Morire di carcere: le tragedie dimenticate di Valter Vecellio lindro.it, 29 agosto 2019 Lo si osservava una settimana fa: c’è un grande assente nel dibattito e nel confronto sulla crisi di governo, la situazione comatosa e drammatica in cui versa la giustizia; e in particolare le carceri, che di questa crisi rappresentano l’epifenomeno. Val la pena, allora (pena letterale) di sfogliare un corposo dossier: “Morire di carcere”. È un documento importante, perché mostra una realtà che si tende a rimuovere: le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà, e spesso di abbandono, in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita da una sorta di “Spoon River” tragica e dolente: le storie dei detenuti morti in carcere per suicidio, malattia, overdose, o “cause non accertate”. Si restituisce insomma un’identità a centinaia di detenuti, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Una seconda sezione del dossier raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. Nelle carceri italiane ci si toglie la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere; spesso, accade negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori: strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato. In alcuni casi i suicidi erano affetti da malattie invalidanti e ricoverati in Centri Clinici Penitenziari. Tra i detenuti esiste la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti. Se un detenuto ci muore, è da considerarsi overdose involontaria o suicidio voluto? L’amministrazione lo considera sempre un atto involontario, ma non di rado si tratta di suicidio vero e proprio. I tossicodipendenti rappresentano circa il 30 per cento dei casi di suicidio ricostruiti. Si uccidono con più frequenza da “definitivi” e, addirittura, in vicinanza della scarcerazione: questo può essere indicativo di particolari angosce legate al ritorno in libertà, all’impatto con l’ambiente sociale di provenienza, al rinnovato confronto con la propria condizione di dipendenza. L’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti sono un altro momento nel quale il “rischio suicidio” appare elevato, non solo per i tossicodipendenti: i detenuti per omicidio (il 2,5 per cento di tutti i detenuti, tra attesa di giudizio ed espiazione pena) rappresentano circa il 13 per cento dei casi di suicidio esaminati. Si tolgono la vita più frequentemente coloro che hanno ucciso il coniuge, parenti o amici, più raramente i responsabili di delitti maturati nell’ambito della criminalità organizzata. Circa un terzo dei suicidi ha un’età compresa tra i 20 e i 30 anni; più di un quarto un’età compresa tra i 30 e i 40. Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per ‘cause naturali’ nelle carceri italiane. Raramente i giornali ne danno notizia. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile. Altre volte sono complicazioni trascurate o curate male. Altre volte ancora la morte arriva al termine di un lungo deperimento, dovuto a malattie croniche, o a scioperi della fame. Una storia emblematica, a proposito di sanità e assistenza penitenziaria: è quella di Giacomo Seydou Sy, figlio di Loretta Rossi Stuart, e nipote di Kim, l’attore protagonista, tra gli altri, del film “Romanzo criminale”. “È in cella ma dovrebbe stare in una struttura di cura (Rems), visto che è affetto da bipolarismo e, secondo la relazione psichiatrica, è inadatto al regime carcerario”. Così non è perché i posti nelle Rems, le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi per legge, scarseggiano; in attesa che se ne liberi uno deve restare dietro le sbarre di Rebibbia, con il “rischio che diventi pazzo davvero”. Il racconto prosegue: “È arrivato al culmine, una bomba pronta ad esplodere. Se ora commette una stupidaggine si rovina la vita per sempre”. Venticinquenne, il sogno di diventare campione del mondo di pugilato, la droga. “Con questo bipolarismo quando assume delle sostanze va subito fuori di testa”, racconta Loretta Rossi Stuart. Due arresti nel giro di poco tempo: uno per resistenza a pubblico ufficiale, l’altro per un piccolo furto da 60 euro, compiuto in uno stato psicotico. Si spalancano così le porte del carcere. Da maggio ha finito di scontare la pena per il furto ma su di lui pende ancora un anno di Rems per infermità mentale: “È un internato, da tre mesi è obbligato a stare in carcere, senza le cure adeguate, perché non c’è posto nella struttura alternativa dove dovrebbe andare. La lista d’attesa è pazzesca’. Dopo la sacrosanta chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la svolta, indispensabile per un paese civile, verso la trasformazione in strutture più piccole dove i pazienti sono curati e non semplicemente rinchiusi (le Rems), il problema è che queste strutture sono ancora pochissime! Nel Lazio sono 3-4, 80 in tutta Italia a fronte di un fabbisogno di 120. Non si può trattenere in carcere chi è stato destinato ad una struttura di cura, le Rems vanno potenziate, questo è il problema! Ma non fa audience, non attira like, non interessa nessuno, nonostante gli svariati episodi di suicidio avvenuti recentemente in carcere, erano giovani in attesa di ingresso in una struttura psichiatrica. Mio figlio è stato un mese in