Giustizia, il “borsino” dei ddl: dal fine vita al patrocinio di Stato di Errico Novi Il Dubbio, 31 agosto 2019 Ecco le leggi all’esame del Parlamento. Ci sono sempre due legislature. Una virtuale e mediatica, l’altra reale. La prima viaggia su un binario tutto particolare, disegnato dalle liti quotidiane. La seconda è meno conflittuale. Ed è fatta di proposte e disegni di legge spesso capaci di favorire convergenze più larghe della maggioranza di turno. Solo che lo si dimentica in fretta. Vale in particolare per la giustizia. Tema impervio, causa di una pre- crisi tra Salvini, Bongiorno, Di Maio e Bonafede. Ma anche terreno su cui si sono realizzate alcune tra le sinergie bipartisan del primo anno e mezzo di legislatura. Come sul “codice rosso”, che alla Camera è stato ingegnato nella cooperazione tra maggioranza gialloverde e opposizioni, pur tra diverse iperboli normative. Se la legislatura navigherà davvero in mare aperto, con una lunga rotta, si continuerà ad assistere probabilmente allo stesso mix di scontri virtuali e pratiche parlamentari meno bellicose. Anche se il passaggio dall’asse M5S-Lega a quello tra pentastellati e Pd mieterà qualche vittima in termini di iniziativa legislativa. In ogni caso la geografia dei provvedimenti sulla giustizia tutt’ora all’esame delle Camere suggerisce previsioni variabili. Riguardo ai diritti in generale e alla professione forense in particolare, avrà sicuramente spazio non solo la riforma che sancisce il ruolo dell’avvocato in Costituzione ma anche, per partire da Montecitorio, la legge proposta dal guardasigilli Alfonso Bonafede sul patrocino a spese dello Stato. È in commissione (Giustizia ovviamente), in attesa che ne venga avviata la discussione. Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che avrà un percorso agevolato. Anche tenuto conto che nel provvedimento, nato dalle sollecitazioni del Cnf, il ministro della Giustizia (in via di conferma) valorizza alcune misure del suo predecessore dem, Andrea Orlando: in particolare il decreto di inizio 2018 sui parametri forensi, ai quali viene ora collegata la liquidazione dei compensi per i difensori che assicurano il patrocinio “di Stato”. Ma la Camera sarà teatro, tra qualche giorno, di un’autentica ordalia, con oggetto il fine vita. O meglio: l’aiuto al suicidio, e per essere ancora più specifici la scadenza fin-du-monde del 24 settembre, data in cui la Corte costituzionale ha fissato l’udienza sul caso Cappato. Temerario, seppur non del tutto irragionevole, ipotizzare che di fronte a un solenne accordo politico nella nuova maggioranza, la Consulta possa concedere un ulteriore rinvio di qualche mese per lasciare l’iniziativa al Parlamento. Ed è su una simile, pur difficile ipotesi, che potrebbe scatenarsi una disperata corsa all’accordo tra M5S e Pd. In modo da sbloccare un provvedimento ancora fermo nella commissione Giustizia di Montecitorio. Gli “hit” in tema di giustizia attualmente all’attenzione dei deputati sono finiti. D’altra parte se la riforma di Bonafede su processi e Csm vedrà la luce - come hanno chiesto ieri i gruppi parlamentari del Movimento - sarà incardinata proprio alla Camera. Al Senato invece il programma è più affollato. In ogni caso dovrebbero andare in porto testi come quello della pentastellata Elvira Evangelista, che integra il codice rosso (già entrato in vigore) con ulteriori interventi contro il revenge porn. Piuttosto positivo l’outlook per la pdl sull’assegno divorzile da poco approvata a Montecitorio e trasmessa ai senatori, a prima firma della dem Alessia Morani. Quotazioni favorevoli per la legge del vicecapogruppo 5 Stelle Primo Di Nicola sulle liti temerarie nei confronti dei giornalisti: il querelante che agisce al solo scopo da intimidire il cronista sarebbe condannato a pagare la metà della somma richiesta. Convergenza multipartisan sul testo contro le violenze nei confronti degli animali, avvelenamenti inclusi, firmata dall’altro vicepresidente dei senatori m5s Gianluca Perilli. Provvedimenti, quelli fin qui elencati, sempre incardinati nella commissione Giustizia di Palazzo Madama. Più complicata la situazione della legge delega sulla violenza negli stadi: voluta da Salvini, già approvata a Montecitorio, potrebbe risentire dell’uscita di scena del leader leghista. Meno rischi per il testo sull’ingiunzione veloce di un altro esponente del Carroccio, Andrea Ostellari, che dalla seconda commissione è presidente: l’intesa col M5S sulla legge fin qui c’è stata, tanto che ne è relatore il capodelegazione dei pentastellati Francesco Urraro. Le fibrillazioni vere arriveranno però sulle leggi garantiste già piazzate come mine, da Lega e Forza Italia, in entrambi i rami del Parlamento: quella con cui si elimina la retroattività delle norme che precludono i benefici penitenziari ai condannati per corruzione e un’altra, pure dirompente, con cui l’azzurro Enrico Costa propone di cancellare la “nuova” prescrizione. Sono due nodi sui quali non solo il bon ton parlamentare ma soprattutto la tenuta della nascente maggioranza Pd- 5S saranno messi seriamente alla prova. La carta Pisapia per la Giustizia. Economia, c’è anche Cottarelli di Dino Martirano Corriere della Sera, 31 agosto 2019 “Esprimo sconcerto per il totonomine che viene alimentato da nomi di fantasia”. Così Luigi Di Maio, capo politico del M5S, ha liquidato il problema della formazione della squadra messa in cantiere da Giuseppe Conte, rilanciando poi nel campo del Pd la palla che nasconde l’ossessione (in tutti e due i partiti) per la divisione di seggiole e poltrone nei ministeri. E anche i dem, con il vice capogruppo al Senato Dario Stefano sostengono “che non si sta ancora parlando di nomi”. Il problema, però, stavolta è innescato anche dall’ossessione di Di Maio deciso a non mollare la postazione di vicepremier che, a sua volta, ha attivato un testardo veto della segreteria Zingaretti ancora intenzionata a sbarrare la strada a questo organigramma con i due vice di Conte: uno del M55 e uno del Pd. Sembra ormai chiaro che finché non si risolverà questo nodo tutti gli altri resteranno appesi al primo. Così, nel secondo giorno di incarico, sul block-notes dei collaboratori più stretti del presidente Conte si sono moltiplicate le simulazioni di una possibile formazione della squadra di governo. Con variabili, talvolta impazzite, che danno le stesse caselle ministeriali contese dai due partiti e altre ancora in ballo tra esponenti della stessa formazione. Sempre dovendo tener conto, poi, delle soluzioni anche tecniche (Viminale, Farnesina, Economia e Difesa) costantemente monitorate dal Quirinale. Se i vice saranno due, dunque, i nomi quotati rimangono quelli di Di Maio (ma inizia a circolare anche quello di Riccardo Fraccaro) e di Andrea Orlando (o di Dario Franceschini). Di conseguenza è in alto mare anche la copertura della poltrona strategica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio: in questa postazione, Conte vorrebbe il grillino Vincenzo Spadafora mentre il Pd avrebbe scelto la vice segretaria Paola De Micheli. Per il Viminale, poi, è ancora apertissimo il metodo della scelta (un politico o un tecnico?): rimangono in campo Marco Minniti, Ettore Rosato e l’ex procuratore antimafia, ora parlamentare europeo, Franco Roberti; tra i tecnici l’ex prefetto Alessandro Pansa (senza dimenticare l’attuale capo della polizia Franco Gabrielli). Al ministero della Giustizia dove Conte e Di Maio vorrebbero confermare a tutti i costi il ministro uscente Alfonso Bonafede, si affaccia il nome prestigioso dell’avvocato Giuliano Pisapia (anche lui star delle preferenze alle elezioni europee per il Pd) senza escludere un ritorno in via Arenula per Andrea Orlando, magari con i galloni di vice premier. All’Economia, se sarà il Pd a indicare il titolare di via XX settembre, resiste l’ipotesi di candidare il veterano del Parlamento europeo Roberto Gualtieri (tra i tecnici sarebbe pronto Carlo Cottarelli). Alla Difesa, i militari attendono di sapere se sarà confermata Elisabetta Trenta o se arriverà Luigi Di Maio (con o senza le mostrine di vicepremier). Un ministero senza portafoglio delicato, perché la materia trattata è l’autonomia differenziata, è quello per gli Affari regionali: nel M55 pensano al senatore Vincenzo Presutto, commercialista super esperto in materia così come lo è Vasco Errani (Leu) che è stato presidente dell’Emilia Romagna. Alla Cultura la sfida potrebbe essere tra l’uscente Alberto Bonisoli (M55) e Anna Ascani (Pd) mentre ai Rapporti con il Parlamento/ Riforme sono in lizza Riccardo Fraccaro (M55) e Dario Franceschini. Michele Del Gaudio: un errore la separazione carriere in magistratura di Giampiero Catone La Discussione, 31 agosto 2019 “Non vorrei che una netta distinzione fra giudici e pm possa far cadere questi ultimi nella trappola culturale di essere solo una parte che deve incastrare le persone non inseguire la verità, di considerare una sconfitta l’assoluzione dell’accusato”. Michele Del Gaudio, ex magistrato anticorruzione, già deputato, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, oggi si dedica esclusivamente alla riflessione e al dialogo con i giovani, in particolare nelle scuole, ove spesso vengono adottati i suoi libri. Ma la scelta di abbandonare la scena politica, non gli impedisce di esprimersi su argomenti di interesse pubblico. Condivide la proposta di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri? “Sono nettamente contrario. Ma vorrei cominciare col chiarire che la giustizia è amministrata dalla magistratura, che comprende i giudici e i pubblici ministeri, i cosiddetti pm. I primi decidono chi ha ragione fra cittadini che litigano - ad esempio per motivi condominiali - oppure condannano o assolvono chi è accusato di aver commesso un reato: un furto, una rapina, una truffa. I secondi indagano e accusano chi viola legge. La Costituzione li ha voluti uniti, indipendenti, imparziali, con una cultura comune basata sulla ricerca della verità. Infatti per legge il pubblico ministero deve raccogliere non solo le prove a carico dell’imputato per chiederne al giudice la condanna, ma anche quelle a favore per scagionarlo (articolo 358 del codice di procedura penale)”. Per separare le carriere occorre una modifica costituzionale? “Sì! E precedenti esperienze dimostrano che il popolo italiano è molto legato all’impianto elaborato da 556 donne e uomini nel 1946-47. Anche perché ha compreso che è il risultato di pesi e contrappesi, con il pericolo che eliminando l’uno o l’altro possa frantumarsi l’armonia complessiva”. Molti però sostengono che la comune organizzazione, l’agevole passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle accusatorie, la frequentazione anche fuori dalle aule possono determinare rapporti fra giudice e pubblico ministero che spesso conducono a sentenze appiattite sulle richieste dell’accusa. “Che raramente qualche giudice possa farsi condizionare dall’amicizia con il pm è possibile, ma si tratta di un comportamento sbagliato da punire; senza dimenticare che il giudice può farsi influenzare anche dall’amicizia con un difensore. Insomma siamo nella patologia! Come nel caso di corruzione, favoritismo, impreparazione. Nella fisiologia il giudice decide onestamente”. La sua esperienza personale ha confermato la sua tesi? “Certo. Ho svolto sia funzioni giudicanti che inquirenti e devo dire che ne ho tratto grande giovamento, come penso tutti i magistrati! Giudicare - in particolare in collegio, cioè assieme ad altri giudici - consente di sviluppare equilibrio, umiltà, buon senso, preparazione, professionalità. Essere pubblico ministero abitua alla scelta rapida, alla concretezza, alla necessità di trarre conclusioni realistiche e di non trincerarsi dietro dubbi irragionevoli, alla capacità di discernere la prova - univoca come una testimonianza, un documento - dall’indizio - una coincidenza, un evento con più ipotesi interpretative. Il giudice che ha fatto il pm è più completo e viceversa”. Ma allora perché si insiste tanto sulla divisione? “La motivazione è politica non giudiziaria: il vero obiettivo è la subordinazione del pm al governo, come accade in altri Paesi, per pilotare la sua attività: forte con i deboli, debole con i forti; a favore dei propri interessi, contro quelli degli avversari”. È un po’ forte quello che dice… “Un momento, si tratta solo di opinioni, non pretendo di avere ragione! E poi c’è un altro motivo: non vorrei che una netta distinzione fra giudici e pm possa far cadere questi ultimi nella trappola culturale di essere solo una parte che deve incastrare le persone non inseguire la verità, di considerare una sconfitta l’assoluzione dell’accusato. Le funzioni di pubblico ministero sono essenziali per la democrazia, non possono essere ridotte a partite personali in cui l’imperativo è vincere, non realizzare la giustizia”. Niente custodia cautelare in carcere ai piccoli spacciatori di Matteo Leoni Il Tirreno, 31 agosto 2019 La Cassazione dà torto al pm che aveva chiesto la detenzione per i pusher. In cella solo con una pena sopra i 5 anni. Obbligo di firma per chi non ha domicilio. Spacci droga e vieni arrestato in flagranza? Se hai un tetto dove dormire rischi concretamente di finire agli arresti domiciliari, se invece non ce l’hai puoi star certo che tornerai presto libero. Si tratta di uno degli effetti collaterali del decreto carceri, poi convertito in legge: il paradosso è emerso da una vicenda che ha coinvolto due pusher pizzicati mentre vendevano dosi a Firenze. Per loro il pm Gianni Tei aveva chiesto il carcere. Il giudice lo ha negato proprio in virtù del decreto del 2013, che prevede che la misura cautelare in carcere non sia applicabile ai reati per i quali sia prevista dalla legge una pena inferiore nel massimo ai 5 anni. Il tribunale non ritenne neppure praticabile la misura dei domiciliari, essendo entrambi gli spacciatori senza fissa dimora. Così nei loro confronti scattò la misura dell’obbligo di firma. Il pubblico ministero non la giudicò idonea: mettere una firma due volte al giorno in questura, pensò l’accusa, non ti impedisce di spacciare per tutto il resto della giornata. Così presentò ricorso al tribunale del riesame e, dopo il rigetto, anche alla Cassazione: la terza sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza del marzo scorso, ma di cui si è saputo solo ieri, ha posto fine alla vicenda con un nuovo rigetto, ritenendo infondato il ricorso. L’impossibilità di arrestate in via cautelare chi spaccia piccole quantità di droga ed è senza fissa dimora è una realtà di cui anche i pusher hanno imparato ad approfittare. Nei mesi scorsi, per fare un esempio, nel parco della Cascine a Firenze uno spacciatore è stato arrestato e rimesso in liberà quattro volte in un mese. Perché chi viene arrestato per spaccio di piccole dosi, anche se viene sorpreso in flagranza, non può finire in carcere. Se poi è senza fissa dimora, magari perché irregolare in Italia, nemmeno ai domiciliari. E così finisce che per lui vengono scelte misure cautelari non restrittive, come l’obbligo di firma o il divieto di dimora nel comune dove è stato pizzicato a spacciare. “La norma come è attualmente formulata - scrive il pm Gianni Tei nel ricorso presentato alla Suprema Corte - introduce una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti senza fissa dimora e soggetti che invece dispongono di un domicilio”. Il che, prosegue, “pare del tutto irrazionale” e anche incostituzionale, violando l’articolo 3 della Costituzione secondo cui tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Nel documento presentato alla Cassazione Tei contesta l’interpretazione che il tribunale di Firenze ha dato del decreto carceri: “Si ritiene errato l’automatismo interpretativo applicato dal tribunale del riesame - si legge nel ricorso presentato da Tei - per cui debba essere esclusa a priori per i soggetti privi di domicilio l’applicabilità della custodia cautelare in carcere per i reati per i quali la pena della reclusione inferiore nel massimo ai cinque anni”. Tale automatismo, chiosa il pm, “si trasformerebbe nella rinuncia della tutela sociale della collettività in relazione ai reati commessi dai senza fissa dimora”, che potrebbero continuare a delinquere rivendendo in cambio solo misure “soft” e non restrittive, come appunto l’obbligo di firma. La Cassazione però ha dato ragione al tribunale di Firenze e a quello del riesame, ponendo di fatto un punto fermo per le prossime interpretazioni del decreto. Accattonaggio e rifugio di fortuna non giustificano il foglio di via di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2019 Provvedimento nullo se il mendicante è senza fissa dimora. Il giudice penale può disapplicare l’atto se non si prova la pericolosità. L’accattonaggio e l’abitazione nell’immobile in disuso non bastano per l’ordine di rimpatrio. Il provvedimento è poi nullo se la persona verso il quale è rivolto è senza fissa dimora. La Cassazione (sentenza 36652) respinge il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del Tribunale di assolvere, per insussistenza del fatto, un cittadino rumeno per il reato, che scatta, secondo il Codice antimafia, in caso di mancato rispetto dell’ordine di allontanamento dal Comune, nello specifico Vicenza. Il foglio di via del questore era giustificato dalla pericolosità sociale dell’imputato. Due gli elementi da cui desumerla: la presenza in un’ex concessionaria di auto, non utilizzata ma di proprietà di terzi, ragione perla quale era stato segnalato per la violazione dell’articolo 633 del Codice penale sull’invasione di terreni ed edifici e l’accattonaggio. Per il Pm bastava a integrare il requisito della pericolosità sociale previsto dalla legge, dimostrata anche dalla personalità dell’imputato: viveva con altri connazionali che avevano precedenti penali, era dedito all’accattonaggio e privo di interessi lavorativi o sociali nel contesto cittadino. E se è vero - sottolinea il Pm - che il foglio di via presuppone una doppia imposizione, l’assenza dell’indicazione di un luogo di ritorno, cosa molto frequente per i senza fissa dimora, non comporta una patologia tale da essere analizzata dal giudice penale, che non deve entrare nel merito di un atto amministrativo. L’invito alla Cassazione è ad esprimersi solo sul reato di mancato rispetto dell’ordine di allontanamento - e non sulla nullità dell’atto - magari sulla scia di una precedente sentenza (22687/2013) conia quale, in un caso analogo, lari - sposta era stata affermativa. Per la Cassazione il ricorso è infondato. Il foglio di via poggia sul Codice antimafia che lo prevede quando, le persone dedite alla commissione di reati, siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dal luogo di residenza. I giudici chiariscono che è legittimo da parte del giudice penale disapplicare il provvedimento amministrativo, se la pericolosità sociale è basata su illazioni. Ed è questo il caso. L’accattonaggio non è un reato, salvo il coinvolgimento di minori o nel caso dei racket dell’elemosina, alle ipotesi elencate dalla Cassazione va aggiunto il reato di accattonaggio molesto, introdotto dalla legge di conversione del decreto sicurezza. Né l’assenza di un lavoro può portare a concludere, come ha fatto il questore, che l’unica ragione per frequentare Vicenza, era quella di commettere reati. Per quanto riguarda la legittimità dell’ordine e dunque resistenza del reato, la Cassazione prende le distanze dalla sentenza invocata dal Pm e abbraccia un diverso orientamento, secondo il quale il giudice penale ha il potere-dovere di verificare la conformità alla legge dell’atto amministrativo: la mancata indicazione del luogo in cui far rientro lo rende non valido. La conclusione raggiunta è in linea anche con l’articolo 16 della Costituzione, che tutela il diritto alla libera circolazione e di soggiorno, salvo motivi di sanità e sicurezza. I giudici ricordano che il foglio di via deve garantire anche chi lo riceve ed è nel suo interesse che la destinazione sia fissata dalla legge. Altrimenti diventa un bando. Perugia: si suicida un detenuto tunisino di 37 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2019 È stato ritrovato impiccato in cella. Era recluso in isolamento, dove aveva chiesto di essere trasferito, ma nonostante avesse avuto in dotazioni lenzuola di carta è riuscito nel suo intento. Continuano i suicidi di persone sottoposte a isolamento. Ieri mattina, un detenuto tunisino di 37 anni è stato trovato impiccato in una cella di isolamento della Casa circondariale Capanne di Perugia, in Umbria. A darne per prima la tragica notizia e ricostruire l’accaduto è Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “L’uomo si è suicidato in una cella dove era isolato per motivi disciplinari. Nordafricano, 37 anni, fino a mezz’ora prima aveva parlato con l’agente di servizio ma nel successivo giro di controllo è stato ritrovato impiccato alle sbarre della finestra. L’uomo è stato prontamente soccorso dal personale di polizia penitenziaria e tempestivamente sono intervenuti il medico che hanno provato più volte a rianimarlo ma non c’era più nulla da fare”. Il tunisino è stato arrestato ad aprile per tentata rapina con fine pena nel 2020. Secondo però la ricostruzione esatta degli eventi, risulta che in realtà