenuto ha aggredito anche agenti di polizia penitenziaria, lo psichiatra va due volte al mese! Benevento con poco più di 400 detenuti ha sei educatori. Arienzo con 85 detenuti ha due educatori, Vallo della Lucania con 56 detenuti ha due educatori. Insomma pochi educatori, poche figure sociali nelle carceri campane e a volte mal distribuite”. “Un carcere quello di Ariano, lontano dal mondo, con poche attività trattamentali, senza campo di gioco, una infermeria da terzo mondo, che spero quanto prima sia messa a nuovo, con una sanità per visite specialistiche e ricoveri molte volte con ritardi inspiegabili. La stessa struttura risponde a logiche securitarie (con - ad esempio - altissimi muri di cinta) che ancora oggi riducono al minimo gli spazi per le attività trattamentali (si segnala l’assenza di un campo di calcio, di una palestra e di un teatro); il 7 maggio 2014 è stato consegnato un Padiglione di recente costruzione (padiglione B) con una capienza di 200 posti, costruito sul campo di calcio esistente e mai più ricostruito!”. “Spero che il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, l’Asl di competenza eroghino, ciascuna per le sue competenze, prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, mettano in campo prestazioni finalizzate al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro dei diversamente liberi di Ariano Irpino”. Salerno: i socialisti in visita al carcere “più attenzione per i malati” di Erika Noschese cronachesalerno.it, 4 agosto 2019 Necessità di un protocollo operativo tra il servizio della sanità penitenziaria dell’Asl e l’azienda ospedaliera Ruggi d’Aragona per garantire percorsi assistenziali anche rapidi per i detenuti della casa circondariale di Salerno. È quanto emerso dalla visita effettuata dal Psi di Salerno, con il segretario nazionale Enzo Maraio, presso il carcere di Salerno. Il segretario del partito ha denunciato, ancora una volta, oltre alla problematica relativa al sovraffollamento, anche la carenza di rapporti di collaborazione con le istituzioni locali e l’azienda ospedaliera. A questo si aggiunge poi una “necessità sanitaria”: sono circa una decina le persone detenute presso la casa circondariale di Fuorni in attesa di interventi. Per il salernitano Maraio bisogna “sensibilizzare i medici rispetto agli interventi necessari ed urgenti di cui i detenuti hanno bisogno”. Chiede un percorso di reintegrazione per le donne, la consigliera socialista Veronica Mondany affinché alle donne venga concessa una seconda possibilità dopo il carcere. “Il direttore Romano ha messo a disposizione dei detenuti vari progetti ma, sostiene la Mondany, “è importante permettere alle donne di cucinare e a tal proposito verranno fatti dei lavori in cucina per dare loro questa possibilità”. Il gruppo socialista al Comune di Salerno pensa all’istituzione di un banco farmaceutico per i farmaci di tipo c “perché ci sono delle esigenze importanti perché ci sono condizioni economiche scarse e i detenuti non possono permettersi di curarsi - ha spiegao il capogruppo Massimiliano Natella - C’è un’emergenza sanitaria e c’è bisogno di coinvolgere e coordinare meglio il rapporto con la struttura sanitaria del Ruggi d’Aragona per quanto concerne gli interventi che sono in lista d’attesa. Ci sono anche altre emergenze di cui poterci far carico come il rapporto con Salerno Sistemi per l’ammodernamento della struttura che è in sovrannumero e c’è un grosso sacrificio da parte del personale e del penitenziario per poter gestire molti detenuti”. Parla invece di maggiori attenzioni da dare ai detenuti il consigliere Paolo Ottobrini: “La nostra visita aveva il senso di verificare un po’ le condizioni; condizioni che non sono negative, c’è una realtà molto attiva all’interno del carcere, chiaramente noi come consiglieri comunali ci faremo parte attiva per promuovere determinate iniziative per supportare le esigenze dei detenuti”. Intanto, proprio ieri è giunto un parere positivo per un finanziamento dalla cassa ammende di 480mila euro da destinare alle opere infrastrutturali interne della casa circondariale. Si tratta, nello specifico, di un ok propedeutico al sì definitivo che deve giungere da Cassa ammende. Novara: in carcere con grave infezione, da giorni in attesa del farmaco di Maria Bella livesicilia.it, 4 agosto 2019 Da giorni attende un farmaco per curare un insidioso batterio che lo ha attaccato allo stomaco ma manca l’autorizzazione dell’istituto penitenziario. Questa la denuncia dell’avvocato Ernesto Pino, che parla di gravi inadempienze ai danni del proprio assistito. Non si tratta di un detenuto qualunque. Ad aver contratto il batterio è Antonino Cintorino, boss dell’omonimo clan operante a Calatabiano, rinchiuso da anni al regime di 41 bis nel carcere di Novara. Il batterio se non curato adeguatamente rischia di diventare pericoloso. Questa la preoccupazione dei familiari del detenuto che dopo aver procurato il farmaco, che l’istituto penitenziario non era riuscito a rinvenire in commercio, hanno chiesto che fosse somministrato al congiunto. Dopo una prima richiesta inoltrata dalla titolare della farmacia presso cui è stato recuperato il farmaco, è stato l’avvocato Pino, come chiesto dalla struttura carceraria, ad inoltrare a fine luglio un’istanza di autorizzazione all’invio, presso l’area sanitaria del penitenziario, di due flaconi di farmaco, necessari per una cura di 15 giorni. “Poiché il batterio in questione è un carcinogeno di prima classe - si legge nell’istanza inviata dal legale - ed è stata dimostrata una relazione diretta tra infezione e tumore allo stomaco, è di estrema importanza eradicare il batterio al più presto, motivo per il quale resto in attesa di cortese e, soprattutto, sollecita risposta”. Ma ad oggi la domanda sembra essere caduta nel vuoto. Dopo giorni di inutile attesa l’avvocato Pino prepara nuove azioni. “Non avendo ricevuto alcuna risposta dall’istituto penitenziario - spiega il legale - invierò una denuncia al Garante nazionale e regionale dei diritti delle persone detenute ed al magistrato di sorveglianza. Mi riservo, inoltre - conclude Ernesto Pino - di presentare una denuncia anche ai carabinieri”. Cagliari: espletato il concorso per la direzione sanitaria della Casa circondariale sardegnalive.net, 4 agosto 2019 “Sono una decina i medici che hanno partecipato al concorso per ricoprire l’incarico di Direttore Sanitario della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Una “rosa” di idonei per titoli ed esperienza