L’isolamento del detenuto nel sistema penitenziario Ue di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 agosto 2019 Si terrà a Strasburgo, dal 25 al 27 settembre, la Ventiduesima riunione del Gruppo di lavoro del Consiglio di cooperazione penologico (Pc-cp) del Consiglio d’Europa. Il Pc-cp, composto da esperti in materia penitenziaria (magistrati, direttori di carcere, ecc) dei vari Stato membri, affronterà per la prima volta una tema di grande importanza: l’isolamento del detenuto in ambito carcerario. All’ordine del giorno della riunione vi è, infatti, la valutazione dei commenti recentemente redatti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti. Obiettivo finale sarà quello di redigere le future regole penitenziare europee. Sull’isolamento del detenuto in ambito carcerario la posizione dell’Italia è da sempre alquanto “ambigua”. In Europa, l’isolamento è sostanzialmente considerato una “sanzione” per il detenuto che non rispetta le regole della detenzione. In Italia, invece, è un “regime detentivo” - vedasi il caso del 41bis - a tutti gli effetti. Come tutte le sanzioni, anche l’isolamento deve avere una durata limitata nel tempo. Quattordici sono i giorni, a tal proposito, fissati in sede europea. Nelle prescrizioni, l’isolamento deve comunque garantire per il detenuto la possibilità di contatti sociali e di essere inserito in un programma di attività, trattandosi di una misura di carattere “eccezionale”. Imporre l’isolamento per periodi più lunghi può produrre effetti “nefasti” sulla salute mentale dei detenuti, dicono gli esperti europei. Sottoporre, in casi particolari, il detenuto ad un periodo di isolamento superiore ai quattordici giorni deve, dunque, essere attentamente valutato. In caso di reiterazione della misura, deve esserci stata comunque una interruzione. Non sono ammissibili proroghe senza soluzione di continuità. Ed ecco, quindi, il “caso” Italia, dove l’isolamento è un regime detentivo ed è disposto, fuori dal 41bis, per quello diurno, direttamente dal giudice in sentenza, per periodi superiori ai quattordici giorni. Anzi, per tutta la vita come nel caso dell’ergastolo ostativo. Sarà interessante vedere sul punto la posizione delle autorità italiane. I malati di mente e il carcere di Paolo Vites ilsussidiario.net, 30 agosto 2019 Purtroppo ci vuole sempre una persona nota, o come nel caso in questione, un parente di persona nota perché situazioni come queste arrivino sui giornali. A lanciare l’allarme è infatti stata la sorella del noto attore Kim Rossi Stuart, Loretta, il cui figlio di 25 anni, Giacomo Seydou Sy, 25 anni, affetto da bipolarismo, e quindi secondo la relazione psichiatrica, “inadatto al regime carcerario” si trova invece a Rebibbia invece che nelle strutture adeguate previste dalla legge, i cosiddetti Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che hanno preso il posto dopo la chiusura nel 2015 degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il problema è che i Rems hanno lunghissime liste d’attesa e per lui non si trova posto, ha dichiarato la donna: “E’ un internato, da tre mesi è obbligato a stare in carcere, senza le cure adeguate, perché non c’è posto nella struttura alternativa dove dovrebbe andare. La lista d’attesa è pazzesca”. “Se la persona in questione è davvero in carcere nonostante la relazione psichiatrica e ha scontato la condanna penale, come dice la signora, perché non c’è posto in un Rems (dove deve scontare un altro anno di detenzione, ndr)” ci ha detto Sofia Ciuffolotti, presidente del Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità L’Altro Diritto e ricercatrice presso l’università degli studi di Firenze nel dipartimento di scienze giuridiche “allora si tratta di sequestro di persona e il suo avvocato deve appellarsi per l’immediata scarcerazione”. Il caso del nipote di Kim Rossi Stuart ci ha fatto indagare allora su cosa siano e come funzionano i Rems: “Queste strutture sono nate dopo un lungo processo normativo nato grazie a una inchiesta sulle condizioni degli Opg, il luogo dove veniva mandata una persona quando commetteva un reato e veniva considerata malata di mente. Si tratta di persone dunque assolte e messe in Opg quando veniva ritenuta pericolosa socialmente”. Una commissione di inchiesta ha visitato questi luoghi e si è resa conto delle condizioni pessime di queste strutture: “Hanno visto la condizione degli Opg che poi erano solo 5 in Italia e concentravano una popolazione molto alta, personalmente ho visitato l’ospedale di Barcellona Pozzo di Gozzo che era in condizioni inquietante: letti di contenzione, persone legate. Ma soprattutto la totale mancanza di qualsiasi attività di recupero, in abbandono materiale e mentale. Chiusi gli Opg, si è verificato però un fatto importante”. Quale? “Di fatto queste persone venivano scaricate sulle Asl che hanno opposto resistenza fortissima. Noi già curiamo i cosiddetti “pazzi buoni” lasciati per strada nel dopo legge Basaglia e adesso ci date anche i “pazzi cattivi” hanno detto, criminali seppur malati di mente. E’ stata una battaglia culturale molto significativa”. A questo punto nascono i Rems: “Si tratta di strutture con sorveglianza esterna della polizia giudiziaria ma il Rems è una struttura medica con personale unicamente sanitario in capo al Ministero della giustizia. La sanità penitenziaria grazie a una successiva riforma è stata definita uguale alla sanità civile”. Però sono gestiti direttamente dallo stato, non dalle autorità territoriali, e ci sono anche grossi problemi economici oltre che di spazio: “I problemi di budget sono grossi, ma soprattuto di spazio. I Rems vengono ideati come piccole strutture al massimo da venti posti, ma sono stati riempiti oltre misura e si sono subito saturati. Le liste d’attesa sono enormi e di fatto le persone con problemi mentali fanno fini bizzarre”. Quali? “Dovrebbero stare nei Rems, ma la legge non dice nulla di quelle persone che hanno commesso reati da sani e poi si ammalano, impazziscono in carcere. Non si sa se possono andare nei Rems perché il nostro provvedimento non lo prevede. Ci si è inventati allora strutture fittizie, cambiando semplicemente il nome da ospedale psichiatrico giudiziario a Rems, ma la struttura è la stessa. Oppure ci sono carceri che hanno aperto reparti psichiatrici”. Del caso denunciato dalla sorella di Kim Rossi Stuart che idea si è fatta? “Posso parlare solo su quanto ho letto sui giornali, devo dire che casi come questo fortunatamente non ci sono quasi più. Il giovane grazie al 35bis, avendo già scontato la sua condanna in carcere, in attesa di entrare in una Rems, va scarcerata immediatamente. Si tratta altrimenti di sequestro di persona”. L’incubo dietro le sbarre: in carcere ma innocente di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2019 Accusato di omicidio per colpa di un’espressione dialettale travisata: come fai a non impazzire? Nella vicenda che vi raccontiamo, il dramma delle migliaia di persone che ogni anno i cosiddetti “errori giudiziari” derubano di un pezzo di vita. Davanti a una storia così, viene da chiedersi: come ha fatto a non impazzire? Davanti alla storia di un uomo che ha passato due decenni in carcere, che non ha visto crescere i figli, recluso pur essendo innocente, viene da pensare: quale potrà mai essere il risarcimento per il furto di un pezzo così lungo di vita? Si affollano le domande - e aumenta il disagio - prima di incontrare Angelo Massaro. Un uomo esile, ormai brizzolato, che per 21 anni, invece di viaggiare, ha peregrinato tra carceri; invece di vivere con la sua famiglia, come avrebbe potuto, è stato costretto a dividere i tre metri per quattro della cella con degli sconosciuti. Invece di perfezionare una professione, ha frequentato due volte la scuola media, pur di impiegare il tempo, e ha studiato Giurisprudenza, per provare a salvarsi. Così, ora che a 53 anni è finalmente fuori dal carcere e dal suo incubo giudiziario, resta preda “della paura per lo spazio troppo grande e l’orizzonte senza confini”, ammette. Alla fine, inevitabilmente, quella prigione era diventata il suo guscio. Una protezione e la sua unica prospettiva, dopo anni passati con un muro a sbarrare ogni orizzonte, al di là della finestrella. Così, per parlare, scegliamo un angolo del forum Monzani di Modena, dove Massaro è arrivato insieme all’associazione Errori giudiziari, creata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, al Festiva! della Giustizia penale. Siamo a ottocento chilometri da casa sua, a Fragagnano, in provincia di Taranto, ma non può che cominciare da lì il suo racconto. E non può non cominciare dal momento della scomparsa di un amico e dal bivio in cui un banale equivoco portò fuori strada la sua vita. “Si persero le sue tracce il 10 ottobre 1995; sette giorni dopo, la mattina del 17 ottobre, come tutte le altre mattine, chiamai mia moglie, per dirle di preparare il bambino per accompagnarlo a scuola. Avrei però prima dovuto liberarmi di un mezzo meccanico e glielo comunicai. Ecco, tutto è cominciato così”. Questo è il prologo di una storia che, in quel momento, Angelo mai avrebbe immaginato potesse stravolgere la sua esistenza e quella della sua famiglia. È bastata invece una consonante, scambiata per un’altra, un’espressione dialettale non compresa e “indagini sbagliate” per trasformare quell’uomo di trent’anni in un assassino. “Porto sta muerz”, disse quella mattina Angelo alla moglie Patrizia, in dialetto tarantino. “Porto quest’ingombro, questo peso morto”, intendeva dire, ossia quel bobcat, trasportato su un carrello, di cui doveva liberarsi, prima di andare a prendere il figlio. Ma come in una drammatica commedia degli equivoci, quelle parole acquisirono tutt’altro significato e il peso di una condanna. “Muert”, non “muerz”, credette di aver sentito l’addetto alle intercettazioni. E quello scrisse l’investigatore nel brogliaccio. Agli atti dell’inchiesta, ben presto risultò che Angelo quel giorno stava trasportando un cadavere, alle 8.30 di mattina, su un carrello ben visibile, su strade trafficate e lo spostava da un paese all’altro. E di tutto ciò informava al telefono la consorte, come fosse la più normale delle comunicazioni. “Non fu portato al magistrato alcun verbale con le verifiche su dove invece io mi trovassi”. E una volta commesso il primo, spesso, gli altri errori seguono a catena. Così anche quell’assenza di concitazione nel colloquio tra Angelo e la moglie divenne ulteriore indizio a suo carico: “Sono affini al crimine”, scrissero i giudici nelle motivazioni della prima condanna. “Ma mia moglie non ha mai preso nemmeno una multa”, protesta ora Massaro e il pensiero di come sia stata trascinata anche la famiglia in questo baratro ancora lo indigna. Arrivò la prima condanna a 24 anni, poi la conferma dell’appello, e dopo soli tre anni piombò come un macigno anche il verdetto della Cassazione. In nome del popolo italiano, tre diverse corti avevano stabilito che Angelo Massaro era l’assassino di Lorenzo Fersurella, ammazzato a San Giorgio Jonico. Una sentenza definitiva, con una condanna così lunga, è come un tunnel senza uscita. Un tunnel in cui quest’uomo, che aveva avuto problemi di droga ed era già incappato in un primo errore giudiziario, non si era rassegnato a rimanere. Rifiutando anche ogni proposta di quella che, in gergo, è la revisione critica del passato deviante, che apre a diversi benefici: “Ma come si fa ad ammettere colpe, se sei innocente? Io avevo questo chiodo fisso, dimostrare la mia estraneità”. Così, con l’aiuto anche dello sport e dello yoga, e soprattutto con la forza degli affetti familiari, comincia a fare quello che tanti avvocati e parlamentari consideravano invece impossibile: lavorare, per ottenere una revisione del processo. Nel carcere di Melfi inizia a studiare sui codici di procedura penale, scrive da sé le 72 pagine con cui chiede e ottiene, alla fine, la riapertura del caso. “Prima, Potenza rigetta la nostra richiesta, ma viene poi bacchettata dalla Cassazione che impone in appello la revisione a Catanzaro. Forse era un segno, perché in quel momento io mi trovavo proprio in quel carcere”. È la luce dopo il tunnel. “Con l’istanza di revisione, ho solo portato all’attenzione di altri giudici quello che avevo già detto più volte invano: i tabulati telefonici non valutati; i testimoni non ascoltati, gli errori commessi durante le indagini