Riforma della giustizia, restano solo le macerie di Errico Novi Il Dubbio, 2 agosto 2019 E Bonafede attacca Salvini: “non siete più con il Cavaliere”. Il day after è pesante. Le macerie della riforma Bonafede sono difficili da ricomporre. Le posizioni ribadite ieri nel confronto a distanza fra Matteo Salvini, Luigi Di Maio e il guardasigilli Alfonso Bonafede hanno tutta l’aria di restare lontanissime. Non solo. Sulla possibilità di un ddl giustizia condiviso, dopo il naufragio del Consiglio dei ministri fiume di mercoledì, incombe ora come un macigno la “nuova” prescrizione. O meglio: l’incubo, coltivato dai 5 Stelle ma certo non prodotto solo da fantasiose elucubrazioni, di un muro alzato dal Carroccio, contro la legge delega, al preciso scopo di affossare la norma sull’estinzione dei reati. Riforma-moloch che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo 1° gennaio, ma che la Lega, come sancito da Giulia Bongiorno, non accetterà se nel frattempo non sarà stata già approvata e infiocchettata quella del processo penale. Scontro a distanza Salvini-Bonafede - A questo punto il labirinto è completo. E uscirne pare impossibile. In realtà Salvini per primo smentisce che la bocciatura del ddl Bonafede venuta mercoledì notte dal suo partito sia un trucco per procurarsi l’alibi sulla prescrizione. Quella che la sua ministra Bongiorno definisce “una bomba sul processo”, secondo il vicepremier “non c’entra”. Poi però aggiunge: “L’accordo era e rimane che la sospensione della prescrizione entrerebbe in vigore se sarà operativa la riforma della giustizia. Se no vorrà dire che ci sono 60 milioni di italiani processabili a vita”. Sembra il preavviso dell’inesorabile precipizio. A recepirlo con preoccupazione è l’altro protagonista della battaglia sulla riforma, il guardasigilli, che è il titolare del dossier: “Non permetterò a nessuno giochini per far saltare la riforma della prescrizione”, avverte in un messaggio via Facebook. Tutto chiaro: se si arriva all’imbuto di fine anno senza riforma e con il countdown della “bomba” prossimo allo zero, a esplodere sarà il governo ( se ancora sarà in piedi) prima ancora del processo penale. Il carroccio: punire pm e giudici lenti - Il quadro è questo. In una breve nota il Carroccio, prima ancora che parli il leader, liofilizza le proprie richieste: “La Lega non vota una non riforma, vuota e inutile: siamo al lavoro per una reale riduzione dei tempi, per un manager nei Tribunali affinché diventino realmente efficienti, perché ci sia certezza della pena: colpevoli in galera e innocenti liberi”. Affermazioni un po’ scontate ( con l’incognita sulla natura del “manager”). Lo sono meno le proposizioni seguenti: “Sanzioni certe per i magistrati che sbagliano o allungano i tempi, no a sconti di pena per i criminali e un impegno per la separazione delle carriere”. Nel suo tono lapidario, il decalogo sembra alludere a una misura meno mediata di “incolpazione” del pm e del giudice “lento”, mentre il testo di Bonafede subordina la contestazione dell’illecito disciplinare a una “negligenza inescusabile” che si manifesti a prescindere dai reali carichi dell’ufficio. Non solo, perché nelle brevi, succinte richieste del comunicato leghista si scorge forse anche una richiesta di maggiore certezza sui tempi d’iscrizione dell’indagato a registro, vincolata, questa pure, a possibili contestazioni disciplinari per il pm che ritardasse ad arte l’adempimento per guadagnare tempo rispetto ai termini dell’indagine. Può darsi, certo la plenipotenziaria Bongiorno ben sa che si tratta di una delle richieste storiche dell’avvocatura. Ma poi, sempre quel comunicatino in apparenza burocratico chiude con l’evocazione dell’inghippo fatale: “I cittadini non possono essere ostaggi di processi infiniti”. Di nuovo il riferimento alla prescrizione, al rischio, effettivo e indiscutibile, che il malcapitato cittadino imputato soggiaccia in modo indefinito, perpetuo alla scure della giustizia penale. Il Guardasigilli: basta con la giustizia del Cav - Il guardasigilli Bonafede ha più di un timore che il punto di caduta delle resistenze salviniane sia proprio quello. E non solo avverte di non essere disponibile a “giochetti”, ma taglia corto anche su altre due condizioni poste dall’alleato: la separazione delle carriere, che “non ha nulla a che fare con i tempi dei processi” e sula quale ripete di “non essere d’accordo”, e le intercettazioni che, se riformate a guisa di bavaglio, diventerebbero “uno schiaffo ai cittadini”, perché non si può pensare di rimettere “le lancette indietro al tempo in cui la politica non voleva che i cittadini sapessero cosa accadeva in alcune stanze del potere”. E quindi, su cosa si media, tra via Arenula e via Bellerio? Nello scenario descritto dai duellanti non si coglie possibilità di negoziati. Anzi. Sempre il ministro della Giustizia addita la controparte con un pro memoria perfido: “Non state governando con Berlusconi”. Si riferisce al fatto che le sopracitate clausole leghiste - carriere separate e intercettazioni - sono “i due punti forti della politica sulla giustizia del Cavaliere”. Non bastano i toni concilianti di Luigi Di Maio, che spiega di “aspettarsi sostegno e lealtà sulle riforme”. Salvini non smette di liquidare il testo sulla giustizia “una cosina”. E così l’ombra di una rottura sulla prescrizione rimasta orfana della riforma penale avanza minacciosa. A difendere quella scelta c’è l’Anm, certo, che con il presidente Luca Poniz rivendica lo stop inflitto all’istituto dopo la pronuncia di primo grado “come una misura rivolta proprio a ridurre i tempi dei processi” in quanto “deterrente rispetto a impugnazioni proposte solo per allungare il procedimento da parte chi sa di essere stato giustamente ritenuto colpevole”. Mascherin: dialogo ma non via social - Ma nella schermaglia generale sempre Salvini liquida l’accusa di berlusconismo di ritorno mossagli da Bonafede come “una cosa da giornale gossip”. Così lo scambio un po’ inconcludente evoca l’altro virus che inquina il confronto: il protagonismo social. A notarlo è l’altra componente chiamata al tavolo dal guardasigilli per definire la riforma, ossia l’avvocatura. “Serve continuare a impegnarci con ostinazione per la migliore riforma della giustizia, obiettivo nell’interesse del Paese”, dice il presidente del Cnf Andrea Mascherin, che poi però ricorda che “la politica deve proseguire nel lavoro intrapreso frequentando il più possibile le stanze del dialogo e il meno possibile le pagine Facebook”. L’Ucpi: e ora chi disinnesca la “bomba”? - Il vertice istituzionale dell’avvocatura è forse la sola voce che richiami le parti a un approccio più ragionevole. L’Unione Camere penali, altro protagonista decisivo del confronto poi rivelatosi inutile, diffonde a propria volta un impietoso comunicato, che ricostruisce l’intero, controverso destino del tentativo fatto da Bonafede. Ricorda come il ministro abbia informato i penalisti che i due pilastri della riforma patteggiamento e depenalizzazioni, erano venuti meno perché, “lo ha preteso la Lega” (e sulla gravità della rinuncia concorda l’ex presidente Anm e ora segretario di Area Eugenio Albamonte). Ma la giunta dell’Ucpi soprattutto pone un interrogativo: “Come verrà assolto il pubblico impegno, assunto dal ministro Bongiorno a nome del governo, e d’altronde mai smentito da alcun esponente 5 Stelle, di revoca della vergognosa riforma della prescrizione prossima ad entrare in vigore il primo gennaio 2020 in assenza di una efficace riforma dei tempi del processo? Come disinnescheremo la “bomba atomica”?”. È il drammatico punto di caduta. Il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Stata conferma al Dubbio di aver messo a punto una proposta di legge, anticipata dalla Stampa, per annullare la nuova prescrizione. A sostenere lo sminamento sarebbe anche Fratelli d’Italia, la cui capogruppo nella commissione Giustizia di Montecitorio Carolina Varchi ricorda che “tra pochi mesi sarà in vigore” la temuta norma e che la riforma penale “è in alto mare”. Basta che anche il Pd condivida il dietrofront. A quel punto la rottura del patto gialloverde sarebbe certificata in modo irreversibile. Giustizia, la trattativa M5S-Lega verso una riforma impossibile di Liana Milella La Repubblica, 2 agosto 2019 Prescrizione, separazione delle carriere. I punti di divergenza tra Lega e Cinque Stelle sono così rilevanti che il negoziato sul processo penale sembra destinato al fallimento. Alimentando i sospetti dei grillini sulle reali intenzioni del partito di Salvini. La riforma della giustizia rischia di essere il tormentone dell’estate 2019. Con uno scontro durissimo tra la Lega di Salvini e il partito di Di Maio. Ai limiti di una possibile crisi di governo su questo argomento. Inutilmente, proprio il vicepremier grillino ha cercato di difendere il suo ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Ma non è riuscito a salvare la parte più importante della sua riforma, cioè le modifiche al codice di procedura penale. Su questo, da oggi, si apre una difficilissima trattativa tra i due partner del governo gialloverde. La contrapposizione tra Bonafede e Giulia Bongiorno, alter ego di Salvini sui temi della giustizia, ha visto momenti di fortissima tensione. Bongiorno ha praticamente chiesto a Bonafede di rivedere del tutto il testo della riforma penale. A partire dalla durata del processo complessivo - perché sarebbe troppo lungo, secondo Bongiorno, il termine dei sei anni - alle regole per punire i magistrati che depositano in ritardo gli atti dell’inchieste. Ma, come ha detto lo stesso Bonafede uscendo ieri sera dal Consiglio dei ministri, il sospetto dell’esponente grillino molto vicino a Di Maio e a Conte è che la Lega punti in realtà a bloccare l’entrata in vigore della prescrizione, che dovrebbe partire dal gennaio 2020. Il sospetto M5S è insomma che la Lega - dopo essersi opposta duramente alla approvazione della prescrizione bloccata dopo il primo grado a settembre dell’anno scorso, e aver imposto l’entrata in vigore soltanto l’anno prossimo, a patto che fosse votata la riforma del processo penale - adesso cerchi in tutti modi di bloccare proprio quella riforma con richieste impossibili, con l’obiettivo recondito di bloccare anche la prescrizione. Se la trattativa si imposta su queste premesse, non c’è mediazione possibile che tenga, e non si arriverà ad alcun risultato, con il rischio di vedere entrare in vigore soltanto le riforme che riguardano il processo civile e il nuovo sistema di elezione del Csm. Che ancora stamattina il presidente del sindacato dei giudici Luca Poniz ha dichiarato del tutto incostituzionale. Regole peraltro già previste da un disegno di legge dell’allora Guardasigilli Angelino Alfano, scritte dal professore di diritto siciliano Salvatore Mazzamuto, il quale oggi afferma: “Avrebbero potuto anche scrivere che si trattava del mio disegno di legge, così invece sembra un furto bello e buono”. Proprio l’obiettivo di bloccare la prescrizione giustifica le richieste considerate “del tutto impossibili”, come sostengono i grillini, tra cui quella di far partire la separazione delle carriere. Anche questo uno storico cavallo di battaglia di Berlusconi e del suo governo. Ma allora lo stesso Berlusconi con Alfano ipotizzavano una riforma costituzionale, l’unica strada possibile per separare le carriere. Perché su questo tema la Costituzione è netta. Parla di un unico ordine dei giudici, quindi se si vogliono separare i pubblici ministeri dalle toghe giudicanti bisogna per forza cambiare la costituzione. Una legge che presuppone i due terzi del Parlamento, il passaggio per tre volte nelle Camere e un referendum finale. Una prospettiva impossibile, con l’attuale legge di Bonafede. Quindi, se le cose stanno così, è chiaro che la lega punta a bloccare definitivamente questa parte della riforma della giustizia. Salvini: “Senza una riforma vera della giustizia non sto al governo” di Liana Milella La Repubblica, 2 agosto 2019 Nuove scintille tra gli alleati. Dopo il consiglio dei ministri fiume di ieri, resta lo scoglio del processo penale. E stamattina dal Carroccio è arrivata una nuova stroncatura: “Riforma vuota e inutile, non la votiamo”. Mentre il Guardasigilli replica: “Vogliono far saltare la prescrizione? Non permetterò giochini”. Intanto l’Anm protesta: “Il sorteggio per il Csm è incostituzionale”. Nessuna tregua. All’indomani del Consiglio dei ministri, durato quasi nove ore, Lega e Cinque Stelle tornano sulle barricate. Il cuore della riforma voluta da Bonafede, il processo penale, non è passato. O meglio, è stato approvato con la formula “salvo intese” che equivale a una bocciatura. Così stamattina il partito di Salvini torna all’attacco. E lo stesso vicepremier lancia un messaggio che è quasi una minaccia di crisi: “O una riforma della giustizia è importante, vera, pesante, significativa che dimezza davvero i tempi del processo penale, o non siamo al mondo e al governo per fare le cose a metà”. La Lega: “Non votiamo una non riforma” - Già qualche ora prima era arrivato il primo attacco dal Carroccio “La Lega non vota una non riforma, vuota e inutile”, si legge in una nota del partito. “Siamo al lavoro per una reale riduzione dei tempi della giustizia, perché ci sia certezza della pena: colpevoli in galera e innocenti liberi. Sanzioni certe per magistrati che sbagliano o allungano i tempi, no a sconti di pena per i criminali e un impegno per la separazione delle carriere e anche del Csm”. Insomma, una stroncatura per il testo del Guardasigilli. E poi Salvini ha pronunciato una frase importante: “L’accordo era e rimane che la sospensione della prescrizione entrerebbe in vigore se sarà operativa la riforma della giustizia. Se non sarà così vorrà dire che ci sono 60 milioni di italiani processabili a vita”. Insomma, per la Lega senza riforma del processo penale salta anche lo stop alla prescrizione dopo il primo grado prevista dalla legge Spazza-corrotti. Bonafede: “Non governate con Berlusconi” - Durissimi anche i toni usati dal Guardasigilli. “La separazione delle carriere dei magistrati e la riforma delle intercettazioni - dice Alfonso Bonafede - sono i due punti forti della politica sulla giustizia di Silvio Berlusconi. Dico alla Lega che sono aperto a tutte le proposte, ma non stanno governando con Silvio Berlusconi. Se lo mettessero in testa”. E ancora: “Quando arrivano no a prescindere e si pescano argomenti qua e là che nulla hanno a che fare con la riduzione dei tempi dei processi, mi viene il dubbio che l’obiettivo sia far saltare la riforma della prescrizione che entrerà in vigore a gennaio. Ho scritto la Spazza-corrotti, non permetterò a nessuno di fare giochini per far saltare la legge sulla prescrizione”. Parole insolitamente dure per un ministro normalmente incline alla mediazione. I punti di intesa e quelli di contrasto - Ma su cosa si è raggiunta un’intesa nel consiglio dei ministri di ieri? E cosa divide ancora i gialloverdi? Non è bastata la riduzione dei tempi del processo da 9 a 6 anni (altrimenti le toghe rischiano un illecito disciplinare). Resta lo scoglio della prescrizione a separare gli alleati. Il via libera è arrivato solo su due capitoli del testo. Per il processo civile è previsto uno snellimento dei tempi. Si riducono i casi in cui il tribunale giudica in commissione collegiale e vengono fissati tempi più stringenti per la fissazione delle udienze. C’è poi una stretta anche sui casi in cui è possibile ricorrere in appello. È previsto l’obbligo che il deposito degli atti avvenga per via telematica e la notifica dei documenti deve essere eseguita con posta elettronica certificata. Per quanto riguarda il Csm - riforma presentata come urgente dopo l’inchiesta nata dal caso Palamara - il numero dei consiglieri viene portato a 30: i 20 togati dell’organo di autogoverno dei giudici saranno eletti con un primo sorteggio tra 9.500 magistrati. Successivamente ci sarà un voto sui sorteggiati. Su questo c’è l’altolà dell’Anm. “Il sorteggio è incostituzionale. La norma oggi in vigore in Costituzione prevede l’elezione dei magistrati. E sorteggio ed elezione sono due cose tra loro inconciliabili”. Per quanto riguarda i laici eletti dal Parlamento, non devono aver ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi alle Camere, al governo, al Parlamento europeo, nelle regioni, o alla guida di Comuni con più di 100mila abitanti. Arriva poi uno stop al cosiddetto sistema delle porte girevoli. Ci saranno cioè regole più rigide per i magistrati che entrano in politica. I magistrati che hanno avuto incarichi in Parlamento, nel governo o negli enti locali, non potranno tornare a fare i magistrati ordinari (potranno avere solo incarichi amministrativi). Mentre i consiglieri