aveva chiesto lui, il giorno prima del tragico evento, di essere trasferito nella sezione circondariale all’isolamento. Per questo motivo lo avevano messo nella stanza 5, quella riservata ai nuovi giunti. Si apprende che gli hanno fornito solo lenzuola di carta, ma nonostante ciò si è impiccato. Altri dettagli, per ora, non si conoscono. Siamo così giunti a 32 suicidi dall’inizio dell’anno su un totale di 84 decessi che sono avvenuti nelle patrie galere. Senza contare i numerosi casi di tentato suicidio come la una detenuta di 40 anni al carcere di Avellino che quattro giorni fa è stata ricoverata d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Moscati. Avrebbe digerito un cocktail di farmaci per tentare di ammazzarsi. O ancora, una settimana prima, al 41 bis del carcere de L’Aquila un detenuto calabrese, salvato in extremis, che ha tentato di impiccarsi. Ancor prima, all’inizio di agosto, nel carcere di La Spezia, a pochi giorni dal suicidio di un detenuto polacco, si è ripetuto l’episodio con un tentato suicidio da parte di un altro recluso. L’intervento degli agenti della Polizia penitenziaria ha evitato un’altra morte in carcere. Ancora, a metà agosto, nel carcere di Asti, un detenuto ha creato un cappio rudimentale con le lenzuola della cella del reparto di isolamento dove si trovava. Ma prima dell’ultimo suicidio del tunisino in isolamento al carcere di Perugia, ce ne era stato un altro al carcere di Trieste: iracheno e pure lui era in isolamento. Ritorna spesso l’isolamento, quando si tratta di suicidi o tentati. Il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Si chiamano così perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. E proprio il tema de l’isolamento in ambito carcerario, come riportato ieri da Il Dubbio, sarà all’attenzione, a Strasburgo, della ventiduesima riunione del Gruppo di lavoro del Consiglio di cooperazione penologico (Pc-cp) del Consiglio d’Europa. Il Pc-cp, composto da esperti in materia penitenziaria (magistrati, direttori di carcere, ecc.) dei vari Stato membri, affronterà per la prima volta questo tema di estrema importanza. Soprattutto per il nostro Paese, dove è concepito ancora l’isolamento diurno per gli ergastolani e quello totale per chi è al 41bis. Perugia: carcere di Capanne, dopo il suicidio rivolta nelle celle umbria24.it, 31 agosto 2019 Un 37enne è stato trovato senza vita mentre era in isolamento per motivi disciplinari. Scatta la protesta con materassi incendiati. Nuovo caso di cronaca dal carcere perugino di Capanne. Dopo la rivolta con un agente preso in ostaggio da alcuni detenuti di un paio di giorni fa, stavolta un detenuto straniero di 37 anni si è tolto la vita impiccandosi. Lo riferisce il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, spiegando che l’episodio è avvenuto venerdì mattina. Episodio che ha poi suscitato la rivolta di alcuni detenuti, che ha causato una decina di feriti tra gli agenti. Impiccato in cella - “L’uomo - spiega il segretario nazionale Fabrizio Bonino - si è suicidato in una cella dove era isolato per motivi disciplinari. Nordafricano, 37 anni, fino a mezz’ora prima aveva parlato con l’agente di servizio ma nel successivo giro di controllo è stato ritrovato impiccato alle sbarre della finestra. L’uomo è stato prontamente soccorso dal personale di polizia penitenziaria e tempestivamente sono intervenuti il medico che hanno provato più volte a rianimarlo ma non c’era più nulla da fare”. Rivolta - Il sindacato Sappe riferisce poi di una “folle e irrazionale reazione di alcuni detenuti”. “Qualcuno - spiega Bonino - ha messo in circolo la falsa e assurda notizia che il detenuto sarebbe stato ucciso e questo ha indotto gli altri detenuti, ristretti nei quattro piani del Reparto circondariale, a bruciare materassi e a dare corso a folli e forti proteste. Direttore e comandante del carcere hanno disposto per il personale di polizia penitenziaria in servizio di disporsi in assetto anti-sommossa, ma per fortuna non è stato necessario intervenire. Certo, avere propalato una notizia falsa è stato assurdo e folle, ma la polizia penitenziaria ha saputo fronteggiare anche questi drammatici eventi”. Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, preannuncia una assemblea pubblica del sindacato ed una conferenza stampa fuori del carcere di Perugia la settimana prossima: “la situazione a Capanne è allarmante e servono urgenti interventi. Non c’è tempo da perdere, altrimenti la bomba esplode”. Diversi focolai - Secondo un altro sindacato, l’Osapp, i detenuti “sbattevano i “blindi” - riferisce il vice segretario Angelo Romagnoli a Umbriajournal - i piatti e tutto ciò che potevano trovare. A loro dire saremmo stati noi della polizia penitenziaria la causa della morte del detenuto che si è impiccato questa mattina. Il direttore del carcere, Bernardina Di Mario e il comandante sono saliti su nei reparti - con loro c’era l’equipe “trattamentale” (educatori) per cercare di placare gli animi e cercare di ristabilire un dialogo. I detenuti - spiega ancora il sindacalista - non hanno capito e hanno continuato nella loro protesta. La situazione è diventata drammatica, in quanto hanno cominciato ad incendiare i materassi nelle varie sezioni e sono stati appiccati 5 o 6 focolai. A quel punto è stato necessario utilizzare mezzi anti sommossa per placare la rivolta e riportare la calma all’interno dell’istituto. E dopo circa tre ore e mezzo è stata riportata la calma all’interno del carcere di Capanne”. Intervenga il ministro - “Un immediato intervento del ministero e del Dap presso il carcere di Capanne a Perugia” è stato sollecitato al Ministro Bonafede dai parlamentari umbri del Pd Walter Verini e Nadia Ginetti, dopo la grave situazione venutasi a verificare presso l’istituto. “È una situazione davvero molto tesa. Abbiamo contattato direttamente il Ministro perché è necessario che si diano subito segnali concreti di attenzione e di vicinanza alle forze di polizia penitenziaria, cui va la nostra solidarietà e si prendano concreti provvedimenti per allentare la tensione e mettere tutto il personale nelle condizioni di svolgere il loro delicato lavoro”. Perugia: parla il cappellano “i detenuti hanno bisogno di essere impegnati” umbriaoggi.news, 31 agosto 2019 Intervista a padre Francesco Bonucci dopo i fatti di cronaca degli ultimi giorni: “Con il comune stiamo studiando progetti per reinserire i detenuti attraverso il lavoro”. Nuovi disordini nel carcere di Capanne, a Perugia, dopo che, nei giorni scorsi, un assistente capo della polizia penitenziaria era stato tenuto in ostaggio per circa mezz’ora con una lametta al collo da due detenuti. Nella mattinata di venerdì c’è stata una “rivolta” in due sezioni del reparto circondariale e i poliziotti hanno impiegato circa due ore per riportare la calma. I detenuti hanno bruciato materassi, lenzuola e coperte, hanno lanciato oggetti ed hanno rumoreggiato sbattendo oggetti contro le sbarre. “E del tutto evidente che la situazione di Perugia Capanne è diventata insostenibile, non si capisce cosa si aspetti ad intervenire con provvedimenti immediati”, afferma la segreteria regionale Umbria della Uil pa, che “è pronta a manifestare per rivendicare i propri diritti e le garanzie dei lavoratori di Perugia capanne”. Anche il Sappe, in una sua nota, sottolinea che “la situazione a Perugia Capanne necessità di urgenti interventi e provvedimenti ministeriali che non posso più essere rinviati” e annuncia che “è pronto a scendere in piazza per rivendicare più tutele e garanzie per chi lavora in carcere a Perugia”. Le parole del cappellano: “Il sistema carceri è in difficoltà” Sovrannumero dei detenuti, carenza di personale, difficoltà nelle attività ordinarie: secondo il cappellano del carcere di Capanne, padre Francesco Bonucci, è tutto il sistema carceri a manifestare molte criticità. Ai microfoni di Umbria Radio, padre Bonucci racconta il suo punto di vista da osservatore privilegiato. Il sacerdote un conforto per detenuti e agenti “La mia presenza funge da sostegno e sfogo per tutti, anche per i detenuti di religione diversa” racconta padre Bonucci. Una presenza che fa sentire i carcerati anche più ascoltati e gli agenti più accompagnati. Tra le emergenze delle carceri italiane, secondo padre Bonucci la più importante riguarda la scansione delle giornate dei detenuti: “Le persone hanno bisogno di essere impegnate” dice il frate, che poi parla anche dei progetti in ballo con il Comune di Perugia. Avellino: mancano farmaci e infermieri, la vita quasi impossibile dietro le sbarre irpinianews.it, 31 agosto 2019 Colloqui con circa 40 detenuti, per una visita complessiva di oltre cinque ore. Come ogni mese, Carlo Mele - Garante provinciale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - e Giovanna Perna - avvocato penalista del Foro di Avellino e componente esperto del Tavolo del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - hanno “ispezionato” il carcere di Bellizzi. Lo fanno ormai da tempo, in tutti gli istituti penitenziari della provincia di Avellino. Faccia a faccia con i detenuti, cercando di capire tutto quello che non va dietro le sbarre, provando anche a lenire, seppur per poco, qualche disagio. Ma, soprattutto, sono i loro portavoce all’esterno. Continua ad essere l’aspetto sanitario, anche sulla base degli incontri di questa mattina, il nervo scoperto del carcere di Bellizzi. “Mancano i farmaci e già questo, di per sé, è un aspetto inquietante”, afferma Mele. Ma, nel complesso, è proprio l’assenza di certezza di un presidio sanitario completo dietro le sbarre, a preoccupare maggiormente. Non mancano soltanto i farmaci. Mancano anche gli infermieri, non ci sono psichiatri. Sono tutti aspetti fondamentali, ai quali va data una risposta, anche immediata, se possibile”. Proprio per questo motivo, Mele si è già messo in contatto con il nuovo direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl di Avellino, Pietro Bianco. Ci sarà un incontro nei prossimi giorni. Ma non è solo la sanità ad essere carente. Un altro problema atavico, che influisce negativamente sulla vita carceraria a Bellizzi, è il sovraffollamento. “Abbiamo ormai raggiunto un numero di detenuti che supera del 20% quello che sarebbe normale ospitare. A questo si aggiunga che non ci sono attività sociali o di recupero dei detenuti”. Insomma, il quadro è a tinte fosche. “Come ha detto l’avvocato Perna - sottolinea Mele - nel carcere di Bellizzi servirebbe fermarsi con una brandina. Sono talmente tanti e diversi tra loro i problemi dei detenuti che cinque ore all’interno dell’istituto proprio non bastano”. Asinara (Ss): Gianmaria Deriu “io, ultimo custode sull’isola del Diavolo” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 31 agosto 2019 All’Asinara ha conosciuto gli uomini più pericolosi d’Italia: “Alcuni sono diventati amici, una volta usciti sono venuti a trovarmi. Riina? Non ho voluto averci a che fare: avevo conosciuto Falcone e Borsellino, le stragi per me sono state un colpo al cuore”. Ti racconta di “zio Paolino”, delle sue capre, di quanto era bravo ad accudirle nell’ovile dell’Asinara mentre scontava la sua condanna per omicidio. “Si dedicava al nostro gregge come fosse il suo. Sarà che io sono molto sensibile a queste cose perché vengo da un paese di pastori ma gli ero proprio affezionato...”