professionale a cui dovrà attingere il Commissario dell’Ats per individuare la persona che ricoprirà il delicato incarico. Un ruolo molto importante per le attività della struttura penitenziaria, in cui sono ristretti 576 detenuti per 561 posti, e per il Minorile. Senza contare gli Agenti e l’insieme degli operatori della struttura. Nelle ultime settimane sono stati confermati nel ruolo di facenti funzioni i medici Anita Frau e Sebastiano Forteleoni, quest’ultimo subentrato con il ruolo di coordinatore sanitario a Matteo Papoff, che aveva concluso il suo incarico”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che aveva più volte sollecitato la necessità di dotare la principale Casa Circondariale di un Direttore stabile. “A caratterizzare il ruolo del direttore sanitario - sottolinea - è la gestione dell’intero sistema clinico-sanitario e burocratico, spesso con riferimento all’intera regione e non solo. Oltre a favorire il lavoro dei colleghi dei diversi settori e garantire il controllo sull’efficienza organizzativa, il responsabile della sanità penitenziaria interagisce con la Direzione dell’Istituto e la Magistratura. Impegno quest’ultimo assolto finora dal coordinatore facenti funzioni con positivi riscontri. La gestione riguarda però anche la relazione con i liberi professionisti, qualora il detenuto chieda una visita specialistica o debba produrre una relazione di parte a integrazione di un’istanza. Il Direttore Sanitario infine si occupa dell’inoltro e predisposizione delle domande di invalidità, delle denunce Inail, tiene i rapporti con i Consolati e i Mediatori Culturali, oltre a predisporre o integrare relazioni per l’incompatibilità dietro le sbarre”. “Quella della Sanità Penitenziaria resta uno degli aspetti più delicati della vita all’interno delle carceri. I Medici (e gli Infermieri) si trovano in una condizione particolare dovendo rispettare il giuramento di Ippocrate in un ambiente in cui occorre ottemperare a interessi contrastanti tra esigenze di sicurezza, accesso a misure alternative, richiesta di accertamenti diagnostici, farmaci e perfino strumenti per esami sanitari. Molto difficile talvolta verificare le oggettive condizioni di salute di una persona privata dalla libertà - conclude la presidente di SDR - laddove proprio le sbarre sono la prima causa di gravi problematiche comportamentali e psichiche”. Castelvetrano (Tp): seminaristi nel carcere per i laboratori con i detenuti agensir.it, 4 agosto 2019 Anche quest’estate al carcere di Castelvetrano si sta svolgendo il laboratorio di bricolage che vede insieme detenuti e volontari per preparare portachiavi, piccoli gadget che poi vengono donati, dietro un’offerta, nelle piazze delle frazioni balneari. L’iniziativa vede insieme Caritas diocesana e Servizio diocesano di Pastorale giovanile. Per quest’estate, oltre ai volontari locali, partecipano anche i seminaristi e una ragazza di Milano. A volere conoscere la realtà del laboratorio, qualche giorno fa, è stato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento della persona del Dipartimento amministrazione penitenziaria, accompagnato dal vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, da don Giuseppe Inglese, responsabile del Servizio di Pastorale giovanile, e Maria Luisa Malato, direttrice del penitenziario. “Qui sperimentiamo lo stare insieme come famiglia - ha detto suor Cinzia Grisafi - e non è semplice, perché siamo diverse come persone e come carisma”. Dietro le sbarre, però, si sperimenta lo stare insieme e l’amore: “Siamo felici nel sentirci voluti bene”, ha detto Antonio, originario di Falcone e detenuto della terza sezione. “Noi volontari ci arricchiamo di umanità stando insieme ai detenuti”, hanno aggiunto. “È quella che spesso la società ignora - ha detto il vescovo - perché considera il detenuto un appestato”. “In questi anni ho notato che il carcere è anche il luogo degli ultimi - ha detto Piscitello davanti a volontari e detenuti - e non solo di chi ha commesso un reato”. Napoli: Don Raffaele, una vita nelle carceri nel nome di Francesco di Anita Peperoni papaboys.org, 4 agosto 2019 Per 23 anni è stato cappellano del carcere Secondigliano, a Napoli. Da tantissimo tempo poi segue progetti umanitari in Burundi, nel cuore dell’Africa. Esperienze lontane, da un punto di visto “geografico”, ma con un unico e preciso obiettivo: occuparsi degli ultimi. Oggi don Raffaele Grimaldi, 61 anni, è l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Dal 2017 coordina i circa 250 sacerdoti (a cui si aggiungono diaconi, suore, volontari…) che seguono giorno dopo giorno la pastorale carceraria, ovvero la presenza della Chiesa nei penitenziari, e che incontreranno il Papa sabato 14 settembre in udienza nazionale, nell’Aula Paolo VI. Di papa Francesco don Raffaele è un “super fan”. Trova che il messaggio del Pontefice abbia un ruolo determinante nel suo lavoro quotidiano: “Con il Giubileo della Misericordia, il Santo Padre ha lanciato un messaggio molto forte per la società, che troppo spesso è ostaggio di pregiudizi nei confronti di chi ha sbagliato. La Chiesa invece non vuole giudicare, ma offrire misericordia, aiutare l’altro a prendere coscienza di ciò che ha fatto, del male che ha commesso… Del resto, come dice Francesco, “solo quello che si abbraccia può essere trasformato”. La Chiesa deve fare proprio questo, è il suo atto d’amore”. Che cosa fa il cappellano di un carcere? “Nonostante l’epoca di crisi di fede che stiamo attraversando, resta un punto di riferimento. E non solo per i detenuti: per tutti. Il cappellano “accoglie” anche la polizia penitenziaria, il personale amministrativo, tutti gli altri operatori”. Quali sono le sue difficoltà principali? “Molto spesso facciamo fatica a svolgere con serenità il nostro ministero in carcere. Manca il personale, manca la sicurezza… Il cappellano è un po’ un eroe dei nostri tempi: dà, senza aspettarsi una ricompensa. Siamo annunciatori della Parola del Signore che proponiamo a tutti, senza mai imporla”. Il Papa ha definito la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia… I cappellani sono idealmente i suoi primi medici e infermieri? “Sì. Siamo lì per offrire speranze e certezze per il futuro, per far risollevare dalle cadute, per curare le ferite dei detenuti. Siamo missionari della Misericordia. E quando i detenuti escono e non sanno dove andare, ci adoperiamo per accoglierli o farli accogliere nelle strutture giuste”. Costruite ponti, non muri… “Sì, è proprio come dice il Papa! Vogliamo