uscenti non possono presentare domanda per incarichi direttivi per 4 anni. Infine viene fissato un tetto per i compensi dei consiglieri. La Lega, che punta alla separazione delle carriere, vorrebbe però due Consigli superiori separati, uno per i magistrati inquirenti, l’altro per i requirenti. Le divergenze riguardano poi l’accesso alla professione (la riforma Bonafede elimina l’obbligo di un corso di perfezionamento per accedere al concorso, il Carroccio punta a un iter più lungo e più severo). Ma i nodi essenziali, che hanno reso impossibile l’intesa, sono due. Innanzitutto la prescrizione. La legge “Spazza-corrotti” prevede che dopo la sentenza di primo grado non decorrano più i tempi. Ma la novità non è mai piaciuta alla Lega. Il vicepremier Salvini e la ministra Bongiorno erano già riusciti a far slittare l’entrata in vigore della norma al gennaio 2020 in attesa del nuovo processo penale, e ora stanno frenando la riforma. C’è poi lo scoglio delle intercettazioni. Nel testo di Bonafede non è prevista una riforma di questo capitolo mentre il partito di Salvini vorrebbe limitare gli ascolti e bloccarne la pubblicazione. Giustizia, Bonafede prova a mediare ma restano i nodi prescrizione e penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2019 Il ministro da Conte per trovare una soluzione, ma Salvini tiene alta la tensione. La ministra Bongiorno non chiude la porta: non siamo su un binario morto. Alla fine la notte dei lunghi coltelli sulla giustizia, con un consiglio dei ministri conclusosi a notte fonda, senza avere messo punti fermi, ha reso evidente (ma non potevano parlarsi prima?) che il vero nodo da sciogliere è quello penale. Ieri sera il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha avviato un confronto con il premier Conte per arrivare a un’ipotesi di mediazione e lo stesso ministro per la Pa Giulia Bongiorno getta acqua sul fuoco ricordando che la riforma non è su un binario morto. Le distanze però restano forti tra 5 Stelle e Lega. E non da oggi. I grillini sono stati a lungo considerati il partito delle procure, della presunzione di colpevolezza, del garantismo zero; la Lega sembra tuttora sventolare bandiere che, queste si, arrivano da una stagione abbastanza lontana, quella del centrodestra a trazione berlusconiana, di qui l’enfasi su separazione delle carriere e riforma delle intercettazioni. A farlo notare ieri è stato un malizioso Bonafede, che si è detto “aperto a tutte le proposte, ma non stanno governando con Silvio Berlusconi. Se lo mettessero in testa”. E per Bonafede dalla Lega di proposte serie per accelerare la durata dei processi nonne sono arrivate, non in consiglio dei ministri, né la distinzione dei percorsi tra giudici e pubblici ministeri, né la stretta auspicata sulle fughe di notizie lo sono. Accuse che dalla Lega vengono però rispedite al mittente. “Che c’entra Berlusconi?”, ha sottolineato un caustico Salvini, e in un nota si ricorda l’indisponibilità a votare un riforma vuota e inutile, “siamo al lavoro per una reale riduzione dei tempi della giustizia, per un manager nei tribunali, perché ci sia certezza della pena, sanzioni certe per i magistrati che sbagliano o allungano i tempi, i cittadini non possono essere ostaggi di processi infiniti”. Certo l’apertura di un fronte giustizia, da aggiungere agli altri, era nell’aria. E tuttavia, rese evidenti le differenze, ora al lavoro per trovare una quadra ci sono i pontieri dei due schieramenti. Anche perché, constatatala difficoltà di un’intesa sul penale, pare essere invece essere andata più tranquilla, sino ad arrivare a una vera e propria approvazione, la discussione sugli altri due capisaldi della riforma, la riscrittura di una parte del Codice di procedura civile e le modifiche al sistema elettorale e al funzionamento del Csm. Nel merito, detto che la separazione delle carriere appare più una provocazione che un reale progetto (necessiterebbe di misure di rango costituzionale) e che per rivedere le intercettazioni ci sarà comunque tempo sino a dicembre, i punti per un possibile passo avanti potrebbero essere quelli cristallizzati in un verbale di sintesi del confronto che il ministro della Giustizia avviò con magistrati e avvocati, con una più decisa depenalizzazione sul fronte soprattutto delle contravvenzioni e con un maggiore impulso per i riti alternativi, soprattutto con un maggiore spazio per l’applicazione del patteggiamento. Misure che, sia pure non dirompenti, contribuirebbero certo a snellire i procedimenti e ad abbreviare la durata. Certo, la situazione è complicata dal fattore prescrizione, destinata, se nulla accade a entrare in vigore il prossimo gennaio. Materia divisiva per eccellenza, alla quale la Lega aveva dato il via libera solo dopo avere avuto rassicurazioni sul piano politico che sarebbero state individuate misure per rendere più rapidi i processi penali. Ora, il sospetto, e lo stesso Bonafede ne ha parlato esplicitamente, è che tutte le riserve messe in campo in queste ore dalla Lega siano funzionali a un affossamento della prescrizione. Che in ogni caso non appare per nulla facile, anche perché agganciata a quella legge spazza-corrotti che Bonafede considera l’elemento qualificante della sua amministrazione della giustizia. Da una parte quindi una norma la cui entrata in vigore è stata differita, dall’altra una traballante accordo politico perii quale i tempi, anche in caso di accordo tra Lega e 5 Stelle non aiuterebbero. In 4 mesi infatti andrebbero approvati sia la legge delega sia i decreti delegati. Bongiorno: “Sì a processi rapidi e carriere separate. Il piano dei 5 Stelle? Non dà soluzioni” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 2 agosto 2019 La parola chiave è certezza. Serve una riforma complessiva. “La nostra richiesta, la nostra parola chiave è una sola: certezza”. Giulia Bongiorno, il ministro alla Pubblica amministrazione, è stata la protagonista del campale Consiglio dei ministri di mercoledì che doveva varare l’epocale riforma della Giustizia. Indipendente della Lega, è stata l’interlocutrice del ministro pentastellato alla Giustizia Alfonso Bonafede con cui ha trattato in modo serrato punto su punto. Ministro, quali sono i punti più critici della riforma? “Mi lasci soltanto premettere che quando si parla di riforma della giustizia si affronta qualcosa che tocca tutti noi. Non è un tema che possa essere affrontato alla leggera, la libertà personale è fondamentale. E non è una battaglia di un colore politico. Per quanto mi riguarda è una battaglia su valori che ho accumulato in questi anni calpestando la polvere delle aule di giustizia”. La parola chiave “certezza” che cosa riguarda? Le pene? “Quelle sicuramente ma alla fine del procedimento. La certezza invece deve riguardare tutto: i tempi del processo, l’indipendenza dei magistrati, le garanzie degli imputati, infine le pene. Per questo noi chiediamo una riforma vera, globale, che abbracci tutte le materie. Non possiamo pensare a una riforma che non raggiunga i suoi obiettivi” I 5 Stelle pensano che il vero obiettivo della Lega sia superare la prescrizione prevista dallo Spazza corrotti… “L’obiettivo della Lega è quello di accelerare i tempi del processo e garantire l’indipendenza della magistratura. Se la proposta fosse stata questa, sarebbe stata approvata in tre minuti. Ma la verità è che io ho sempre detto a Bonafede che nel loro progetto mancavano le soluzioni, che non è effettivamente incisivo. E poi che, appunto, abbiamo bisogno di una riforma complessiva”. Su quali altri temi la proposta dei Cinque Stelle non è efficace? “Noi vogliamo affrontare ogni aspetto del processo, anche la questione delle misure cautelari. Troppo spesso si finisce in carcere prima del processo e non dopo la sentenza definitiva: vogliamo occuparci anche di quelli?”. La Lega viene accusata anche di voler limitare le intercettazioni. È falso? “Ma per piacere... io su questo argomento ho avuto veri e propri scontri con Silvio Berlusconi, ho sempre detto che le intercettazioni sono indispensabili. Non vogliamo né cancellarle e neanche negare il diritto di cronaca. Vogliamo però che si creino degli archivi riservati che chiudano una volta per tutte il mercato dell’intercettazione gossip”. E la separazione delle carriere? I Cinque Stelle sostengono che non si possa fare in sede di riforma. “Noi su questa chiediamo uno stringente impegno politico. C’è già una legge in prima commissione. La questione non è nel contratto di governo ma a noi interessa che la riforma della giustizia sia complessiva, globale”. I Cinque Stelle sono convinti che i sei anni di durata massima del processo da loro previsti risolvano il problema. Perché voi la pensate diversamente? “Il problema non è solo fissare un tempo, come non è un problema scrivere una legge. Bisogna scrivere una legge efficace: già oggi in legge si dice che un udienza può essere fatto il giorno dopo. Poi, però, occorre che sia possibile. E dunque i termini devono essere effettivi. Nella riforma è prevista l’azione disciplinare a carico del magistrato che superano i termini, ma solo per negligenza inescusabile. Che può derivare, per esempio, dai carichi di lavoro. Ma così rischiamo che le sanzioni siano aggirabili. Per questo abbiamo proposto l’ingresso in tribunale dei manager: giurisdizione ai giudici e l’amministrazione ai manager. Ma i 5 Stelle non sono d’accordo”. Riforma Bonafede, prescrizione, separazione delle carriere: il punto della situazione secondo l’Ucpi camerepenali.it, 2 agosto 2019 La riforma Bonafede naufraga per l’ennesimo gioco di veti incrociati interni alla attuale maggioranza. Come verrà assolto ora il pubblico impegno, assunto dal Ministro Bongiorno a nome del Governo, e d’altronde mai smentito da alcun esponente 5 Stelle, di revoca della vergognosa riforma della prescrizione in assenza di una efficace riforma dei tempi del processo? Come disinnescheremo la “bomba atomica”? Questo il tema sul quale i penalisti italiani assicurano sin da ora il proprio impegno strenuo, fino a quando quell’impegno non verrà onorato, e quell’abominio cancellato dal nostro sistema giuridico. La riforma Bonafede sulla riduzione dei tempi del processo penale nasce come condizione posta dalla Lega per assicurare i propri voti alla abrogazione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado inserita nella Spazza-corrotti, differita al 1 gennaio 2020 e definita dal Ministro Bongiorno una “bomba atomica” scagliata sulla giustizia penale del nostro Paese. Fu sempre il Ministro Bongiorno a rendere pubblico “l’accordo tra gentiluomini” siglato con i 5 Stelle: varo ed approvazione di una efficace riforma dei tempi del processo penale entro novembre 2019, altrimenti revoca di quella norma “bomba atomica”. Il Ministro istituisce un tavolo di consultazione aperto ad Ucpi ed Anm, i quali si accordano nell’indicare al Ministro tre assolute priorità per la riduzione dei tempi: potenziamento dei riti alternativi (patteggiamento ed abbreviato), rafforzamento della funzione di filtro della udienza preliminare, depenalizzazione. Il Ministro Bonafede recepisce quella unitaria indicazione, lasciando fuori tutte le altre proposte sulle quali non vi era intesa tra le parti (abolizione del divieto di reformatio in peius, gravi limitazione del diritto di appello, limitazioni alla formazione della prova nel dibattimento, etc.). Senonché il testo di legge delega finalmente presentato dal Ministro Bonafede risulterà mutilato di due pilastri fondamentali: tutte le norme che potenziavano il patteggiamento, e l’intera parte dedicata alla depenalizzazione dei reati contravvenzionali. Il Ministro ci informa che lo ha preteso la Lega. Ne prendiamo atto, ma così l’intervento riformatore perde ogni senso ed efficacia. Non farà danni, ma è obiettivamente acqua fresca. In Consiglio dei Ministri la Lega esprime dissenso dalla riforma Bonafede sul processo penale, perché non c’è la separazione delle carriere, né la riforma delle intercettazioni. Ci limitiamo qui ad osservare che si tratta di temi sin dal primo giorno del tutto estranei alla logica ed alle finalità della legge delega, che non intendeva “riformare il processo penale” ma più semplicemente intervenire per ridurre i tempi dei processi. Quanto alla separazione delle carriere, da sempre riforma-simbolo dell’impegno politico delle Camere Penali Italiane, segnaliamo che la riforma è già in discussione in Commissione Affari Costituzionali presso la Camera dei Deputati. È la nostra legge di iniziativa popolare, sottoscritta da 72mila cittadini tra i quali proprio Matteo Salvini. Basta adottarla ufficialmente, e sostenerla con determinazione nel suo percorso parlamentare fino alla sua approvazione, per assicurare davvero, e non solo a parole, una riforma epocale oltre che largamente popolare della giustizia penale in Italia. Quanto alle norme che riformano alcune parti dell’ordinamento giudiziario, esse sono un fuori sacco inserito dal Ministro senza mai averci nemmeno consultato. Su di esse ci limitiamo ad osservare che la riforma dell’ordinamento giudiziario non si improvvisa con qualche norma-spot, meno che mai introducendo il sorteggio per la elezione dei membri del Csm, una autentica umiliazione delle regole democratiche e dei principi costituzionali sull’elettorato attivo e passivo. È dunque chiaro che la riforma Bonafede naufraga non per questioni di merito, ma per l’ennesimo gioco di veti incrociati interni alla attuale maggioranza. A noi preme ora che si risponda ad una semplicissima domanda: come verrà assolto il pubblico impegno, assunto dal Ministro Bongiorno a nome del Governo, e d’altronde mai smentito da alcun esponente 5 Stelle, di revoca della vergognosa riforma della prescrizione prossima ad entrare in vigore il primo gennaio 2020 in assenza di una efficace riforma dei tempi del processo? Come disinnescheremo la “bomba atomica”? Questo il tema sul quale i penalisti italiani assicurano sin da ora il proprio impegno strenuo, fino a quando quell’impegno non verrà onorato, e quell’abominio cancellato dal nostro sistema giuridico. Perché applicare le leggi è diverso da “fare giustizia” di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 2 agosto 2019 La legge è un “fatto”. La giustizia è un “valore”. Per questo si scrive che “la legge è uguale per tutti” mentre altrettanto non si potrebbe scrivere a proposito della giustizia: che è una categoria mentale, un valore, appunto, variabile secondo ciò che uno crede. Questa distinzione, tanto banale per chiunque abbia un pizzico di dimestichezza con le regole liberali degli ordinamenti avanzati, è tuttavia sconosciuta o anzi negata da una buona aliquota dei rappresentanti della magistratura corporata, che certamente non è “la” magistratura ma insomma ne rappresenta la parte socialmente più attiva. E non per altro ma esattamente in forza di quella negazione accade che il magistrato ritenga di dover rimettere in riga la società corrotta: non per la sua idea di giustizia, che è legittima come quella di chiunque, ma per l’idea invece sbagliatissima che lui, il magistrato, quell’idea di giustizia possa e debba realizzare con il suo lavoro. Che è, o almeno dovrebbe essere, occuparsi di “fatti”, non di valori: e cioè occuparsi del fatto umano costituito dall’illecito, cioè dalla violazione della legge, quest’altro fatto umano. La pretesa che i comportamenti degli uomini e la società debbano adeguarsi a questo o quel principio costituzionale ( uguaglianza, libertà, rispetto dei diritti civili, eccetera) in forza del lavoro della magistratura, e cioè per il tramite di indagini e processi, denuncia appunto quella confusione tra legge ( fatto) e giustizia ( valore). E spiega perché sia accaduto e tuttavia accada in questo nostro Paese che al magistrato punga di violentare la norma che invece dovrebbe applicare o di opporsi ai progetti di legge che non gradisce: sono fatti ripugnanti, per il suo senso di giustizia. E a risolvere ( si fa per dire) questo conflitto viene con solerzia il processo indebito, o il comizio davanti alla telecamera democratica che fa conoscere al popolo lo sdegno del magistrato al quale si impedisce di far giustizia. Appunto. La giustizia spiega lo sgretolamento confusionale dell’Italia di Paolo Cirino Pomicino Il Foglio, 2 agosto 2019 Dal caso Csm alla Consip passando per la riforma Bonafede. Tre casi di cronaca spiegano il Paese di Kafka. La strana vicenda del Csm e i comportamenti di Luca Palamara sotto indagine della procura di Perugia hanno un significato più profondo degli aspetti squisitamente penali verso i quali il garantismo è d’obbligo per cultura giuridica e morale. Questa vicenda è, purtroppo, però la punta di un iceberg enorme formatosi nel corso degli ultimi venticinque anni e che si chiama “sgretolamento confusionale”. Le istituzioni tutte sembrano in preda a un processo di sgretolamento che produce confusione e genera pasticci e ingiustizie prima ancora di ogni ipotesi. Questo processo investe anche le istituzioni che dovrebbero garantire la legalità e che invece sono aggredite da qualche tempo da una erosione di competenza e di tenuta complessiva anche se le stesse istituzioni tentano poi di fermare questo sgretolamento con iniziative come quella della procura di Perugia. Ma non si ferma così alcuna erosione, c’è bisogno di ben altro che della riforma Bonafede timida e monca. Di questo sgretolamento vi sono episodi che si rincorrono. La procura di Perugia mette sotto inchiesta Palamara lasciando intravedere che nella procura di Roma possono esserci disordini e lotte fratricide tra pubblici ministeri mentre la stessa procura di Roma indaga da molto tempo alcuni magistrati del Consiglio di Stato e molte procure di Italia mettono cimici nelle stanze di magistrati giudicanti, così come l’arma dei carabinieri, amore profondo degli italiani, vive momenti difficili con alcuni vertici indagati sempre dalla procura di Roma mentre quella di Milano mette sotto accusa pezzi importanti dell’economia italiana e via di questo passo. Potremmo, ahinoi, continuare ancora per un bel pezzo questo elenco. Nel frattempo, però, il governo per qualche giorno non ha fatto attraccare una nave della propria Guardia costiera perché ospitava a bordo persone che un peschereccio di un povero marinaio ha salvato dall’annegamento. La confusione, insomma, regna sovrana e la società italiana si smarrisce in una guerra di tutti contro tutti. In questo disordine si realizzano ingiustizie, accanimenti penali e amministrativi contro persone ed aziende. Di quel che è successo a Calogero Mannino ne abbiamo parlato mentre spesso si nasconde quel che accade sul piano della giustizia amministrativa. Mentre emerge la condotta dell’avvocato Amara e i suoi collegamenti con il consiglio di Stato, una grande realtà pubblica come la Consip affonda nella discrezionalità e nella confusione. Un gip del tribunale di Roma dal nome e dall’eredità genetica di grande livello, Gaspare Sturzo, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura della repubblica di Roma per Tiziano Renzi e per altri 12 indagati per la gara più importante della Consip dal valore di oltre un miliardo di euro. Vi sono molte stranezze in questa vicenda giunta alla luce per un esposto fatto nel 2016 dalla Romeo gestioni che parlava di turbativa d’asta e senza il quale né la procura, né l’Anac, né l’antitrust avrebbero mai conosciuto nulla. Sapete come sta finendo? Chi ha fatto l’esposto è perseguito dalla procura, dall’antitrust e dal consiglio di Stato. Il vertice dell’epoca della Consip, tal Marroni, l’unico a non essere indagato, utilizzò alcuni poteri discrezionali eliminando dalle gare più importanti proprio la Romeo gestioni perché, a suo dire, era venuta meno la fiducia senza motivare alcuna inadempienza della società che peraltro non era neanche indagata. Ciò che non poté il diritto forse poté il risentimento? Ma c’è di più! Il presidente della commissione delle famose gare FM4, tal Francesco Licci, fu intercettato dalla procura di Roma mentre diceva al presidente Marroni che non bisognava assegnare alla Romeo alcuna gara. Come mai la procura indaga Romeo e non a fondo questo presidente della commissione e anzi ne chiede l’archiviazione? E come mai il presidente del consiglio di stato Filippo Patroni Griffi avalla una sentenza che dice di non poter entrare nel merito di questa vicenda dando cosi di fatto ragione alla Consip di Marroni? E come mai lo stesso presidente accoglie una richiesta della Consip per anticipare una udienza tra le parti e respinge invece una richiesta di un breve rinvio per consentire alla Romeo gestioni di poter rappresentare le proprie ragioni con tutto il suo team legale. E Marroni con chi chiacchierava di queste gare? Lo dicono le carte, con i francesi di Cofely e molto probabilmente con i tedeschi di Dussmann oltre che con alcuni parlamentari che sponsorizzavano tal Bigotti anch’esso indagato senza che mai avesse parlato invece con la Romeo responsabile dell’esposto dal quale è nata tutta questa scabrosa vicenda. Ma sono errori coincidenti per puro caso o c’è una filiera invisibile che coinvolge i tutori della legalità repubblicana o sono, invece, balle spaziali di un uomo di una certa età come noi? Se lo fossero, siamo pronti a fare ammenda ma per farlo abbiamo bisogno di risposte ai tanti perché, considerando inoltre che finanche l’accusatore del Romeo, tal Gasparri, accompagnò da Marroni non la Romeo gestione ma alcuni suoi competitor. Siamo davvero a Kafka. Tornando al nostro incipit la curiosità nasce solo dal rischio che si consolidi una morale pericolosa secondo cui chi denuncia un possibile imbroglio viene denunciato e rinviato a giudizio mentre la sua azienda viene privata di ogni diritto anche se, a giudizio di tutti, resta la migliore del settore mentre i veri protagonisti restano liberi di continuare tutto ciò che non potevano fare. L’altra morale è che continuiamo a dare agli stranieri non solo il meglio delle nostre imprese ma anche alcuni settori di servizi in via di espansione, nel caso specifico ai francesi della Cofely e ai tedeschi della Dussmann. Ciò che ci conforta, però, è che abbiamo trovato per l’ennesima volta un giudice non a Berlino ma a Roma, il gip Gaspare Sturzo che, tra l’altro, ha un cognome a noi molto caro e che con la sua decisione forse farà finalmente chiarezza tra tutti i soggetti richiamati. Ingiusta detenzione, l’Ue si defila Il Centro, 2 agosto 2019 Petrilli: “Il parlamento europeo non può intervenire sul governo italiano”. La commissione petizioni del parlamento europeo ha risposto alla petizione sul mancato risarcimento da ingiusta detenzione presentata dall’aquilano Giulio Petrilli. È lo stesso interrogante a darne notizia. “La commissione”, scrive Petrilli (Comitato per il diritto al risarcimento a tutti gli assolti), “ha risposto dicendo che non può intervenire sul governo italiano”. “Questo”, prosegue, “perché non esiste una legge dell’Unione europea sul tema. I commissari, nel contempo, riconoscono che si tratta di una mancanza da dover riparare. Riconoscono che i criteri per il risarcimento da ingiusta detenzione non possono variare da stato a stato. Dicono espressamente “nell’ammissibilità, negli importi, nei criteri” tutti devono essere sullo stesso piano”. Secondo Petrilli, pertanto, dev’essere fatta sull’argomento “una legge europea alla quale devono attenersi tutti gli stati membri dell’Unione. Un chiaro riconoscimento alla giustezza del contenuto delle mie battaglie e della mia petizione cioè quella che il risarcimento per ingiusta detenzione va concesso a tutti gli assolti, non si può negarlo per questioni extragiudiziarie, “frequentazioni sbagliate” o perché una persona si sia avvalsa della facoltà di non rispondere al primo interrogatorio. Facoltà garantita dalla legge. Quindi, dopo questa risposta, la battaglia continua per garantire la necessità del risarcimento per tutti coloro sono stati privati ingiustamente della libertà personale. Solleciterò nuovamente i parlamentari europei ad approvare presto una legge europea sulla questione”. Da Trento a Bologna, storia degli attentati sui treni italiani di Saverio Ferrari Il Manifesto, 2 agosto 2019 Trent’anni di sangue. 1967-1984: la strategia della tensione corre sui binari, poi nel 1993 da Capaci inizia l’offensiva stragista di Cosa nostra contro lo stato. “Attentati a uffici, magazzini, cinema, linee ferroviarie. L’opinione pubblica, sempre scontenta e avida di tranquillità, si sarebbe indignata e avrebbe invocato l’ordine senza curarsi da quale parte sarebbe venuto”. A parlare in questo modo era Pino Rauti, il giovane leader della corrente evoliana, nel corso di una riunione interna dell’Msi, a Roma, negli anni Cinquanta. A riportare le sue parole fu Giulio Salierno, all’epoca dirigente giovanile della sezione di Colle Oppio, nella sua Autobiografia di un picchiatore fascista (Einaudi, 1976). Certo è che a partire dagli anni Sessanta i treni e le linee ferroviarie furono oggetto di un’infinità di attentati da parte del terrorismo neofascista. Trento, 30 settembre 1967 - Il primo tentativo di strage fu quello compiuto il 30 settembre 1967 alla stazione di Trento, quando fu segnalata sull’Alpen Express una valigia sospetta abbandonata. Due agenti la prelevarono e tentarono di portarla il più lontano possibile. Alle 14.44, zeppa di esplosivo, scoppiò tra le loro mani, uccidendoli. L’attentato fu addebitato al terrorismo sudtirolese. 1969, verso Piazza Fontana - Nell’escalation degli attentati che nel 1969 portarono alla strage in piazza Fontana, un posto di rilievo ebbe la collocazione, tra l’8 e il 9 agosto 1969, su dieci treni di altrettanti pacchi esplosivi. Due fecero cilecca ma otto scoppiarono. Dodici furono i feriti, tutti in modo lieve. Per questi episodi Franco Freda e Giovanni Ventura di Ordine nuovo, l’organizzazione fondata da Rauti, furono condannati con sentenza definitiva. 1970, da Gioia Tauro a Verona - La prima strage riuscita su un treno fu quella del 22 luglio 1970, quando il direttissimo Palermo-Torino (la “Freccia del Sud”) fu fatto deragliare nei pressi della stazione di Gioia Tauro. Alla fine si contarono sei morti, di cui cinque donne, e 72 feriti. Da otto giorni era in corso la rivolta di Reggio Calabria, scoppiata il 14 luglio. La verità emerse solo 23 anni dopo, quando alcuni pentiti confessarono che la strage fu eseguita su mandato del “Comitato d’azione per Reggio capoluogo” e che a portarla a termine fu un commando neofascista. Poche settimane dopo, il 28 agosto 1970, fu rinvenuta nella sala passeggeri della stazione ferroviaria di Verona una valigia abbandonata da cui proveniva un ticchettio di orologio. Notata da un sottufficiale della Polfer, fu portata in un luogo isolato dove esplose un’ora dopo. 1971, la visita di Tito in Italia - In concomitanza con la preannunciata visita del maresciallo Tito in Italia, un grave attentato fu, invece, organizzato, il 28 marzo 1971, per colpire il treno diretto a Venezia, all’altezza di Grumolo delle Abbadesse. Settantadue centimetri di binario furono tranciati da un ordigno. Il convoglio rischiò di deragliare, salvandosi solo grazie alla sua velocità. 1974, l’Italicus - Tra il 1973 e il 1974 gli attentati sui treni furono ben 14 con una strage riuscita. Questi gli episodi principali: il 7 aprile 1973, sulla linea Genova-Roma, con il tentativo di Nico Azzi, di Ordine nuovo, di innescare una carica esplosiva in una toilette del treno. Azzi rimase ferito dallo scoppio del detonatore e immediatamente arrestato. Il 29 gennaio 1974 a Silvi Marina, in provincia di Teramo, con l’inatteso passaggio del locomotore di un treno merci che tagliò la miccia dell’ordigno posto sui binari. Il 21 aprile 1974 a Vaiano, in provincia di Firenze, quando la strage fu, invece, evitata grazie al blocco automatico dei treni in caso di interruzione dei binari. La carica esplosiva aveva, infatti, divelto oltre mezzo metro di rotaie. La strage si compì, invece, il 4 agosto 1974, sul treno espresso Roma-Brennero, l’”Italicus”, proveniente da Firenze e diretto a Bologna, a cento metri dallo sbocco della Grande galleria dell’Appennino. Il bilancio fu di 12 morti e 44 feriti. Tra il 1975 e il 1978 - Si continuò ancora a colpire treni e linee ferroviarie negli anni successivi. Il 6 gennaio 1975 a Terontola, quando 55 centimetri di rotaia furono divelti da una carica di polvere da mina. Il 12 aprile 1975, all’altezza di Incisa Val D’Arno, quando un ordigno fece, invece, sollevare quaranta centimetri di rotaia. Il 6 febbraio 1977, in compenso, la polizia disinnescò alla stazione Tiburtina di Roma sette candelotti di dinamite sull’espresso Napoli-Milano. Il 5 settembre 1978, infine, cinque chili di esplosivo, tra le stazioni di Vaiano e Vernio, avrebbero dovuto scoppiare sotto la motrice dell’espresso “Conca d’oro”, che viaggiava da Milano a Palermo. Rimasero feriti i macchinisti di un treno che passò al momento dell’esplosione. 1980, la strage di Bologna - Quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna fu la strage non solo più importante sulle linee ferroviarie ma la più grave e sanguinosa nella storia della Repubblica. Alle 10.25 la terribile esplosione. Crollava un’intera ala della stazione, affollatissima per le grandi partenze estive, che a seguito della potenza micidiale dell’ordigno, prima si sollevava e poi ricadeva su se stessa. Il treno Ancona-Basilea, in sosta sul primo binario, veniva investito in pieno dall’onda d’urto. Tra le lamiere fuse e contorte venivano estratti i corpi di decine e decine di persone. Settantacinque le vittime subito recuperate. Altre dieci moriranno nei giorni successivi. Alla fine si conteranno 85 morti, 74 italiani e 11 stranieri, e 200 feriti. È attualmente in corso dal 21 marzo 2018 un nuovo processo nei confronti di Gilberto Cavallini, ex Nuclei armati rivoluzionari (Nar), accusato di concorso per aver fornito supporti e nascondigli per la latitanza di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti e tre condannati in via definitiva per la strage, i primi due all’ergastolo e il terzo, minorenne all’epoca, a 30 anni. 1981 e ancora dopo - Non finì ancora. Il 12 febbraio 1981, otto mesi dopo, ben cinque kg di esplosivo furono rinvenuti sulla linea ferroviaria di Venezia, allo snodo di Porto Marghera. L’innesco non aveva funzionato. Mentre il 9 settembre 1983, il treno 571 Milano-Palermo, mille passeggeri a bordo, in transito sul viadotto alto cinquanta metri del fiume Bisenzio, venne investito da un’esplosione, mentre incrociava un altro treno. Se l’atto terroristico avesse avuto pieno successo i morti si sarebbero contati a centinaia. Il tratto Arezzo-Bologna - Complessivamente sul solo tratto Arezzo-Bologna di 120 chilometri, ben otto furono i tentativi falliti e tre le stragi riuscite: il 4 agosto 1974 sul treno “Italicus”, il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna e il 23 dicembre 1984, sul “Rapido 904”, all’interno della Grande galleria dell’Appennino. Fu l’ultima, con 16 morti e 267 feriti. I legami con Cosa nostra - Con essa si apriva un’altra stagione con l’avvio da parte di Cosa nostra di un’azione offensiva nei confronti dello Stato, che porterà alle stragi di Capaci, via D’Amelio e alle bombe del 1993. La continuità era data dall’impiego di uomini e mezzi provenienti dall’eversione nera. Ne fa fede la condanna nel processo stralcio per la strage del “Rapido 904” del parlamentare missino Massimo Abbatangelo. Non fu condannato per la strage ma per aver detenuto e fornito esplosivi ai clan camorristici. Dalle indagini risultò anche che l’esplosivo usato per la strage di via D’Amelio fosse dello stesso tipo di quello del 23 dicembre 1984, mai utilizzato in precedenza da Cosa nostra. Strage di Bologna. Ceraudo: “Il superteste Sparti fu scarcerato grazie a un certificato falso” di Andrea Colombo Il Manifesto, 2 agosto 2019 Il “medico degli ultimi” e la sua testimonianza sulla strage di Bologna. “L’unico accusatore dei Nar uscì per un tumore che non c’era. E infatti sopravvisse per altri 23 anni”. Francesco Ceraudo è stato per quasi 40 anni direttore del centro clinico Don Bosco nel carcere di Pisa. È uscito da poco un libro in cui racconta la sua esperienza: Uomini come bestie. Il medico degli ultimi, con prefazione di Adriano Sofri (Ets, pp. 310). Un capitolo centrale è dedicato alla sua testimonianza sulla strage di Bologna. Lei cercò di non testimoniare al processo per la strage. Perché? Avevo paura. Un’amica che lavorava nell’ufficio del pm Giovagnoli mi aveva avvertito: girava voce che sarei saltato in aria con la macchina. Per tre volte non mi sono presentato in aula. Poi arrivarono a prendermi 4 carabinieri… Quando testimoniò conosceva già Francesca Mambro? Sì. Era stata ferita in una sparatoria con le forze dell’ordine. Rimase ricoverata per mesi. Si instaurò un proficuo rapporto medico-paziente. Mi convinsi che per Bologna fosse innocente. Confessava crimini gravi ma ripeteva che con quell’attentato non c’entrava. Da mille segnali che si strutturano in queste relazioni le credetti. Ma le mie certezze non contano: al processo raccontai solo i fatti caduti sotto la mia diretta attenzione. Vogliamo ricapitolarli? È semplice: il certificato medico che permise la scarcerazione di Massimo Sparti, unico testimone a carico dei Nar per la strage, era totalmente falso. Riassumiamo la vicenda… Nel dicembre 1981 Sparti arrivò al centro clinico di Pisa. Stava subendo un fortissimo dimagrimento. Fu sottoposto a check up completo, inclusi tutti i