. Lo chiamava zio perché poteva essere un parente e comunque così lo trattava, “tanto che spesso gli portavo mia figlia piccola che con lui si divertiva”. Seduto al tavolino del piccolo bar di Cala Reale, occhiali scuri e caffè, Gianmaria Deriu è in vena di confidenze. E sorprende un po’ perché lui era un ispettore del carcere e le belle parole sono per un detenuto, persona sulla quale un tempo vigilava. Premessa: il sessantenne Deriu è il solo ex agente rimasto sull’isola dopo la chiusura del penitenziario (1998) dove arrivò appena ventenne: “Non ho avuto la forza di andar via, io sono innamorato di questo mondo così unico, di questi silenzi...”. È praticamente l’unico vero abitante dell’isola del Diavolo, l’Asinara. Vive in solitudine nel vecchio palazzo Reale dove un tempo soggiornavano i Savoia e dove lui ora lavora per l’ente Parco. Perché l’isola è oggi un parco nazionale protetto. Asini, capre, cavalli, pernici, che girano liberi fra le strutture della vecchia colonia penale, al cospetto di un mare cristallino. Ed è lì che vanno i pensieri di Deriu, al carcere di un tempo e al rapporto speciale che lui aveva con vari detenuti che gli sono rimasti incredibilmente amici. “Se vuoi lo chiamo e gli chiedo se puoi scrivere il suo nome”. Fa il numero e quando l’altro risponde, s’illumina. “Ehi, zio Paolino, come stai?... Ti sei appena buttato a letto. Ti disturbo allora... Io tiro avanti... Senti un po’, c’è qui un giornalista e gli ho raccontato di quanto ti ho nel cuore, può scriverlo il tuo nome?... Bene dai, un abbraccio grande, ti voglio sempre bene”. Zio Paolino è dunque Paolo Picchedda di Albagiara (Oristano), oggi ottantenne, che all’Asinara scontò tredici anni per omicidio, fino al 1998 per poi essere trasferito altrove. A volte in carcere nascono delle insospettabili amicizie. Come questa, fra guardia e prigioniero. Chiacchierano, scherzano, ridono. Di tanto in tanto Picchedda va pure a trovarlo all’Asinara, anche perché ha un ricordo piacevole dell’isola. “Gianmaria è un grande uomo”, ci dice al telefono. “Quegli anni li ho passati bene, avevo 1.400 capre, non mi sembrava nemmeno di essere un detenuto e quando me ne sono andato mi è dispiaciuto. Appena posso ci torno. L’anno scorso Gianmaria mi ha anche ospitato tre giorni a Palazzo Reale...”. Il loro legame non è un caso unico. Deriu è infatti rimasto in contatto con diversi reclusi della colonia penale. “Un altro è Peppe, il meccanico, quello aveva le mani d’oro, un grande ingegno... Mi piaceva anche perché con lui l’officina era sempre molto ordinata e pulita... Aspetta che lo chiamo...”. Fa il numero di Peppe, condannato per traffico di droga e altro. “Ehi, carissimo, tutto bene...? Gli ho raccontato della ruspa che avevi smontato e rifatto... E quella volta del cinghiale? Ah ah, che ridere... Bei momenti Peppe. Conservo sempre un bel ricordo di te anche se eri in galera... Va bene, niente nome, ciao. Passa a trovarmi”. Peppe non vuole essere citato e Deriu rispetta il desiderio: “È tutta gente che ho nel cuore”. I suoi ricordi sono una galleria di personaggi, perché dall’Asinara sono passati uomini che hanno fatto la storia del crimine, assassini, sequestratori, capi terroristi rossi e neri, boss di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta. Deriu li ha conosciuti un po’ tutti. “Andiamo alla Scomunica che ti racconto”. La punta della Scomunica è la “cima” dell’isola, 408 metri. “Il mio rifugio, ci vado quando voglio riflettere”. Come se vivere in un’isola praticamente da solo non gli bastasse a raccogliere i pensieri. Ci andiamo con un fuoristrada che Deriu normalmente usa per intervenire su qualche emergenza di questi 52 chilometri quadrati di territorio ondulato dove c’è sempre almeno un turista in difficoltà. Attraversiamo il piccolo borgo di Cala d’Oliva che ha una storia singolare. Qui c’è la casa rossa sul mare dove nell’agosto del 1985 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, minacciati dalla mafia, si trasferirono con le famiglie per scrivere la sentenza del maxi processo di Palermo contro Cosa Nostra. E duecento metri più in là c’è il carcere bunker che nel 1993 recluse il capo dei capi, Totò Rina: “Ho rifiutato il servizio quella volta, è stato l’unico rifiuto della mia carriera. Il direttore mi aveva chiesto di fare qualche turno ma ho detto mi spiace, non ci riesco”. Motivo? “Con Falcone e Borsellino avevo stretto una bella amicizia. Le stragi sono state per me un colpo al cuore. E per questa ragione ho preferito stare lontano da Riina”. Iniziamo a salire verso punta della Scomunica, sei chilometri di sterrato sconnesso. Si corre, si salta, si balla, fra arbusti, garitte e muli bianchi che spuntano in qua e in là senza timori. “Guarda lì, in quel campo lavorava Elia Martella, detenuto modello, era dentro per un delitto passionale. Aveva un mulo e curava un orto. Quando se ne andò chiese di portarsi il mulo ma gli dissero di no e dopo poco, senza Elia, il mulo morì”. Ancora un paio di chilometri di buche ed eccoci alla meta, la cima che ama. Deriu scende, raggiunge una roccia e ci invita a guardare la sua isola, che da quassù sembra una grande clessidra. “Stupenda”, sorride cercando il refrigerio del vento. “Vedi com’è? Vedi il mare di fuori, da quella parte c’è Cala Tappo”, indica. “Boe è scappato da lì”. Matteo Boe, il bandito di Lula che qui ha scritto una pagina epica per essere riuscito, unico nella storia, a evadere. Primo settembre 1986. Con l’aiuto di un altro detenuto, tramortì una guardia e fuggì a bordo di un gommone portato sull’isola dalla sua donna. Era Laura Manfredi, una modenese figlia di imprenditori che lui aveva conosciuto all’Università di Bologna dove studiavano entrambi. Boe fu poi catturato e ricondannato, facendosi così 25 anni di galera che ha finito di scontare nel 2017. “Per un agente l’evasione è sempre una sconfitta ma io non riservo mai rancore, di indole tendo a metterci una pietra sopra”. Ha rivisto anche Boe? “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. C’è un codice non scritto che regola questi rapporti e che vale soprattutto con certi detenuti. Deriu lo conosce bene, lo rispetta e sa dove si deve fermare. Come sa che di altri qualcosa può dire. I brigatisti e i neofascisti, per esempio. All’Asinara sono finiti leader come Renato Curcio, Alberto Franceschini, Pierluigi Concutelli. “Franceschini si è commosso quando mi salutò per andarsene. È venuto poi due volte a trovarmi, ci sentiamo spesso...”. Deriu riflette: “Dopo tanti anni gli animi si quietano. Si trova una certa pace, una certa serenità. Ai vecchi detenuti chiedo sempre se stanno bene, se lavorano. Mi fa piacere che la loro vita abbia un senso... Non ho mai visto in loro dei criminali, non solo almeno. In ciascuno c’era del buono, c’erano delle qualità...”. Zio Paolino faceva sorridere le capre, Peppe rianimava i motori, Elia amava il mulo. Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila di Paolo Foschini Corriere della Sera, 31 agosto 2019 La maggior parte dei maltrattamenti si verifica in famiglia. Il piano per contrastare le violenze sui minori: stanziati 15 milioni dalla Fondazione “Con i bambini”. Novantuno mila. È il numero dei bambini che nel nostro Paese, secondo uno studio realizzato a più mani, tra cui quelle dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, sono a vario titolo “vittime di maltrattamento”. La maggior parte di questi casi si verifica in ambito familiare o domestico. E viene comunque portata a termine da persone di cui i bambini “si fidano”. O sarebbe meglio dire “si fidavano, prima che...” il sogno di quella fiducia venisse strappato. Per questo è suggestivo che il titolo del progetto dedicato a loro dalla Fondazione Con i bambini - la quale vi ha destinato 15 milioni - sia proprio “Ricucire i sogni”: quinto bando promosso dalla Fondazione nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’iniziativa più in generale è rivolta non solo ai bambini ma alla “cura e protezione degli adolescenti vittime di maltrattamenti nonché alla prevenzione e al contrasto di ogni forma di violenza verso i minori di 18 anni”. Lo studio cui si è accennato in apertura (“Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia”) è stato condotto insieme con l’Authority dal Cismai (Coordinamento italiano servizi maltrattamento all’infanzia) e da Fondazione Terre des Hommes Italia. I dati cui fa riferimento sono del 2015 e sono i più completi se si vuole avere uno spaccato delle cose su tutto il territorio. La fotografia dice che in Italia circa 50 minori ogni mille sono seguiti dai servizi sociali: il che tiene dentro tutti i tipi di situazione, quindi anche quelle legate non per forza a violenze bensì a tutta la galassia delle condizioni familiari difficili. In questo totale però sono compresi i 91mila casi di cui sopra. E i numeri confermano che la causa principale della gran parte dei reati compiuti sui bambini è connessa alla violenza domestica: in Italia nel 2016 - su questo aspetto i dati sono disponibili anche per l’anno successivo a quello del Rapporto - i reati sui bambini “vittime di maltrattamento in famiglia” sono stati 1.618 (nel 51 per cento dei casi si tratta di bambine), con un incremento del 12 per cento rispetto all’anno precedente. E proprio perché a differenza di altre situazioni qui esiste un contesto preciso su cui lavorare la prevenzione è possibile. Con programmi anche di lungo periodo. Come spiega Carlo Borgomeo, presidente di Con i Bambini, illustrando le premesse del progetto: “I bambini hanno il diritto di sentirsi protetti e al sicuro in tutti gli ambienti in cui crescono, a cominciare dalla casa. Maltrattamenti, abusi e violenze lasciano traumi indelebili nella vita dei ragazzi, impedendo loro uno sviluppo pieno. Per questo, il nuovo bando di Con i Bambini vuole stimolare la prevenzione e il contrasto del maltrattamento dei minori, attraverso interventi che restituiscano a bambini e adolescenti un diritto