favorire il reinserimento nella società dei detenuti che hanno scontato la pena aiutandoli nel percorso di fede che hanno cominciato o riabbracciato in prigione”. Volterra (Pi): teatro stabile in carcere, presto saggi archeologici per avviare i lavori Il Tirreno, 4 agosto 2019 “Un passo avanti decisivo verso la realizzazione del teatro stabile nel carcere di Volterra. Al termine del sopralluogo è stato convenuto che lo spazio più idoneo è l’attuale area passeggi, a ridosso della torre del Mastio. Ci metteremo a lavoro per arrivare nel più breve tempo possibile al raggiungimento dell’obiettivo”. Così la vicepresidente regionale Monica Barni al termine del sopralluogo in carcere di Volterra. Al sopralluogo hanno preso parte, oltre a Barni, il garante regionale dei detenuti Franco Corleone, l’assessore alle Culture di Volterra, Dario Danti, gli ingegneri della Sovrintendenza, il provveditore alle opere pubbliche di Toscana Marche Umbria, Marco Guardabassi, il vice provveditore del Prap, Rosalba Casella, architetti del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i vigili del fuoco, rappresentanti della fondazione Michelucci e, per la compagnia della Fortezza, Armando Punzo e Cinzia De Felice. “La situazione è sbloccata - ha aggiunto Barni -. I presenti hanno dimostrato la volontà di arrivare alla realizzazione del progetto. Al termine, riunione nell’ufficio della direttrice del carcere, Maria Grazia Giampiccolo. Il teatro consoliderà le attività teatrali, la cui metodologia, apprezzata a livello internazionale, ha modificato la vita all’interno del carcere, non solo per i detenuti, ma anche per tutti gli operatori”. Il primo passo del percorso sarà la richiesta alla Sovrintendenza di Pisa, da parte del Provveditorato alle opere pubbliche dell’esecuzione di saggi archeologici preventivi nello spazio indicato. “Storiacce”, ad agosto le vite di innocenti in carcere Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2019 Conduce Raffaella Calandra. In onda la domenica alle 7.30 e in replica il sabato alle 22.30. In principio fu il caso Tortora, ma non sono così rare le storie degli errori giudiziari, di persone, cioé, finite in carcere da innocenti. A volte, solo per pochi giorni; altre, per più decenni. Tanto che dal 1991 al 2018, sono stati in 55mila ad aver presentato domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. A questo filone sarà dedicato un ciclo speciale di “Storiacce. I Racconti” di Radio 24, sempre condotto da Raffaella Calandra. Cinque puntate in onda la domenica alle 7.30 e in replica il sabato alle 22.30, per ricostruire dalla viva voce dei protagonisti storie di indagini sbagliate, di equivoci, di condanne e poi di revisioni: storie di vite stravolte da errori giudiziari. Dal 1991 al 2018, lo Stato ha già pagato 800 milioni, per aver portato in cella indagati che non avevano commesso nulla. Sono cifre del Ministero della Giustizia, rilanciate dall’associazione “Errori giudiziari”. In queste puntate, Raffaella Calandra racconta la storia di Angelo Massaro, in carcere 21 anni e poi assolto dall’accusa di omicidio; quella di Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 22 anni recluso, per poi essere scagionato; ci sarà la storia di Antonio Lattanzi, arrestato e scarcerato per 4 volte e poi assolto. E infine quella di Peter Pringle, irlandese, 14 anni nel braccio della morte. Le loro storie, insieme ai costi pagati dallo Stato, a riflessioni e analisi sulle ragioni di questo fallimento della Giustizia, nel ciclo estivo di Storiacce, la trasmissione d’inchiesta di Radio 24 condotta da Raffaella Calandra. Per l’ascolto: www.radio24.it. Haters, l’antidoto viene da lontano. La lezione di Berlin e di Montaigne di Mario Garofalo Corriere della Sera, 4 agosto 2019 “La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie” di Giancarlo Bosetti: il saggio edito da Bollati Boringhieri contro il pericolo risorgente dell’intolleranza. Chiusi come siamo nelle nostre “camere dell’eco”, abituati ad ascoltare soltanto le opinioni di chi la pensa come noi attraverso la lente deformante dei social network, stiamo forse tornando ad essere come quegli uomini primitivi che vedevano il centro del mondo nel palo che era conficcato al centro del proprio villaggio o della propria capanna. La loro malattia si chiamava “etnocentrismo”, come spiegava nel 1906 William Graham Sumner, e consisteva nel considerare l’in group, il “noi”, la “tribù”, superiore all’out-group, il “loro”, “gli altri”. La cura, scrive oggi il giornalista e saggista Giancarlo Bosetti, si chiama “pluralismo”, la capacità di uscire dalle nostre echo chambers e di ascoltare La verità degli altri che ha dato il titolo al suo libro (Bollati Boringhieri). Pluralismo, si badi bene, è cosa diversa dal relativismo, che suscita polemiche a volte fondate. Il pluralismo, infatti, riconosce come “umano” un numero limitato di valori: non li persegue tutti, ma ne riconosce in qualche modo la plausibilità e, soprattutto, non rinuncia alla critica dei valori non umani. Per il relativismo, invece, tutto è possibile: ognuno ha i suoi valori e se ci si scontra pazienza. Un pluralista inorridisce di fronte alla pratica di lapidare le donne adultere negli stadi che è in uso presso i talebani in Afghanistan, un relativista si limita a prenderne atto. Questa distinzione tra pluralismo e relativismo era ben presente nel pensiero di Isaiah Berlin, il primo dei dieci eroi del pluralismo passati in rassegna da Bosetti. Il filosofo britannico vedeva in Machiavelli in un certo senso il fondatore del pluralismo. Nel momento in cui contrapponeva i valori pagani di forza, giustizia e coraggio a quelli cristiani di carità, misericordia e sacrificio, certamente Machiavelli parteggiava per i primi, ma nel contempo esponeva al dubbio qualunque costruzione “monista”, basata cioè sull’esistenza di un’unica possibile verità. Era l’inizio di una scoperta: che ci sono principi ugualmente degni e tuttavia in possibile conflitto tra di loro come libertà ed eguaglianza, clemenza e giustizia, amore e imparzialità. In quest’ottica, perfino il mito della torre di Babele assume un’altra connotazione: Dio non era irritato dall’altezza della torre, ma proprio dalla monotonia della lingua. Far parlare gli uomini in tanti modi diversi fu un dono, non una punizione. Così come era un dono quello che Ashoka, sovrano dell’impero Maurya, che si estendeva tra gli attuali Afghanistan e Bangladesh, fece ai suoi sudditi nel III secolo avanti Cristo: una serie di