e tutti gli elementi che avrebbero potuto da subito dimostrare che quel giorno ero altrove. Quindi la mia estraneità”. Rimane bassa, la voce, non si altera Angelo Massaro, mentre ripercorre le tappe della sua Via Crucis, ma la rabbia provata resta impigliata nelle parole, soprattutto al pensiero di “quei semplici accertamenti che avrebbero permesso di escludere ogni coinvolgimento nel delitto. Non mi sarei fatto neanche un giorno di carcere, non 21 anni, se subito dopo la famigerata telefonata avessero verificato, se davvero trasportassi un cadavere e se un verbale attestasse dove mi trovassi”. Tutti elementi raccolti poi nelle indagini difensive, grazie anche a un legale che crede in Angelo e nella sua innocenza. Decide infatti di assisterlo, pur nella consapevolezza che le finanze del suo nuovo cliente sono ormai state prosciugate da anni di processi, carte bollate e fotocopie. Ma quella luce dell’uscita dal carcere diventa via via più vicina per Angelo, fino al momento in cui sente il Procuratore Generale di Catanzaro elencare uno dietro l’altro tutti gli errori commessi durante le indagini e chiedere per lui l’assoluzione. Eccola, la parola che cambia tutto. Tutto finito. Le accuse cadono, lui torna a essere un uomo libero. “Non riuscivo a crederci. In quel momento, tutta la rabbia accumulata è esplosa in un pianto. E quando mi sono avvicinato al magistrato, per stringergli la mano e ringraziarlo, mi ha risposto che lui aveva solo provato a rimediare a un’ingiustizia che avevo subito”. Il primo gesto, dopo la liberazione, quello a lungo sognato, è stato un tuffo in mare, subito. Bracciate nella ritrovata libertà. E con un po’ di fiducia in più nella Giustizia, ma anche con tutta la consapevolezza del potere enorme affidato alle toghe. Mi tornano in mente le ammissioni di Giuliano Amato, quando, durante il viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri, confessò ai minorenni detenuti nel carcere di Nisida di non aver intrapreso la carriera da magistrato - come avrebbe voluto il padre - “per non avere il potere di togliere la libertà alle persone”. Le statistiche del Ministero della Giustizia calcolano quante volte la libertà viene tolta per errore. Dal 1991 al 2018, 55mila persone hanno presentato domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Per lo stesso periodo, lo Stato ha già pagato 800 milioni di euro a chi ha trascorso un giorno o 21 anni in cella, da innocente. Cifre spaventose, dietro cui ci sono a volte vite stravolte. “Sono per difetto, perché molti, quando sono poi liberi, neanche chiedono i risarcimenti o non hanno più i mezzi per farlo”, rincarano Lattanzi e Maimone, che hanno creato un archivio degli errori giudiziari. Il Codice di procedura penale assegna 235,82 curo per ogni giorno di ingiusta custodia cautelare in carcere, ma è un calcolo orientativo, visto che il giudice, come stabilisce la Cassazione, deve provvedere a un’equa riparazione che tenga conto delle sofferenze e delle conseguenze subite. Ma quale cifra potrà mai risarcire un uomo, privato di un pezzo di vita? Questione attuale, visto che è in discussione in Parlamento una proposta per estendere la possibilità di accesso al risarcimento anche per chi, durante l’interrogatorio di garanzia, si sia avvalso della facoltà di non rispondere. Quanto ad Angelo, lui non ha ancora avuto un indennizzo per i 21 anni in cella, per la privazione degli affetti; per le docce gelate; per l’ostilità patita; per la difficoltà di trovare un lavoro, che alla fine si è inventato come rappresentante di bibite; un indennizzo, per essere diventato “un disadattato sociale. In carcere entri uccellino ed esci avvoltoio”, sentenzia. E a confermare le sue parole sono proprio le statistiche sulla recidiva, tanto più bassa quanto più i. detenuti sono ammessi a misure alternative. Ed è l’esperienza di chi opera dietro le sbarre a denunciare che, spesso, “il carcere genera solo altro carcere”. Ma certe riflessioni - e le deduzioni che porterebbero con sé - faticano a entrare nel dibattito pubblico e restano il più delle volte confinate nella consapevolezza di chi decide di capire davvero e di andare a conoscere la vita dall’altra parte del muro. Dove comunque vive un pezzo della Repubblica Italiana: una comunità popolata non di rado anche da uomini e donne che li, tra camminamenti, raggi e celle, non sarebbero dovuti entrare. Vittime di drammatici errori giudiziari. Uomini, come Angelo Massaro, derubati di pezzi di vita. Giustizia, Bonafede riconfermato, Viminale ai Dem di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 agosto 2019 Non esiste nascita di governo che non sia accompagnata dal toto-ministri. Il confronto tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico è serrato, le caselle da riempire molte. Tra i confermati del precedente esecutivo dovrebbe esserci il Guardasigilli pentastellato, Alfonso Bonafede, mentre a traballare sarebbe la poltrona della titolare della Difesa, Elisabetta Trenta, che però gode dei favori dei militari che la vorrebbero ancora al suo posto (in alternativa, sarebbe pronto Franco Gabrielli). Altra conferma dovrebbe essere quella di Giulia Grillo alla Sanità, mentre Riccardo Fraccaro potrebbe prendere il posto di Giulia Bongiorno alla Pubblica amministrazione. Silurato quasi di certo, invece, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, con tutta probabilità sostituito da un altro grillino. Tra i palazzi circola il nome di Stefano Patuanelli, anche se il Pd ambirebbe a collocare proprio lì Graziano Delrio (in alternativa in odore della poltrona alle Politiche sociali). Quanto ai ministeri di peso, i dem reclamano per sé Viminale e Ministero degli Esteri, da assegnare rispettivamente ad Andrea Orlando e Paolo Gentiloni. Enzo Moavero Milanesi, però, non sembra disposto a lasciare senza contropartita la Farnesina, per la quale piacciono anche i nomi di Roberto Gualtieri ed Enrico Letta. Allo Sviluppo economico - spacchettato dal ministero del Lavoro dove vorrebbe rimanere Luigi Di Maio - dovrebbe arrivare la vice di Zingaretti, Paola De Micheli, mentre il nome di Maurizio Martina circola con insistenza (alle Regioni), cosi come quello di Ettore Rosato (Rapporti con il Parlamento). Per i renziani, ancora in forse sull’entrata ufficiale in Esecutivo, potrebbero avere chance Lorenzo Guerini, Anna Ascani (Cultura) e Simona Malpezzi (Istruzione). Una delle maggiori incognite riguarda il delicato ministero dell’Economia, dove le quotazioni di Giovanni Tria sono in picchiata: il Quirinale vorrebbe un tecnico e a circolar e è il nome di Lucrezia Reichlin, molto vicina a Mario Draghi. Altro dilemma rimane intorno ai vicepremier: il Pd ne vuole solo uno e di segno dem (Dario Franceschini), i 5 Stelle insistono per mantenere Di Maio in quel ruolo. Conte potrebbe invece decidere di non nominarne nemmeno uno e di optare solo per due sottosegretari. Uno dei nodi, tuttavia, sono le donne: troppo poche, tanto da scatenare la caccia alle potenziali ministre. Nuovo governo e giustizia penale: l’Ucpi scrive a tutti i parlamentari di Gian Domenico Caiazza* camerepenali.it, 30 agosto 2019 L’Unione ha inviato a tutti i parlamentari il “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto processo”, redatto, all’esito di mesi di confronto e discussione, in collaborazione con un gruppo di qualificati docenti di diritto penale e processuale, e poi condiviso dai nomi più prestigiosi della Accademia italiana. Un condensato dei principi ai quali si auspica che la politica voglia ispirarsi nelle scelte in materia di giustizia penale: presunzione di non colpevolezza, eccezionalità della privazione della libertà personale prima del giudizio, terzietà del Giudice, effettività delle impugnazioni, ragionevole durata del processo, finalità rieducativa ed umanità della pena nel rispetto della dignità della persona, tipicità, proporzionalità ed extrema ratio del precetto penale e tutti gli altri principi raccolti nei 35 Canoni del Manifesto. --------- Illustre Senatore, Illustre Senatrice, Illustre Onorevole, l’Unione delle Camere Penali non ha certo titolo ad esprimere giudizi o anche solo auspici in ordine alla soluzione della crisi di Governo che oggi occupa tutte le forze politiche e parlamentari. Sappiamo però che arriverà il momento nel quale ciascuno di Voi sarà chiamato ad esprimersi nel merito del programma di Governo del Paese - se non verranno sciolte le Camere - e dunque, tra i temi di maggiore impatto politico, anche sulle scelte in materia di Giustizia Penale. Riteniamo perciò di farLe cosa utile, e spero gradita, offrendoLe la occasione di leggere e conoscere approfonditamente il nostro “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto processo”, che ho il piacere di inviarLe in allegato. Il Manifesto è stato redatto, all’esito di mesi di confronto e discussione, da un gruppo di qualificati docenti di diritto penale e processuale, e poi condiviso dai nomi più prestigiosi della Accademia italiana in una presentazione e discussione pubblica a Milano di importanza davvero senza precedenti per il numero e l’autorevolezza dei suoi partecipanti, come potrà ben riscontrare dalla locandina dell’evento che accompagna la brochure. Sono questi i principi ai quali auspichiamo si voglia e si debba ispirare una politica della giustizia penale che abbia a cuore i fondamentali valori scolpiti nella nostra Costituzione: presunzione di non colpevolezza, eccezionalità della privazione della libertà personale prima del giudizio, terzietà del Giudice, effettività delle impugnazioni, ragionevole durata del processo, finalità rieducativa ed umanità della pena nel rispetto della dignità della persona, tipicità, proporzionalità ed extrema ratio del precetto penale, e tutti gli altri principi raccolti nei 35 Canoni del Manifesto. Nella speranza che Lei voglia condividere e fare propri questi principi che la comunità dei giuristi italiani ha ritenuto di esprimere in questo importante Manifesto, esprimo l’auspicio, a nome di tutti i penalisti italiani, che Ella voglia operare fattivamente perché il programma sulla Giustizia penale del prossimo Governo possa ad essi ispirarsi con convinzione e rigore. Grato per la Sua attenzione, Le rivolgo gli auguri di un proficuo lavoro ed i saluti più cordiali. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Bonafede-Orlando, intesa sull’avvocato in Costituzione di Errico Novi Il Dubbio, 30 agosto 2019 Un punto d’incontro c’è: la riforma del Csm. Il resto per ora fa parte dei satelliti. Ma nel cuore del sistema solare giallo- rosso, la giustizia entra eccome. Non solo nelle parole di Giuseppe Conte, che dopo la formale assunzione dell’incarico si limita all’affermazione di valori per una “giustizia ancora più equa”. La convergenza almeno parziale su uno dei dossier da sempre “caldi” è nero su bianco anche nel documento congiunto messo a punto la sera prima dagli sherpa dei due partiti. Una task force che va dal capogruppo dei pentastellati alla Camera Francesco D’Uva a un dirigente dem come Andrea Martella, coordinatore della segreteria e non a caso tra i più vicini, da sempre, all’ex guardasigilli Andrea Orlando. C’è dunque una notizia certa: dell’ampio ddl messo a punto da Alfonso Bonafede (e “respinto” dalla Lega) verrà senz’altro messa al sicuro la parte che ridisegna l’organo di governo autonomo dei magistrati. Sia riguardo al sistema per eleggere i togati, con il ricorso al sorteggio per individuare i candidabili e limitare le correnti, sia rispetto alla composizione, con il numero dei consiglieri innalzato da 26 e 30 e la “specializzazione” dei componenti assegnati alla sezione disciplinare, che non potranno far parte di alcuna altra commissione. Ma l’intesa già trovata su un tema così delicato - che implica una scelta netta sulla magistratura - non va colto come un’eccezione. Preannuncia, anzi, una parziale convergenza tra le due figure che daranno le carte in materia di giustizia: lo stesso ministro uscente, e in via di riconferma, Alfonso Bonafede, e il suo predecessore, Orlando appunto. È evidente che, se esistono materie destinate a vederli contrapposti, a cominciare dalle intercettazioni, ce ne sono altre sulle quali sono destinati a un’intesa assai più stabile della rapsodica convivenza Bonafede-Bongiorno. E se nella seconda categoria la riforma del Csm è già formalmente inclusa, lo sarà a breve, e anzi lo è