marker tumorali. Dissi al giudice istruttore che la sua condizione era compatibile con la detenzione. Nel gennaio 1982 ci fu lo scandalo della corruzione al carcere don Bosco, che racconto nel mio libro. Il direttore, ritenendo che fossi stato io a farlo scoppiare, mi dismise da Dirigente Sanitario e al mio posto si insediò il dott. Biagini. Ritiene che questo trasferimento fosse collegato alla sua diagnosi su Sparti? No. Fui trasferito perché al don Bosco tutto era in vendita, a partire dai posti letto, e io dovetti segnalare la cosa per non essere complice. La mia ingenuità fu parlarne col direttore mentre a orchestrare tutto era proprio lui. Cosa successe dopo il suo trasferimento? Biagini mi disse che aveva mandato Sparti a fare una Tac presso l’Istituto di Radiologia e lì era stato diagnosticato un adenocarcinoma che aveva invaso tutto il pancreas. Due o tre mesi di vita. Non riuscivo a darmi una spiegazione plausibile. Chiesi su quale base avesse deciso la Tac. Cosa rispose? Fu evasivo. Dopo un po’ io fui reintegrato con tutti gli onori. Andai a controllare la cartella di Sparti e con somma sorpresa scoprii che si parlava di carcinoma gastrico e non di adenocarcinoma del pancreas. Il referto era firmato dal radiologo del carcere, prof. Michelassi, di cui si diceva che fosse iscritto alla P2. All’Istituto di Radiologia un medico amico mi disse che circolava la voce di uno scambio di referti: nella cartella di Sparti erano stati inseriti quelli di un altro paziente. Comunque i fatti parlano da soli. Sparti fu scarcerato. Testimoniò accusando Fioravanti e Mambro. Sopravvisse per 23 anni e morì di tutt’altra malattia. Lo scambio non potrebbe essersi verificato indipendentemente dalla testimonianza? A me sembra evidente che la scarcerazione sia stata il prezzo della testimonianza contro i Nar, anche perché questo confessò Sparti al figlio. Ma non sta a me interpretare. I giudici non le credettero. Perché? Mi definirono inattendibile e la cosa mi fece piacere: non rischiavo attentati. Non mi perseguirono, però, per falsa testimonianza! Credo che si fossero innamorati di una tesi e posso capire la sete di giustizia dei parenti delle vittime. Ma se si condannano innocenti non è giustizia. Perché “inattendibile”? Come lo giustificarono? Dissero che provavo rancore nei confronti di Biagini e del direttore, cosa che ancora mi offende sul piano professionale e su quello etico. Tanto più che a riparare al torto ci aveva già pensato la giustizia, condannando a 10 anni il direttore. Dopo di allora è più stato ascoltato nei vari processi per la strage di Bologna? Mai. Ma ora mi hanno preannunciato che verrò ascoltato nel processo in corso contro Cavallini e dirò di nuovo l’unica verità di cui sono in possesso. Caso Cerciello Rega. I diritti civili e il rischio di copiare (male) i populisti di Luca Bottura La Repubblica, 2 agosto 2019 Mentre la Lega guadagna il consenso di 4 italiani su 10, il Movimento Cinque Stelle si avvita veloce verso l’impatto al suolo, l’opinione pubblica nemmeno percepisce, ove anche esistesse, una proposta politica e culturale alternativa, il Pd danza sul proprio ombelico dedicandosi a lotte intestine. Che, com’è noto, tendono a produrre residui organici fastidiosi. L’ultima riguarda la visita del deputato Scalfarotto agli americani in carcere per l’omicidio del carabiniere, che il Ministro ombra per Twitter, Carlo Calenda, ha commentato con l’abituale pacatezza: “Spero sia il sole. Stiamo raggiungendo vertici di stupidità mai toccati nella politica contemporanea”. Un post scritto con la mazza da baseball che apre a una riflessione di fondo su cosa accidenti voglia essere il Pd, per modi e proposta politica. Anche e soprattutto perché Zingaretti ha subito ritenuto di precisare che Scalfarotto era andato a titolo personale, Emanuele Fiano si è dissociato dal collega pressoché in diretta, e il reprobo ha dovuto infine chinare il capo in una sorta di mesto autodafé. È questo il ruolo del Pd? Rinculare contrito quando, per una volta, un proprio esponente ha preso un’iniziativa senza inseguire il senso comune? Continuare a essere la copia perdente dell’originale populista? Perseguire a tentoni il consenso delle classi sociali che un tempo rappresentava? Oppure riaffermare due principi di civiltà, l’habeas corpus da opporre alla sacertà, anche con atti concreti, come la visita di Scalfarotto? Mica c’è andato in gita, a Regina Coeli. Ha fruito delle sue prerogative di deputato dopo che uno degli arrestati era stato violato nella dignità personale. Cosa che non può e non deve capitare neppure al peggiore dei delinquenti. Che il leader della corrente “moderata” del Pd, seguito a ruota del suo segretario, dedichi i propri commenti di getto alla cosiddetta pancia del Paese, attiene alla famosa ricerca del fu voto, appunto, moderato. Il quale nel frattempo è diventato un gorgoglio indistinto e vendicativo, mentre il consenso progressista si disperde nei rivoli dell’astensione, almeno quello che non transitò ai Cinque Stelle per poi finire in pasto alla Lega. A Matteo Renzi e al suo governo, anche i critici più acerrimi riconoscono i risultati raccolti nell’ambito dei diritti civili. Un Partito democratico che abbandoni pure quell’ultima trincea, è destinato a rintanarsi nel vaniloquio delle dirette Facebook a suon di “quando c’eravamo noi sì che il Pil correva”. Meglio avere qualcosa da dire e dirlo chiaro e forte. Un’idea di Paese nel quale anche i rei vanno trattati con civiltà, come ha suggerito Piero Grasso, uno che interrogò, garantendone i diritti, chi aveva progettato il suo omicidio. Per questo Scalfarotto ha fatto benissimo a varcare quei cancelli. Perché prima dei voti, va ricostruito un immaginario di normalità. Non negoziabile. Alternativo. E, in potenza, vincente. Perché l’unica idea da copiare a Salvini è la perseveranza. Caso Cerciello Rega. Scalfarotto linciato per la visita agli arrestati. E anche il Pd si divide di Concetto Vecchio La Repubblica, 2 agosto 2019 “Non mi faccio intimidire dalle squadracce di Salvini”, dice a sera il deputato renziano Ivan Scalfarotto. La sua ispezione a Regina Coeli martedì, dove ha incontrato i due assassini del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, è finita prontamente nel mirino delle bocche di fuoco social del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Anche il Pd ne ha preso le distanze. Il segretario Nicola Zingaretti l’ha definita “un’iniziativa personale”, l’europarlamentare Carlo Calenda l’ha spiegata con un colpo di calore, e il deputato Emanuele Fiano ha detto che “Ivan ha invertito l’ordine delle priorità”. È stata la foto bendata scattata in caserma ad uno dei due arrestati a indurlo ad andare in carcere, “nel rispetto delle mie prerogative di parlamentare. L’Arma ha subito stigmatizzato quello scatto, Salvini no, l’ha rilanciato, per chiedere ai suoi “ma vi pare una foto choc?”. “Sono andato a vedere, a titolo personale, se l’habeas corpus, per cui nessuna persona che si trova in mano allo Stato, nemmeno il peggior criminale, può essere punito se non in forza di un giudizio legale, è stato rispettato. Questo si chiama stato di diritto”. Quel che è accaduto dopo - a prescindere da quel che ognuno possa legittimamente pensare del gesto politico di Scalfarotto - è istruttivo sulla temperatura civile del Paese. Mercoledì mattina Scalfarotto posta l’articolo sulla visita, pubblicato da La Stampa, sul proprio profilo Facebook, e fino alle 22 non suscita alcun interesse degno di nota. Poi Salvini decide di condividerlo. A caratteri cubitali scrive “pazzesco!!!” e vi aggiunge due righe: “Il Pd va in carcere a verificare che il criminale americano non sia stato maltrattato. Non ho parole”. In poco tempo il post viene condiviso 25mila volte, ottiene 31mila commenti, incamera 44mila like. Scalfarotto ha calcolato che è stato letto da 340mila persone. Il parlamentare pd finisce seppellito sotto una valanga di insulti sanguinosi. La critica che gli viene rivolta nel merito è di non essere andato a trovare la vedova del carabiniere: a mettere in fila le ingiurie, molte delle quali qui sono irriferibili, si ha il quadro di un linciaggio. E mentre il popolo di Matteo lapidava Scalfarotto, per non essere da meno col ministro, anche il sottosegretario M5S Carlo Sibilia ci aggiungeva il suo carico: “Questo deputato Pd ha scelto di andare a trovare l’assassino in carcere. Voi che ne pensate? Per me è rivoltante. Vada in carcere, ma esca da Parlamento”. Di fronte all’onda sollevata, Matteo Salvini rilanciava con un altro post: “Noi stiamo con i carabinieri, qualcun altro va a trovare delinquenti. Noi stiamo con gli italiani, qualcuno evidentemente ha altri interessi. Pd, sempre dalla parte sbagliata”, e posta una doppia foto di Scalfarotto e di Sandro Gozi, il Pd appena nominato consigliere del governo francese. Perché, Scalfarotto, non è andato a trovare la vedova? “Non l’ho fatto per discrezione e rispetto. Se mi sarà data l’opportunità, quella sarà l’unica visita commossa e sentita”. Caso Cerciello Rega. Ivan Scalfarotto: “Doverosa la visita in cella. Lo Stato rispetti i detenuti” di Sandro Di Matteo La Stampa, 2 agosto 2019 Il deputato Pd sconfessato anche da Zingaretti. Ivan Scalfarotto, deputato del Pd, è andato in carcere per verificare le condizioni dei due ragazzi arrestati per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Non è la prima volta che va a controllare le condizioni di vita dei detenuti. Ma stavolta Matteo Salvini ha rilanciato su twitter la notizia e subito è partita la tempesta di insulti. Scalfarotto, se lo aspettava immagino... “Sì, ma voglio far notare che l’articolo della Stampa che raccontava della mia ispezione è stato pubblicato la mattina e la reazione si è scatenata intorno alle 22. Tutto è cominciato quando il ministro Salvini ha deciso di trasformarmi in target. Durante tutta la giornata c’erano stati 22 commenti sulla mia pagina Facebook, poi in due ore sono diventati oltre tremila, e immagini i toni”. Vuol dire che è Salvini ad alimentare l’odio? “Certamente. È un tentativo di intimidazione, ma non funziona. Sono convinto della doverosità del mio gesto, nonostante la tempesta perfetta messa su. La mia ispezione era una verifica della tenuta dello stato democratico: abbiamo già accettato che le persone possano affogare in mare, che possano stare sul ponte di una nave senza assistenza. Per fortuna posso dire che la polizia penitenziaria sta gestendo la situazione con grande professionalità”. Ma se è così facile scatenare la tempesta perfetta vuol dire che c’è un terreno fertile. Molti si chiedono: perché preoccuparsi di chi ha confessato un omicidio e non andare invece dalla famiglia della vittima? “In questi casi la politica fa molto presenzialismo. Io per carattere penso che un silenzio dignitoso abbia più senso. A rendere omaggio a Cerciello Rega sono andati tanti miei compagni di partito. Il partito era presente. E io col partito. Ma nessuno è andato in carcere, se Zingaretti fosse andato in carcere io non sarei andato. Dopodiché, se avrò la possibilità di incontrare la famiglia di Cerciello Rega lo farò con una commozione profondissima, e spero possa succedere. Ma il collegamento è sbagliato: in uno Stato di diritto è doverosa la solidarietà per la vittima, ma lo Stato deve anche rispettare chi ha commesso il crimine più efferato”. Come ha visto, contro di lei c’è anche il fuoco amico: Calenda parla di “stupidità”, Zingaretti di “iniziativa personale”. Ha parlato con il leader Pd? “No, non ho parlato né con Zingaretti né con Calenda. Il mio auspicio è che il mio partito non subordini mai la tutela dello stato democratico a valutazioni di opportunità politica. Questa è una posizione dalla quale non mi muovo. Non si può mettere in secondo piano neanche per un secondo la tutela dello stato di diritto. Una volta che lo accetti non torni più indietro. E mi sembra che per il partito il problema non è tanto l’ispezione in sé, ma la reazione che c’è stata”. Sta dicendo che il Pd la critica per paura di perdere consenso? “Probabilmente sì, ma non credo sia la strategia giusta. Si torna al governo rimanendo sé stessi, difendendo i nostri valori, non scimmiottando la cultura dominante”. Per il suo collega di partito Fiano, bisogna tenere conto dei “sentimenti” dell’opinione pubblica... “La politica non può solo accodarsi al sentimento popolare, ha la responsabilità di testimoniare valori anche se minoritari. Ci sono stati fasi nella storia nelle quali si sono affermate vere e proprie barbarie perché lo voleva il popolo. Il ministro dell’interno anziché assicurare l’incolumità dei detenuti, come è doveroso, incita la vendetta. Bisogna prendere una posizione netta”. Detenuto rimesso in libertà oltre i termini di legge: pm responsabile responsabilecivile.it, 2 agosto 2019 Detenuto, in custodia cautelare, rimesso in libertà 65 giorni di ritardo rispetto alla scadenza dei termini di legge: pubblico ministero responsabile. Il P.G. presso la Corte di cassazione promuoveva azione disciplinare nei confronti del sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecco, contestandogli l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. g), consistito nel non aver esercitato, nella fase delle indagini preliminari, il dovuto controllo sui termini di scadenza della misura cautelare degli arresti domiciliari così da procrastinare illegittimamente la liberazione del detenuto, rimesso in libertà con 65 giorni di ritardo rispetto alla scadenza dei suddetti termini prescritti per legge in relazione all’ipotesi di reato contestate. Tuttavia, la Sezione disciplinare del C.S.M., con sentenza depositata il 20 dicembre 2018, assolveva l’incolpato dall’addebito ascrittogli. Non si trattava, infatti, di negligenza ma di errore scusabile poiché causato, non tanto da difetti organizzativi del suo Ufficio, bensì da un errore materiale dell’Ufficio GIP che aveva riportato nello scadenziario un termine errato. Il pubblico ministero aveva perciò, fatto legittimo affidamento “sul normale e regolare svolgimento di compiti propri del personale di cancelleria e del colleghi dell’Ufficio GIP”. La vicenda, giunta in Cassazione, è stata decisa dalle Sezioni Unite che tuttavia, hanno ribaltato l’esito del procedimento disciplinare. Richiamando la giurisprudenza consolidata (sentenze n. 8896/2017 e 4887/2019), hanno affermato che “risponde dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 2, comma 1, lett. g), il magistrato che, con violazione dei doveri di diligenza e con grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, ometta di effettuare il doveroso controllo sulla scadenza del termine di durata della custodia cautelare”. Al riguardo, nessun rilievo ha la circostanza che l’indagato si trovi agli arresti domiciliari, atteso che tale misura costituisce, comunque, una privazione della libertà personale equivalente alla custodia cautelare in carcere ex art. 284 c.p.p., comma 5. I doveri del Pubblico Ministero - È stato anche, più puntualmente, affermato (v., ad es., SU n. 507/2011 e n. 18191/2013), che “il magistrato (nel caso in esame il P.M. che procede alle indagini preliminari che ancora non si siano concluse) ha l’obbligo di vigilare diuturnamente circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini; pertanto, integra grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile - illecito disciplinare punito dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), - il comportamento del magistrato che abbia scarcerato un indagato con notevole ritardo (nel caso che qui viene in rilievo, 65 giorni) rispetto al momento in cui erano decorsi i termini di custodia cautelare (agli arresti domiciliari), senza che possa assumere rilevanza giustificante che il fatto sia ascrivibile ad una mera dimenticanza di trascrizione della data di scadenza dei termini nello scadenzario personale, o che il giudice sia stato sottoposto, in quello stesso periodo, ad un gravoso carico di lavoro e vi abbia fatto fronte, dimostrando notevole produttività, nonostante la sussistenza di difficoltà familiari e personali, non versandosi in una delle ipotesi di assoluta inesigibilità o di sussistenza di causa eccezionale impeditive dell’osservanza del suddetto specifico dovere prescritto per garantire il rispetto del diritto assoluto della libertà personale dell’indagato”. Nessuna scusa dunque, per il pubblico ministero che aveva un preciso ed inderogabile obbligo: quello di seguire in modo diretto ed autonomo la sequenza dello svolgimento dei termini di custodia applicabili ai soggetti dallo stesso indagati e, quindi, evitare di determinarne l’illegittimo (eventuale) superamento. Patteggiamento: l’errore di calcolo non fa scattare la nullità per pena