editti in cui rendeva onore a tutte le religioni e disponeva che tutte venissero studiate. E se Michel de Montaigne poneva il dubbio provocatorio se fossero più barbari gli indios della Nuova Spagna che mangiavano i loro nemici o gli occidentali che li bruciavano vivi, è forse quella di Origene la lezione pluralista più gravida di conseguenze. A 33 anni il filosofo predicatore si trovò ad Antiochia di fronte a Giulia Namea, che gli chiedeva consigli per l’educazione del figlio. Giulia era la nipote di Settimio Severo, per le cui persecuzioni il papà di Origene, Leonida, era stato decapitato. Il clima non era dunque quello di una discussione da salotto. Ma Origene ostentò serenità e sicurezza e disse due cose fondamentali. La prima: che i testi sacri non vanno presi alla lettera (la fondazione del “metodo allegorista”). La seconda: che c’è salvezza per tutti, non solo per i cristiani. Ashoka, dal canto suo, non si occupò solo di religioni, scrisse anche di come dibattere in pubblico: “È massimamente padrone di sé chi sa dominare la sua lingua. E non esalti sé stesso e non denigri gli altri”. Un antidoto agli haters ventitré secoli prima dei social network. L’Onu: “Il Califfato virtuale ancora esiste: possibili nuovi attacchi entro la fine dell’anno” di Marta Serafini Corriere della Sera, 4 agosto 2019 Un rapporto delle Nazioni Unite sottolinea come 30 mila miliziani dell’Isis siano ancora vivi. A preoccupare l’accesso ai fondi e la capacità di reclutamento. Nuovi possibili attacchi dell’Isis entro la fine dell’anno in Europa. L’allerta arriva dalle Nazioni Unite. In un rapporto redatto sulla base delle informazioni fornite dalle agenzie di intelligence degli Stati membri viene sottolineato come ad essere particolarmente vulnerabili siano i Paesi europei. A preoccupare sono 30.000 ex foreign fighters, che potrebbero essere ancora vivi. “Le loro prospettive future saranno di interesse internazionale per il prossimo futuro”, afferma il rapporto. In particolare l’attenzione è focalizzata sui 5-6.000 combattenti stranieri che sono partiti dall’Europa verso Iraq e Siria. Di questi, il 75% si è unito all’Isis. Un terzo di questi è morto, mentre il 15% è detenuto nella regione, con il 40 per cento che ha fatto rientro negli Stati di origine. “Alcuni potrebbero unirsi ad al-Qaeda o ad altri gruppi jihadisti. Alcuni diventeranno leader o reclutatori”, si legge. Secondo il Palazzo di Vetro, sebbene il Califfato abbia cessato fisicamente di esistere e gli attacchi in Europa siano diminuiti rispetto al 2015 e 2016, restano in essere tutti gli elementi in grado di alimentare il Califfato virtuale. In testa la radicalizzazione nelle prigioni dove “detenuti colpiti da povertà, emarginazione, frustrazione, scarsa autostima e violenza” diventano facilmente reclutabili. Altro problema la gestione dei returnees, gli ex miliziani partiti dall’Europa e ora catturati in Siria e in Iraq, per i quali gli Stati europei fin qui non hanno adottato una linea comune, preferendo lasciarli nelle mani delle forze curdo siriane. Inoltre i programmi di deradicalizzazione messi in atto “non si sono dimostrati pienamente efficaci”, osserva il rapporto. Ad alimentare il Califfato virtuale, anche il denaro rimasto che potrebbe essere reinvestito nella propaganda. Secondo l’Onu l’Isis ha ancora a disposizione tra i 50 e i 300 milioni di dollari. “Quando avrà il tempo e lo spazio per reinvestire in una capacità operativa esterna, Isis potrebbe condurre nuovi attacchi. Il calo degli attentati, pertanto, potrebbe non durare a lungo, forse nemmeno fino alla fine del 2019”, avvisano gli esperti. Si stima anche che l’Isis “sia in grado di dirigere fondi sia all’interno della zona di conflitto centrale che a livello globale verso le affiliate nella sua rete. Secondo quanto riferito, i jihadisti mantengono l’accesso a denaro nascosto in Iraq, in Siria e nei paesi vicini o custodito da soci di fiducia. Le loro riserve finanziarie sono anche investite in imprese in Iraq, Siria e altrove”. Le pressioni militari sull’Isis hanno avuto “un grave impatto sulla capacità del gruppo di aumentare le entrate in Iraq e in Siria all’inizio del 2019. Ma il gruppo si sta adattando alla sua condizione di insurrezione, facendo affidamento sul contrabbando, sull’estorsione e sui riscatti per mantenere flussi di finanziamento. La leadership dell’Isis richiede alle cellule e alle affiliate di conservare i registri finanziari e di nominare un membro responsabile per le questioni finanziarie”, sottolinea il rapporto. Restano “corrieri per contanti e società di servizi monetari non registrati i metodi più comunemente utilizzati per trasferire fondi a sostegno dell’Isis e Al-Qaeda”. Riconoscimento facciale, flop da Londra agli Usa. “L’algoritmo sbaglia nell’80% dei casi” di Alessandro Allocca La Repubblica, 4 agosto 2019 Test deludenti per la Metropolitan Police: dei 42 sospetti individuati in aree affollate, solo 8 risultati si sono dimostrati attendibili. E negli States sempre più città rinunciano alla tecnologia del Grande Fratello. Intelligenti, ma non abbastanza. Le telecamere usate dalla Polizia di Londra per sperimentare il riconoscimento facciale come sistema di prevenzione al crimine hanno dimostrato di avere un margine di errore dell’80%. Ancora troppo se si vuole davvero identificare i volti. A confermarlo una ricerca condotta dall’University of Essex che ha avuto accesso ai risultati del test condotto dalla Metropolitan Police in alcune delle aree di maggiore densità della capitale inglese: Soho, Piccadilly Circus, Leicester Square e il centro commerciale Westfield. Secondo quanto riportato dai ricercatori, in uno specifico rilevamento effettuato presso l’area di Westfield, l’algoritmo ha individuato 42 persone che sarebbero potute rientrare nella watch list, la lista di coloro attualmente sotto controllo dalla Polizia. Ma di fatto solo 8 erano realmente i sospettati, mentre negli altri 36 casi si è trattato di un errore di riconoscimento, tanto che in ben 26 situazioni gli agenti non hanno ritenuto accettabile fermare le persone in questione perché era evidente l’errore commesso dal sistema. La capitale inglese non è la prima città al mondo ad aver sperimentato il sistema di riconoscimento facciale ottenendo risultati deludenti. Negli Stati Uniti ben tre città hanno già bandito la tecnologia: San Francisco, Somerville e Oakland. “Una ricerca ha concluso che il software è meno accurato per le donne e le persone con la pelle scura, e particolarmente