già nei fatti, anche la riforma costituzionale sul ruolo dell’avvocato. Poche settimane prima che deflagrasse la crisi con la Lega, infatti, Orlando aveva tenuto a rassicurare Bonafede sulla propria disponibilità a sostenere il ddl sulla professione forense. D’altronde lo stesso Cnf, che sollecita la politica a sancire nella Carta la “libertà e indipendenza” dell’avvocato, ha fin dall’inizio auspicato che sul tema potessero convergere tutte le forze politiche”, per citare Andrea Mascherin. Convergenza possibile a maggior ragione ora. Se infatti il vicesegretario dem è prontissimo a schierare il suo partito per l’avvocato in Costituzione, lo è anche la Lega: il ddl che introduce la riforma, infatti, ha come primo firmatario il capogruppo del Movimento al Senato Stefano Patuanelli, ma è sottoscritto anche dal presidente dei senatori del Carroccio, Massimiliano Romeo. Il testo, che integra l’articolo 111 e che afferma innanzitutto l’imprescindibilità dell’avvocato nel processo, è assegnato alla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. L’esame non è ancora iniziato anche per scelta del leghista che guida la prima commissione, Stefano Borghesi, rigoroso nel voler evitare ingorghi nel calendario e determinato dunque ad avviare l’esame del ddl sulla professione forense solo dopo il definitivo via libera al taglio dei parlamentari. Ma è chiaro che l’imprevedibile cambio di maggioranza rafforza eccome la spinta a favore della legge 1199. Tra la linea sulla giustizia di Bonafede e quella adottata, nella legislatura precedente, da Orlando, c’è infatti un’analogia evidente: entrambi hanno fin dall’inizio stabilito un rapporto di intenso confronto con gli avvocati, e in particolare con il presidente del Cnf Mascherin. Non una sintonia assoluta: se tra l’avvocatura e Bonafede resta il solco aperto dalla “nuova” prescrizione, con Orlando non è ancora chiusa la ferita della riforma penitenziaria lasciata incompiuta. Ma entrambi hanno subito riconosciuto la centralità dell’avvocatura nella giurisdizione e la necessità di assegnarle un’autonomia assimilabile a quella dei magistrati. Ora, con l’intesa che vede l’asse sulla giustizia imperniato proprio su Bonafede e Orlando, il riconoscimento costituzionale della professione forense è davvero a portata di mano. Calabria: Agostino Siviglia nominato Garante regionale dei detenuti di Federico Ferraro* ilcirotano.it, 30 agosto 2019 Mi congratulo per la nomina e formulo gli auguri di buon lavoro al neo Garante Regionale dei Detenuti per la Calabria il collega avvocato Agostino Siviglia. La nomina del Garante Regionale dei diritti dei detenuti rappresenta una conquista di civiltà per la nostra regione. Siviglia rappresenta sicuramente una figura di riferimento e di esperienza ultra decennale nel settore della vigilanza sulla detenzione carceraria, avendo appunto ricoperto, come primo calabrese, l’incarico di Garante dei detenuti per la Città Metropolitana di Reggio Calabria. Ho avuto modo di constatarne le doti professionali personalmente, non soltanto all’atto di questa sua ultima nomina, ma anche in occasione della Presentazione dell’Ufficio comunale del Garante qui a Crotone, lo scorso ottobre. Ci siamo ritrovati in questi mesi al fianco degli altri garanti territoriali per sostenere le necessarie sfide al fine di garantire i doverosi diritti delle persone detenute. Importante in questo senso è stato il risultato dell’attivazione del servizio di Skype per potenziare i colloqui tra i detenuti e i loro familiari come anche l’aver sollevato attenzione su temi non procrastinabili quali il sovraffollamento carcerario o la carenza di personale nell’ambito dell’A.P. il collegamento continuo con la rete nazionale dei garanti che ci ha visti presenti in momenti significativi: da ultimo la relaziona annuale del Garante nazionale Mauro Palma alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e di tutti i vertici istituzionali. Questa nomina da parte del Presidente Irto permette di realizzare una forte e valida coesione sociale, tra i garanti, e sarà di supporto e guida per la nostra regione e per la città di Crotone. Sono certo che Agostino saprà garantire una tutela effettiva e sempre più ampia per l’intero settore della detenzione carceraria e per il reinserimento socio lavorativo dei detenuti o ex detenuti. Siviglia potrà certamente promuovere la nomina di altri garanti comunali nelle singole realtà calabresi. Attualmente - spero per poco - rimango l’unico garante comunale della nostra regione. Sono certo che il nuovo Garante Regionale proseguirà nel meritorio compito, già intrapreso a Reggio Calabria, di affrontare e risolvere le criticità da affrontare e restituire alle persone private a vario titolo della libertà personale dignità e rispetto. *Garante Comunale di Crotone Perugia: detenuto suicida a Capanne, era in cella di isolamento umbriajournal.com, 30 agosto 2019 Un detenuto tunisino, di circa 30 anni, si è suicidato questa mattina (attorno alle 7) nel carcere di Capanne, a Perugia. L’uomo, stando a quanto riferisce Angelo Romagnoli, vicesegretario regionale del sindacato Osapp, ha compiuto il gesto estremo nel reparto di isolamento dell’istituto di pena. Firenze: carcere di Sollicciano emergenza democratica di Luca Bisori* e Luca Maggiora** Corriere Fiorentino, 30 agosto 2019 la cronaca ferragostana narra della visita a Sollicciano della Camera penale e del Partito Radicale, nonché del sindaco Nardella. Il resoconto della visita è mesto quanto consueto: 757 detenuti presenti, capienza regolamentare 450, sovraffollamento del 170%, si sta in 5 dove si potrebbe stare al massimo in 3. Negli stessi giorni alcuni locali versiliesi sono stati chiusi, con clamore, per superamento della capienza regolamentare: a Sollicciano è invece la condizione ordinaria, non del breve volgere d’una serata danzante, bensì della vita quotidiana di centinaia di persone, ammassate in locali incandescenti d’estate e gelidi d’inverno, invasi da acqua di origine indecifrabile che fuoriesce dagli scarichi delle docce, esondando per celle e corridoi. Condizioni che causerebbero l’immediata chiusura di qualsiasi struttura, ma non del carcere: qui, evidentemente, sicurezza, diritti, dignità dei detenuti non valgono tanto quanto quelli dei liberi, con buona pace della Costituzione e della legge. Questa assuefazione alla illegalità conclamata ha del paradossale: si manifesta proprio nel luogo ove lo Stato punisce chi ha violato la legge. Cronaca tragicomica di un fallimento annunciato. Rieducare, risocializzare, è questo il precetto costituzionale per la pena: ma come può seriamente proporsi un simile obiettivo se per 750 detenuti lavorano appena 5 educatori, uno ogni 150? Se chi vuol lavorare deve attendere turni di 8 mesi, per poi lavorare manciate di giorni? Se, pressoché inesistenti altre attività, i detenuti restano chiusi in cella di fatto 22 ore su 24? (...). L’indifferenza alle condizioni di vita dei detenuti affondano le radici in un terreno ideologico pervaso da una ossessione emotiva per la pena detentiva, da una idea del carcere come luogo di neutralizzazione fisica se non di “marcescenza” del colpevole, per cui la sola evocazione dei diritti dei detenuti viene subito bollata come buonismo radical chic: idea che ha partorito riforme improntate a parossistici aumenti di pena e riduzione degli spazi per le misure alternative. È vero, la difesa dei principi di garanzia è contro-intuitiva: nel dibattito pubblico è assai più facile indulgere alla logica della vendetta collettiva, strumentalizzare il dolore e la rabbia delle vittime per chiedere a gran voce pene esemplari ed indefettibili, meglio se durissime e disumane. Ma proprio guardando il carcere dobbiamo chiederci: che democrazia vogliamo essere? La Costituzione e le Convenzioni internazionali proclamano che umanità e dignità sono valori irriducibili di ogni uomo, anche colpevole, e che ogni eccesso di afflizione oltre la privazione della libertà costituisce un arbitrio. Sospendere la tutela dei diritti in carcere è sciaguratamente pericoloso (...). In più, l’ossessione carcerocentrica è miope: le statistiche dimostrano che chi fa tutto e solo carcere torna a delinquere molto più di chi sconta parte della pena in misura alternativa. Investire sul carcere può non pagare in termini elettorali, ma è più intelligente. Un Paese civile, insomma, considererebbe un’emergenza democratica il ripristino della legalità costituzionale in carcere; ed una classe politica lungimirante investirebbe su carcere e pene alternative, rivendicando le ragioni (etiche e funzionali) del proprio agire. *Presidente della Camera Penale di Firenze *Rappresentante dell’osservatorio Carcere Unione Camere Penali Monza: carcere di via Sanquirico, quella precarietà che umilia i valori di Claudio Colombo ilcittadinomb.it, 30 agosto 2019 Carcere sovraffollato e personale sotto organico, tribunale bisognoso di manutenzioni: il sistema-giustizia di Monza è in evidente difficoltà. I problemi sono risolvibili ma come al solito mancano i fondi. Intanto si scende un gradino nella scala della civiltà. L’emergenza è nei numeri: i detenuti nel carcere di via Sanquirico sono troppi, l’indice di sovraffollamento è tra i più alti in Lombardia, gli agenti penitenziari sono ampiamente sotto organico e, dettaglio che rafforza il paradosso, le dotazioni dei mezzi a disposizione sfiorano un livello da terzo mondo, tanto da far dire ai sindacati che auto e furgoni vanno a pezzi e difficilmente passeranno la prossima revisione. Non è da paese civile amministrare la giustizia quando si perdono di vista i valori che dovrebbero ispirarla, soprattutto se la struttura dove esercitare la funzione rieducativa della pena non è al passo con una situazione logistica accettabile. Il carcere di Monza è un modello per molti istituti di pena, tali e tante sono le iniziative a favore dei detenuti proprio in funzione del recupero sociale e di una pedagogia finalizzata al reinserimento, a condanna scontata, nel mondo del lavoro. Ma se non ci sono le precondizioni perché si possa operare con profitto - un ambiente umano, spazi praticabili, “secondini” non stressati da troppi turni di lavoro -, ogni sforzo rischia di essere vano. Le conseguenze sono pesanti: la quotidianità precaria fa aumentare la tensione e alzare pericolosamente i livelli di conflittualità. Che il sistema-giustizia attraversi un momento di evidente difficoltà è testimoniato anche dalle condizioni in cui si trova il tribunale di Monza, alle prese con impianti elettrici che saltano, calcinacci che cascano, tubi che perdono acqua. Problemi seri, eppure risolvibili, anche se alla fine la risposta è sempre la stessa: soldi non ce ne sono, impossibile provvedere. Passato il momento, tutto resta come prima. E intanto si è sceso un altro gradino nella scala della civiltà. Roma: dalla cura del verde al rifacimento delle strade, 130 detenuti impiegati (gratis) ansa.it, 30 agosto 2019 Risultati positivi per i progetti di lavori di pubblica utilità attivi nella Capitale, grazie agli accordi congiunti fra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Le iniziative attive, che vedono il coinvolgimento dei detenuti del carcere di Rebibbia, al momento prevedono la cura del verde, in collaborazione con il Servizio Giardini di Roma Capitale, e il rifacimento della segnaletica orizzontale e pulitura di caditoie stradali, con la società Autostrade per l’Italia Spa. Nel 2019, con dati aggiornati al 30 giugno, sono 68 le persone che si sono dedicate al ripristino del decoro del verde urbano, con relativi attestati di qualifica rilasciati dal Servizio Giardini di Roma Capitale, per un totale di 12.452 ore, calcolando 4 ore di lavoro giornaliere, donate alla città. Per quanto concerne il progetto “Mi Riscatto per Roma”, realizzato con Autostrade per l’Italia, attualmente sono 15 le persone coinvolte, sempre con relativi attestati al termine, con un totale di 2.712 ore di lavoro gratuito per le strade di Roma. Nel prossimo mese altri 30 detenuti, terminato il corso per la manutenzione delle strade, potranno lavorare attivamente. 