umano inalienabile: quello alla protezione e alla cura”. Le proposte dovranno essere presentate da un partenariato composto da almeno tre organizzazioni (il soggetto responsabile deve essere un ente del Terzo settore) e dovranno mirare a potenziare i servizi già esistenti di protezione e cura dei minori, o a realizzarne dei nuovi. Inoltre dovranno prevedere attività complementari: supporto alla genitorialità, formazione di professionisti sul tema del maltrattamento (capacity building) e programmi informativi e di sensibilizzazione dell’intera “comunità educante” per riconoscere e affrontare i primi segnali di violenza, e incoraggiare le vittime a denunciare. La novità - non tale in assoluto, ma certamente notevole in una formulazione così esplicita e molto significativa soprattutto alla luce dei fatti di cronaca recenti come quelli di Reggio Emilia - è la raccomandazione di individuare metodi di controllo affinché i bambini siano protetti anche da chi dovrebbe aiutarli e magari non è abbastanza bravo, diciamo così, mentre quest’ultimo sia a sua volta aiutato a restare bravo se già lo è. Si chiama “Child Safeguarding Policy” e consiste nell’adozione di adeguate procedure per “tutelare i minori dai rischi di abuso, maltrattamento, sfruttamento e condotta inappropriata da parte degli operatori”. Ma a queste dovranno aggiungersi ulteriori procedure interne per “prevenire il rischio di stress lavoro-correlato e/o di burn-out degli operatori coinvolti”. Oltre a “Ricucire i sogni” la Fondazione ha rinnovato la linea di “cofinanziamento” a enti del Terzo settore e privati per altre iniziative nell’ambito del percorso contro la povertà educativa minorile in tutta Italia. E con un budget complessivo di dieci milioni coprirà il 50 per cento dei costi dei progetti. Il Conte bis alla prova delle migrazioni di Stefano Catone possibile.com, 31 agosto 2019 “Taxi del mare”, “complici degli scafisti”, “sostituzione etnica”, “non possiamo prenderli tutti”, “aiutiamoli a casa loro, davvero”. Sono queste le parole che, negli ultimi anni e qualsiasi fosse il colore politico del governo, hanno descritto le politiche migratorie del nostro paese. Oggi la domanda non può che essere: sentiremo ancora le stesse parole, dagli esponenti del governo che sta per nascere? La traduzione normativa di quelle parole è passata attraverso accordi con la Libia, codici di condotta per le Ong finalizzati a un loro allontanamento “volontario”, minori garanzie per i richiedenti asilo e i rifugiati, per poi passare allo smantellamento di un sistema di accoglienza già precario, ancor meno garanzie per i richiedenti asilo e i rifugiati, fino alla vera e propria criminalizzazione delle Ong. Il tutto, mentre sotto i nostri occhi avvenivano respingimenti a opera della guardia costiera libica, mentre si consumavano ancora stragi in mare, mentre centinaia di persone in difficoltà sono state tenute per settimane a friggere su imbarcazioni inadeguate a questo servizio. Gli occhi, inoltre, abbiamo continuato a tenerli chiusi di fronte alle notizie, alle conferme, alle testimonianze, ai report che ci raccontano quel che avviene nelle carceri libiche. Il Partito Democratico rinnegherà la “dottrina Minniti”, fatta di patti di sangue (così furono definiti) con “sindaci” libici e di accordi con la guardia costiera libica (qualsiasi cosa voglia dire) per evitare le partenze dalla Libia? Il Movimento 5 Stelle, che in questi mesi ha ingoiato tutto ciò che ha attuato Matteo Salvini, abbandonerà la narrazione fasulla per cui compiere i salvataggi in mare vorrebbe dire essere complici dei trafficanti? Le risposte le sapremo a breve. Le nostre, come sempre, parlano di sicurezza delle persone in mare e a terra (in Libia, per la precisione), di un sistema di accoglienza rigoroso ed efficace, in grado di includere e tutelare, di canali di ingresso sia per ragioni umanitarie che per ragioni lavorative attraverso una radicale riforma della legge Bossi-Fini. Di fronte a chi vuole dividerci, le risposte, infatti, non possono che passare dalla coesione sociale. Conte bis ne sarà in grado? Avrà il coraggio di slegarsi da una narrazione tossica e dalle sue tossiche conseguenze? Migranti, il difficile compromesso Pd-5S su flussi, navi umanitarie e centri in Libia di Francesco Grignetti La Stampa, 31 agosto 2019 C’è è un tema che più di tutti agita i partiti: l’immigrazione. Qui si giocano ormai i destini dei governi e così sarà anche per le prossime campagne elettorali. Non meraviglia che siano bastate poche parole di Luigi Di Maio, ieri, quando ha voluto ribadire che non ha “alcun senso parlare di modifiche ai decreti Sicurezza”, a far traballare per un giorno la nascita stessa del governo Conte-bis. Appunto perché, al fondo, parlava di immigrazione. Ora, dopo che Matteo Salvini ha imperniato 14 mesi di attività quasi esclusivamente sul contrasto all’immigrazione, spingendo fino all’inverosimile su “cattivismo” e guerra alle Ong, il Pd proprio sull’immigrazione chiedeva di cambiare registro, ovvero di “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori fondata su principi di solidarietà, legalità sicurezza, nel primato assoluto dei diritti umani, nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali e in una stretta corresponsabilità con le istituzioni e i governi europei”. Quando però è emerso che il Pd voleva aggredire i due decreti Sicurezza tanto cari a Salvini, come segno concreto della “discontinuità”, i grillini si erano irrigiditi. La risposta, se così si può dire, è stata una firma inattesa. Quella dei ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, i quali, su richiesta di Salvini, pur essendo in rotta su tutto, hanno condiviso un ennesimo divieto di ingresso nelle acque territoriali per la nave umanitaria “Eleanore”. Con le parole di Di Maio, a questo punto è chiaro che i grillini ricercano un difficile equilibrio tra difesa delle posizioni vecchie e concessione alle nuove. La loro linea, l’hanno esplicitata con uno dei 20 punti presentati a Giuseppe Conte: “Contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani, con politiche mirate dell’Unione Europea nei Paesi di provenienza e transito. Oltre alla modifica del Regolamento di Dublino”. Sembrerebbe insomma che le posizioni dei due partiti siano abbastanza consonanti, fondamentalmente sul buttare la palla nella tribuna di Bruxelles. Ma i problemi veri verranno non appena il governo giallo-rosso, se mai nascerà, si confronterà con un nodo terribilmente pratico oltre che simbolico: che fare con la Guardia costiera libica? Continuare a finanziarla e supportarla, come peraltro fa l’intera Unione europea, o chiuderla lì? La discussione attraversa entrambi i partiti. Dentro il Pd si confrontano quantomeno due linee, che si personificano in Marco Minniti (che la Guardia costiera libica ha contribuito a rifondarla) e Matteo Orfini. Dice quest’ultimo: “Secondo me è stato un errore dare ai libici il mandato di contenere i flussi migratori, disinteressandosi poi se rispettavano o no i diritti umani di chi veniva riportato a terra. Io non me la sento di festeggiare il calo degli sbarchi, se questo significa che le persone vengono torturate nei centri di detenzione in Libia”. È già successo che il Pd si sia spaccato sul da farsi con la Guardia costiera libica. Accadeva il 3 luglio scorso, quando c’è stata una accesa discussione nei gruppi parlamentari sul rifinanziamento ai libici e alla fine il Pd ha deciso di astenersi. Quella volta fu data la colpa al governo Conte di non avere seguito la politica precedente, del governo Gentiloni, di attento tutoraggio della Guardia costiera. “Se il quadro è cambiato - disse Nicola Zingaretti - questo è colpa dell’attuale governo. Per questo era giusto astenersi”. Nella sinistra-sinistra, però, che ritiene Minniti il vero colpevole di un disegno che Salvini poi si sarebbe limitato a ricalcare e estremizzare, quell’astensione fu salutata come una grande novità. “Avremmo preferito una scelta più netta - esultava quel giorno Nicola Fratoianni - ma è certamente un passo in avanti che archivia la linea Minniti-Gentiloni”. E ora che Fratoianni come Emma Bonino hanno un peso enorme per la nascita o meno di questo governo, il loro anatema contro la Guardia costiera libica può essere uno scoglio davvero insormontabile. Il Garante dei detenuti scrive a Conte: “Violati i diritti dei migranti” di Adriana Pollice Il Manifesto, 31 agosto 2019 Mauro Palma. Dal blocco delle ong profili di responsabilità a carico del paese, “sgomento” per lo sbarco dei bimbi al buio nel mare in tempesta. “Sgomento nel vedere le immagini dello sbarco di bambini in tenera età avvenuto nella notte”: è quanto il Garante per i detenuti, Mauro Palma, ha scritto nella lettera inviata ieri al presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, sollecitando una soluzione per la nave Mare Jonio. Il riferimento è al trasbordo di 64 naufraghi, su 98 presenti a bordo, autorizzato solo giovedì sera, con il buio e il mare in tempesta. Trasbordo avvenuto saltando, persino con bimbi di pochi mesi, dalla nave alla motovedetta della Guardia costiera tra le onde. “Dal 28 agosto - ha ricordato Palma - le persone soccorse si sono trovate sotto la diretta responsabilità dell’Italia, stato di bandiera del vascello. Una situazione che non può e non deve ulteriormente protrarsi”. Per poi sottolineare: “La violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Convenzione di Ginevra potrebbe comportare in sede internazionale conseguenti profili di responsabilità a carico del nostro paese”. E infine: “Sarebbe importante ritrovare intese non solo dirette a garantire la governabilità ma anche una rinnovata convergenza sui principi che la nostra Carta costituzionale tutela e che lo stesso presidente del Consiglio, nel ricevere l’incarico di formare il nuovo esecutivo, ha invocato”. Il tono istituzionale non attenua le responsabilità a cui il diritto e le convenzioni inchiodano l’Italia. Non è la prima volta che il Garante sottolinea quello che le procure (da Agrigento a Trapani) e il 14 agosto anche il Tar del Lazio ripetono da mesi: i decreti Sicurezza non fanno venire meno l’obbligo di salvataggio in mare. E, dopo il caso Diciotti, si potrebbe aprire un secondo processo per sequestro di persona, questa volta a partire dal blocco per 19 giorni dei naufragi sull’Open Arms. Del resto, il 9 agosto lo stesso Palma aveva scritto al comandante della Guardia costiera proprio in merito all’ong catalana, che aveva a bordo 121 naufraghi (salvati a partire dal primo agosto), bloccata in acque internazionali dal divieto d’ingresso predisposto dal Viminale e cofirmato da