inaccurato per le donne di colore”, ha detto Libby Schaaf, sindaco della città californiana. Ed è sempre in America che esattamente un anno fa si è registrato un altro flop del genere, quando è stato messo alla prova il sistema ideato da Amazon, Rekognition, al quale è stato chiesto di confrontare le 535 foto dei parlamentari americani con quelle contenute in un database di 25mila foto segnaletiche. Nel 5% dei casi è stata trovata una corrispondenza, risultata poi inesistente, tra i volti del Congresso e quelli dei criminali. I maggiori errori di riconoscimento hanno riguardato esponenti politici di colore. Nella City a puntare il dito sul test fallimentare condotto dalla Metropolitan Police è stata l’organizzazione inglese per la tutela dei diritti dei cittadini “Big Brother Watch” che ha dichiarato: “Questa sorveglianza in stile cinese è antidemocratica e non deve trovare spazio in Gran Bretagna”. “Conferma quanto noi stiamo denunciando da tempo: senza una precisa regolamentazione e senza risultati affidabili, questa tecnologia rischia di intaccare il sacrosanto diritto alla tutela della privacy fondamentale in ogni società moderna”, ha aggiunto il direttore Silkie Carlo. La questione è finita anche nella centenaria aula di Westminster portata all’attenzione dei parlamentari dai rappresentanti del comitato scientifico e tecnologico della Camera dei Comuni. Secondo il rapporto del comitato, sembra che oltre all’inaffidabilità del sistema di riconoscimento ci sia anche il problema riguardante l’attendibilità dell’archivio di foto segnaletiche in possesso della polizia che sembrerebbe non aggiornato. Questo farebbe aumentare notevolmente il rischio di errore del sistema. “Non è chiaro se le forze di polizia non siano a conoscenza dell’obbligo di riesaminare le immagini segnaletiche ogni sei anni, o se stiano semplicemente avendo difficoltà a farlo”, afferma il rapporto della commissione. Un altro aspetto che continua a preoccupare non poco le associazioni per la tutela dei diritti dei cittadini riguarda la vendita dei dati raccolti attraverso le telecamere intelligenti capaci di scansionare migliaia di volti, con il risultato di creare un database di dati biometrici. La stessa tipologia di informazioni oggi alla base di molti sistemi di riconoscimento della persona: dall’impronta per accedere al nostro smartphone, al tono di voce per colloquiare con la nostra banca via telefono, o all’iride dell’occhio per aprire porte blindate. Poiché questa tecnologia riconosce i volti in video o foto, confrontandoli in tempo reale con quelli contenuti nelle banche dati, in molte città americane è largamente utilizzata dalla polizia soprattutto negli aeroporti. L’American Civil Liberties Union, insieme a 70 altre organizzazioni, ha chiesto alle aziende produttrici di non vendere più la tecnologia al governo. I limiti posti dall’Ue - In Europa la legge in merito è molto più restrittiva, soprattutto da quando è entrato in vigore nel maggio dell’anno passato il Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati personali. Ad oggi in nessuno dei 28 stati membri dell’Unione Europea è possibile raccogliere dati biometrici senza il consenso del diretto interessato. E, allo stesso tempo, questi non possono essere utilizzati al di fuori di casi specifici come può essere nell’ambito di un procedimento giudiziario, nel settore della sanità pubblica per finalità di sicurezza sanitaria o per motivi di interesse pubblico. Ossia quando è accertato che la persona in questione abbia intenzione di commettere un atto criminale. Russia. A Mosca pugno duro contro la protesta, tra gli 800 arrestati la leader del corteo di Giuseppe D’Amato Il Gazzettino, 4 agosto 2019 Una passeggiata finita male, come del resto era nell’attesa della vigilia. L’azione “Riprendiamoci il diritto di scegliere”, organizzata dalle composite opposizioni, è stata bloccata sul nascere dalle unità speciali anti-sommossa, presenti in forze nel centro della capitale federale. La manifestazione non era stata concordata ed autorizzata, come lo stesso era avvenuto sabato 27 luglio, quando su circa 15 mila partecipanti oltre 1.500 persone erano state fermate e portate per l’identificazione alle stazioni di polizia. Ieri, prima ancora che iniziasse la passeggiata lungo il cosiddetto anello dei giardini, è stata detenuta Ljubov Sobol, l’ultimo capo della protesta a piede libero. Gli altri, al momento, sono dietro le sbarre. Il taxi su cui la donna viaggiava è stato intercettato da una pattuglia della polizia. Avvocato, nota blogger, candidata non registrata alle prossime elezioni municipali dell’8 settembre, la Sobol è in sciopero della fame da 21 giorni. “Le autorità aveva lei detto in un’intervista prima del fermo stanno facendo di tutto per intimidire l’opposizione. Ecco perché oggi è importante mostrare che i moscoviti non sono impauriti dalle provocazioni e sono pronti a continuare a difendere i loro diritti”. Il nocciolo del contendere è che 17 candidati, tutti appartenenti alle opposizioni, non sono stati registrati dalla Commissione elettorale che ha giustificato la propria decisione per delle irregolarità. Da quel momento sono iniziate le proteste, che ogni sabato portano per strada migliaia di persone, principalmente giovani tra i 25 e i 30 anni. Il presidente Vladimir Putin ha consigliato Ella Panfilovna, responsabile della Commissione elettorale, di non ascoltare le lamentele. Le opposizioni non ci stanno e vogliono partecipare al voto a tutti i costi. Asseriscono che la loro esclusione ha una motivazione politica e che i burocrati locali temono che qualcuno, estraneo ai soliti giri, possa mettere finalmente il naso nei ricchissimi conti del Comune di Mosca. Il fulcro della protesta è il gruppo Fbk di lotta contro la corruzione che ha come punto di riferimento il famoso blogger ed attivista, Aleksej Navalnyj, ora in carcere dopo alcune analisi cliniche seguite ad una strana allergia, causata stando ai suoi legali probabilmente da un avvelenamento. In queste ore il Comitato di investigazione nazionale ha annunciato l’apertura di una procedura giudiziaria proprio contro Fbk per aver riciclato un miliardo di rubli (14,2 milioni di euro). Ieri gli Omon hanno fatto abbondante uso dei manganelli e della forza fisica. I social media sono pieni di video sugli scontri. Tanti anche i messaggi registrati dai fermati all’interno dei cellulari che li conducevano alle stazioni di polizia. Non poche sono anche le denunce di fermi di persone che