20 inizieranno, invece, il corso del Servizio Giardini. Questi progetti si fondano su attività di lavoro volontario, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, promuovendo un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. Tramite la pratica lavorativa, inoltre, si diminuisce nettamente la possibilità di recidiva, come dimostrato sempre dai numeri: sono 7 le persone che hanno partecipato alle varie iniziative e che, non appena uscite dal regime di detenzione, hanno trovato un impiego proprio negli ambiti di applicazione dei progetti che li hanno visti coinvolti. “Come Amministrazione le attività volte a sviluppare percorsi di reintegrazione lavorativa per le persone in regime detentivo sono un obiettivo di primaria importanza. I numeri lo dimostrano: abbiamo avviato due progetti per ripristinare il decoro urbano sia sotto il profilo del verde che della manutenzione stradale, entrambi con successo. Non ci fermiamo e proseguiamo su questa linea grazie alla fattiva collaborazione con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia. Questa prima fase del progetto ha infatti messo in luce come queste attività rappresentino un mezzo più che valido per coniugare le esigenze di Roma Capitale di cura del territorio con il reinserimento sociale dei detenuti”, ha commentato la sindaca di Roma Virginia Raggi. “Seguo personalmente il progetto fin dalle sue origini, quando nel dicembre del 2017 firmammo la prima Lettera d’Intenti. L’iniziativa ha riscosso subito grande approvazione, dalla cittadinanza che ha accolto con calore i detenuti in strada fino alle istituzioni, che hanno potuto vedere e apprezzare i risultati tangibili ottenuti. I numeri sono incoraggianti, testimoniano la validità del progetto, cercheremo, però, di incrementarne la mole nei prossimi mesi. Posso affermare, infatti, che a breve firmeremo un nuovo Protocollo di Intesa con il Ministero e il Dap per allargare i progetti anche in altri ambiti, ad esempio presso le aziende agricole di Roma Capitale, e coinvolgendo altri istituti penitenziari. Ringrazio infine il Tribunale di Sorveglianza, le varie istituzioni e società coinvolte nei singoli progetti e gli agenti della Polizia Penitenziaria per l’impegno e l’apprezzamento dimostrato finora”, ha detto l’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Daniele Frongia. “Numeri positivi e che ci fanno ben pensare, il nostro obiettivo sarà quello di analizzare i dati e fare in modo di incrementare tali iniziative, per i detenuti poter imparare un mestiere che permetterà loro di avere delle possibilità lavorative una volta estinto il proprio debito con la società è di fondamentale importanza. Solo attraverso la rieducazione del reo potremo avere, infatti, una riduzione della piccola criminalità, il mio obiettivo in qualità di Garante è proprio quello di dar vita a delle situazioni di miglioramento delle condizioni delle persone in carcere, i progetti che prevedono i lavori di pubblica utilità sono il mezzo migliore per arrivare a tale scopo”, ha sottolineato il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. Venezia: dalla Mostra del Cinema alla Giudecca, Paolo Virzì incontra le donne detenute di Teresa Valiani Redattore Sociale, 30 agosto 2019 L’evento, in programma domani, è promosso dall’associazione Balamòs Teatro nell’ambito del progetto ‘Passi sospesi’. In proiezione, oggi, alla Mostra il docu-film di Jo Squillo “Donne in prigione si raccontano”. Dalla giuria della 76ma Mostra internazionale del Cinema di Venezia al palcoscenico del carcere della Giudecca, il regista Paolo Virzì domani sarà ospite del progetto teatrale ‘Passi sospesi’. Promosso dall’associazione Balamòs Teatro, diretta dal regista e pedagogo teatrale Michalis Traitsis, il progetto coinvolge gli istituti penitenziari di Venezia (Casa di reclusione femminile di Giudecca e Casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore) e si lega al Festival a doppia mandata. “Attivo dal 2006 - spiega il regista - “Passi sospesi” dal 2009 vede una collaborazione con la Mostra del Cinema che si è svolta su più livelli. Nel tempo abbiamo organizzato incontri e proiezioni nell’ambito del Festival mentre negli ultimi anni ci siamo concentrati sull’organizzazione di iniziative all’interno del carcere: ci sembrava più opportuno far venire la Mostra in carcere invece che andare alla Mostra noi. Per questo ogni anno scegliamo un artista sulla base del suo lavoro ma anche del suo impegno sociale, per promuovere l’incontro con le donne detenute”. Negli anni scorsi hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica e David Cronenberg. Alla vigilia di ogni incontro sono promosse le proiezioni delle pellicole più rappresentative di ogni regista per favorire l’incontro con l’ospite “e aspettando Virzì - prosegue Michalis Traitsis - abbiamo proposto la visione di ‘Ovosodo’, ‘Il capitale umano’ e ‘Pazza gioià. I film sono scelti tra quelli che più rappresentano il regista sia dal punto di vista artistico che etico e che sono più vicini al lavoro che svolgiamo all’interno del carcere. Domani, quando verrà il regista, le donne detenute avranno già visto tre dei suoi film e si farà un incontro sulla base di quello che emerge come problematica etica, artistica e sociale. Quello che posso dire oggi è che i film proposti hanno suscitato molta curiosità e molto interesse e penso che l’incontro di venerdì potrà essere molto proficuo perché il lavoro di Virzì è riuscito a creare un certo movimento all’interno del carcere”. “La collaborazione di Balamòs Teatro con gli istituti penitenziari di Venezia e la Mostra internazionale d’Arte Cinematografica - spiega una nota dell’associazione - ha come obiettivo ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli istituti penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che vede partner il Coordinamento nazionale di teatro in carcere, l’Associazione nazionale dei critici di teatro, il Teatro stabile del Veneto, l’università Cà Foscari di Venezia, il Centro teatro universitario di Ferrara e la Regione Veneto. Per il progetto teatrale ‘Passi Sospesi’, Michalis Traitsis ha ricevuto nell’Aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel Novembre del 2013 il Premio dell’Associazione nazionale dei critici di teatro”. Verrà invece presentato oggi alla Mostra del Cinema ‘Donne in prigione si raccontano’, il docu-film diretto da Jo Squillo e scritto con Giusy Versace e Francesca Carollo. La proiezione è prevista per le 16.00 all’Hotel Excelsior, al Lido di Venezia, nello Spazio della Regione Veneto, e alle 17.30 alla Pegaso Lounge, in un incontro riservato a una platea di studenti. Alla presentazione interverranno anche tre donne detenute a San Vittore che hanno partecipato alla realizzazione del documentario. “Il docu-film è stato realizzato in collaborazione con Auser Regionale Lombardia - spiega una nota della produzione - e fa parte di un progetto di solidarietà della Onlus Wall of Dolls, promossa da Jo Squillo contro la violenza sulle donne. Dal mese di marzo 2016 Auser Regionale Lombardia gestisce a San Vittore il coro gospel delle detenute, con la direzione artistica di Sara Bordoni e Matteo Magistrali e la canzone originale con cui si chiude il cortometraggio ha le parole toccanti di una giovane donna detenuta che proprio in carcere ha scoperto il proprio talento, mentre la musica porta la firma di Matteo Magistrali e l’arrangiamento è opera di Pippo Muciaccia”. Ferrara: Buskers Festival in carcere, standing ovation dei detenuti estense.com, 30 agosto 2019 Nothing Concrete e Utungo Tabasamu portano musica e allegria in Arginone. La neo direttrice si commuove: “Vi auguro ogni bene”. “Ci avete permesso di ‘uscire’ fuori dal carcere e andare nella strada: questa apertura alle barriere, togliendo una pietra alle mura del carcere, ci fa sentire ancora vivi, grazie per esservi ricordati di noi”. Nelle parole di un detenuto è racchiuso tutto il senso, quello più pieno e meraviglioso, della visita del Ferrara Buskers Festival alla casa circondariale di via Arginone. Sono le canzoni folk della band melting pot Nothing Concrete e le originali percussioni degli italiani Utungo Tabasamu a tenere compagnia nella mattinata di giovedì ai detenuti radunatasi nella sala ricreativa, che accompagnano la colorata esibizione battendo il tempo con le mani, lanciandosi in ovazioni e concludendo con una doppia standing ovation. “È un piacere essere qui per il quarto o quinto anno, portando i musicisti di tutto il mondo non solo in centro storico ma anche in carcere dove condividere un momento di allegria e festa” commentano all’unisono il direttore artistico Stefano Bottoni e il direttore organizzativo Luigi Russo prima di aprire le danze. Il mix di canzoni folk, world, blues e swing proposto dai Nothing Concrete - composto da sei giovani provenienti da Francia, Belgio, Italia, Scozia e con sede a Tolosa - intrattiene il pubblico dell’Arginone a suon di chitarra, contrabbasso, sax e batteria (e marionetta), anche se sono le coreografie di tip tap e lindy hop a strappare più applausi. Il caldo si fa sentire - “non ci avevano detto che potevamo fare una sauna gratuita” scherza Gaia Miato, l’unica italiana della band - ma è già tempo di far salire sul palchetto gli scatenati Utungo Tabasamu che l’anno scorso hanno vinto il contest “Vota il tuo busker preferito”. Al quartetto bastano padelle, scatole di latta, bidoni, scope, palette, fischietti e sturalavandini per trasformare oggetti di uso quotidiano in strumenti musicali capaci di coinvolgere il pubblico, fuori e dentro le sbarre. Partecipare alla performance è inevitabile e i ringraziamenti sono d’obbligo: “Vogliamo ringraziare tutta l’organizzazione del Buskers Festival, la direttrice Nicoletta Toscani, la comandante Annalisa Gadaleta, il reparto educatori, la garante dei detenuti Stefania Carnevale, la polizia penitenziaria e gli stessi buskers” commenta un detenuto, rappresentante del laboratorio di bricolage Artenuti che ha regalato un leggio di legno personalizzato con il nome a ogni musicista e altri omaggi allo staff del Fbf e alla direttrice, oltre a una cassetta di ortaggi coltivati direttamente nel Galeorto. “Mi sono commossa a leggere la dedica, in cui rivedo il mio percorso di direttore negli ultimi 30 anni e i sentimenti che vorrei condividere con voi: mi auguro che abbiate tutto il bene che vi meritate quando uscirete da uomini liberi” è il tenero messaggio della neo direttrice Nicoletta Toscani nel leggere l’incisione. Una poesia piuttosto eloquente: “Ho sognato che camminavo in riva al mare con il Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia due orme: le mie e quelle del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto una sola orma, proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili? “ E lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che io ti amo e non ti ho abbandonato mai: i giorni nei quali c’è soltanto un’orma sulla sabbia sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”. Rinascita oltre le sbarre di Claudia Meschini Il Gazzettino, 30 agosto 2019 Alla Mostra del Cinema di Venezia il dolore delle donne e il desiderio di riscatto: un documentario per raccontare la vita di persone che hanno fatto scelte sbagliate dopo eventi tragici. Hasna, bruciata con l’acido da un uomo che provava per lei un amore malato cade nel tunnel della droga e, dopo una notte di abusi di stupefacenti, si ritrova dietro le sbarre. Josephine, una vita di violenze, la totale assenza della famiglia, l’abbandono la trascinano nella trappola della prostituzione. In carcere ha trasformato il suo dolore nell’amore per la cucina, diventando un’ottima chef. Yvonne, filippina, un marito che la picchia e la tradisce, poi l’amore sbagliato per uno spacciatore: inizia a prendere metanfetamina e si mette a spacciare anche lei. Errori su errori che la portano in cella e, oggi, a un percorso di rinascita. Svelare queste vite, in cui il dolore si mescola a un forte desiderio di riscatto, è l’obiettivo di Donne in prigione si raccontano, un docu-film realizzato all’interno della Sezione Femminile del carcere San Vittore di Milano. Curatrici del progetto Francesca Carollo, giornalista, Jo Squillo, conduttrice televisiva e Giusy Versace, deputata, atleta paraolimpica nonchè Aquila del Carnevale di Venezia 2015. Un breve stralcio della pellicola (10 ore complessive), è stato presentato ieri all’Excelsior, allo Spazio della Regione Veneto, dove oltre alle detenute protagoniste in permesso speciale, e alle curatrici del progetto, era presente un vasto parterre di politici: il ministro ai Beni Culturali Alberto Bonisoli, l’assessore alla