illegale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2019 Può essere considerata illegale solo la pena che risulti inferiore al minimo edittale. E nell’ipotesi di pena illegale non rientrano eventuali errori di calcolo. Con la sentenza 35200 la Cassazione respinge il ricorso del Pm che chiedeva di annullare il patteggiamento perché, in quella sede, era stata applicata per il reato di dichiarazione infedele, una diminuzione di pena per il rito, superiore a quella massima consentita dall’articolo 444 del Codice di procedura penale. Una conclusione che la pubblica accusa supporta con i numeri. La pena di un anno e quattro mesi di reclusione, che risultava dopo l’applicazione delle attenuanti generiche era stata ridotta della metà anziché di un terzo, con una pena finale fissata in otto mesi di reclusione. La Cassazione respinge il ricorso. I giudici della terza sezione penale, ricordano che il nuovo codice di rito, introdotto con la legge103/2017, applicabile al caso esaminato, ha aperto la possibilità di ricorso in Cassazione, in caso di patteggiamento, all’ipotesi di pena illegale. La giurisprudenza, anche a Sezioni unite, ha chiarito che l’illegalità della pena rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento, senza rinvio, della sentenza che lo ha recepito. Un passo che consente alle parti di rinegoziare l’accordo su basi corrette. In quest’ambito i giudici di legittimità hanno definito la nozione di pena illegale come quella stabilita “da una sentenza che recepisca un accordo tra le parti relativamente a un reato continuato per il quale la pena-base risulti quantificata, a seguito di una errata individuazione del reato più grave, in misura inferiore al relativo minimo edittale”. Ulteriore chiarimento riguarda la valutazione di congruità della pena solo rispetto al valore finale, senza considerare i passaggi intermedi. Nel caso esaminato la pena finale di 8 mesi non è inferiore al minimo assoluto previsto dal Codice penale. “Né la pena considerata quale base di computo, è cioè quella di due anni di reclusione, è inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, contestato all’imputato (pari a un anno e sei mesi di reclusione)”. Si è dunque fuori dall’ambito di applicazione del principio sulla pena illegale, al quale è estranea l’ipotesi dell’errore di calcolo compiuti per stabilire la pena finale. Insubordinazione in servizio, no alla particolare tenuità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 1° agosto 2019 n. 35385. No alla non punibilità per particolare tenuità del fatto per gli atti di insubordinazione compiuti dai militari in servizio. La Prima Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 35385 del 1 agosto, ha così respinto il ricorso di un sottoufficiale della Marina Militare condannato nel 2017 dalla Corte di appello militare di Napoli a 13 mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione) per “insubordinazione con violenza pluriaggravata “e “insubordinazione con minaccia pluriaggravata” ai danni di un Sottotenente di Vascello donna. I fatti avvenuti il giorno della vigilia di Natale del 2014 mentre la nave era in navigazione al largo di Lampedusa, erano consistiti: il primo, “nell’afferrare con forza il braccio sinistro” dell’ufficiale, “spingendola con violenza, tanto da farla finire al di là della porta taglia-fiamme del locale in cui si trovavano, con le aggravanti del grado rivestito e dell’aver commesso il fatto a bordo di una nave militare”. Il secondo, nell’essersi avvicinato a pochi centimetri dal superiore prospettandole ritorsioni “qualora avesse deciso di procedere disciplinarmente nei suoi confronti”. E dicendole, alzando il tono della voce, “ti spacco il culo”. Per la Suprema corte però sono inammissibili tutti i motivi di ricorso presentati dal militare. In particolare, la Cassazione ricorda che “ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato militare di insubordinazione con minaccia è sufficiente il dolo generico, e cioè la consapevolezza dell’uso della minaccia, non richiedendosi anche l’intenzione di mettere in pratica il male minacciato”. “Sedimentato è poi - aggiunge la Corte - l’approdo secondo cui anche il reato di insubordinazione con violenza è sorretto da dolo generico”. Riguardo infine l’applicazione del 131 bis del codice penale, la sentenza ricorda che non può essere dedotto per la prima volta in Cassazione se la disposizione “era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello”. Tuttavia, precisano i giudici di legittimità, la Corte di appello militare ha compiuto in via ufficiosa la verifica della sussistenza o meno della causa di non punibilità e l’ha recisamente esclusa “evidenziando l’emersione di una pluralità di indici contrari: la significativa gravità dei reati commessi dall’imputato, in connessione con la duplicità delle condotte offensive della disciplina militare e anche in relazione agli ulteriori beni giuridici - l’incolumità fisica e la libertà morale della persona offesa - pregiudicati, e soprattutto al contesto in cui i fatti erano avvenuti, ossia una nave in corso della navigazione, nonché le modalità con cui i reati erano stati commessi”. Del resto, conclude la decisione, la Corte di appello ha sottolineato che le condotte “avrebbero potuto avere ripercussioni sulle stessa operatività e sicurezza dell’unità navale (non potendo, invero, obliterarsi la natura pluri-offensiva del reato militare di insubordinazione, il quale lede nel contempo il, preminente, principio di autorità militare e la fisica incolumità, nell’insubordinazione con violenza, o la libertà morale, nell’insubordinazione con minaccia, della persona del superiore gerarchico)”. Umbria: vitto inadeguato e in cella senza acqua calda e riscaldamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2019 Alcune delle criticità evidenziate nella relazione annuale del Garante regionale. Scarsa qualità del cibo offerto dall’Amministrazione penitenziaria e in alcuni casi l’inadeguatezza del vitto rispetto alle problematiche di salute, la mancanza di acqua calda e del riscaldamento nelle celle, la non idoneità di queste ultime dal punto di vista igienico- sanitario e situazioni di sovraffollamento soprattutto nei periodi estivi. Queste sono alcune criticità emerse dalla relazione annuale del garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa sul sistema penitenziario dell’Umbria. La relazione è stata presentata mercoledì scorso dal garante. All’incontro tenutosi presso la regione, era presente in prima fila anche l’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci, scrittore, ma soprattutto l’uomo che è riuscito a sensibilizzare l’opinione pubblica sul carattere non riabilitativo della pena perpetua. Ad aprire la relazione è stata la presidente della regione Umbria, Donatella Porzi, che ha ringraziato i presenti e Stefano Anastasìa. La relazione è di 51 pagine e nell’introduzione mette in risalto il ruolo del garante. In particolare c’è un quadro d’insieme degli Istituti di pena per adulti in Umbria. “Tra il 31 dicembre 2017 e il 31 dicembre 2018 - è scritto -, la popolazione penitenziaria umbra è aumentata lievemente, di 61 unità, passando da 1.370 a 1.431 detenuti, a fronte di una capienza complessiva compresa tra i 1.331 ( al 31.12.2017) a i 1.334 posti- letto detentivi ( al 31.12.2018). In regione, a fine 2018 il tasso di sovraffollamento ha raggiunto quindi il 107%, mentre a livello nazionale era del 118%. La situazione di sovraffollamento riguarda tre su quattro istituti e deve essere prestata un’attenzione specifica a quanto avviene a Perugia e Terni, principali istituti di accesso dalla libertà nel sistema penitenziario umbro e perciò più sensibili all’andamento generale della popolazione detenuta, dove già oggi il tasso di affollamento è superiore al 110%”. Dai dati del Garante emerge anche che il 77% dei detenuti sconta una pena detentiva definitiva ( 1.100 detenuti), mentre sono 144 quelli in attesa di primo giudizio, 84 quelli in attesa di appello e 79 i ricorrenti in Cassazione. Per le pene detentive da 5 a 10 e per arrivare all’ergastolo, inoltre, si registra una percentuale più alta di quella nazionale, anche per la presenza di due carceri a media sicurezza come Spoleto e Terni. In questa categoria si registra una presenza quasi esclusiva di detenuti italiani e provenienti da altre regioni. Quindi, emerge, il problema annoso del mancato rispetto della territorialità della pena. Ciò determina notevoli disagi per i detenuti e per le loro famiglie che, spesso, non riescono a far fronte ai continui spostamenti per i colloqui mensili. L’Umbria non è sede di istituti penali per minori e quindi non vi sono luoghi di diretta amministrazione pubblica per l’esecuzione di misure restrittive della libertà inflitte a minori o giovani adulti che abbiano commesso reati entro la minore età. Ciò non toglie che l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni competente per territorio segue una pluralità di misure eseguite presso servizi e strutture territoriali a ciò accreditate dal ministero della Giustizia e dal Tribunale per i minorenni. Alla data del 31 dicembre 2018 risultavano prese in carico dagli uffici di servizio sociale per i minorenni di Perugia 487 persone di cui il 15% ragazze e il 40% stranieri. Altra problematica che Anastasìa ha fatto emergere è l’impossibilità di detenere al 41 bis oggetti particolari in camera ( crocifisso al collo, personal computer, radio, dispositivi mp3 e fotografie dei familiari), nonché il contrasto delle disposizioni dei singoli istituti relative al materiale che il detenuto può avere con sé in occasione del trasferimento da uno all’altro. Il Garante, inoltre, raccomanda alla regione Umbria di garantire maggiori risorse per la formazione, il lavoro e la sanità in carcere, mentre alle amministrazioni penitenziarie di intervenire sulle strutture carcerarie, sul personale, incrementare le relazioni con la comunità esterna. Parma: nuovo accordo Ausl-Carcere per prevenire i suicidi in cella regione.emilia-romagna.it, 2 agosto 2019 Grazie all’intesa garantite azioni di prevenzione di atti sia suicidari che autolesionistici a tutela dei detenuti. Prevenire suicidi e atti autolesionisti in carcere: è questo l’obiettivo del protocollo di intesa, firmato martedì 30 luglio, dall’Ausl e dagli Istituti Penitenziari di Parma, a garanzia della salute dei detenuti. Presenti il direttore generale dell’Ausl, Elena Saccenti, il direttore degli Istituti Penitenziari di Parma, Tazio Bianchi, il Garante dei detenuti Roberto Cavalieri, e vari rappresentanti e professionisti dell’Azienda Usl. Il nuovo accordo, che riformula il precedente del 2016, impegna i due firmatari, ciascuno per le proprie competenze e nel rispetto delle reciproche esigenze istituzionali, a potenziare l’attività di prevenzione del fenomeno, attraverso un’attenta valutazione dei fattori di rischio. Azioni che operativamente si concretizzano con una precoce segnalazione del disagio, una maggior sinergia tra gli operatori penitenziari e quelli sanitari e una presa in carico tempestiva dei detenuti più fragili da parte di una équipe multidisciplinare. Catania: prevenzione suicidi nelle carceri, potenziata sinergia fra Asp Catania e Istituti penitenziari costruiresalute.it, 2 agosto 2019 Siglati oggi, presso la Direzione generale dell’Asp di Catania, i protocolli d’intesa, fra l’Azienda sanitaria catanese e le Case circondariali della provincia di Catania, finalizzati all’implementazione delle attività per la prevenzione del rischio suicidario nelle carceri. Gli accordi sono stati firmati dal dott. Maurizio Lanza, direttore generale dell’Azienda sanitaria catanese e, per i singoli Istituti di pena, rispettivamente dalla dott.ssa Elisabetta Zito (direttore della Casa circondariale di Piazza Lanza), dal dott. Giuseppe Russo (direttore della Casa circondariale di Bicocca), dalla dott.ssa Giorgia Gruttadauria (direttore della Casa circondariale di Caltagirone), e dalla dott.ssa Milena Mormina (direttore della Casa circondariale di Giarre). Presenti, inoltre, per l’Asp di Catania, il dr. Carmelo Florio, in rappresentanza del direttore del Dipartimento di Salute mentale; il dr. Roberto Ortoleva, coordinatore staff del Dsm; il dr. Franco Luca, direttore del Distretto sanitario di Catania; la dr.ssa Salvatrice Riillo, responsabile dell’Uos di Sanità penitenziaria. I protocolli si inseriscono nella cornice del Piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario adulti e attuano le procedure necessarie per aggiornare i Piani locali di prevenzione del rischio suicidario, già vigenti, uniformandoli alle indicazioni dell’Assessorato regionale alla Salute, dettate con il decreto del 28 novembre 2018. Tutti gli interventi predisposti saranno coordinati dal Dipartimento di Salute mentale, di concerto, per quanto di competenza, con le Amministrazioni penitenziarie e con i servizi della sanità penitenziaria. “Stiamo costruendo una pagina nuova delle relazioni fra le Istituzioni - ha detto il dott. Lanza -. I protocolli esprimono la comunità d’intenti e agevolano lo scambio di culture e competenze per definire un modello condiviso e sicuro di approccio al problema. Questi sono gli effetti virtuosi della riforma della sanità penitenziaria, chiari nello spirito della norma e nelle linee dettate dall’Assessorato regionale alla Salute, guidato dall’avv. Ruggero Razza. In questo lavoro ritengo, inoltre, fondamentale l’investimento nella formazione e nella costruzione di luoghi, mentalità e linguaggi comuni finalizzati a una presa in carico globale della persona detenuta”. La prevenzione dei suicidi - In applicazione del Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, il Piano regionale intende perseguire l’obiettivo di prevenire le condotte suicidarie nell’ambito degli Istituti penitenziari della Regione Siciliana. Questa finalità impegna le amministrazioni coinvolte nella scelta di strategie operative per l’adozione di metodologie innovative improntate all’integrazione più efficace delle reciproche competenze. “Le attività oggetto dei singoli protocolli sono tese alla tutela della persona detenuta e della sua salute anche nell’Istituzione carceraria - afferma il dott. Russo. Con questo aggiornamento puntiamo a migliorare ulteriormente contenuti e procedure già definiti in precedenti accordi e a fare in modo che particolari aspetti vengano maggiormente curati e portati a compimento in tempi più celeri e magari in maniera più compiuta”. Analisi del rischio suicidario e individuazione del livello di sorveglianza - All’atto dell’ingresso dei detenuti in ciascun Istituto, anche provenienti da altre strutture penitenziarie, è prevista la valutazione del rischio suicidario e l’attivazione di una fase d’osservazione al fine di individuare potenziali fattori di rischio e di approfondire la conoscenza del detenuto stesso attuando un regolare follow up. “Nel Carcere di Piazza Lanza è istituito il servizio “Nuovi Giunti” - spiega la dott.ssa Zito - che si attiva immediatamente dopo l’immatricolazione del detenuto nuovo arrivato e che prevede l’effettuazione di una visita di primo ingresso al fine di definire gli eventuali profili assistenziali da implementare. Con questo servizio, unico esempio sul territorio, intendiamo accompagnare l’intervento penale, di pari passo, con la diagnosi e l’individuazione della natura del problema che porta al reato. Ritengo, infatti, che se non si realizza questo bilanciamento, si giungerà certamente all’espiazione della pena, ma il cittadino che uscirà fuori sarà portatore di una problematica, che è spesso sanitaria, che durante il periodo di detenzione non sarà affrontata”. Gli strumenti e le procedure operative - I singoli protocolli, siglati questa mattina, sono stati redatti tenendo conto delle specificità di ciascun Istituto di pena, con particolare considerazione per gli aspetti etici e psicologici connessi. Sono stati aggiornati i Piani locali di prevenzione (Plp) di ciascuna Casa Circondariale, sono stati individuati precisi strumenti operativi e sono stati definiti, altrettanto precisi, protocolli operativi clinici, in conformità con le linee guida nazionali e regionali. “Questi protocolli - afferma la dott.ssa Mormina - esprimono il comune impegno delle Istituzioni, carcerarie e sanitarie, a realizzare una presa in carico globale della persona detenuta, assicurando livelli di assistenza uguali e in linea con quelli garantiti sul territorio. Tutto ciò è parte di un processo che vede il Carcere come parte della società e non come luogo di separazione dalla società”. La formazione - In continuità con le attività già svolte, grande attenzione è rivolta alla formazione dei care givers della popolazione detenuta e del personale coinvolto nella gestione