non c’entravano nulla con la passeggiata e che sono finite in caserma. Alla fine della giornata, secondo il sito ovd-info, i fermati sono stati 800 sui circa 5mila manifestanti. Il centro di Mosca è tornato alla normalità soltanto alle 18 dopo che per quasi 4 ore alcune stazioni della metropolitana non erano utilizzabili. Il segnale del canale televisivo Dozhd, che trasmetteva in diretta immagini della manifestazione, ad un certo punto, è saltato. Durante tutta la scorsa settimana si sono svolti i processi contro chi è stato fermato sabato 27 luglio: chi è finito per la prima volta davanti ad un giudice si è beccato una multa da 10 mila rubli (circa 140 euro); chi era recidivo 15 mila; gli organizzatori, chi ha avuto dei ruoli attivi nella protesta oppure chi ha fatto resistenza agli Omon ha subito una pena fino a 30 giorni di detenzione. Come ha riferito una nostra fonte alcuni processi si sono celebrati a tarda sera o di notte giusto “per prenderci ancora più in giro”. Ieri per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, i canali televisivi federali hanno trasmesso un concerto con le stelle della musica nazionale. Le partite del campionato hanno fatto il resto. La morsa dei militari sull’Egitto di Luca Fortis insideover.com, 4 agosto 2019 L’Egitto appare sempre più chiuso in se stesso. I militari hanno sigillato il paese e non ammettono alcuna forma di dissenso. La morte dell’ex presidente dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, avvenuta nell’aula del tribunale che lo giudicava, rende evidente la realtà tragica delle carceri egiziane. Prigioni che divorano le persone, facendole sparire in luoghi in cui non vengono sottoposte a cure mediche nemmeno se la malattia è conclamata, come nel caso dell’ex presidente. Secondo Amnesty International nelle prigioni egiziane vi sono più di 60mila prigionieri politici. Persone che appartengono a tutto l’arco politico del paese, islamisti come laici e studenti. Le persone hanno sempre più paura di parlare. La pietra tombale su qualunque speranza che l’Egitto potesse ancora aprirsi alla società civile l’ha messa il referendum costituzionale, tenutosi a Pasqua, con cui il generale Al Sisi si è garantito il potere nei prossimi anni. Secondo l’Autorità Elettorale Nazionale, l’88,8% degli elettori che sono andati a votare, hanno approvato le proposte di Al Sisi. Le associazioni della società civile denunciano però pesanti brogli e la compravendita di voti. L’affluenza è stata del 44,3%. Il presidente Al Sisi ha così ottenuto che il suo secondo mandato sia esteso da quattro a sei anni. Inoltre, potrà candidarsi a un altro mandato nel 2024. La riforma costituzionale concede poi più potere ai militari, permettendogli di intervenire in politica e dando al presidente un maggior controllo sul potere giudiziario. I tribunali militari potranno inoltre processare i civili per crimini “contro strutture militari, equipaggiamenti, armi, documenti e fondi pubblici”. Se prima questi assalti dovevano essere diretti contro edifici militari, ora anche i civili che attaccano le strutture protette dai militari, come le università pubbliche, dovranno affrontare i tribunali militari. Infine il presidente dirigerà anche il Consiglio Supremo per gli Organi Giudiziari e le autorità che controlleranno il potere giudiziario e avranno di potere di scegliere il capo della Corte Costituzionale Suprema e il pubblico ministero. Ormai è assolutamente chiaro che Al Sisi ha puntato a una restaurazione del potere militare e che a confronto la presidenza di Mubarak era piuttosto liberale. Il nuovo governo ha saputo approfittare delle turbolenze internazionali, dell’incapacità dei ragazzi di piazza Tahrir di costruire un’alternativa democratica e degli errori dei Fratelli Musulmani, per creare un militarismo ancora più forte di quello che ha portato alla rivoluzione. Certo non è sicuro che funzioni, le recenti proteste che hanno portato alla fine del regime di Abdelaziz Boutelfika in Algeria e di quello di Omar Hassan Al Bashir in Sudan, dimostrano che i giochi non sono mai del tutto chiusi. Anche se non sappiamo ancora come evolverà la situazione in questi due paesi, l’accordo raggiunto in questi giorni in Sudan per un governo di transizione dimostra che la società civile è ancora viva in Nord Africa. I militari di Khartoum e i rappresentanti della società civile hanno convenuto di istituire un consiglio sovrano con una presidenza militare e civile a rotazione per un periodo di tre anni. L’accordo vedrà i militari in carica per i primi 21 mesi, poi un’amministrazione gestita da civili per i successivi 18 mesi. Certo l’accordo è ancora molto fragile e non è sicuro che vedrà davvero la luce. Per altro in Sudan i manifestanti continuano a morire per mano di militari. Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Anche in Algeria le proteste continuano da mesi e la gente si aspetta un’apertura alla società civile della politica del paese. Il 5 luglio, giorno in cui si festeggiava l’indipendenza dalla Francia sono proseguite le manifestazioni che da mesi si tengono in tutto il paese. L’attuale Presidente ad interim Abdelkader Bensalah, nel tentativo di rasserenare gli animi, ha indetto una “Conferenza Nazionale per il dialogo” a cui non sono stati invitati membri dello Stato né dell’esercito. “Questo dialogo - ha detto - sarà condotto liberamente e con totale trasparenza da figure nazionali indipendenti che hanno credibilità e che non sono legate a nessun partito”. “Lo stato - ha aggiunto - in tutte le sue componenti, compresa l’esercito, non parteciperà a questo dialogo e rimarrà neutrale per tutto”. Tutto questo fermento nel Nord Africa, guasta i piani del presidente Al Sisi, che dopo la crisi libica e siriana, pensava di poter tranquillamente mettere un bavaglio alla società civile in nome della stabilità interna. L’Algeria e il Sudan dimostrano invece che la guerra civile libica e siriana e la situazione egiziana non hanno intimorito la società civile algerina e sudanese. Il presidente egiziano non può quindi dare per scontato che la società civile non si risvegli anche in Egitto. Le forze armate egiziane non sono poi ancora riuscite a pacificare del tutto il Sinai. Human Rights Watch (Hrw) ha accusato sia le forze di sicurezza egiziane che i jihadisti di commettere “crimini di guerra”. L’Ong ha scritto in un rapporto, fatto intervistando i locali, che “le forze militari e di polizia egiziane sono responsabili della maggior parte degli abusi documentati