Cultura della Regione del Veneto Cristiano Corazzari, la vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Lina di Domenico, la senatrice Daniela Santanchè, il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, l’euro deputata Alessandra Moretti e la presidente del Consiglio Comunale di Venezia Ermelinda Damiano. “Un anno e mezzo per ottenere i permessi per realizzare il progetto, una ventina di incontri con le detenute all’interno del carcere. Così è nato questo video che vuole rivelare un mondo ai più sconosciuto: quello delle vite di donne che hanno commesso un reato, sono cadute ma che oggi affrontano la risalita” ha detto Francesca Carollo. “Il percorso rieducativo le ha portate anche a imparare una professione: quella di video-operatrice. Perché sono state loro stesse, dopo un corso all’interno dell’istituto di pena, a filmare le loro interviste, a immortalare sensazioni e immagini, a diventare registe delle loro storie” ha aggiunto Jo Squillo. “Queste donne dovranno essere seguite, sostenute, quando usciranno perchè possano reinserirsi nella società e avere una seconda opportunità” ha detto Giusy Versace. Sul problema della recidiva si è soffermato il ministro ai Beni Culturali Alberto Bonisoli: “Oggi il carcere non aiuta i detenuti a intraprendere un reale percorso rieducativo. La detenzione non deve essere solo un percorso punitivo ma anche di riabilitazione”. “Non bisogna però dimenticare che i detenuti sono persone che hanno fatto del male ad altre persone - ha puntualizzato Daniela Santanchè - il mio pensiero va quindi anche a chi è stato vittima di chi ora è in galera, io sono contraria agli sconti di pena. La certezza della pena deve essere un punto fondamentale del sistema di giustizia”. “Certezza della pena ma anche processi brevi” ha aggiunto Alessandra Moretti. Il documentario si inserisce all’interno delle iniziative della Onlus Wall of Dolls, volta a sostenere i progetti contro la violenza sulle donne. “Donne in carcere”. Squillo, Carollo e le vite interrotte di Camilla Gargioni Corriere Veneto, 30 agosto 2019 Il carcere, vissuto da dentro, nelle voci e nei volti delle detenute, nelle loro storie che volano oltre le sbarre. E lo fanno grazie al docu-film “Donne in carcere”, diretto da Jo Squillo e Francesca Carollo: dieci ore di girato all’interno della casa circondariale di San Vittore a Milano. Ieri, la presentazione alla Mostra del cinema al Lido, al cospetto di politici e autorità. La storie di queste vite dannate si intrecciano l’una all’altra, riaffiorano dolori e, spesso, paure e rassegnazione di fronte al futuro. Resta, tuttavia, di fondo, la speranza di poter ricominciare, una volta uscite. Le voci delle donne di San Vittore riescono, quasi inconsapevolmente, a dipingere un quadro dello stato dell’arte delle case circondariali italiane, e i loro racconti diventano una denuncia come ha sottolineato ieri Squillo. “Entrare in questa realtà è stato così toccante che per molte notti non sono riuscita a prendere sonno - ha sottolineato la cantante-regista - Le ragazze e le donne che ho incontrato mi hanno insegnato moltissimo. Questo film è un atto rivoluzionario”. Una carrellata di volti e, su tutto, una canzone, corale: il simbolo del documentario. “L’hanno scritta loro, un ottimo esempio di atto rieducativo - ha spiegato la parlamentare Giusy Versace (Forza Italia) - Ma non basta. Quando queste donne escono dal carcere, sono lasciate sole, abbandonate. Dovrebbero, invece, essere seguite con continuità”. Quindi le storie, “Il pregiudizio ci accompagnerà sempre - racconta Josephine, una delle detenute protagoniste - è giusto pagare per i reati che abbiamo commesso, ma dobbiamo ripartire da noi stesse per riconquistare la fiducia altrui”. E Stefania, “i sogni sono l’unica cosa che mi è rimasta in carcere è come se fossi tornata bambina. Mi immagino avvocato, magari specializzata in criminologia o, chissà, visto tutti i pasticci che ho combinato potrei diventare pasticcera”. Quando sullo schermo, ieri, sono scorsi i titoli di coda e in sala si sono riaccese le luci, il confronto politico - squisitamente teorico, per quanto ricco di buone intenzioni - tra chi aveva assistito alla proiezione. “Il problema è la recidività - ha detto il Ministro per i beni e le attività culturali Alberto Bonisoli - bisogna essere determinati, costanti e forti nell’affrontare questo tema. Costruire nuove carceri non basterà”. Della stessa opinione, l’eurodeputata Alessandra Moretti (Pd): “Uno Stato civile deve garantire che si affronti tema rieducativo della giustizia. Nel documentario vengono messe al centro dell’attenzione persone cui normalmente non viene data la possibilità di esprimersi”. Infine, la senatrice Daniela Santanchè (Fi), per dieci anni impegnata proprio a San Vittore, “quando si aprono i cancelli, si capisce che cosa significa essere privati del bene più prezioso per gli uomini, la libertà”. Se per il governo le navi Ong saranno ancora i “taxi del mare” di Luigi Manconi La Repubblica, 30 agosto 2019 Possiamo considerarlo un particolare irrilevante, e d’altra parte, da decenni ci si chiede se nel dettaglio si nasconda il Diavolo oppure Dio. Tuttavia non è forse senza significato che, tre giorni fa, il giornale radio della Rai abbia definito “esultante” - eccolo il diavoletto nel dettaglio - il ministro Matteo Salvini. Tanto entusiasmo nella settimana più rovinosa della sua vita politica si dovrebbe alla circostanza che due ministri indicati dal M5Stelle (Toninelli e Trenta) avessero firmato il decreto voluto da Salvini, per vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane alla nave Mare Jonio, della piattaforma Mediterranea Saving Humans. E questo proprio mentre si stava stringendo l’accordo tra quel partito, il M5Stelle, e il Pd per dare vita ad un nuovo governo, e mentre Luigi Di Maio rilasciava una dichiarazione piuttosto inquietante: “Non rinnego il lavoro fatto insieme alla Lega in questi 14 mesi”. Una frase, quest’ultima, che non induce certo a consegnare all’oblio degli archivi e della nostra periclitante memoria la brillante definizione delle ong data dallo stesso Di Maio: taxi del mare. La questione non è meramente linguistica, anche se mai come in questo caso, “sono le parole che costruiscono il mondo”: la verità è che una parte significativa del gruppo dirigente, dei quadri e dell’elettorato Cinque Stelle condivide la politica per l’immigrazione della Lega (magari utilizzando un vocabolario meno truce), e altri, quella di Alessandro Di Battista, che si affida a una pasticciata miscela di sovranismo terzomondialista ed etnicismo regressivo, il cui esito finale è comunque lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Rispetto a tutto ciò possiamo immaginare quanto arduo possa essere l’intento di segnare quella profonda discontinuità così “sacrosantemente” richiesta dal segretario del Pd. È un’impresa che, oltre a essere faticosissima, esige già da subito segnali inequivocabili. E i tempi dei grandi processi economico-sociali, come l’immigrazione, sono assai più rapidi e incalzanti di quelli richiesti dalle mosse (felpate fino a essere flosce) necessarie per la costituzione del nuovo esecutivo. Anche perché la sofferenza umana arriva a bussare alla nostra porta con tutta l’urgenza dei corpi stremati e torturati: a bordo della Mare Jonio si trova un uomo di nazionalità camerunense che presenta “sette medicazioni per ferite infette alle estremità ed alle natiche (segni di torture ed ustioni chimiche)”, secondo il medico di bordo, la dottoressa Donatella Albini. Sono molte le persone che recano sulle proprie membra le tracce di trattamenti inumani e degradanti, così come, tra le 26 donne, 8 sono in stato di gravidanza e numerose quelle che hanno subito violenza sessuale. Finora il provvedimento promesso dai ministri dimissionari è quello di consentire lo sbarco delle donne, dei 22 bambini, dei 6 minori e dei malati, ma, certo, questo non può essere sufficiente a segnalare un radicale cambiamento di rotta rispetto alla precedente politica. Non va dimenticato, tra l’altro, che nelle circostanze più recenti, l’Europa è stata meno inerte di quanto si creda (nonostante Salvini e, spesso, contro Salvini). La “redistribuzione” dei profughi è stata in qualche modo garantita, seppure in misura assai ridotta, e numerosi Paesi hanno accolto gruppi di migranti sbarcati sulle nostre coste o su quelle maltesi da imbarcazioni mercantili, dalle navi delle ong, da quelle della guardia costiera italiana. E, tuttavia, ciò ha rappresentato, è il caso di dire, una goccia nel mare. Nonostante le menzogne del governo giallo-verde, nel corso del 2019, secondo le stime dell’Unhcr, i morti e i dispersi nel Mar Mediterraneo sono stati 894; e, dopo le più recenti testimonianze, la sola idea di restituire i profughi alla Libia e ai suoi centri di detenzione grida vendetta davanti a Dio e agli uomini. Serve una svolta vera. A partire da una intelligente politica per l’immigrazione che - come ha scritto ieri il Presidente Emerito della Consulta, Valerio Onida, sul Corriere della Sera - consenta di “aprire subito e in misura adeguata alle nostre possibilità vie di ingresso legali in Italia e quindi in Europa”. Dunque, una rottura col passato, e non solo con quello rappresentato dagli ultimi 14 mesi di governo giallo-verde. Su questo - come sull’ambiente, sull’economia e sulla giustizia - verrà valutata la scelta di governo del Pd. Quella svolta, lo sappiamo, incontrerà reazioni e resistenze, ma è qui che si gioca buona parte dell’onore del Pd. Ed è questo che potrà dare, infine, nuove energie e motivazioni a chi, nonostante frustrazioni e depressioni, si voglia ancora di sinistra. Nuovo umanesimo? Allora aprite i porti ai migranti di Luciana Castellina Il Manifesto, 30 agosto 2019 Incarico di governo. C’è molto da fare per ricostruire le condizioni di un confronto meno barbarico e prima ci mettiamo mano, dando a questo obiettivo la priorità che merita nell’agenda politica, meglio sarà. Occorre impegnarsi a riconquistare la società che abbiamo perduto. La prima ragione per la quale sono favorevole a che si faccia al più presto il governo Conte 2 è per far sbarcare quei poveracci ammassati sulle navi soccorritrici delle ong che rischiano di affogare. So bene che chiamare brutto l’esecutivo che si prepara è un eufemismo; e anche che decidere solo in base a come tratterà gli immigrati non è criterio sufficiente per giudicarlo nel suo insieme. E però a me al momento mi basta anche solo questo, perché in questo “solo” ci sono le vite di quelle donne e di quei ragazzi e bambini che ci guardano dallo schermo televisivo terrorizzati ma anche stupefatti dalla nostra cattiveria. C’è poco tempo per salvarli, loro e quelli che sappiamo continueranno ad arrivare nonostante il rischio che sanno di correre. E so che ogni altra soluzione alla nostra crisi di governo - ritorno alla compagine precedente, o lunghissima e assai probabilmente perdente campagna elettorale - rappresenterebbe per loro una sentenza di morte. Sebbene sia rimasta stupefatta per l’allineamento di Toninelli e Trenta al diktat enunciato da Salvini nelle sue ultime ore di esercizio ministeriale, una “disciplina” tanto più inspiegabile in quanto proprio questi due ministri sembravano in un primo tempo - ma era solo conflitto di competenze - non allineati al decreto sicurezza bis; e sebbene sia sconsolata per il silenzio, proprio sul tema migranti, nel primo discorso del presidente incaricato da Mattarella. Nonostante tutto questo credo che, almeno su tale problema, finirà per esserci una discontinuità con il Conte 1: non ha forse parlato di “nuovo umanesimo”: e allora apra i porti ai naufraghi-migranti. Ma anche la dura requisitoria pronunciata in Senato contro Salvini - un discorso per molti versi stupefacente per un’Aula come quella (che ha infatti lasciato allibiti gli osservatori esteri di ogni parte politica) dovrebbe garantire una correzione in quella che è stata la linea più caratterizzante della sua politica, quella dei “porti chiusi”. Direte che il mio è ottimismo da quattro soldi. Che anteporre la politica migratoria ad altre cose più importanti non è giusto. Ma, scusate, che cosa ci offrirebbe di importante e di buono il ricorso al voto? Solo chi ha una ben misera concezione della democrazia può pensare che sia cosa buona e dignitosa per il paese, ridare comunque la parola