Infrastrutture e Difesa: “L’impasse - aveva scritto Palma - ha un impatto rilevante sui diritti fondamentali delle persone soccorse, impedite nella propria libertà di movimento ed esposte al rischio di trattamenti inumani. Ai migranti soccorsi debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di respingimento e di espulsioni collettive, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. La Lega, allora, aveva replicato stizzita (“deve giustificare lo stipendio”), ma i contatti con Conte avevano convinto il premier a una posizione più cauta, che aveva poi provocato la dura lettera inviata a Salvini, quella poi postata sui social, in cui il presidente del Consiglio accusava il suo ministro di “sleale collaborazione” e “slabbrature istituzionali”, chiedendogli quindi di “adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti nell’imbarcazione”. Se le norme sui migranti sono il marchio di fabbrica di Salvini, il capo politico dei 5S, Luigi Di Maio, uscendo ieri dalle consultazioni con Conte, li ha rivendicati e difesi: “Non si può parlare di revisione dei decreti Sicurezza, si possono certamente tenere in considerazione i rilievi del Colle ma senza cambiarne la ratio né le linee di principio”. Mettendo così una pietra tombale sulla richiesta di cambiare linea in vista della nuova alleanza. La ratio dei decreti, difesa da Di Maio, ha già innescato un fascicolo ad Agrigento per omissione di atti d’ufficio, violenza privata e sequestro di persona. L’inchiesta per ora è contro ignoti, come ieri ha ribadito la procura, anche se lo stesso Salvini ha postato: “In arrivo un’altra indagine contro di me per il caso Open Arms”. Il gip Stefano Zammuto ha ribadito che l’obbligo di salvataggio in mare “costituisce un dovere degli stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali. Le Convenzioni internazionali in materia cui l’Italia ha aderito costituiscono, infatti, un limite alla potestà legislativa dello stato e non possono costituire oggetto di deroga da parte dell’autorità politica”. E, per quanto riguarda la mancata assegnazione di un porto sicuro, “sussiste il fumus” dell’omissione di atti d’ufficio. L’Ong catalana ieri ha commentato: “Riteniamo questo provvedimento di estrema importanza, in esso infatti è ribadita la necessità del rispetto delle Convenzioni internazionali e del diritto del mare, nonché la tutela della vita e della dignità delle persone in condizioni di fragilità. Abbiamo sempre operato nel rispetto del diritto e della legge”. Vogliono discontinuità? Le politiche sulle droghe ne hanno bisogno di Marco Perduca huffingtonpost.it, 31 agosto 2019 A vederla sulla carta, una maggioranza di Parlamentari pronta ad assumersi la responsabilità di mettere in atto scelte di discontinuità (anche) sulle “droghe” ci sarebbe. Il Movimento 5 Stelle è, da sempre, favorevole addirittura alla legalizzazione della cannabis, il Pd magari lo è un po’ meno o con meno convinzione ma sicuramente è lontano anni luce dalla reazione proibizionista che, almeno a parole, ha caratterizzato i 14 mesi di connubio anti-droga Salvini-Fontana. LeU e il gruppo misto hanno al proprio interno sinceri antiproibizionisti e politici moderati di lungo corso che, al momento del bisogno, riescono a esercitare il necessario “buon senso” per favorire il governo di fenomeno complessi. Quale sia la complessità del fenomeno “droghe” in Italia è in effetti difficile dirlo. Se da un lato il governo non ha ancora pubblicato la sua “relazione annuale al Parlamento”, dall’altro sono ormai 10 anni che non viene convocata la Conferenza nazionale che di droghe dovrebbe parlare - e ne dovrebbe parlare (anche) per far il punto sugli effetti, positivi e/o negativi, che l’applicazione del Testo Unico sulle droghe 309/90 ha prodotto negli ormai suoi 30 anni di vita. Prima di esser tutto quello per cui le “droghe” sono note, occorre prendere atto laicamente che la presenza di queste sostanze è un elemento strutturale nella nostra società. Secondo le stime degli ultimi anni raccolte dal Dipartimento per le Politiche Anti-Droga della Presidenza del Consiglio in collaborazione con il CNR, circa otto milioni di persone incontrano una sostanza illecita nel corso di un anno. Se l’indagine si amplia ai comportamenti di una vita la percentuale di coloro che hanno provato qualcosa di proibito dalla legge ex-Jervolino Vassalli sale a circa un terzo dei 60 milioni di persone che vivono in Italia. Certo la sostanza più consumata è la cannabis coi suoi derivati, poco oltre 6 milioni, ma i rischi di incappare in sanzioni penali e amministrative non diminuiscono neanche in virtù della (presunta o reale) “leggerezza” della sostanza. Gli altri due milioni di consumatori son divisi per due terzi tra chi usa cocaina e il rimanente consumatore d’eroina. Secondo il governo le sostanze sintetiche sono una percentuale misteriosamente bassa, specie se paragonate ad altri paesi europei. Questa presenza di sostanze illegali è, naturalmente, garantita da organizzazioni internazionali con presenza capillare in tutte le città italiane dalle scuole alle carceri e contatti, connivenze e accordi di cartello con narco-mafie transnazionali. Ammesso, e comunque non concesso, che si possa quantificare l’ammontare di cannabis, cocaina, eroina, anfetamine, e nuove sostanze psichedeliche che circola in Italia, queste “droghe” muovono intorno ai 18 miliardi di euro. Una “manovrina”. Sebbene nel 2014 la Corte Costituzionale abbia annullato ampie parti della legge cosiddetta Fini-Giovanardi, perché inclusa nel decreto che finanziò le Olimpiadi invernali di Torino del 2006, gli aggiustamenti occorsi nella primavere di quell’anno, pure ristabilendo una differenza di trattamento penale tra “pesanti” e “leggere, non cancellarono totalmente le sanzioni per la detenzione e il consumo personale. Col passare degli anni, e la disattenzione circa le priorità di politica giudiziaria in Italia - e un’inerzia da populismo penale per cui comunque occorreva far “la voce grossa” contro le droghe andando a perseguire lo spaccio, specie se effettuato da non italiani - si è tornati ad arrestare, multare e segnalare ai prefetti oltre centomila persone all’anno. Di queste circa 15mila restano in carcere. Un gruppo di organizzazioni non-governative, quelle che da sempre sono tra le più attente alle politiche criminogene proibizioniste (tra le altre Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone, a Buon Diritto, Associazione Luca Coscioni e CGIL), ha recentemente presentato il X Libro Bianco sulle Droghe da cui risulta che se detenzione e uso personale venissero depenalizzati le carceri italiane tornerebbero a essere, almeno dal punto di vista del numero dei detenuti, in linea con la Convenzione europea dei diritti umani. Senza quelle 15mila persone i nostri istituti di pena ospiterebbero infatti le 45mila persone per cui sono stati pensati. Nelle ultime settimane, grazie alle fissazioni del ministro dell’Interno, abbiamo anche dovuto assistere a raid davanti alle scuole - i dati del Viminale pubblicati il 15 agosto scorso parlano di 13mila agenti impegnati in oltre 20mila interventi in centinaia di istituti che hanno fruttato il sequestro di 14 chili di roba - e di campagne di terrore psico-alimentare nei confronti della canapa industriale che a dicembre 2016 tutti, Lega compresa, avevano ri-legalizzato dopo una quarantina d’anni di danni economico-ambientali a molte regioni e imprenditori italiani. Seppure legalizzata dal 2007, la prescrizione di cannabinoidi terapeutici resta molto problematica. Manca informazione sul perché possa, eventualmente, esser prevista, su chi abbia titolo per scrivere la ricetta, dove la si possa reperire, quanto costi e, cosa ancora più grave, mancano piani nazionali o regionali di formazione degli operatori coinvolti. Mancano infine i prodotti, lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze che dal 2015 ha avviato una coltivazione indoor di infiorescenze ricche del principio attivo CBD (non controllato a livello internazionale) non riesce a garantire il fabbisogno nazionale di 1000 chili neanche per un 15% e le somme stanziate per incrementare le importazione dai Paesi bassi e dalla Germania non consentono comunque una continuità terapeutica degna di tal nome. Ultimo, ma non ultimo per gli intenditori, Andrea Orlando, quando era ministro della Giustizia, nel 2016 alla sessione speciale delle Nazioni unite per le droghe, ebbe parole chiare circa la necessità di riorganizzare le politiche (nazionali e internazionali) in materia di droghe attorno alle evidenze scientifiche e facendo tesoro dell’esito positivo di riforme occorse in giro per il mondo - e da allora sono entrate a regime la legalizzazione della cannabis in Uruguay e Canada, mentre Giamaica e Lussemburgo si stanno avvicinando alla meta della regolamentazione legale e una decina di Stati Usa hanno visto verificarsi tutte le più rosee previsioni anti-proibizioniste. È notizia, molto riservata, che l’Italia abbia manifestato l’interesse a tornare a guidare l’Ufficio Onu per le droghe e il crimine dopo la parentesi del russo Fedetoff. Con tutti i problemi che ci sono in Italia proprio di droga ci dobbiamo occupare? Se, come si legge, la discontinuità deve essere uno dei tratti distintivi del governo che sta per nascere, niente è mai stato meno riformato che il proibizionismo sulle droghe. E una discontinuità che impatta positivamente sui comportamenti di milioni di persone non può che essere benvenuta - oltre che popolare. Qualche spunto a legislazione vigente: 1) rinominare il dipartimento che presso la Presidenza del Consiglio oggi si chiama “per le politiche anti-droga” in “per le politiche sulle droghe”. Quando Delrio era sotto-segretario di Palazzo Chigi era tutto pronto, recuperare quel documento sarebbe un indubbio segnale di “novità”; 2) avviare la convocazione della Conferenza Nazionale sulle droghe coinvolgendo tutti gli operatori, pubblici, privati, nazionali, internazionali e non-governativi per fare un punto su tutte le tematiche attorno agli stupefacenti proibiti; 3) presentare al Parlamento i dati raccolti nella relazione sulle droghe su consumi e criticità derivanti dalla presenza di sostanze illecite in Italia; 4) degradare bassa priorità di politica giudiziaria, la caccia di chi consumo e/o detiene sostanze illecite per fini personali; 5) rafforzare il sistema di allerta rapido per affrontare situazioni in cui arrivano partite di sostanze particolarmente pericolose; 6) potenziare la rete di servizi per le persone che hanno un rapporto problematico cogli stupefacenti, anche per scongiurare seriamente, il loro