nel rapporto e che anche i jihadisti abbiano commesso “crimini orrendi”. L’Ong ricorda come nel novembre nel 2017 abbiano attaccato una moschea nella provincia del Sinai settentrionale, uccidendo 235 persone. È stato l’attacco più letale del suo genere da quando nel 2013 è scoppiata la rivolta dei jihadisti nella penisola. Un gruppo collegato all’Isis è sospettato di aver commesso la carneficina, ma nessuno ha ammesso la responsabilità dell’attacco della moschea. Le forze di sicurezza hanno, negli ultimi anni, preso di mira i residenti del Sinai arrestando migliaia di persone. Secondo il rapporto dell’HRW decine di persone sarebbero sparite nel nulla. Anche il canale televisivo Al Jazeera, con in Qatar, storico avversario di Al Sisi, ha accusato l’Egitto di essere diventato “un paese senza legge e senza rispetto per i giornalisti”. Al Jazeera ricorda il caso del giornalista Mahmoud Hussein. Il reporter che era stato appena rilasciato per ordine di un tribunale è stato di nuovo incarcerato nonostante abbia trascorso 890 giorni di detenzione senza accusa. Il giornalista è tornato nella prigione di Tora in Egitto in circostanze poco chiare. Hussein era in una cella di detenzione nel distretto di Giza del Cairo da sabato, mentre aspettava l’autorizzazione definitiva dall’ufficio della National Security Agency. Un tribunale egiziano aveva confermato la decisione del 21 maggio di rilasciare Hussein sotto “misure precauzionali”. La sentenza avrebbe limitato i suoi movimenti, ma lo avrebbe liberato dalla prigione. Invece di essere liberato come previsto il giornalista è stato inspiegabilmente incarcerato di nuovo. Hussein è in custodia dal 2016 senza dover affrontare accuse formali o processi. La carcerazione di centinaia di oppositori, lo spreco di soldi in progetti faraonici come la nuova capitale o il raddoppio del canale di Suez, la corruzione dilagante, la disoccupazione galoppante e le continue diatribe tra l’esercito e la polizia, potrebbero a lungo termine dimostrarsi il tallone d’Achille di Al Sisi. Turchia. L’Ihd pubblica il rapporto semestrale sulle violazioni dei diritti umani retekurdistan.it, 4 agosto 2019 L’associazione per i diritti umani Ihd ha pubblicato il rapporto semestrale sulle violazioni dei diritti umani nelle zone curde. L’organizzazione documenta un amento di torture e rileva: „Il diritto alla vita viene calpestato.” All’inizio della settimana l’associazione per i diritti umani con sede in Turchia Ihd (Insan Haklari Dernegi) nell’ambito di una conferenza stampa a Amed (Diyarbakir) ha pubblicato un rapporto semestrale sulle violazioni dei diritti umani nelle zone curde. La vice-Presidente dell’Ihd Rahsan Bataray nella presentazione del rapporto ha parlato di estese misure repressive delle autorità turche e di un massiccio aumento della tortura, in particolare nelle carceri. Il potere politico avrebbe scosso la vita democratica fino alle fondamenta, l’entità della sempre maggiore frequenza di guerre e il contesto conflittuale sarebbero il maggiore ostacolo per l’esercizio di tutti i diritti individuali e collettivi, in particolare del diritto alla vita, così l’attivista per i diritti umani. Il rapporto fa notare anche un amento del numero di persone armate, la violenza contro le donne e abusi nei confronti dei bambini. Per il primo semestre sono stati documentati 1.567 fermi (tra cui 41 bambini), 222 arresti (tra cui due bambini) e 15 misure di arresti domiciliari. In almeno 65 casi durante la custodia di polizia ci sono stati maltrattamenti o torture, 30 persone sono stata maltrattate o torturate fuori dalle sedi statali, per esempio durante retate o in strada. In questo contesto l’Ihd fa notare in particolare le torture a Xelfeti (Halfeti). Nel capoluogo di provincia a Riha (Urfa) il 18 maggio 51 persone erano state arrestate dopo uno scontro armato, tra cui intere famiglie e minorenni, che nella centrale anti-terrorismo della direzione provinciale di polizia sono state pesantemente torturate. I loro legali avevano lamentato che tutti gli interessati a causa delle torture presentavano ossa fratturate, molti perfino fratture del cranio. Alcuni dei torturati erano stati resi irriconoscibili, nonostante questo gli erano state negate le cure mediche. Tortura sistematica nelle carceri - Ma anche nelle carceri in Turchia la tortura è ampiamente diffusa e avviene tuttora in modo sistematico. Al primo posto delle violazioni dei diritti umani in carcere ci sono i trasferimenti in località lontane dalle famiglie, la negazione di cure mediche, torture e trattamenti indegni di esseri umani, provvedimenti disciplinari, isolamento, il rifiuto di quotidiani e altri media e l’impedimento di visite da parte dei famigliari e l’interruzione della comunicazione nella lingua madre. Come si afferma nel rapporto IHD, tra gennaio e giugno almeno 64 prigionieri condannati sono stati colpiti da tortura e violenza massiccia. Baratay ha dichiarato inoltre: “Nelle carceri nelle regioni curde secondo le nostre informazioni si trovano 1.334 prigionieri malati. 458 di loro sono malati gravi e per via del diniego di cure mediche praticamente sono abbandonati alla morte.” Il rapporto inoltre fa riferimento alla situazione del precursore curdo Abdullah Öcalan e degli altri tre prigionieri sull’isola carcere di Imrali. Con lo sciopero della fame durato mesi contro l’isolamento del fondatore del PKK per la prima volta dopo otto anni è stato possibile produrre nuovamente un contatto tra il 70enne e la sua assistenza legale. Un’altra visita dei legati di Öcalan sull’isola è avvenuta circa tre settimane dopo. Il 5 giugno alla fine i famigliari dei quattro prigionieri hanno potuto visitarli a Imrali. Altre due visite dei legali sono avvenute il 12 giugno e il 18 giugno alla vigilia delle elezioni per il sindaco a Istanbul. Da quando l’AKP il 23 giugno ha perso queste elezioni, a Imrali vige di nuovo l’isolamento totale. Le ultime domande del team di legali non hanno avuto risposta. Le richieste di visita dei famigliari sono vengono rifiutate dal 5 giugno con riferimento all’ordinamento penitenziario. Rahsan Baratay ha dichiarato che il nuovo isolamento rappresenta un ostacolo estremamente pesante nella ricerca di una soluzione pacifica della questione curda. Nessuna vita normale nelle cosiddette zone interdette - Nel rapporto l’IHD inoltre fa riferimento alla situazione di civili curd* nelle zone rurali che vengono continuamente colpiti da coprifuoco perché i loro villaggi nell’ambito di operazioni