agli elettori. La democrazia rappresentativa, quella prevista dalla nostra Costituzione, è svuotata di senso se è solo voto ogni qualche anno da parte di una società socialmente e culturalmente frantumata come quella italiana attuale, dove non esistono più quegli organismi intermedi che garantiscono un canale di comunicazione fra cittadino e istituzioni, che attrezzano a declinare il noi, a leggere la propria condizione attraverso una griglia di classe (come è indispensabile se si vuole capire il senso delle proposte politiche), a comprendere la complessità dei problemi. Nella prima Repubblica questo ruolo è stato assolto con limiti ma anche con successo, dai grandi partiti di massa; oggi questi organismi indispensabili alla democrazia non esistono più, così come sempre più assenti sono altre forme di democrazia organizzata. In queste condizioni una campagna elettorale non rafforza granché la democrazia; tanto meno potrebbe farlo quella che si prospetta, con una parte di elettorato che si è bruscamente e solo per confusa protesta spostata su formazioni appena emerse, l’altra metà che si è rifugiata nell’astensione. Non voglio certo dire che votare non serve, ma vorrei che non ci imbrogliassimo a vicenda pensando che l’incattivito, violento, incolto scontro che si verificherebbe, comandato da social incontrollabili e da insopportabili chat televisive, rafforzerebbe la democrazia. Il maggior pericolo sta proprio nell’usare formalmente le regole della democrazia per affossarla. La storia insegna. C’è molto da fare per ricostruire le condizioni di un confronto meno barbarico e prima ci mettiamo mano, dando a questo obiettivo la priorità che merita nell’agenda politica, meglio sarà. Ma occorre impegnarsi a riconquistare la società che abbiamo perduto e non restare circoscritti all’ossessione del governo. Come sarà questo Conte bis? Sento ripetere da molti (Cacciari per ultimo, anche se inizialmente mi era sembrato di opposto parere) che non è “operazione dignitosa”. Limpida non è certo, nessuno credo ne dubiti. Ma di limpido c’è francamente poco in circolazione, e non vedo proprio che razza di governo migliore potrebbe uscire dal voto immediato che viene invocato, anche ammesso che si riuscisse a contenere una pericolosa prepotente e massiccia vittoria della Lega. Nessuno è in grado di prevedere per domattina un governo decente. E allora si tratta, senza illusioni, di accettare questo compromesso fra un Pd certo poco credibile per cosa è stato da tempo e di cui è lungi dall’essersi autocriticato; e un movimento 5 stelle zeppo di contraddizioni arroganza e ignoranza, ma che - non dimentichiamolo - ha raccolto alle ultime elezioni il voto di una larga parte dell’elettorato di sinistra. Per rabbia e sfiducia. “Perché c’è bisogno di un botto” - mi sono sentita dire da tanti durante la campagna elettorale. (Forse le sue contraddizioni sarebbero scoppiate prima e meglio se il Pd si fosse deciso subito a tentare l’operazione cui oggi è stato quasi costretto). Adesso, liberati dall’ipoteca della Lega, quegli elettori si trovano ad aver a che fare, anziché con una rimessa in discussione del quadro politico italiano (l’auspicato “botto”), con il partito che hanno votato che indica un premier che sembra uscito da Piazza del Gesù (per i più giovani, l’antica sede della Dc). Ha persino ricevuto il tradizionale e approssimativo placet dell’alleato americano! Dipende da noi se sapremo usare del tempo che ci darà per far emergere più limpidamente le sue contraddizioni (che non sono solo fra i grillini e il Pd, ma attraversano ambedue i corpi, e anche più profondamente) e riaggregare, politicamente, socialmente e culturalmente un reale schieramento alternativo. Se Salvini, che tuttavia appare già in parte dimezzato (i leader come lui vincono solo se appaiono vincenti), riuscirà ad usare la debolezza e gli equivoci del Conte 2 (e ad approfittare della attuale legge elettorale che ricompatterebbe la destra) per una anche più schiacciante vittoria, dipenderà molto da quanto riusciremo a mettere in campo noi, che per fortuna siamo nella società un’area parecchio più grande di quanto non registri il dato elettorale. Che sarebbe ora provassimo sul serio a far uscire di casa. Migranti. Nell’hotspot di Lampedusa tra degrado e disumanità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2019 Nella struttura dell’isola continuano a giungere migranti: ed è allarme. Situazione sempre più preoccupante nell’hotspot di Lampedusa dove sono stipati circa 200 migranti, il doppio della capienza prevista. In quaranta vanno via, ma nella notte di ieri ne arrivano altri 78. La prefettura di Agrigento ha avviato il primo trasferimento: in 40 nella notte sono stati condotti a Porto Empedocle, a bordo del traghetto di linea, tra loro 21 minorenni e 2 donne. I profughi, quasi tutti di nazionalità tunisina, sono stati accompagnati nella struttura Villa Sikania, a Siculiana, suscitando nel piccolo centro dell’Agrigentino, anche nell’amministrazione comunale, insofferenza e proteste. Tre di loro sono stati prelevati dalla squadra mobile per accertamenti di natura investigativa. Nelle stesse ore sono approdate in autonomia 78 persone, tra siriani e bengalesi, riferendo di essere partiti lunedì dalla Libia. Mentre però 106 sono ancora al largo di Lampedusa sulla Mare Jonio. Ma è l’hotspot di Lampedusa a far vivere i migranti in una situazione disumana e degradante. Il sindaco Totò Martello ha lanciato da giorni l’allarme. Ha denunciato che nel centro è rotto l’apparecchio per rilevare le impronte e di conseguenza i migranti, in base alle regole, non possono uscire senza che ne venga accertata l’identità tramite lo strumento non funzionante. Succede che, ancora in base alle regole, è vietato uscire dall’hotspot. Sempre in base alle regole, non li si può tenere chiusi più di 48 ore ma, di fatto, nessuno sa da quanti giorni sono lì. Che la situazione dell’hotspot sia esplosiva, l’ha verificato qualche giorno fa anche il senatore del gruppo misto Gregorio De Falco, che ha effettuato un’ispezione nella struttura: “La situazione dentro e fuori il centro è assolutamente insostenibile”, ha detto, segnalando la scarsità di kit per l’igiene, telefoni pubblici guasti, i pasti consumati all’aperto perché mancano zone destinate a mensa. D’altronde c’è in corso un’inchiesta della procura di Agrigento fatta riaprire a maggio scorso dalla gip di Roma. “È evidente - si legge nell’ordinanza firmata il 2 maggio - la necessità di compiere indagini territoriali”. Tutto comincia con un provvedimento del 29 marzo 2017 quando la procura di Agrigento, svolte le indagini, chiedeva di archiviare il fascicolo. Ma il 24 agosto dello stesso anno, dopo l’opposizione della parte offesa che aveva depositato nuovi elementi, il gip di Roma decise di vederci chiaro. Il fascicolo era infatti arrivato nella capitale perché vi era il sospetto che illegalità fossero state ordinate dai vertici ministeriali a Roma. Per quanto le prime indagini risalgano al 2011, secondo il gip di Roma l’irregolarità “appare protrarsi alla data odierna”. In un caso, una persona “era stata rinchiusa in una stanza - si legge nell’atto giudiziario - e aveva segni visibili sul corpo che potevano far pensare ad attività di violenza”. Un episodio che la procura volle archiviare, ma che secondo il Gip richiedeva maggiori approfondimenti. “La situazione nell’hot spot di Lampedusa è drammatica”, aveva del resto dichiarato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma sentito dai magistrati che conducevano l’inchiesta. Il Garante disse che nella struttura “si dovrebbe rimanere per un massimo di 48 ore, invece il tempo di permanenza è più lungo e spesso non definito, configurando lo stato di detenzione arbitraria”. Inoltre, “la circostanza che le persone a Lampedusa non possano agire in libertà non è dovuta - spiegò il Garante - a un ordine o a una disposizione ministeriale, ma piuttosto a ordini eventualmente emanati dalle autorità del luogo”. Migranti. La lettera delle Ong italiane al presidente Conte di Silvia Stilli, Paola Crestani, Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 30 agosto 2019 Le richieste del terzo settore. Rivedere i decreti sicurezza e le norme in materia di immigrazione, riformare i trattati europei a cominciare da quello di Dublino, finanziare il terzo settore e gli aiuti allo sviluppo internazionale. Lettera aperta della Portavoce di AOI (Associazione Ong italiane), della Presidente di Link2007 e del Portavoce del CINI (Coordinamento italiano Ngo internazionali) Al Presidente Incaricato per la formazione del Governo Giuseppe Conte. Stimato Presidente Incaricato, Le scriviamo in qualità di rappresentanti delle tre reti nazionali di Ong e organizzazioni impegnate nella cooperazione, nella solidarietà e nel volontariato internazionale. Negli ultimi due anni e mezzo non abbiamo nascosto all’opinione pubblica e al mondo politico il nostro disagio per le ricorrenti iniziative di alcuni esponenti di partiti anche di Governo, riprese e amplificate da una parte dei media nazionali, intese purtroppo a delegittimare il ruolo delle organizzazioni non governative. Si è trattato talvolta di vere e proprie “campagne di discredito reputazionale” che non hanno trovato sostegno in fatti concreti, però hanno generato un clima di sospetto nei confronti della trasparenza e dell’efficacia dell’operato delle organizzazioni di settore, rischiando di mettere in discussione il rapporto fiduciario in primo luogo con i sostenitori privati, soprattutto cittadine e cittadini. Fortunatamente, il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nei suoi interventi pubblici ha varie volte difeso ruolo e valore della sussidiarietà in riferimento al mondo del Terzo Settore, sottolineandone l’apporto nell’attenzione e cura di chi è debole e in condizione di emarginazione sociale e nell’azione umanitaria. Nei prossimi giorni le consultazioni di cui Lei è stato incaricato dal Presidente della Repubblica per la formazione di una nuova compagine governativa offrono l’occasione per voltare pagina e dare un nuovo impulso al rapporto fra istituzioni e mondo della solidarietà e cooperazione internazionale e più in generale del Terzo Settore, che in questi mesi come Presidente del Consiglio ha avuto modo in alcune occasioni di conoscere e ascoltare nella sua ricca articolazione. Ricordiamo l’importante contributo offerto dalle realtà associate alle nostre reti e, più complessivamente, dal mondo solidale della cooperazione allo sviluppo: nel 2017 le 200 maggiori organizzazioni hanno svolto attività per circa 900 milioni di euro, grazie al sostegno di circa 1,1 milioni di cittadine e cittadini, come da dati dei soggetti censiti da Open Cooperazione, ma sicuramente nel totale arrivando ad una cifra di più di 1,8 milioni. È un sistema che coinvolge oltre 3.000 operatrici e operatori in Italia e circa 17.000 in attività all’estero. È tempo di tornare a valorizzare questo patrimonio, partendo dalla ricostruzione di un corretto e sereno rapporto fra istituzioni e Ong, nel pieno rispetto dei diversi ruoli, mettendo alla base un dialogo franco e corretto tra le parti in un clima di reciproca fiducia e di corresponsabilizzazione rispetto agli obbiettivi dell’Agenda 2030, per raggiungere i quali il nostro Paese si è formalmente impegnato. Alla luce di tutto questo, sentiamo il dovere di segnalarLe poche e chiare priorità per l’iniziativa di un prossimo governo, come contributo a questa importante fase della vita politica e istituzionale dell’Italia. Facciamo nostro l’appello che altri in questi giorni hanno espresso per la revisione delle recenti iniziative e misure governative sul fronte del soccorso in mare e dell’accoglienza a migranti e rifugiati in fuga da guerre, catastrofi, violenze e povertà: secondo i pareri di operatori dell’umanitario ed esperti si tratta di misure tanto inadeguate da mettere a rischio la stessa “civiltà del diritto” alla quale l’Italia ha saputo dare nel tempo un contributo indiscutibile. Da tempo affermiamo che il nostro Paese si deve dotare di una strategia integrata per il governo dei fenomeni migratori, di lungo respiro e coordinata con l’Europa, nel quadro comunque di una revisione del Trattato di Dublino, uscendo così dalla drammatizzazione del fenomeno e dalla ricorrente situazione di emergenza nell’affrontarlo. Preoccupa, inoltre, il fatto