ingresso nel circuito penale; 7) adottare una definizione di ‘riduzione del danno’ incluso tre anni fai nei LEA (livelli essenziali di assistenza) nel pieno rispetto del diritto alla salute e in linea colle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; 8) promuovere partnership pubblico-privato (arrivando gradualmente a “liberalizzare” il settore) per la produzione di infiorescenza ricche dei principi attivi THC e CBD per fini terapeutici e comunque prevedere gare d’appalto con tempi certi di consegna dei prodotti necessari; 9) promuovere studi sui derivati della cannabis a partire da quelli prodotti a Firenze; 10) definire chiaramente le destinazioni d’uso dei prodotti a base di canapa contenenti percentuali sotto lo 0,6% di THC in modo da cancellare le incertezze - e chiaramente le persecuzioni - attorno alla produzione, commercio e uso di decine di prodotti agro-alimentari; 11) accompagnare, o lasciar procedere, il percorso parlamentare per una regolamentazione legale della cannabis e suoi derivati e una strutturale depenalizzazione dell’uso e possesso di tutte le altre sostanze oggi proibite. Ci sono validi progetti legislativi depositati da vari Deputati e Senatori, oltre che una proposta di legge d’iniziativa popolare presentata alla Camera nel 2016 e ancora valida. Si dirà che il Segretario del Partito Democratico qualche mese fa, a domanda, ha risposto di non essere “mai stato a favore della legalizzazione della cannabis”. Posto che qui nessuno per ora gliel’ha chiesto è bene tener presente che non era neanche particolarmente incline a fare un governo col Movimento 5 Stelle. Se discontinuità dev’essere, è bene che lo sia, e niente è più radicalmente discontinuo che rivedere decenni di politiche criminogene sulle droghe. Il presidente Conte ci pensi seriamente. Croazia. 18enne “morto di paura” nel carcere di Spalato di Miranda Cikotic La Voce del Popolo, 31 agosto 2019 Desta scalpore il caso del giovane detenuto. Il ministro della Giustizia vuole vederci chiaro. Kristian Vukasovic è morto di paura. È questo l’esito dell’esame dell’autopsia, eseguita ieri sul corpo del ragazzo 18enne arrivato all’Ospedale di Spalato dal carcere di Bilice. Il medico legale che ha eseguito l’esame, confermando la morte per arresto cardiaco, è convinto che le cause del decesso siano dovute alla paura, alla mancanza di sonno e alle costanti violenze psicologiche alle quali era esposto. Vinko Ljubicic, l’avvocato che tutela gli interessi della famiglia, non ha ancora ricevuto in forma ufficiale i risultati dell’autopsia, ma le dichiarazioni fatte dal medico legale gli sono bastate, anche perché confermano la sua ipotesi iniziale. “La famiglia sospettava già che potesse essere questo il motivo della morte, ossia i traumi psicologici e le condizioni di detenzione in prigione. Anche se gli esami non sono ancora definitivi, con altri accertamenti che verranno fatti nei prossimi giorni, sembra scontato che la famiglia faccia causa allo Stato”, ha affermato Ljubicic. Il giovane stava scontando una condanna di otto mesi che gli era stata comminata ad aprile per aver appiccato un incendio, che aveva bruciato cinque ulivi e un ettaro di prato. Una volta commesso il reato, si era recato alla stazione di Polizia per costituirsi. La sua condizione era particolare, in quanto si trattava di un ragazzo con difficoltà nello sviluppo e con una grave invalidità e disturbi da piromane. Durante i mesi di detenzione era stato più volte trasferito al Reparto di infermeria dell’Ospedale di Zagabria, dove gli erano state riscontrate tendenze suicide. A parte questo, però, si era fatto ben poco, con il ragazzo che era stato rimandato ogni volta in prigione a Spalato. Fino a quando non è stato trasferito d’urgenza nell’ospedale della città, dov’è deceduto. La Procura di Stato e il Ministero della Giustizia hanno rilevato di non aver riscontrato alcuna irregolarità nel funzionamento del carcere dalmata. Nel frattempo, però, il ministro Dražen Bošnjakovic, ha annunciato una sua visita a Spalato, dove incontrerà di persona il direttore del penitenziario, i detenuti e il personale medico dell’Ospedale. “Dobbiamo attendere la fine degli esami dell’autopsia, poi sapremo se c’è un nesso di causalità fra la sua morte e il trattamento in carcere. Se ciò dovesse essere confermato, metteremo in atto tutte le misure consone al caso”, ha affermato il ministro della Giustizia. Stati Uniti. Condannato all’ergastolo per aver rubato 50 dollari, esce di cella dopo 35 anni di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 31 agosto 2019 Gennaio 1983, il 22enne Alvin Kennard, accompagnato da un complice entra a volto scoperto in una panetteria di Bessemer, cittadina di 27mila anime nel sudovest dell’Alabama, un lembo semi- rurale dell’hinterland di Birmingham. È visibilmente alterato, brandisce un coltello da tasca e ordina alla proprietaria di consegnargli l’incasso della mattina, poi si dà alla fuga con il compagno per spartirsi il “bottino” di 50,75 dollari. Una rapina maldestra in cui Kennard spargerà sul luogo decine di indizi. Tanto che alla polizia locale ci vogliono pochi giorni per identificarlo e arrestarlo. Fin qui nulla di straordinario. Ma arriva il giorno della sentenza e per Kennard è una sepoltura: prigione a vita. Come è possibile una pena così pesante per un reato in cui non ci sono stati nemmeno dei feriti? La risposta sta nei cupi faldoni del Habitual Felony Offender Act dell’Alabama, un dispositivo penale che punisce i recidivi con l’ergastolo anche se non hanno commesso violenze nei confronti di altre persone. E Kennard era recidivo. Quattro anni prima, quando era appena diciottenne, aveva scassinato un distributore automatico di benzina ed era stato condannato a tre anni di reclusione con il beneficio della libertà vigilata. Durante il processo per il colpo in panetteria Kennard si accusò di una terza rapina con scasso, sperando di ammansire la corte con la sua sincerità. Un’ingenuità che si rivela fatale: uno dei pilastri del Habitual Felony Offender Act è infatti il principio dei “tre delitti”, ovvero alla seconda recidiva scatta l’ergastolo. Seppellito in una cella per cinquanta dollari. Il giovane viene trasferito nel carcere di Bessemer, è l’unica concessione che ottiene, il che gli permetterà di ricevere regolarmente le visite di familiari e amici nel corso degli interminabili 35 anni di vita passati dietro le sbarre da “detenuto modello”, come hanno testimoniato i secondini e le stesse autorità carcerarie. Il suo comportamento esemplare (diventa un fervente cristiano) e le misure intraprese dall’Alabama nel 2013 per limitare il mostruoso sovraffollamento delle sue prigioni permettono agli avvocati di Kennard aprire una piccola breccia. Ma è soprattutto grazie al paziente lavoro dell’Alabama Appleseed Center for Law and Justice (un gruppo di patrocinio legale senza scopo di lucro) che l’uomo riesce ad ottenere una nuova sentenza. E mercoledì scorso, tra le grida di gioia dei suoi cari e i flash dei fotografi, il giudice distrettuale della contea di Jefferson David Carpenter gli restituisce la libertà, dando torto alla pubblica accusa che chiedeva almeno l’applicazione della libertà vigilata: “Sono certo che Alvin Kennard si sia pentito di ciò che ha fatto, era convinto che non sarebbe più uscito di prigione ma è stato ugualmente un prigioniero modello, non c’è dubbio che sia pronto a reinserirsi nella società”, ha dichiarato Carpenter. “Non pensavamo alla sua liberazione da almeno 20 anni, ci eravamo rassegnati al fatto che sarebbe morto in una cella, siamo commossi, mentre Alvin è sopraffatto dalla gioia, ringraziamo Dio”, è stato invece il commento all’emittente Abc la nipote Patricia Jones. Ora, sulla soglia dei 60 anni, Kennard è un mite uomo di mezza età che ha trascorso la gran parte della sua esistenza in galera, le ferite di quell’ingiustizia le conserva tutte dentro di sé e nelle sue parole non c’è l’ombra del risentimento verso le autorità che gli hanno inflitto una condanna così assurda e crudele: “Sono pentito per quello che ho fatto, me ne assumo la responsabilità e non ce l’ho con nessuno. Vi ringrazio”, le sue prime parole da uomo libero. Dice che cercherà lavoro come carpentiere, lo stesso che voleva fare da giovane quando poi le scelte balorde dell’adolescenza lo fecero diventare un ladruncolo da quattro soldi e poi inciampare su una legge disumana e irrazionale uno degli Stati più arretrati e reazionari degli Usa. Talmente disumana e irrazionale che nella prima metà degli anni 2000 l’Habitual Felony Offender Act è stato sospeso anche se le sentenze non sono state riviste. Se fosse stato condannato oggi Kennard avrebbe scontato 10 anni di prigione con la possibilità di ottenere in pochi anni la libertà vigilata. Stati Uniti. Detenuta lasciata partorire da sola in cella denuncia il carcere di Biagio Chiariello fanpage.it, 31 agosto 2019 I fatti sono avvenuti in una prigione della contea di Denver, in Colorado, dove la 27enne Diana Sanchez era detenuta da due settimane. Quello che “avrebbe dovuto essere uno dei giorni più felici della sua vita” si è trasformato in “una giornata di terrore, dolore e umiliazioni inutili che continua a causami trauma emotivo”, si legge nella causa che la donna ha intentato contro il penitenziario. Una donna americana ha partorito da sola nella sua cella in prigione, senza l’aiuto di infermieri o dipendenti della struttura in servizio, mentre le telecamere di sorveglianza hanno catturato l’intera esperienza, secondo una causa presentata mercoledì in tribunale alla Corte federale dello Stato del Colorado. I fatti sono avvenuti in un carcere di Denver, negli Stati Uniti il 31 luglio del 2018. La protagonista è Diana Sanchez, 27 anni. Quello che “avrebbe dovuto essere uno dei giorni più felici della sua vita” si è trasformato in “una giornata di terrore, dolore e umiliazioni inutili che continua a causami trauma emotivo”, si legge nella causa. Nel video registrato dalla telecamera interna della cella, acquisito dall’avvocato della donna, Mari Newman, e ora diffuso dai media, è possibile vedere la donna distesa su una brandina soffrire visibilmente, e quindi iniziare a partorire. Si intuiscono le grida di dolore della 27enne Sanchez, che chiede aiuto piangendo. “Nessun infermiere nel carcere della Contea di Denver ha preso le misure necessarie per fornire le cure utili a limitare i rischi che il neonato e la signora Sanchez avrebbero potuto correre”, si legge ancora nella denuncia. Stando invece alla polizia della contea, contattata dalla ‘Bbc’, dall’indagine interna condotta sarebbe emerso che “lo staff del