militari dell’esercito turco vengono dichiarate cosiddette “zone di sicurezza speciali”. Per la popolazione civile questi divieti rappresentano l’isolamento totale dal mondo esterno, ha detto Baratay. „In queste circostante non è possibile uno svolgimento normale della vita quotidiana. Queste persone vengono penalizzate in modo mirato. Con incendi di boschi e estesi nel territorio che si verificano durante le operazioni, le e i cittadin* inoltre subiscono danni economici”. Violenza su donne e bambini - L’Ihd inoltre rileva che la violenza sui bambini, abusi sessuali, lavoro minorile e “omicidi sul lavoro” di bambini, matrimoni infantili, assenza di istruzione nella lingua madre e deficit nel sistema formativo fanno parte delle violazioni più evidenti all’ordine del giorno. In un elenco delle violazioni dei diritti umani nei confronti di donne e bambini nei primi sei mesi dell’anno si afferma: “Sei suicidi di donne e un tentativo di suicidio; 22 donne morte e 17 ferite a causa di violenze da parte di famigliari; 16 violenze contro donne in pubblico, delle quali otto finite con la morte; sette donne stuprate; una donna costretta alla prostituzione; un suicidio infantile e due tentativi di suicidio; due bambin* morti e quattro feriti a causa di violenze da parte di famigliari; un bambin* stuprat* e 17 bambin* colpiti da abusi sessuali; due violenze contro bambin* in pubblico; un bambin* sequestrato e un altro costretto alla prostituzione”. L’organizzazione per i diritti umani nel suo rapporto critica il fatto che sempre più persone si armano legalmente o illegalmente. In dieci anni il numero è almeno decuplicato. Sri Lanka. Presentata l’abolizione della pena di morte, scontro tra primo ministro e presidente di Raimondo Bultrini La Repubblica, 4 agosto 2019 Il presidente firma il via libera all’esecuzione di 4 prigionieri e subito dopo i parlamentari guidati dal premier portano in Aula un disegno di legge per fermare la condanna capitale. Un tempo alleati e oggi divisi quasi su tutto, il primo ministro e il presidente dello Sri Lanka si stanno scontrando in questi giorni anche sul delicato tema dell’abolizione della pena di morte. Il capo dello stato Maithripala Sirisena aveva appena firmato l’autorizzazione alle esecuzioni di quattro prigionieri condannati per reati di droga, quando i deputati di maggioranza guidati da Ranil Wickremesinghe hanno presentato alle Camere un disegno di legge per fermare tutte le impiccagioni, comprese quelle già pianificate. Bloccate presso tutti i tribunali dell’isola, le ordinanze di morte attendono l’esito del dibattito parlamentare che si terrà entro 14 giorni con una prevedibile vittoria del voto per la loro cancellazione tout court. Ma sebbene la legge sia parte di un impegno preso l’anno scorso dal governo di Colombo con l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cambio di regimi commerciali preferenziali, Sirisena sembra deciso a dare battaglia col supporto di una parte consistente dell’opinione pubblica. Ieri ha detto che quanti sono contrari alle esecuzioni “in realtà si oppongono alla costruzione di una nazione decente”, perché “i narcotici - ha aggiunto - sono la causa principale di tutti gli altri crimini (anche gli attentati di Pasqua dei radicali islamici nelle chiese e negli hotel di lusso sono stati attribuiti dal presidente ai cartelli della droga) e ho deciso che “l’esecuzione dei prigionieri sarà un monito per preservare le generazioni future”. L’Unione europea ha fatto sapere che le dichiarazioni di Sirisena “inviano segnali sbagliati alla comunità internazionale e agli investitori”, ricordando che i paesi dell’Ue avevano acconsentito a un regime commerciale privilegiato con l’isola purché venisse applicata una moratoria di 43 anni sulla pena di morte. L’impegno fu preso nel 2016 quando i due leader cingalesi erano ancora alleati e poi ribadito dal governo di Colombo nel 2018. E sulla base di quegli accordi il partito del premier Wickremesinghe ha deciso di opporsi risolutamente alle esecuzioni con un provvedimento a lungo termine, proponendo di commutare le sentenze capitali già comminate in ergastoli. Nella realtà lo Sri Lanka da tempo non manda a morte nessuno e l’ultima esecuzione risale al 1976. Ma dopo la firma di Sirisena due boia erano appena stati assunti dalla prigione dove avrebbe dovuto tenersi l’esecuzione dei 4 trafficanti di droga. In attesa dell’esito della legge presenta dal premier in Parlamento, vale anche per loro la sospensione fino al 30 ottobre decretata dalla Corte Suprema in base alla petizione di uno dei detenuti nel braccio della morte. La pena capitale era stata ripristinata nel Paese nel 2004 dopo l’assassinio di un giudice dell’Alta Corte ed estesa ai reati di stupro, traffico di droga e omicidio. Sudafrica. Il lascito dell’apartheid sul sistema educativo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 agosto 2019 Un quarto di secolo dopo la fine dell’apartheid, il sistema educativo sudafricano resta ancora profondamente carente. Il diritto sancito dalla Costituzione a un’istruzione primaria di qualità decente e per tutti è lungi dall’essere realizzato. Nelle zone più povere del Sudafrica le strutture sono antiquate e precarie, mancano le risorse economiche per impartire un insegnamento di livello sufficiente, gli spazi sono completamente inadeguati. Il 78 per cento degli alunni arriva all’età 10 anni senza saper leggere. Il 61 per cento, a 11 anni, non sa fare un calcolo elementare. Il 46 per cento delle scuole è privo di servizi sanitari. Il 17 per cento degli alunni usa ancora latrine all’aperto pericolose e insalubri. Quasi la metà del milione e 200.000 nuovi iscritti ogni anno si ritirerà alle medie. In tutto, solo il 14 per cento dei bambini e delle bambine termina l’intero ciclo scolastico e può iscriversi all’università. Sembra dunque che dai tempi di Hendrik Verwoerd, l’architetto dell’apartheid, sia cambiato poco. Se oggi potesse guardare in che condizioni è il sistema educativo del Sudafrica, gli scapperebbe un sorriso. In questi giorni Johannesburg è piena di manifesti in cui si vede Verwoerd sorridere. La campagna #SignTheSmileOff di Amnesty International Sudafrica invita tutte le persone che hanno a cuore il diritto all’istruzione a mettere la propria firma sopra a quel volto sorridente. Per cancellare quel sorriso e per chiedere alle autorità sudafricane di garantire il diritto costituzionale all’istruzione entro il 2021. Un’impresa ardua, ma ne va del futuro di un intero paese.