diretta dei detenuti, secondo modalità integrate concordate dalle Direzioni dei singoli Istituti penitenziari e dalla Direzione generale dell’Asp di Catania. “La formazione multidisciplinare è l’unico strumento che abbiamo per contrastare realmente questo fenomeno - spiega la dott.ssa Gruttadauria - e per fornire al personale, che è sempre in prima linea, le competenze e gli strumenti per cogliere meglio i segnali del disagio, decifrare il livello del rischio, acquisire e trasmettere le informazioni appropriate e per lavorare integrandosi con altre figure professionali”. Dal 2017 ad oggi, sono stati già formati 250 operatori. Pavia: robot e intelligenza artificiale per i farmaci nelle carceri, il progetto-pilota askanews.it, 2 agosto 2019 L’iniziativa nasce da collaborazione tra Asst Pavia e Deenova. Portare robotica e intelligenza artificiale nelle carceri per rendere più efficiente e sicura la somministrazione dei farmaci all’interno degli istituti penitenziari. Il progetto sperimentale guidato dalla Asst di Pavia è partito con una prima analisi dei dati: l’obiettivo è trasferire nelle carceri di Pavia, Voghera e Vigevano le competenze acquisite in anni di ‘logistica 4.0’ negli otto presidi ospedalieri del territorio. Michele Brait, direttore generale Asst di Pavia. “Questo tipo di intervento migliorerà assolutamente l’assistenza sanitaria all’interno delle carceri. La possibilità di avere una chiara correlazione con un software, che identifica bene e in modo preciso quello che il medico ha prescritto e che assegna in modo chiaro agli infermieri le indicazioni di preparazione, e l’aver automatizzato il processo ha ridotto tantissimo l’errore umano e le conseguenze negative che ci possono essere su una errata somministrazione”. L’esperienza nel Pavese ha permesso di testare il sistema, con risultati tangibili in termine di efficienza, riduzione del rischio clinico e dei costi. Ora c’è la volontà di estendere il servizio anche al di fuori degli ospedali. “È oggi impensabile parlare con i miei infermieri e dirgli di tornare indietro con questo sistema: ha aumentato la produttività e ha liberato risorse rispetto a tutta una serie di adempimenti che altrimenti gli infermieri avrebbero dovuto fare perché è stato trasferito questo onere di preparazione all’esterno”. La sperimentazione nelle carceri parte grazie alla partnership con Deenova, società controllata dal fondo di private equity Hig Capital, che ha messo a disposizione gratuitamente la sua tecnologia. Giorgio Pavesi, presidente e amministratore delegato di Deenova, evidenzia le componenti tecniche del sistema. “La tecnologia informatica, il software che è il cuore del sistema è ciò che permette di gestire le informazioni e la loro tracciabilità”. “E poi - ha aggiunto - ci sono tecnologie robotizzate che sostituendosi all’infermiere, ma governate dall’infermiere, preparano la terapia: sono robot che prendono la singola dose di farmaco e allestiscono la terapia personalizzata per ogni paziente, identificandola tramite codici a barre”. Senza dimenticare la possibilità di raccogliere informazioni fondamentali. “L’altro beneficio, oltre a quello dell’efficienza operativa, è la conoscenza dei dati. La conoscenza è governo: i consumi, l’appropriatezza della terapia, il poter controllare che un farmaco non confligga con un altro farmaco prescritto. Questo è il potere dei dati che, utilizzati da un sistema di business intelligence e intelligenza artificiale all’interno di questi software, permette di dare vari tipi di informazioni”. Come alert per i medici e informazioni logistiche per avere un controllo puntuale dell’organizzazione e dei costi. Evitando gli sprechi e governando la spesa. Milano: morto di tumore da detenuto, il male più veloce della burocrazia L’Eco di Bergamo, 2 agosto 2019 “Avrei voluto almeno permettergli di morire da uomo libero. E invece ho scoperto solo per un caso fortuito e in modo del tutto informale che il mio assistito si trovava già in Rianimazione. Quando è arrivato il parere positivo, dopo molte insistenze, del procuratore generale, la Corte non ha fatto in tempo a riunirsi per decidere: il mio assistito non ce l’ha fatta. Ho chiesto chiarimenti, segnalato perché potevo anche essere avvertita, per evitare casi analoghi”. Sono parole che vibrano di tensione e commozione quelle che l’avvocato Francesca Brocchi del foro di Milano usa per raccontare la triste vicenda di Giorgio Caccia, suo assistito di 58 anni, originario di Gandino e da diversi anni gravitante nella zona del milanese, morto il 29 luglio all’ospedale San Paolo di Milano per un tumore. Piccoli precedenti alle spalle, con anche un periodo di carcerazione, Caccia aveva cercato di rimettersi in pista, senza però riuscire proprio a causa del suo passato di detenuto; alla fine il 23 aprile 2018, mosso dalla disperazione, aveva rapinato un ufficio postale. Una vicenda che gli era costata l’arresto e la carcerazione, con condanna in primo grado a cinque anni e otto mesi di reclusione. A novembre i primi problemi di salute: una tosse insistente cui però nessuno aveva dato troppo peso. Nel frattempo l’iter giudiziario arriva in sede di appello. Alcuni controlli al Fatebenefratelli riscontrano liquido nei polmoni, vengono fatte due toracocentesi nel corso di alcune settimane di ricovero, ma solo ad aprile 2019: poi Caccia torna in carcere. Gli esiti parlano di cellule tumorali maligne, la situazione clinica peggiora rapidamente. Il 12 giugno viene ricoverato al San Paolo, per tornare di nuovo a Opera il 15 luglio: ci sono metastasi anche nelle ossa. “Non sono stata informata di nulla - racconta il difensore - ho scoperto in modo casuale che non era più in carcere: avevo fissato un colloquio con lui il 24 luglio, ma quando mi sono presentata mi hanno detto che non c’era. Ho poi scoperto che era in ospedale da un paio di giorni, in rianimazione”. Del trasferimento nessuna notizia le era stata data, nemmeno oralmente. “Avevo fatto richiesta di scarcerazione l’8 maggio: erano stati chiesti altri documenti, quindi tutto si era fermato in attesa di una diagnosi definitiva - spiega ancora l’avvocato. Una seconda richiesta l’ho fatta il 12 giugno. Il 25 luglio, scoperto che era in Rianimazione, ho scritto una lettera. Il procuratore generale ha dato il parere favorevole alla sostituzione della custodia in carcere con l’obbligo di presentazione la mattina del 29 luglio: purtroppo la Corte non ha fatto nemmeno in tempo a riunirsi, Giorgio Caccia è morto quel giorno stesso”. Oristano: Caligaris (Sdr) “Mario Trudu ancora in attesa tac e terapia anticancro” Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2019 “Il detenuto, al pari degli altri cittadini, ha diritto di essere curato e la sua salute deve essere salvaguardata specialmente quando ci sono evidenti segnali di malattia. È assurdo e inaccettabile che Mario Trudu con una fibrosi polmonare conclamata e una diagnosi di tumore alla prostata stia aspettando da due mesi una Tac per valutare l’opportunità di un intervento chirurgico o di una cura chemioterapica o radiologica. Ciò equivale a una condanna aggiuntiva e a un trattamento disumano e degradante che lo Stato non può permettersi”. Lo affermano in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e l’avv. Monica Murru, legale dell’anziano arzanese recluso nel carcere di Oristano-Massama in regime di ergastolo ostativo. “È forse opportuno ricordare che Mario Trudu - osservano - ha 69 e si trova in carcere da 40 anni. Le sue condizioni di salute sono precarie e appaiono incompatibili con il regime detentivo. La fibrosi polmonare è una complicazione che può portare alla mortalità. Il tumore prostatico non si ferma in attesa che qualcuno si prende la briga di avviare una cura adeguata. È noto, del resto, che un detenuto ha diritto di accedere alle strutture private convenzionate per gli accertamenti diagnostici e le cure”. “Ci domandiamo perché - sottolineano Caligaris e Murru, facendosi interpreti delle preoccupazioni dei familiari - non vengano rispettati principi e norme che non solo la Costituzione e la legge sull’ordinamento penitenziario ma anche le recenti sentenze della Cassazione e perfino le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rimarcano con chiarezza in merito alla salute in cattività”. “Ribadiamo che l’ergastolo ostativo non contempla l’esclusione del diritto alla salute che deve essere garantito a tutte le persone private della libertà in quanto diritto e valore umano. Rivolgiamo quindi un appello al Garante nazionale Mauro Palma affinché valuti l’urgenza di far rispettare le norme vigenti. Si tratta - concludono Caligaris e Murru - di procedere celermente alla diagnostica e a un ricovero in un Ospedale per l’intervento chirurgico e/o in una Residenza Sanitaria affinché l’anziano detenuto possa trovare l’assistenza indispensabile per la cura delle gravi patologie in atto. Non è la libertà al centro della vicenda ma il diritto umano che deve prevalere specialmente quando le condizioni di una persona appaiono davvero gravi”. Napoli: i Radicali in visita nel carcere di Poggioreale con l’assessore Roberta Gaeta di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2019 I Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno svolto oggi, primo agosto, una visita all’interno del carcere napoletano di Poggioreale. Come sempre la delegazione radicale è stata guidata dall’avvocato Raffaele Minieri ma oggi al seguito della pattuglia di militanti è stata presente Roberta Gaeta, assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli, recentemente attiva in prima persona affinché fosse istituito il garante cittadino dei detenuti, come da tempo richiesto dai Radicali per il Mezzogiorno Europeo. Ad accompagnare la delegazione il Commissario Capo Valentina Giordano e la vice direttrice Carmen Forino. I detenuti presenti ad oggi a Poggioreale sono 2114 su una capienza di 1569. Il sovraffollamento resta anche se leggermente meno rispetto a qualche mese fa. Questo a causa del trasferimento di parecchi detenuti da padiglioni come il Salerno (che sarà ristrutturato, presto sarà pronto anche il Venezia) presso il carcere di Secondigliano e anche fuori regione. Appena 270 i detenuti impegnati in mansioni lavorative interne al carcere, i cosiddetti lavoranti, mentre sei sono i ristretti in articolo 21, con possibilità di lavoro esterno. L’istruzione a Poggioreale parte dai corsi di scuola dell’obbligo e di alfabetizzazione, corsi per stranieri oltre a 400 ore di ex scuola media e 825 ore di post scuola media, ovvero il biennio dell’istituto tecnico, anch’esso presente in struttura e sul punto di sfornare i primi diplomati. Novità in arrivo da settembre quando saranno varati il corso per odontotecnico e due corsi regionali da 600 ore di aiuto cuoco e tecnico del suono. Entrambi i corsi verranno frequentati da dieci detenuti ciascuno. È inoltre attivo un progetto di riciclo toner e un progetto agricolo su un’area un tempo abbandonata, tre detenuti lavorano nell’officina per auto mentre a ottobre potrebbe finalmente essere ultimata la pizzeria (per cominciare a uso interno) con inoltre 15 detenuti che saranno impegnati nel corso di formazione. A Poggioreale lavorano 15 educatori laddove ne sarebbero previsti 20; ci sono inoltre undici psicologi ai quali spetta anche il gravoso compito di occuparsi dei nuovi giunti cosa che, osservano dalla struttura, toccherebbe all’Asl. Sul fronte sanitario, sono diversi gli specialisti presenti da due a cinque o sei giorni alla settimana ma nonostante ciò le liste d’attesa sono sempre lunghe. Servirebbero più ore ma anche spazi maggiorni, viene rilevato. La conseguenza è che, pur non mancando farmaci e presidi sanitari in struttura, i tempi in cui questi vengono erogati sono sempre troppo lunghi. Mancano inoltre infermieri e O.S.S. e addirittura, ad oggi, a Poggioreale vi è solo un infermiere ogni 300 detenuti. Vi sono inoltre difficoltà per i ricoveri all’esterno per mancanza di posti. Il primo padiglione visitato è stato il padiglione Genova, il più nuovo al momento aperto, dove sono ristrette 90 persone in 94 posti disponibili. Si tratta di detenuti in via definitiva. Il padiglione sfoggia non solo pareti pulite e celle che somigliano a mini appartamenti ma anche librerie fornite e attrezzi da palestra in ottimo stato. Il regime delle celle aperte vige dalle 8:30 alle 20:30 con chiusura tra le 12 e le 13 e tra le 15:30 e le 16:30 e non mancano attività ricreative e formative. Quindi la delegazione è passata nel padiglione Avellino che ospita 166 detenuti in 368 posti. Sono tutti detenuti di alta sicurezza e qui non vige il regime delle celle aperte. I ristretti possono godere solo di due ore d’aria al mattino e altrettante nel pomeriggio. Spazio quindi per quello che, ad oggi, appare senza dubbio il padiglione peggio messo dell’intero carcere sul quale, curiosamente, non si prevedono al momento interventi sebbene la situazione strutturale sia allo stremo. Il padiglione Milano ospita 300 detenuti in uno spazio che potrebbe contenerne 375. La fatiscenza è evidente già nei corridoi all’esterno delle celle con pareti scrostate e feritoie da cui fuoriescono topi, insetti e scarafaggi, hanno raccontato alcuni detenuti. Le celle non presentano docce, quelle sono in comune e in pessime condizioni anch’esse con le immancabili muffe sulle pareti, i bagni delle stanze sono spesso rotti e l’acqua calda è disponibile solo dalle 8 alle 11. I detenuti sono costretti a cucinare negli stessi spazi dove sorgono i servizi igienici. Il regime delle celle aperte funziona tra le 8:30 e le 12, tra le 13 e le 15 e tra le 16:30 e le 18:30 ma i detenuti lamentano la totale assenza di spazi per la socialità, di una piccola palestra o di qualunque cosa possa tenerli impegnati. In pratica non hanno nulla da fare. Problemi anche per quanto riguarda le cure mediche con i detenuti che temono il pericolo di infezioni mentre secondo un ristretto “siamo rovinati, manca la dignità”. Eppure l’ingegno dei detenuti ha portato a dei veri e propri piccoli miracoli nel tentativo di migliorare la situazione. Fogli di carta da block notes o pagine di riviste sono stati usati come carta da parati con l’intento di coprire pareti ammuffite quando non bucate. Quindi la delegazione radicale si è spostata nel padiglione Roma, che ospita 283 fra transessuali, tossicodipendenti e sex offenders. Il gruppo è andato a fare visita alle sette transessuali ad oggi presenti a Poggioreale e anche qui come nel padiglione Milano vi sono problemi strutturali, docce in comune, ambienti fatiscenti e pareti ammuffite. Le stanze sono tutte singole e anche qui vige il regime delle celle aperte. Infine i Radicali hanno fatto visita agli ammalati nel centro clinico San Paolo, dove al momento vi sono 64 ristretti in 75 posti. I detenuti, in questo caso, lamentano il regime delle celle chiuse. Uno sguardo infine alla pianta organica della polizia penitenziaria: 736 presenze ad oggi e 792 forze amministrate. Un dato ritenuto insufficiente per coprire un carcere come Poggioreale. Un carcere, quello napoletano, destinatario di 15 milioni stanziati dalla sovrintendenza per i beni culturali per rifare alcuni padiglioni fra cui il Salerno. Resta da capire se e quando tale ingente somma sarà effettivamente impiegata per rifare, in primis, il padiglione Milano che rimane di gran lunga il peggiore di una struttura che fra suicidi, rivolte e problemi vari, non vive un momento facile. Napoli: carcere di Secondigliano e Icam di Lauro, la visita degli osservatori di Antigone Gazzetta di Napoli, 2 agosto 2019 Martedì e mercoledì l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone è stato in visita al carcere napoletano di Secondigliano e all’Istituto a Custodia Attenuata per Madri di Lauro. I due istituti campani sono stati visitati dal presidente dell’associazione Patrizio Gonnella e dalla coordinatrice nazionale Susanna Marietti. In entrambi gli istituti è emerso il grande impegno della direzione e di tutti gli operatori per garantire un’esecuzione della pena rispettosa del dettato costituzionale. Si percepisce in entrambe le realtà la vicinanza dell’istituzione alle persone detenute e l’impegno per intercettare i loro bisogni individuali. Secondigliano, con i suoi 40 ettari di estensione, è una delle carceri più grandi dell’intera Europa. Ospita attualmente circa 1.500 detenuti per una capienza di 1.020 posti letto. Solo una sessantina gli stranieri. Sono presenti circuiti di Alta Sicurezza. Il carcere ospita la sezione più grande d’Italia per i detenuti in semilibertà (160). Nonostante il numero dei detenuti presenti superi di oltre 400 unità quello della capienza regolamentare, gli spazi detentivi sono curati e del tutto accettabili