che il contributo dell’Italia alla realizzazione sul piano internazionale dell’Agenda 2030 attraverso la cooperazione internazionale sia in evidente fase di contrazione, come ci ricordano i più recenti dati sull’aiuto pubblico allo sviluppo, che segnano per il 2020 una riduzione di investimenti fino allo 0,24% rispetto al Pil nazionale: siamo ben lontani dagli obiettivi internazionali e da quelli che comunque dal 2016 l’Italia aveva fissato. Ci auguriamo che il prossimo governo del Paese sappia ridare slancio alla nostra partecipazione alla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, rivedendo l’impegno determinante nell’investimento per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo. Le nostre reti ancora una volta ribadiscono la centralità del proprio operato nel partenariato con istituzioni, mondo della ricerca, fondazioni e privato profit per la realizzazione concreta della Strategia per lo sviluppo sostenibile adottata dall’Italia. Come cittadine e cittadini responsabili seguiamo con vivo interesse il percorso verso un nuovo governo del Paese che oggi La vede protagonista, augurandoci che il dialogo auspicato e la collaborazione da noi proposta vengano accolti come azioni propositive all’interno di un percorso essenziale di coinvolgimento e valorizzazione di tutto il Terzo Settore italiano del quale facciamo parte: in nome del principio di sussidiarietà che nell’articolo 118 la nostra Costituzione definisce in maniera piena ed autorevole. Nell’augurarLe un sereno e proficuo lavoro nel suo attuale ruolo di Presidente Incaricato, La ringraziamo per la disponibilità al dialogo e l’attenzione, ribadendo la nostra volontà a collaborare. Silvia Stilli - Portavoce Aoi Paola Crestani - Presidente Link2007 Raffaele K. Salinari - Portavoce Cini Iran. 31 anni fa il “massacro delle prigioni”. Non un corpo restituito alle famiglie di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 agosto 2019 In occasione del 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, Amnesty International ha denunciato che le autorità iraniane continuano, a 31 anni di distanza, a non fornire informazioni su migliaia di dissidenti politici che vennero fatti sparire e furono poi uccisi in quello che è passato alla storia come “il massacro delle prigioni” del 1988. Migliaia di vittime non sono mai state registrate e, in tutto il paese, vengono segnalate fosse comuni non identificate. Da oltre 30 anni le autorità iraniane negano l’esistenza di queste fosse comuni e ne impediscono la localizzazione, causando sofferenze inimmaginabili alle famiglie che ancora chiedono di sapere che fine abbiano fatto i loro cari. Le autorità iraniane non hanno restituito alle famiglie un solo corpo delle vittime del massacro delle prigioni del 1988. Inoltre, hanno rifiutato di comunicare alla maggior parte delle famiglie dove siano stati seppelliti i corpi, nell’evidente tentativo di eliminare ogni traccia delle persone assassinate. Solo in cinque città - Ahvaz (nella foto), Ardabil, Ilam, Mashhad e Rudsar - le autorità hanno comunicato a voce ad alcune famiglie che i loro parenti erano stati sepolti in fosse comuni e ne hanno reso nota l’ubicazione. Ma mai in forma pubblica e ufficiale hanno riconosciuto l’esistenza di quelle e di altre fosse comuni, che sono state dissacrate e distrutte. In varie altre città - tra cui Bandar Anzali, Esfahan, Hamedan, Masjed Soleiman, Shiraz, Semnan e Teheran - le autorità hanno fornito informazioni su tombe individuali e hanno consentito di apporvi delle lapidi. Ma sono molti a sospettare che si sia trattato di un inganno e che quelle tombe siano vuote. Nel caso della capitale Teheran, questo sospetto è rafforzato dalle ricerche di Amnesty International, secondo le quali il 99 per cento dei nomi delle 335 tombe del cimitero di Behest Zahra, il più grande della città, in cui sarebbero sepolte le vittime non è registrato - salvo tre casi - nel registro online delle sepolture. Circolano voci che molte di queste tombe individuali siano state realizzate frettolosamente alla fine del 1998 e all’inizio del 1999 su terreni sui quali non c’erano segni di precedenti scavi o sepolture. Il timore è che le vittime non siano state sepolte in quelle tombe individuali e che i loro corpi, insieme a migliaia di altri, siano stati gettati in fosse comuni. Nel giugno 2017 una famiglia ha scoperto che la terra sopra alla quale aveva fatto apporre una lapide per onorare un parente non conteneva ossa né altri resti umani. L’enorme numero di nomi che mancano nei registri nazionali delle sepolture e il sospetto che le tombe, almeno in alcuni casi, possano essere vuote sono elementi di estrema preoccupazione che rendono più cruciali che mai indagini ed esumazioni onde stabilire la verità sulla sorte di ciascuna vittima e individuare dove si trovino i suoi resti. Secondo il diritto internazionale, il crimine di sparizione forzata è in atto fino a quando lo stato non riveli il destino o la localizzazione delle persone coinvolte e fino a quando, dopo che la sparizione è stata confermata, non restituisca i resti dei corpi alle famiglie. Pertanto, le autorità iraniane si stanno tuttora rendendo responsabili di sparizioni forzate, un crimine contro l’umanità. Sempre il diritto internazionale obbliga le autorità iraniane a svolgere indagini e a fornire alle vittime verità, giustizia e riparazione. Per questo, dovrebbero coinvolgere esperti nell’esumazione e nell’identificazione dei resti umani, anche attraverso analisi del Dna, restituire i corpi alle famiglie e consentire a queste ultime di svolgere commemorazioni secondo la loro fede religiosa e cultura. In ogni caso di morte, le autorità hanno il dovere di emettere un certificato di decesso contenente data, luogo e circostanza dell’evento. Per migliaia di vittime delle esecuzioni extragiudiziali del 1988 ciò non è avvenuto. Amnesty International ha chiesto alle Nazioni Unite di avviare un’indagine indipendente che stabilisca la verità, consenta l’apertura di procedimenti giudiziari nei confronti dei responsabili e assicuri ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime la riparazione del danno subito. Russia-Ucraina. Scambio prigionieri: libero il regista ucraino Oleg Sentsov e 24 marinai La Repubblica, 30 agosto 2019 Nessuna conferma ufficiale, solo un post su Fb della deputata ucraina Anna Islamova ma la liberazione era nell’aria e si colloca nel nuovo clima che si respira tra Russia e Ucraina. A favore della liberazione del regista si erano mobilitati cineasti di fama internazionale, da Almodvar e Ken Loach e Wim Wenders. Il regista ucraino Oleg Sentsov e i marinai arrestati nel corso dello scontro fra navi nello stretto di Kerch sono stati liberati nell’ambito di un vasto scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina. Lo ha annunciato la deputata ucraina Anna Islamova con un post su Facebook, che è stato successivamente ricondiviso da Ruslan Riaboshapka, il nuovo procuratore generale ucraino. “Lo scambio è completo: i marinai, Sentsov, [Mykola] Karpyuk, [Volodimir] Balukh e [Pavlo] Hryb stanno tornando a casa”, scrive Islamova. E un parente di uno dei marinai ha confermato a Radio Free Europe/Radio Liberty la liberazione dei 24 marinai. La liberazione era nell’aria e si colloca nel nuovo clima che si respira tra Russia e Ucraina anche se finora non ci sono state conferme ufficiali dello scambio né da Mosca né da Kiev. Lo scambio di prigionieri è stato il primo argomento discusso durante la prima telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo ucraino Volodimir Zelenskij a luglio. Sebbene si sapesse poco dei termini e delle condizioni dell’imminente scambio, è emerso di recente che avrebbe incluso il giornalista russo Kirill Vyshinsky, capo della RIA Novosti in Ucraina, e i marinai arrestati nello stretto di Kerch lo scorso novembre. Lo scambio di prigionieri servirebbe a spianare la strada per un incontro fra Putin e Zelenskij, probabilmente nell’ambito del vertice del formato Normandia attualmente in preparazione. Sentsov, definito dai gruppi per i diritti umani un “prigioniero politico” in Russia, era stato trasferito da un carcere della regione di Yamalo-Nenets, alla prigione Butyrskaya di Mosca. Vincitore del premio Sakharov 2018, il regista ucraino 42enne Oleg Sentsov è stato confinato in una cella d’isolamento nella prigione russa di Labytnangi, oltre il Circolo polare artico. Cineasta diventato attivista e famoso per il film Gamer, nell’agosto 2015, Sentsov è stato condannato dal tribunale militare distrettuale di Rostov sul Don a 20 anni di detenzione per “pianificazioni di atti di terrorismo e sabotaggio”, in un processo che Amnesty International ha definito una “farsa d’era staliniana”. Fiero oppositore dell’annessione della penisola di Crimea da parte della Russia - avvenuta nel 2014 dopo un referendum mai riconosciuto dalla comunità internazionale - Sentsov è stato ritenuto colpevole anche di aver messo in piedi una vera e propria organizzazione terroristica. Opporsi a quello che Mosca chiama il “ritorno” della Crimea alla madrepatria (50 anni fu “donata” dalla Russia all’Ucraina, quando i due Paesi erano ancora tutti parte dell’Unione sovietica) è tuttora pericoloso per moti attivisti: mettere in discussione lo status della penisola sul Mar Nero è stato fin da subito considerato dalle autorità russe come una minaccia alla sicurezza nazionale. Nello stesso processo a Sentsov, anche l’attivista Aleksandr Kolchenko è stato condannato a 10 anni di detenzione. Per i giudici, i due hanno organizzato attacchi incendiari negli uffici dell’organizzazione ‘Comunità russa di Crimea e del partito puntinismo ‘Russia Unità a Sinferopoli, capoluogo della Crimea. Il regista si è sempre detto innocente; favore della sua liberazione si sono mobilitati cineasti di fama internazionale, come Pedro Almodvar, Ken Loach e Wim Wenders, ma anche politici come il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il presidente francese Emmanuel Macron. A suo dire, il processo a suo carico ha motivazioni politiche e le prove sono state falsificate. Dopo il passaggio della Crimea a Mosca, a Sentsov è stata assegnata automaticamente la cittadinanza russa - e proprio in base a questo, le autorità russe si sono sempre rifiutate di estradare il regista in Ucraina, come chiesto da Kiev. Sentsov, il 5 ottobre 2018, aveva comunicato la decisione di interrompere uno sciopero della fame, iniziato il 14 maggio per chiedere la liberazione di circa 65 prigionieri politici ucraini detenuti in Russia, dopo aver perso almeno 20 chilogrammi di peso. Nel settembre del 2018, una cugina aveva rivelato che aveva già fatto testamento e si sentiva pronto a morire. Ciò nonostante, le autorità penitenziarie russe avevano continuato ad affermare che le sue condizioni di salute non fossero preoccupanti. In passato, l’ex presidente polacco Lech Walesa, già vincitore del Nobel per la Pace nel 1983, aveva proposto di assegnare il prestigioso premio proprio a Sentsov. Messico. I vescovi: “Siamo i portavoce dei nostri fratelli migranti detenuti alla frontiera” globalist.it, 30 agosto 2019 Nel documento finale della conferenza episcopale messicana si ribadisce una linea vicina a quella di Papa Francesco: “non si tratta solo dei migranti, ma di sconfiggere le nostre paure”. Nel comunicato finale della conferenza episcopale messicana, i vescovi hanno sottolineato la volontà di “mantenere una posizione sulla linea di Papa Francesco” sulle politiche sui migranti, indicando come “non si tratta solo dei migranti, ma di vincere le nostre paure”. Questi i valori espressi nel comunicato alla vigilia della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, al termine dell’incontro con i responsabili delle 130 strutture di accoglienza per migranti, tra case del migrante, mense e centri di accoglienza e primo soccorso, con il coordinamento della Pastorale della mobilità umana. Il documento finale, firmato dal responsabile di tale dimensione pastorale, mons. Josè Guadalupe Torres Campos, vescovo di Ciudad Juarez, sottolinea che le strutture di accoglienza sono “la prima porta che i migranti toccano” e che “non possiamo lasciarli alla deriva”, in accordo con i principi del Vangelo. In particolare, si legge nella nota, “vogliamo essere i portavoce dei nostri fratelli che chiedono di entrare nel territorio degli Stati Uniti e sono detenuti