carcere” avrebbe fornito alla detenuta “tutto il supporto medico necessario”. Personale che viene accusato invece di negligenza e di atteggiamento “deliberatamente indifferente” nei confronti della donna e del piccolo J.S.M., a cui sarebbero mancate anche le “più elementari cure postparto”. Diana Sanchez è stata incarcerata nella prigione della contea di Denver il 14 luglio 2018, per un furto di identità, ha spiegato l’avvocato Mari Newman a Nbc News giovedì. Libia. Il segretario generale Onu Guterres: “Ora la guerra rischia di deflagrare” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 31 agosto 2019 La Turchia sempre più coinvolta insieme agli Emirati, su sponde opposte. Anche l’inviato delle Nazioni Unite Salamé denuncia la massiccia ingerenza di potenze straniere ad alimentare il conflitto. La terza guerra civile in Libia, focalizzata su Tripoli, si appresta a valicare anche il suo quinto mese di durata e non accenna a profilarsi alcun approdo. Anzi, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres - che fu sorpreso dallo scoppio del conflitto mentre si trovava proprio a Tripoli lo scorso 4 aprile - non più tardi di tre giorni fa ha ricordato che il protrarsi delle interferenze di potenze straniere, con la presenza sempre più massiccia di rifornimenti di armi pesanti in violazione dell’embargo Onu, di mercenari e combattenti stranieri, può solo portare a un conflitto più esteso, a una “guerra civile piena”. Il bilancio dei morti è ormai considerato a cifra piena, le vittime - quasi tutte tra i belligeranti - hanno superato quota mille e gli sfollati quota 100 mila. Lunedì scorso gli assedianti del generale Kalifa Haftar hanno tentato di riconquistare la loro ex base strategica a Gharyan - cittadina a un centinaio di chilometri a sud di Tripoli che era la testa di ponte dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) ed è stata persa alla fine di giugno - ma la riconquista non è riuscita. Ieri il premier di Tripoli Fayez Serraj ha potuto annunciare nuovamente che “Gharyan è nostra”. Nel frattempo il suo “simil-Salvini”, il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, uomo forte della città-Stato di Misurata, si è recato a colloquio con il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu per chiedere una cooperazione militare ancora più stretta, impegno ottenuto grazie al consueto alibi del riconoscimento Onu del governo di accordo nazionale che ormai è pero solo uno degli attori della guerra e non accenna più a seguire le indicazioni dell’Onu quanto a cessate il fuoco di lungo periodo e ripresa del dialogo politico con l’altra parte. Secondo l’agenzia di informazione economica Bloomberg nell’attuale conflitto per il controllo della capitale libica, ma soprattutto per il controllo delle sue leve finanziarie - il fondo sovrano Libyan Investment Autority (Lia) e la Banca centrale che ripartisce i proventi del petrolio - ed economiche - la compagnia petrolifera statale Noc ma anche i lucrosi contratti per la ricostruzione delle infrastrutture devastate da otto anni di guerra civile a ondate - sono sempre più coinvolti gli Emirati arabi uniti e la Turchia. Le armi che queste potenze regionali fanno affluire in Libia in violazione dell’embargo del 2011 sono: Uav di fabbricazione cinese tipo Wing Loong, altri tipo Bayraktar prodotti in Turchia, sistemi terra-aria russi Pantsir, veicoli corazzati turchi, oltre ai sistemi anticarro statunitensi Javelin ceduti ad Haftar dalla Francia com’è risultato dopo il ritiro dell’Lna da Gharyan a giugno, con grave imbarazzo per l’Eliseo. In una intervista a Le Monde l’inviato Onu per la Libia Ghassan Salamé una settimana fa ha detto che la tara “più grave” sulla pace in Libia proviene dalle interferenze estere di “una decina di Stati”. Sono loro che stimolano le varie fazioni a continuare a combattersi. E a loro - Italia inclusa - spetta disinnescare il conflitto. Foto choc dal Kashmir: “Così torturano i soldati indiani” di Marta Serafini Corriere della Sera, 31 agosto 2019 Le testimonianze raccolte dalla Bbc nei villaggi musulmani. La replica: azioni preventive. Tremila in carcere. “Hanno picchiato ogni parte del mio corpo. Ci hanno preso a calci, ci hanno picchiato con dei cavi. Poi ci hanno colpito sulla parte posteriore delle gambe. Quando siamo svenuti ci hanno dato scosse elettriche per farci rinvenire. Se urlavamo ci riempivano la bocca di fango”. Una mezza dozzina di villaggi, diversi testimoni: alza il velo sul Kashmir l’inchiesta di Sameer Hashmi, corrispondente della Bbc, che ha documentato i presunti abusi e torture subite dai musulmani per mano dell’esercito indiano. Il giornalista spiega di non aver potuto verificare le dichiarazioni dei testimoni. Ma come prova pubblica le fotografie di corpi martoriati. Per paura di ritorsioni, le vittime hanno deciso di non denunciare l’accaduto alle autorità. E non hanno voluto rivelare alla Bbc i loro veri nomi. “Ci picchiano come se fossimo animali. Non ci considerano umani”, ha riferito un altro testimone ad Hashmi. Le torture e gli abusi sarebbero avvenute il 6 agosto, dopo che New Delhi ha revocato l’articolo 37 della Costituzione che garantisce l’autonomia della regione contesa con il Pakistan, arrestando 3mila persone, imponendo il coprifuoco e sospendendo comunicazioni telefoniche e internet. E dopo che sono stati inviati altri 4o mila militari in quella che viene giò considerata una delle zone più militarizzate del mondo. Da parte loro i vertici dell’esercito indiano hanno risposto di “non aver mai maltrattato alcun civile”, bollando le accuse come “infondate e non comprovate”. L’operazione militare nel Kashmir è stata presentata come “preventiva” e tesa al “mantenimento della legge e dell’ordine” nell’unica regione indiana a maggioranza musulmana. “Nessuna accusa specifica di questa natura ci è mai giunta. Queste accuse sono state alimentate da elementi nemici” ha dichiarato alla Bbc il colonnello Aman Anand, portavoce dell’esercito. Secondo le testimonianze raccolte dall’emittente britannica, però i militari avrebbero torturato i civili per ottenere informazioni sui nomi di oppositori, di simpatizzanti dei gruppi separatisti e manifestanti da anni in lotta contro il dominio indiano. “Il mondo non può ignorare il Kashmir. Se non agirà per fermare l’assalto dell’India sul Kashmir, due Stati muniti di armi nucleari si avvicineranno a un confronto militare diretto”, ha scritto il premier pachistano Imran Khan, in un editoriale pubblicato ieri sul New York Times. Russia. Il regista Oleg Sentsov resta in cella, niente scambio Kiev-Mosca Corriere della Sera, 31 agosto 2019 Sembrava fatta. E invece no. Giovedì alcune agenzie di stampa russe hanno annunciato che il regista ucraino e premio Sacharov Oleg Sentsov, che sta scontando 20 anni di reclusione in Russia con l’accusa di terrorismo, era già stato trasferito a Mosca in vista di un possibile scambio di prigionieri che comprende anche i marinai arrestati nel corso dello scontro fra navi nello stretto di Kerch. Poi l’ufficio della presidenza ucraina, in una nota, ha smentito la scarcerazione. “Il processo è in corso, le informazioni sul suo completamento non sono vere”, ha dichiarato lo staff del presidente Volodymyr Zelensky precisando che saranno i “canali ufficiali” a comunicare la liberazione. La notizia è arrivata il giorno dopo che l’Ucraina ha rilasciato Kyrylo Vyshynsky, caporedattore dell’agenzia di stampa di Stato russa Ria Novosti, in attesa del suo processo per tradimento. A far credere che la trattativa si fosse sbloccata, il post su Facebook della deputata ucraina Anna Islamova, condiviso dal nuovo procuratore generale Ruslan Riaboshapka, che dava lo scambio come “completato”. Lo scambio di prigionieri è stato il primo argomento discusso durante la prima telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo ucraino Zelenskij a luglio. Circa 13mila persone sono state uccise nel conflitto ucraino con i separatisti sostenuti dalla Russia in Ucraina orientale, scoppiato poco dopo l’annessione da parte di Mosca della Crimea nel 2014. Uno scambio potrebbe essere un primo passo per allentare le tensioni tra Kiev e Mosca. Tanzania. L’arresto assurdo di Erick Kabendera di Paolo Lepri Corriere della Sera, 31 agosto 2019 Collaboratore del Guardian e dell’Economist, si trova dalla fine di luglio in carcere a Dar es Salaam con accuse pretestuose. Il presidente della Tanzania, John Magufuli, lo considera un nemico personale. Dimentichiamo la mitica canzone degli anni 60, interpretata da Pascal Danel e ispirata al racconto di Hemingway, e lasciamo perdere anche il film omonimo,Le nevi del Kilimangiarodi Robert Guédiguian, dove il portuale disoccupato Michel e la moglie Marie-Claire danno al mondo una tormentata lezione di solidarietà prendendo in casa i fratellini dell’ex collega che aveva rubato loro i soldi destinati a un viaggio africano. La Tanzania non è un Paese dei sogni. Non lo è malgrado il Kilimangiaro, il parco nazionale del Serengeti, le isole di Zanzibar. È un Paese dove un brillante giornalista investigativo, Erick Kabendera, collaboratore del Guardian e dell’Economist, si trova dalla fine di luglio in carcere con accuse pretestuose. “Si tratta di una farsa e le imputazioni contro di lui hanno una motivazione politica”, ha detto Joan Nyanyuki, direttrice di Amnesty International per l’Africa orientale. Kabendera, 39 anni, è stato assurdamente incriminato per riciclaggio ed evasione fiscale. La prima udienza del processo, chiaramente pilotato, si è conclusa con un rinvio. Anche Stati Uniti e Gran Bretagna hanno espresso la loro preoccupazione. Ma perché sta accadendo tutto questo? L’uomo forte della Tanzania, John Magufuli, considera un nemico personale questo reporter che si è occupato delle lotte interne nel Chama Cha Mapinduzi, il “Partito della rivoluzione”, al potere dall’indipendenza. Va poi ricordato che in quattro anni di governo del “bulldozer”, come è soprannominato il presidente, sono stati arrestati politici di opposizione, chiusi giornali ed emittenti radiofoniche. Niente si sa inoltre della sorte di un altro giornalista, Azory Gwanda, rapito nel 2017. Diventato inizialmente popolare per il sua programma di lotta alla corruzione, Magufuli continua a comandare, esibendosi in una serie di divieti. Ha proibito tra l’altro i raduni politici e i viaggi all’estero dei funzionari governativi. Intanto Kabendera aspetta, chiuso in una cella del carcere di Segerea, a Dar es Salaam. Nella loro semplicità colpiscono le parole della madre ottantenne, Verdiana Mujwahuzi. “È lui - ha detto a The Citizen- che mi portava sempre le medicine di cui ho bisogno”.