dal punto di vista igienico. Anche nelle sezioni di Alta Sicurezza si riesce a garantire un buon numero di ore trascorse fuori dalle celle. Qualche problematicità riguarda le questioni della salute e delle visite specialistiche che vengono eseguite con molto ritardo. Per quanto riguarda l’Icam di Lauro, che ospita 12 mamme detenute con 15 bambini, la struttura è sicuramente ben gestita. Le donne e i loro bimbi sono in un ambiente idoneo che cerca di far vivere nel modo meno traumatico possibile la detenzione ai bambini. Il più grande di loro ha otto anni, La maggior parte delle attività è delegata all’intraprendenza degli operatori dell’istituto, difficilmente raccordabile con il territorio circostante. La maggioranza delle donne è di nazionalità italiana. Sarebbe importante che ci fosse un servizio di accompagnamento esterno quotidiano per le attività scolastiche e ricreative, anche nel mese di agosto. Invece proprio ad agosto i bambini rischiano di passare tutto il mese in istituto. Purtroppo molto è lasciato al solo senso di responsabilità degli operatori penitenziari. L’istituto, le donne e i bimbi, dovrebbero essere presi in carica anche dai servizi sociali del territorio attraverso l’inclusione nei piani di zona. Volterra (Pi): un laboratorio di pasticceria in carcere, la proposta di Irene Galletti movimento5stelletoscana.it, 2 agosto 2019 Un laboratorio di pasticceria per la produzione di alimenti gluten free all’interno del carcere di Volterra. La proposta arriva dalla consigliera del Movimento 5 stelle, Irene Galletti, che ha depositato una mozione in Regione. “Con un contenuto impegno economico c’è la possibilità concreta di realizzazione di un progetto immediatamente operativo e l’attivazione di corsi di formazione in grado di coinvolgere detenuti, educatori e professionisti”. Galletti ricorda che “Negli ultimi anni sono nate molte idee di progetti sociali che contribuiscono al reinserimento dei detenuti, generando attività sociali di grande valore anche economico. La casa circondariale di Volterra è in questo eccezionale per la ricchezza e varietà di iniziative”. Intanto questo pomeriggio la consigliera ha incontrato la direttrice del penitenziario di Volterra per fare il punto sulla nascita del teatro in carcere: “Le risorse economiche - evidenzia - ci sono e per fortuna non saranno perdute. Domani attendiamo buone notizie dall’esito del sopralluogo tecnico, così che si possa giungere a una soluzione positiva”. Sassari: lo studio come chiave per il riscatto dei detenuti, tre lauree d’eccezione di Giampiero Marras L’Unione Sarda, 2 agosto 2019 Il riscatto parte anche dallo studio. Il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari ha registrato ben tre lauree nella sessione estiva. In luglio è diventato dottore in Scienze Forestali un detenuto della Casa Circondariale di Badu e Carros. Si tratta della prima laurea nell’Istituto penitenziario nuorese. Emanuele Farris, delegato del Rettore dell’Università di Sassari per il Polo Universitario Penitenziario, ha sottolineato: “Questa laurea a Nuoro ci rende particolarmente orgogliosi perché dà senso a tanti sforzi che insieme all’Amministrazione penitenziaria portiamo avanti da anni anche nel carcere di Nuoro. Inoltre, il fatto che lo studente abbia potuto conseguire il titolo nella sede nuorese dell’università rappresenta un deciso segnale verso il pieno reinserimento nella società, una conferma che gli studi universitari possono costituire un viatico, uno strumento decisivo per chi, pur avendo sbagliato, vuole imprimere un cambiamento radicale alla propria vita”. Gli altri due neo dottori si sono laureati in Scienze Politiche e in Filosofia. Massimo dei voti per lo studente detenuto nella Casa di Reclusione di Tempio-Nuchis, che ha potuto discutere la laurea nell’Aula Magna di Sassari come il collega di Nuoro. Ha invece ottenuto la laurea a distanza uno studente in precedenza detenuto a Tempio, successivamente trasferito ad Asti, che ha discusso la tesi in videoconferenza con la commissione di laurea riunita nella Casa Circondariale di Sassari-Bancali. Il rettore Massimo Carpinelli ha poi reso noto: “In questi giorni in cui tutti i nostri 50 studenti detenuti sono impegnatissimi a sostenere gli esami della sessione estiva, non solo stiamo inserendo un gruppo di 15 tutor negli istituti penitenziari, ma abbiamo anche aperto la segreteria del Polo, facciamo orientamento negli istituti penitenziari ai diplomati e diplomandi detenuti tutti i venerdì di luglio, e stiamo anche lavorando attivamente con il Prap e il Dap per portare i nostri servizi informatici negli istituti penitenziari”. “L’intento - prosegue Carpinelli - è quello di permettere agli studenti detenuti di gestire in prima persona la propria carriera universitaria iscrivendosi agli esami, generando i bollettini per il pagamento delle tasse, o facendo un colloquio via Skype con un docente che magari è fisicamente lontano centinaia o migliaia di chilometri. In questo momento abbiamo studenti detenuti in quattro istituti penitenziari sardi e quattro peninsulari, e non possiamo progettare uno sviluppo futuro senza guardare alle nuove tecnologie”. Rispunta il rischio missili. E L’Europa resta a guardare di Franco Venturini Corriere della Sera, 2 agosto 2019 La nuova presidente della Commissione oggi è a Roma, un’occasione per discutere sull’insostenibilità dell’assenza dell’Unione sulla scena internazionale. Nel cimitero della Storia americani e russi seppelliscono oggi quel Trattato Inf che nel 1987 ci liberò dagli euromissili. A piangerlo, ora che scadono i sei mesi di riflessione dopo la denuncia degli accordi, ci sono soltanto due presenze: una è la Cina (anche per aver mano libera con lei e con la Corea del Nord Trump ha organizzato il funerale); l’altra è l’Europa, che aveva dato il suo nome a quei missili micidiali e che li ospitava sul suo territorio (per esempio nella base siciliana di Comiso) diventando potenziale bersaglio di uno scambio nucleare tra Est e Ovest. Una Europa che da oggi, almeno in teoria, potrebbe vederseli rispuntare sull’uscio di casa quei missili tra 500 e 5.500 chilometri di gittata, visto che il divieto internazionale sta cadendo, che i rapporti Usa-Russia sono pessimi, e che la tecnologia ha prodotto nuove straordinarie macchine di morte. È questo lutto silente e rassegnato dell’Europa, dunque anche nostro, che ci interessa e ci indigna. Si può capire che l’America consideri obsoleti i trattati di disarmo dei tempi andati (l’Inf fu firmato da Reagan e Gorbaciov), che voglia poter dispiegare missili di quella gittata anche in Asia e che non sia insensibile ai progressi della tecnologia militare soprattutto se Mosca bara davvero al gioco e produce un Cruise proibito (denominato 9M729 oppure Ssc-8). E si può capire, anche, che la Russia non aspetti Trump per mettere a punto i suoi nuovi missili ipersonici, e che a sua volta Putin accusi gli Stati Uniti di violare il trattato modificando gli equilibri nucleari con i loro missili “soltanto difensivi” in Romania e in Polonia. Ma quel che non si può capire e non si può accettare è che l’Europa, prima beneficiaria a suo tempo del divieto e oggi prima potenziale vittima dell’abolizione del divieto, mantenga tenacemente il suo profilo basso, resti alla finestra, eviti di sollevare la questione negli incontri che pure ci sono stati con Donald Trump e con Vladimir Putin. Che si dichiari essa stessa, insomma, non formata da Stati sovrani e dunque non in grado di badare ai suoi interessi. E di interessi non trascurabili si tratta. Certo, un portavoce della Commissione di Bruxelles ha dichiarato a un certo punto che l’Europa “continuava ad essere impegnata per mantenere l’accordo Inf sul nucleare”. Federica Mogherini, responsabile della politica estera europea, ha tentato di fare la sua parte. La questione è stata sollevata in sede Nato, vale a dire con tutti gli europei allineati dietro Washington (che per prima aveva dichiarato di voler uscire dal trattato). E tanto dagli Usa quanto dalla Russia sono giunte generiche assicurazioni contro l’eventualità di una corsa al riarmo missilistico-nucleare in Europa. Ma sappiamo tutti che se mai ci sarà una “nuova Guerra fredda” tra Usa e Russia, essa avrà luogo in Europa. Come la vecchia. L’irresponsabilità dei nostri silenzi, allora, rimane. Ed è una occasione preziosa (o lo sarebbe, se i nostri dirigenti politici non dovessero occuparsi delle loro diatribe quotidiane) quella che porta proprio oggi a Roma Ursula von der Leyen, la nuova presidente della Commissione europea. Vogliamo sperare che a lei il presidente del Consiglio Giuseppe Conte faccia presente l’insostenibilità dell’assenza europea dalla scena internazionale, oltre a discutere dove andrà a sedersi il commissario italiano. Vogliamo sperare che tanto a Conte (e sicuramente al presidente Mattarella) quanto a von der Leyen sia chiara l’urgenza di dare all’Europa, o almeno alle capitali europee unite in cooperazioni rafforzate o in schemi di “diverse velocità”, una capacità, che oggi non c’è, di interloquire credibilmente con Washington, con Mosca e in altre questioni con Pechino. In un mondo dove cresce di continuo la competizione strategico-tecnologica tra le grandi potenze, è giunto il momento di capire se l’Europa intende soltanto chinare il capo e continuare a dividersi, oppure se si può e si deve conquistare una credibilità che ci impedisca di soggiacere sistematicamente alle ambizioni altrui. Ursula von der Leyen è tedesca ed è una ex ministra della Difesa. A lei è certamente chiaro lo smantellamento dell’ordine internazionale nato dopo la Seconda guerra mondiale, per mano di Donald Trump (e tra poco di Boris Johnson?). Di sicuro lei conosce il subdolo incunearsi della Russia di Putin tra le divisioni che percorrono quel che resta dell’Occidente. La difesa europea sotto forma, inizialmente, di un pilastro europeo nella Nato, l’attribuzione di maggiori poteri all’Alto rappresentante per politica estera e difesa, la creazione di un Consiglio di sicurezza europeo, una spinta alla collaborazione tra industrie della difesa, il raggiungimento di intese tra gruppi avanzati di Stati, sono obbiettivi che l’Europa deve porsi nel quinquennio che comincia accanto alle priorità migranti e crescita. L’alternativa sarebbe una Europa a pezzi con i tre Grandi pronti a banchettare sulle sue spoglie. Ne uscirebbero male tutti, nel Vecchio Continente. Ma ben pochi quanto noi, scossi come siamo già da un perenne braccio di ferro interno e da confusi sussulti internazionali che perfezionano il nostro isolamento. Novanta migranti salvati dalle Ong. E Salvini grida al ricatto tedesco di Fabio Albanese La Stampa, 2 agosto 2019 La Alan Kurdi a Lampedusa con 40 profughi, 52 soccorsi dalla Open Arms a largo della Libia. Il ministro dell’Interno: “Berlino ci chiede di farli sbarcare per prenderne 30 della Gregoretti”. Migranti a bordo della nave Alan Kurdi dell’Ong Sea-Eye. Da ieri l’imbarcazione è a poche miglia da Lampedusa. Il nuovo braccio di ferro sui migranti questa volta ha la stazza della “Alan Kurdi”, la nave della Ong di Ratisbona “Sea-Eye” che mercoledì al largo della Libia ha salvato un gruppo di 40 migranti, in acque internazionali ma ritenute zona Sar libica, che dall’altra notte si trova 20 miglia a sud est di Lampedusa, fuori dalle acque italiane. Stavolta la contesa è tra il ministro dell’Interno Salvini e la Germania, prima ancora che con la Ong. Salvini parla di “ricatto” di Berlino per una sorta di scambio tra i 40 migranti della “Alan Kurdi” e i 30 della “Gregoretti” che la Germania si è impegnata a ricollocare: “Ora mi sono rotto le palle”, ha anche detto bruscamente Salvini. E la contesa potrebbe allargarsi visto che nel tardo pomeriggio di ieri la “Open Arms”, da pochi giorni tornata davanti alla Libia, ha recuperato altri 52 migranti che ora dovranno avere un “porto sicuro”. La “Alan Kurdi”, anch’essa appena arrivata in zona Sar, aveva trovato i migranti su un gommone alla deriva alle prime luci dell’alba di mercoledì, e gli aveva mandato incontro un “Rhib”, una delle imbarcazioni veloci di soccorso, con un team. I 40 erano in mare da un paio di giorni: appena a bordo della “Alan Kurdi” - tra loro ci sono due donne, una delle quali incinta, e tre bimbi - sono stati rifocillati; chi aveva bisogno di assistenza medica è stato curato. Quindi, è partita la trafila per la richiesta di un “Pos”, un porto sicuro in cui sbarcare, alle autorità di diversi Paesi tra cui l’Italia. Erano le stesse ore in cui ad Augusta, in Sicilia, si sbloccava la situazione della nave della Guardia costiera “Gregoretti” e sbarcavano finalmente i 116 migranti rimasti a bordo per quasi una settimana, dopo l’accordo per il ricollocamento con 5 Paesi Ue e la Cei. Salvini aveva avvertito: “In Italia non entrano”. E subito la comunicazione era stata data via radio alla nave della Ong tedesca; ieri poi l’ordine scritto di divieto di ingresso nelle acque italiane, firmato dallo stesso Salvini ma anche dai ministro della Difesa Trenta e delle Infrastrutture Toninelli, è stato consegnato al comandante della “Alan Kurdi” direttamente dai militari di una motovedetta della Guardia di finanza partita da Lampedusa. La “solita” situazione di stallo, insomma. Se non fosse che in tarda mattinata i toni si sono improvvisamente inaspriti e a un certo punto il vice premier leghista ha parlato di una situazione “squallida e disgustosa”: “Dal governo tedesco sono arrivati segnali pessimi - ha detto Salvini. Mi hanno girato una email della Commissione europea in cui c’è un ricatto da parte del governo tedesco, che si era impegnato a prendere 30 immigrati della Gregoretti, in cui dicono che li prendono se facciamo sbarcare i 40 della Alan Kurdi”. Aggiungendo: “Governo tedesco e ong tedesche avvisati, mezzo salvati. Se la nave si avvicina all’Italia viene requisita e ne prenderemo il controllo. Mi sono rotto le palle”. Da bordo della “Alan Kurdi” si evita di alimentare polemiche. Gordon Isler, che di Sea-Eye è il capo, puntualizza: “Non è nostro compito entrare in conflitto con il governo italiano”. E spiega che la nave resterà fuori dalle acque territoriali italiane ma pure che è stata rifiutata l’offerta della Guardia costiera libica di dirigersi verso Tripoli “perché questo avrebbe costituito violazione del diritto internazionale”. La “Open Arms”, della omonima Ong spagnola, ha salvato i 52 migranti - 34 uomini, 16 donne e due bambini - ieri pomeriggio mentre erano alla deriva su un gommone: “Stavano affondando, l’acqua stava entrando nel gommone, ma siamo arrivati in tempo - ha twittato Oscar Camps, fondatore della Ong -. Ora abbiamo bisogno di un porto sicuro”. Ieri il governo di Tripoli ha ordinato la chiusura immediata di 3 “detention center”, a Tajoura (dove il 3 luglio c’era stato un raid aereo con 53 morti), Al-Khoms e Misurata; le persone che vi erano rinchiuse potrebbero tentare ora la traversata, spinti anche dai trafficanti. Nell’hotspot di Pozzallo, la polizia di Ragusa ha arrestato due delle persone che erano su nave “Gregoretti”: sono i presunti scafisti di una delle imbarcazioni soccorse, un senegalese di 19 anni e un gambiano di 20, riconosciuti dagli altri migranti. Stati Uniti. Il razzismo “istituzionale” del presidente Trump di Nadia Urbinati Corriere della Sera, 2 agosto 2019 La fenomenologia del populismo al potere è faziosa: consiste nella trasformazione della politica partitica, o fatta mediante i partiti, in una politica di una parte soltanto contro l’altra o le altre. E la vicenda delle offese razziste a rappresentanti del Congresso americano che Trump ha pubblicizzato su Twitter ne è una esemplificazione. Difficile prevederne l’impatto sulla legittimità simbolica delle istituzioni dello Stato federale. La repubblica degli Stati Uniti è come un congegno pensato per operare nel tempo senza subire direttamente gli effetti delle maggioranze. Di governi indigesti e corrotti la federazione americana ne ha avuti tanti. Eppure, la politica ordinaria non ha avuto alla fine il potere di deturpare quel meccanismo, di cui gli americani vanno fieri dai tempi del secolo di Newton: i checks and balances che tengono in permanente moto le istituzioni impedendo alla politica ordinaria di intaccarle o prenderne possesso. Il gioco degli interessi contrapposti e dei poteri di veto rende la politica concreta come un make-up, che muta un poco l’estetica del viso ma svanisce non appena il trucco è lavato via. Quel che resta al di sotto della superfetazione della politica ordinaria è una Costituzione forte e resistente all’uso. Questo spiega ciò che agli europei sembra impossibile da ottenere: una società che ha concrezioni di razzismo, xenofobia, e anche fascismo e un regime politico