alla frontiera sud del Messico, attraverso un muro umano della Guardia nazionale, essere la voce di coloro che chiedono di essere facilitati nel loro cammino con un salvacondotto e vengono ignorati, di quei fratelli che mentre sono in viaggio sono ostacolati o fatti oggetto di estorsione da parte di agenti di vario tipo o da parte del crimine organizzato”. Hong Kong. Tensione alle stelle: arrestati gli attivisti Joshua Wang e Agnes Chow di Filippo Santelli La Repubblica, 30 agosto 2019 L’accusa nei loro confronti, rivela il South China Morning Post, è di “assemblea illegale”, legata alla manifestazione non autorizzata che lo scorso 21 giugno. Organizzatori cancellano manifestazione di domani. Erano i due volti da copertina della Rivoluzione degli ombrelli, leader neppure 18enni del movimento pro democrazia. E ora che Hong Kong è scossa da una nuova protesta, e si avvia ad affrontare un altro fine settimana di massima tensione, Joshua Wang e Agnes Chow vengono arrestati. I fondatori e dirigenti del partito politico Demosisto che si batte per l’autodeterminazione della città, entrambi 22enni, sono stati prelevati questa mattina dalla polizia dell’ex colonia inglese. L’accusa nei loro confronti, rivela il South China Morning Post, è di “assemblea illegale”, legata alla manifestazione non autorizzata che lo scorso 21 giugno, all’inizio del movimento, ha circondato il quartier generale della polizia a Wan Chai per chiedere il completo ritiro della legge sull’estradizione verso la Cina e il rilascio delle persone arrestate nei giorni precedenti. Chow sarebbe accusata di aver incitato alla manifestazione, Wong di averla anche organizzata. In attesa di conoscere le prove del loro coinvolgimento, le accuse sembrano stridere con la natura dell’attuale protesta di Hong Kong, che i giovani manifestanti definiscono priva di leader, proprio in contrapposizione a quella fallimentare degli ombrelli. Lo scorso 17 giugno Wong è uscito dal carcere, dove aveva passato due mesi per una precedente condanna per assemblea non autorizzata, ed era stato accolto dalla piazza come un simbolo. Ma sul campo era evidente che per i nuovi ragazzi mascherati, molti dei quali più giovani di lui, non era più un capo. “Questo movimento è diverso da quello degli ombrelli: più organico, ma decentrato, senza leader - riconosceva anche lui il giorno successivo in una intervista a Repubblica (“Protesta radicata ma senza capi”) - nessuno ha preso il microfono invitando a occupare le strade attorno al Parlamento, è stata un’azione spontanea”. Wong, Agnes Chow e il terzo leader di Demosisto Nathan Law, appena trasferitosi negli Stati Uniti per un dottorato, tennero quel giorno una conferenza stampa davanti al Parlamento parlando genericamente della necessitàdi “ulteriori azioni”, ma spiegando che prima si sarebbero consultati con gli altri esponenti del campo democratico e con i giovani manifestanti. Nelle settimane successive Wang e Chow si sono tenuti in una posizione abbastanza defilata: il primo ha continuato a comunicare con i media e sui social network, la seconda neppure questo. Ma sono ritornati sulle prime pagine dei giornali, soprattutto quelli filo Pechino, quando è stata pubblicata una loro fotografia insieme a una funzionaria politica del Consolato generale americano di Hong Kong, usata dal governo cinese come una prova delle interferenze americane nella protesta. Ma ammesso, e non concesso, che i due politici fossero tra gli organizzatori di una delle manifestazioni di queste settimane, modalità (Wang è stato fatto salire su una macchina senza insegne) e tempi del loro arresto risultano sospetti agli occhi di molti. Per domani infatti, sabato 31 agosto, l’organizzazione ombrello del campo democratico, il Civil Human Rights Front, aveva proclamato una grande manifestazione pacifica, che però con una decisione senza precedenti le autorità non hanno autorizzato per ragioni di ordine pubblico (Il divieto della polizia). Il 31 agosto è una data simbolo, il quinto anniversario della legge con cui la Cina ha “blindato” la scelta del capo politico di Hong Kong, dunque il cuore della protesta sarebbe stato il “suffragio universale”, la richiesta di maggiore democrazia. E Demosisto, il partito di Wong e Chow, si batte proprio per l’autodeterminazione: “Se essere o no parte della Cina dovrebbe essere una scelta delle persone di Hong Kong”, diceva a inizio giugno la ragazza in un’intervista a Repubblica, posizione per cui era stata squalificata dalle recenti elezioni locali. Giovedì sera la polizia di Hong Kong ha arrestato anche un altro giovanissimo politico e attivista appartenente al fronte indipendentista: si tratta di Andy Chan, 28 anni, leader dell’Hong Kong National Party, fermato all’aeroporto cittadino mentre si stava imbarcando su un volo per il Giappone, accusato di rivolta e assalto a pubblico ufficiale. Il suo partito è stato il primo a battersi per l’indipendenza di Hong Kong, in contrasto con la Basic Law, la legge fondamentale della città, e l’anno scorso è stato messo fuori legge perché considerato una minaccia alla sicurezza nazionale. Anche lui però non sembra aver giocato un ruolo di primo piano nelle manifestazioni di queste settimane. Se insomma gli arresti ravvicinati sono un tentativo di silenziare le voci più radicali della protesta di Hong Kong, alla vigilia di un anniversario delicato e di un fine settimana che si annuncia tesissimo, rischiano di aver clamorosamente mancato il bersaglio. La mossa sembra presa pari pari dal manuale dello Stato di polizia comunista, che in vista delle date sensibili manda i dissidenti “in vacanza obbligata”. Ma a Hong Kong il suo effetto potrebbe essere molto diverso: infiammare ancora di più gli animi. Eritrea. 150 cristiani arrestati da giugno, si teme la chiusura delle scuole cattoliche di Marco Guerra vaticannews.va, 30 agosto 2019 Nuovi arresti nelle comunità delle minoranze cristiane presenti nel Paese. A luglio sono stati confiscati gli ultimi ospedali gestiti dalla Chiesa cattolica. Don Mussie Zerai: “Il timore è che questo toccherà anche alle scuole”. In Eritrea proseguono le persecuzioni governative anticristiane, dopo la confisca delle strutture sanitare cattoliche avvenute tra giugno e luglio, almeno 150 cristiani sono stati arrestati negli ultimi due mesi in diverse città. A darne notizia è il sito dell’osservatorio cristiano Wolrd Watch Monitor secondo cui l’ultimo episodio risale al 18 agosto, quando sono stati arrestati 80 cristiani da Godayef, un’area vicino all’aeroporto della capitale, Asmara. Chiesta la rinuncia al cristianesimo - Il 16 agosto, sei cristiani, dipendenti pubblici del governo sono stati arrestati e portati davanti a un tribunale ad Asmara. Il giudice ha intimato ai sei fedeli di rinunciare al cristianesimo e davanti al loro rifiuto si è riservato di prendere eventuali future decisioni. 70 cristiani condotti nei tunnel sotterranei - Il 23 giugno altri 70 cristiani appartenenti alla Faith Mission Church of Christ erano stati arrestati a Keren, la seconda città più grande dell’Eritrea. I membri di questo gruppo, tra cui 35 donne e 10 bambini, sono stati portati nella prigione di Ashufera, che è composta da un vasto sistema di tunnel sotterranei in condizioni estremamente degradate. Arrestati cinque preti ortodossi - Sempre lo scorso giugno sono stati arrestati anche cinque sacerdoti ortodossi, un atto che spinse l’osservatore delle Nazioni Unite per i diritti umani in Eritrea, Daniela Kravetz, a chiedere il rilascio di tutti coloro che sono stati imprigionati per il loro credo religioso. Don Zerai: perseguitate tutte le religioni - “Il governo tollera le religioni che ha trovato già radicate nel Paese; le nuove religioni di minoranza - nel caso degli arresti riguardanti i gruppi pentecostali, battisti - sono dichiarate illegali nel Paese già dal 2001”, così a Vatican News il sacerdote eritreo don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Abeshia, spiega i motivi di questa ennesima ondata repressiva. Don Zerai conferma inoltre l’esistenza di carceri eritree sotterranee e racconta di persone detenute all’interno di un container senza poter vedere la luce del sole. Dopo gli ospedali si teme per le scuole - Il sacerdote parla anche della confisca degli ospedali cattolici: “Tra giugno e luglio sono state chiuse in totale 29 strutture tra ospedali, cliniche e presidi medici, gestiti dalla chiesa cattolica rifacendosi a questa legge. Non solo ha fatto chiudere queste strutture ma ne ha confiscato fisicamente la proprietà”. “Il timore è che questo toccherà anche alle scuole che la Chiesa cattolica gestisce - afferma ancora Don Zerai - 50 scuole tra elementari, medie e superiori e oltre cento asili nidi in tutto il territorio nazionale. Sarà un danno enorme soprattutto per la popolazione, perché sia le cliniche che le scuole si trovavano anche in zone sperdute, rurali, dove non c’è nessun’altra presenza tranne quella della Chiesa cattolica”. Iran. Attivista anti-hijab condannata a 24 anni di carcere: “Diffonde la prostituzione” di Valentina Ruggiu La Repubblica, 30 agosto 2019 Ha solo 20 anni ed è stata accusata di “cospirare contro la sicurezza nazionale”. L’avvocato: “Faremo appello”. Secondo i dati del Centro per i diritti umani in Iran da gennaio 2018 a oggi sono 12 le persone condannate per aver protestato contro la legge che obbliga le donne a portare il velo, 33 quelle arrestate. Togliersi il velo in Iran è un gesto che si paga a caro prezzo, quello della libertà. L’ultima donna a subire la repressione di Teheran è l’attivista anti-hijab Saba Kord Afshari. Ha solo 20 anni, ma per il suo coinvolgimento nella protesta del ‘Mercoledì bianco’ è stata condannata a 24 anni di reclusione. “La condanna non è ancora definitiva - spiega a Repubblica Hosein Taj, avvocato della giovane -, ma la pena massima, che è di 15 anni, è sicura. Per questo ricorreremo in appello”. Il verdetto è stato emesso il 19 agosto dal Tribunale rivoluzionario di Teheran, ma l’avvocato della giovane è stato avvisato solo il 27 agosto. Le accuse a carico dell’attivista, che è reclusa nel carcere di Evin a Teheran, sono tre: si va dalla “diffusione della corruzione e della prostituzione” alla diffusione “di propaganda contro lo Stato”, fino alla “cospirazione contro la sicurezza nazionale”. Kord Afshari è stata arrestata per la prima volta mentre partecipava a una protesta pacifica il 2 agosto 2018. Liberata a febbraio 2019, in seguito a un’amnistia che le ha risparmiato gli ultimi due mesi della sentenza, è stata nuovamente arrestata il primo giugno. Per lei si stanno mobilitando difensori dei diritti civili e diversi politici. In prima linea, come sempre, c’è Masih Alinejad, la giornalista e attivista iraniana che dal 2009 vive in esilio tra Londra e New York, promotrice dei movimenti di protesta che dal 2017 animano una parte della società civile iraniana. “Queste due donne sono le Rosa Parks dell’Iran”, ha scritto Alinejad riferendosi a un video in cui Kord Afshari compare al fianco di un’altra militante, Yasaman Aryani, che è stata condannata a 16 anni. La prima donna ad essere stata condannata per aver sfidato il regime di Teheran è stata Viva Movahed. Ripresa mentre sventolava il suo hijab bianco dall’alto di una cabina dell’elettricità, la giovane era divenuta il simbolo del ‘Mercoledì bianco’ dopo che quel video fece il giro del mondo. Incarcerata a marzo 2018 era stata rilasciata 10 mesi dopo. Per lei si era battuta anche Nasrin Sotoudeh, la più importante avvocata per i diritti umani e delle donne dell’Iran e vincitrice del premio Sakharov, che esattamente un anno dopo, nel marzo 2019, è stata accusata di propaganda contro lo Stato e di essere apparsa in pubblico senza velo. Viva è stata la prima, Saba l’ultima. Tra loro ci sono almeno una decina di donne che stanno pagando per aver sfidato la legge che obbliga le donne a portare il velo. A ricordarlo è il Centro per i diritti umani in Iran, secondo il quale, da Gennaio 2018 a oggi, sono state almeno 12 le persone condannate - tra cui due uomini - per aver rimosso pubblicamente il velo o per aver compiuto gesti di disobbedienza civile contro la politica dell’hijab obbligatorio. Sono state 33 invece quelle arrestate. “Ma i numeri - si legge nel rapporto diffuso dall’organizzazione - potrebbero essere più alti perché che molti scelgono di tenere i loro casi privati”.