che non deraglia. Il primo partito populista, ovvero sorto “dal basso”, il Peoplès Party (1892) affermava di voler purificare “la repubblica” dalla corruzione e dal denaro (contro l’oligarchia e l’establishment) e però anche dai nuovi immigrati, perché non poteva “tollerare entro i propri confini degli animali ignoranti” come gli asiatici e gli immigrati del Sud ed Est Europa, che deturpavano i valori etici della repubblica, la sua ambizione di costruire “la città sulla collina”. Democratici e repubblicani hanno avuto e hanno tra i loro affiliati ed elettori persone che condividono ancora idee simili. Ed è un assurdo, visto che gli Stati Uniti sono un Paese costruito da immigrati. Il fatto è che gli immigrati ai quali si assegna una funzione fondativa sono solo quelli dell’Europa cristiana protestante e bianca. A questa “razza perfetta” si deve la Costituzione più antica del mondo moderno. Il presidente Donald Trump, che si rivolge ad alcuni cittadini americani gridando loro “tornatevene a casa vostra”, condivide questa ideologia nativista. E lascia interdetti, poiché tutti i suoi concittadini, lui compreso, hanno avuto “casa” altrove prima di attraversare l’oceano. Di che casa parla dunque? In effetti, Trump ha una visione molto chiara: riconosce solo agli immigrati europei, bianchi e protestanti, la nobiltà di “immigrati” Doc. Gli altri sono e restano intrusi. Per intenderci, nulla di nuovo in questo nativismo xenofobo. Quel che vi è di nuovo e molto inquietante è che un presidente si rivolga a rappresentanti eletti al Congresso come fossero stranieri e quindi nemici della nazione. Trump ha twittato la sua offesa razzista - “ritorna nel tuo Paese” - alla newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, a Rashida Tlaib di Detroit, Ayanna Pressley di Boston e Ilhan Omar del Minnesota. Tutte rappresentanti al loro primo mandato, tutte donne di colore e molto attive, tutte voci della sinistra del Partito democratico; solo una, Omar, è naturalizzata statunitense nata in Somalia. Ciò che hanno in comune è il non essere bianche, l’essere donne, e l’essere radicali. Qual è il fatto nuovo e inquietante di questa vicenda molto grave? Il fatto che il razzismo da opinione diventi voce dell’autorità istituzionale più rappresentativa della Federazione: il tweet del presidente dice che ci sono istituzioni come il Congresso che non legittimano l’eguaglianza, che vogliono membri di un certo tipo, e la cui logica dovrebbe essere la diseguaglianza. Qui sta la gravità delle parole di Trump. Non si tratta questa volta solo di un’opinione (comunque da condannare). Si tratta di un’opinione profferita dal presidente, che razzializza con l’autorevolezza del suo ruolo istituzionale l’organo legislativo, il Congresso. È probabile che anche in questo caso, come in altri non meno truci del passato, gli Stati Uniti restino identici a se stessi nella struttura istituzionale. Però il tenore della politica, istituzionale e non, è certamente capace di mutare la percezione e l’uso delle istituzioni. Un Paese multirazziale e davvero ricco di diversità come gli Stati Uniti ha bisogno di credere che il Congresso sia il Congresso rappresentativo di tutti. La forza degli Stati Uniti è sempre stata questa: quale che fosse la composizione della società e le sue ideologie, le istituzioni non dovevano ufficialmente rispecchiare alcun gruppo in particolare. Che questa fosse una finzione poco importa, purché fosse creduta e i fatti confermassero questa credenza (per esempio imponendo ai presidenti l’uso di uno stile e un linguaggio consono alla loro funzione). Il rischio di questa dichiarazione di esclusione fatta da Trump è che si squarci il velo di quella finzione: che non solo la società, ma anche la Costituzione venga identificata come concretamente di qualcuno, non di tutti. Il populismo al potere è una fenomenologia fazionalista le cui conseguenze possono essere destabilizzanti, anche qualora l’ordine istituzionale sembra immutato. Non c’è nulla di nuovo nel nativismo xenofobo. Ma è molto inquietante è che un presidente si rivolga a rappresentanti eletti al Congresso come fossero stranieri e quindi nemici della nazione Non solo rivolte e violenze: un carcere brasiliano è un modello positivo di Sonia Montrella agi.it, 2 agosto 2019 Come funzionano gli Apac: le prigioni senza armi né guardie in cui il recupero dei detenuti è reale. Ma a condizioni molto strette. È di 57 morti il bilancio delle vittime della rivolta scoppiata il 29 luglio nel carcere di Altamira, nello Stato settentrionale di Parà, in Brasile. Secondo le autorità locali, 16 detenuti sono stati decapitati mentre gli altri sono morti per asfissia dovuta a un incendio appiccato in quell’area del carcere. Le cause della rivolta sono attribuibili a uno scontro tra membri di fazioni rivali. La vicenda è solo l’ultimo dei frequentissimi disordini che esplodono nelle carceri brasiliane, ormai considerate delle bombe a orologeria. Lo scorso 27 maggio, 40 detenuti furono uccisi in 4 diverse prigioni dello stato di Manaus, in Amazzonia. A gennaio del 2017, 130 persone hanno perso la vita negli scontri tra le due più importanti bande del Paese, scoppiati in più carceri. Il Brasile ha la terza popolazione carceraria al mondo dopo gli Stati Uniti e la Cina, con 726.712 detenuti a giugno 2016, secondo le statistiche ufficiali. Il numero dei detenuti è il doppio della capacità delle carceri della nazione, che nello stesso anno era stimata in 368.049 persone. Insieme al grave sovraffollamento e alla violenza delle bande, rivolte e tentativi di evasione nelle carceri brasiliane non sono infrequenti. Ma accanto al sistema carcerario tradizionale, il Brasile sta sperimentando un nuovo modello di prigione, senza armi né guardie, in cui i prigionieri hanno le chiavi delle celle, cucinano e si occupano della sicurezza. Sono le Apac, acronimo che sta per “Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati”. Riconosciute dalla legge brasiliana, se ne contano sono circa una cinquantina su tutto il territorio e ospitano oltre 3.000 detenuti. Il metodo, nato 40 anni fa per opera di un volontario della pastorale carceraria a San Paolo, Ottoboni, si fonda sul fatto che il condannato riconosce di aver commesso un errore e decide di cambiare vita. L’alternativa sta dando i suoi frutti: per chi ha scontato la pena all’interno di queste associazioni, si legge sul sito dell’Avsi, la recidiva scende fino al 20 per cento, rispetto alla media brasiliana che sfiora l’80. Non solo. Le Apac convengono anche: il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo di quello del carcere comune, e il costo di mantenimento è dimezzato. Ma come si vive in un’Apac? La prima cosa che si insegna ai “recuperandi” è quella di non tenere lo sguardo basso. Poi a lavorare per sentirsi parte della società e a studiare. Pena l’espulsione dal sistema. Nelle Apac tutti devono darsi da fare a meno che non si sia malati. In che modo? Le giornate sono scandite tra la preghiera, il lavoro e lo studio. A seconda del reato, ogni detenuto è sottoposto a un determinato regime: chiuso, semi aperto e aperto. I detenuti partecipano ad attività di formazione al lavoro, o a laboratori diversi, e sono incaricati essi stessi di curare i luoghi in cui vivono. Sono liberi di muoversi, cancelli e sbarre, infatti, vengono serrati a chiave solo nel regime chiuso. I recuperandi indossano vestiti e non uniformi, vengono chiamati per nome, provvedono al loro sostentamento cucinando e alla loro formazione studiando per il giorno in cui usciranno dalla struttura. Le chiavi sono affidate a quei recuperandi che hanno completato il percorso riabilitativo e che vengono incaricati di gestire le celle e monitorare il comportamento dei compagni, secondo il principio di responsabilizzazione cardine della filosofia delle Apac. Ma non si tratta di prigioni all’acqua di rose: entrare nel sistema richiede alcune precondizioni e un impegno serio. Per iniziare, il detenuto deve essere condannato in via definitiva. Poi deve aver trascorso un periodo di detenzione nel carcere tradizionale. Deve aver fatto richiesta di entrare in un’APAC e, infine, la sua famiglia deve vivere vicino al carcere perché entrerà a far parte del programma. Per mettere su un’Apac, invece, è indispensabile il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Afghanistan. Gli Usa preparano il ritiro di migliaia di soldati Corriere della Sera, 2 agosto 2019 L’amministrazione Trump si starebbe preparando - secondo il Washington Post - a ritirare migliaia di truppe in cambio di alcune concessioni da parte dei talebani, che comprendono un cessate il fuoco e la rinuncia a dare asilo ad al-Qaeda. L’amministrazione Trump si prepara a ritirare migliaia di truppe dall’Afghanistan in cambio di concessioni dai talebani nell’ambito di un accordo preliminare per mettere fine alla guerra che va avanti da quasi 18 anni. A riportare la notizia il Washington Post secondo il quale il piano imporrebbe ai talebani di trattare un più ampio accordo di pace direttamente con il governo afgano, e potrebbe ridurre il numero delle truppe dalle attuali 14mila unità a 8-9 mila. Il piano sta prendendo forma dopo mesi di trattative fra i talebani e Zalmay Khalilzad, un diplomatico americano nato in Afghanistan nominato da Donald Trump lo scorso anno per il rilancio delle trattative. Secondo indiscrezioni, l’accordo potrebbe essere finalizzato prima delle elezioni presidenziali afgane in settembre. La proposta, aggiunge il Wp, potrebbe essere accolta con scetticismo da alcuni negli Stati Uniti e in Afghanistan che dubitano dell’onestà dei talebani e sulla capacità degli Usa di verificare il rispetto dell’intesa. Ma se approvato l’accordo rappresenterebbe il passo più significativo per mettere fine alla guerra, un obiettivo che ha un appoggio bipartisan. Cina. Gli uiguri nei campi di detenzione, rieducazione dei musulmani cinesi di Paolo Salom Corriere della Sera, 2 agosto 2019 Nei centri della provincia dello Xinjiang, nell’Ovest della Cina, dove gli abitanti di fede islamica vengono “rieducati” alla pace. Ma per Pechino sono solo scuole vocazionali. “Ma se questo fosse vero - ci dice da New York Sharon Hom, direttore esecutivo di Human Rights in China - perché nessuno può lasciare di sua iniziativa questi campi? Perché i parenti non hanno la possibilità di vedere i loro cari?”. Il Corriere è stato invitato a partecipare a una rara visita ad alcuni di questi centri per la rieducazione degli uiguri, insieme con i giornalisti di altri 24 Paesi, compresi rappresentanti del mondo islamico e della Turchia, forse la nazione più sensibile alla sorte di questi suoi lontani “parenti”. Naturalmente, nessuno si aspettava di entrare in un luogo chiuso da filo spinato e protetto da torrette di guardia e agenti armati, così come denunciato soprattutto in Occidente: “In quelle zone - ci dice ancora senza mezzi termini Sharon Hom - è in atto un genocidio culturale”. Barriera di diffidenza - Tuttavia, l’opportunità di superare una barriera di diffidenza e paura, l’occasione di osservare in prima persona una realtà tanto complessa ha consigliato di accettare l’offerta, così come prima di noi aveva deciso di fare la Bbc. Il programma, intenso, ha avuto inizio con una mostra, cruda e senza filtri, sulle azioni terroristiche di estremisti islamici, a Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang, come in altre città cinesi: Pechino compresa. Quindi tappa all’Istituto islamico che prepara i futuri imam “di Stato”, diretto con voce profonda e piglio militaresco dallo Sheik Abdu Rakef, capace di interagire in arabo fluente con i reporter arrivati dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, o in cinese con gli accompagnatori della variegata compagine mediatica. “Il governo della Repubblica Popolare ha sempre dato grande attenzione allo sviluppo della religione islamica”, assicura lo sheik (titolo conseguito all’Università di Al Azhar, al Cairo) davanti a una classe vicina al diploma che porterà i nuovi leader religiosi nelle tante moschee della provincia. “Basta che fede e politica restino separati”. La versione cinese - Più esplicita la signora Tian Wen, segretaria locale del Pcc: “Ci accusano di aver costruito campi di concentramento. Ma la verità è un’altra: noi cerchiamo di trasformare il loro desiderio di morte in desidero di vita”. È davvero così? Secondo il ricercatore tedesco Adrian Zenz, unico occidentale ad aver consultato documenti ufficiali del governo cinese, questi centri “sono luoghi di internamento coercitivo”, non certo “scuole vocazionali”. Nel “Centro di educazione professionale” (Jiaopei zhongxin) della Contea di Shule, a pochi chilometri da Kashgar, antico snodo carovaniero dell’estremo Ovest cinese, sono ospitati circa mille “studenti”, insieme a venti cuochi adibiti alla loro mensa e otto guardiani (disarmati) che si danno il cambio alla porta carraia. I giornalisti stranieri, osservati con malcelata curiosità dai ragazzi che affollano le aule, sono accolti dal direttore Mehmet Ali, 45 anni, anche lui uiguro: “Questa scuola - dice senza enfasi - è stata fondata nel 2018. Vedrete voi stessi: chi studia qui ha l’opportunità di migliorare la propria capacità di comunicare con il resto del Paese, imparando il mandarino, un mestiere e leggi e costituzione della nostra Patria”. Le leggi e la Costituzione - L’accento sul rispetto di leggi e costituzione della Cina è costante. In verità, appare chiaro che l’aspetto che si vuole chiarire e sul quale si basa la metodologia di insegnamento (ripetizione in coro dei precetti guidati dal docente di turno) - una costante nelle scuole dell’Impero - è che non si può infrangere la “pax sinica”, per nessun motivo. All’interno del mondo che si riconosce in oltre tremila anni di storia e cultura, si dà per scontato il ruolo guida degli Han (l’etnia cinese propriamente detta) che al momento opera attraverso il Partito comunista ma che in altre ere guidava l’immenso crogiolo di civiltà per mezzo della figura confuciana del funzionario-letterato: in una parola, il Mandarino. E i racconti dei giovani che accettano di “confessare” i loro “crimini” davanti ai giornalisti stranieri (nessuno scommette sulla spontaneità delle loro parole) interpretano fino in fondo la necessità di “riconoscimento attraverso l’autocritica” dell’autorità nazionale: “Ero uno sciocco, mi sono fatto conquistare da un’ideologia violenta”, dice Aizaiti Ali, 25 anni. “Ho imparato su Internet come fare una bomba”, recita Kuer Banjiang, 23 anni. C’è anche una ragazza, Kurban Gul, 22 anni: “Ho diffuso video jihadisti. Ho creduto alla propaganda che mi insegnava a odiare i cinesi perché pagani”. Nella camerata - Più tardi, il Corriere si è trovato, da solo, in una camerata, linda e ordinata, dove uno “studente” si rilassava prima della mensa suonando la chitarra: nei suoi occhi non c’era tristezza, ma una serena rassegnazione e la consapevolezza di non avere altra strada davanti a sé. “Negli ultimi trenta mesi - afferma con prudenza la signora Tian Wen - non ci sono stati attentati: vuol dire che i nostri sistemi sono efficaci”. Ai reporter resta il ricordo di una visita a vere scuole, istituti professionali che potrebbero appartenere ai normali circuiti educativi. Ma anche la consapevolezza di non poter raccontare ciò che non si è potuto vedere. Xinjiang, l’ultima frontiera. Conosciuta un tempo come Turkestan Orientale, la provincia cinese si estende nell’estremo Ovest del Paese, fino a lambire l’Asia Centrale, punto di incontro (e scontro) per millenni di popolazioni dalle origini più diverse: nomadi e stanziali, islamiche e buddiste, cristiane e animiste. Grande tre volte e mezzo l’Italia, il Xinjiang negli ultimi anni è stato il centro di disordini e sanguinosi attentati anti cinesi che hanno provocato la dura reazione del governo centrale. Secondo rapporti stilati da organizzazioni internazionali, tra le quali Human Rights in China, da un milione a un milione e mezzo di uiguri - l’etnia turcofona di fede musulmana che costituisce la maggioranza nella provincia - sarebbero finiti senza processo in centri di rieducazione per sottoporsi a un “lavaggio del cervello” con lo scopo di estirparne tutte le “idee estremiste e le pulsioni separatiste”, incompatibili con la convivenza in una realtà come quella della Repubblica Popolare. Pechino, oggetto di una lettera di condanna da parte di 22 Paesi (tra i quali l’Italia ma assenti gli Usa) per queste detenzioni extragiudiziali, ha risposto negando decisamente l’esistenza di “campi di concentramento” nella regione e confermando soltanto la presenza di “istituti educativi e vocazionali” dove alcune migliaia di musulmani dai 20 ai 40 anni, uomini e donne, accedono “su base volontaria”.