isolamento, da solo in una cella spoglia. Anche una persona sana va fuori di testa, figuriamoci chi ha problemi psichiatrici”. Il carcere di Poggioreale a Napoli: un caso paradigmatico. La realtà di questo (letterale) istituto di pena è raccontata dal cappellano del carcere, don Franco Esposito che paragona Poggioreale a un albero: “Un cattivo albero, da cui non possono nascere frutti buoni”. E ancora: “Intendo tenere alta l’attenzione sulle condizioni gravissime in cui versa il carcere di Poggioreale: un istituto penitenziario nel quale ci sono quasi mille detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Questo rende impossibile qualsiasi tentativo di renderlo vivibile. La presenza nostra come Chiesa o di psicologi, educatori, volontari si scontra con l’impossibilità di incidere in una realtà così sovraffollata e caotica. Una realtà indifendibile”. Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, nei giorni scorsi ha dato un giudizio drastico: “A Poggioreale lo Stato ha fallito. Ora il carcere sia immediatamente chiuso e abbattuto…”. Per don Esposito è una proposta da prendere in considerazione: “Il carcere di Poggioreale è una struttura solo detentiva. Non c’è un angolo di verde, non c’è spazio per la socialità. Per far fronte alla condanna inflitta all’Italia dall’Unione Europea a causa del trattamento disumano riservato ai detenuti nelle nostre carceri, qui si sono aperti i corridoi durante il giorno. Ma è un’ipocrisia: esistono ancora celle che dovrebbero ospitare tre-quattro detenuti e arrivano a ospitarne anche 12. Le altre carceri campane e italiane pure sono sovraffollate, così risulta impossibile alleggerire Poggioreale. Il risultato è una situazione ormai ingestibile”. La contenzione che va superata retaggio dei manicomi e degli Opg di Adolfo Ferraro* Il Dubbio, 29 agosto 2019 Distratti dalle vicende e dalle crisi politiche, dai selfie sulle spiagge e dai falò di ferragosto, è passata quasi sotto silenzio la morte di Elena, una ragazza non ancora ventenne deceduta il 13 agosto nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bergamo per le ustioni provocate da un incendio nel momento in cui si trovava legata ad un letto di coercizione per frenare una precedente agitazione psicomotoria. La sciagura ha riacceso le luci sull’antica discussione relativa all’utilizzo o meno della contenzione fisica in psichiatria, l’uso della forza e del legare ad un letto il paziente agitato, bloccandolo agli arti e al torace, così da immobilizzarlo e renderlo “innocuo per sé e per gli altri”. Pratica tutt’ora abbondantemente applicata: da una ricerca recente si è appurato che l’ 85% dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura la utilizzano regolarmente, e a volte accade che la brutale pratica produca morti e danni: è il caso di Francesco Mastrogiovanni, morto legato a un letto e abbandonato per un tempo eccessivo all’ospedale di Vallo della Lucania nell’agosto del 2009, o di Antonia Bernardini bruciata viva nel manicomio criminale di Pozzuoli nel dicembre 1974, o di Andre Soldi, immobilizzato a morte da agenti della polizia municipale a Torino nel 2015 nel corso di un Tso, solo per citare alcuni casi. In Italia solo pochi dipartimenti di salute mentale non praticano per scelta la coercizione, mentre viene usata senza parsimonia nei reparti psichiatrici di ospedali e cliniche private, nelle RemsS che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, e nelle case di riposo per anziani per frenare pazienti con alzheimer agitati o di difficoltoso controllo. E, naturalmente, in quasi tutti i casi di Trattamento Sanitario Obbligatorio. La coercizione fisica in Italia viene regolata da disposizioni legislative che di fatto, pur non sempre ammettendola, la consentono e quindi la legalizzano. Ci sono una serie di leggi e disposizioni che regolano questa pratica, sia a favore sia contro, e in genere lasciano ampio spazio di discrezionalità nel riconoscere uno “stato di necessità” di variabile interpretazione, condizione alla base della pratica, consentendo infine un metodo certamente brutale e traumatico per tutti. Una pratica che, senza vergogna, viene definita “sanitaria” o “medica” pur non avendo nessuna di queste caratteristiche. Conosco il problema, sia come psichiatra sia per essere stato per lungo tempo direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa dove, nel 2008, si riuscì ad eliminare completamente e per sempre la coercizione nell’istituto campano, almeno finché fu funzionante. Fu però una operazione lunga e complessa, che richiese un corso formativo durato due anni per gli operatori tutti della struttura, all’epoca composta oltre che da medici e infermieri anche dal personale di polizia penitenziaria e educatori. Del resto avevo conosciuto nella mia formazione psichiatri più maturi di me, e i più illuminati mi raccontavano di quando erano andati a dirigere strutture psichiatriche e di quando avevano disposto immediatamente l’eliminazione della contenzione. Non mi raccontavano però che nel momento in cui andavano a lavorare altrove i letti di contenzione riapparivano come di incanto, segno che evidentemente la radice era dura a morire, essendo connessa con i modelli culturali di appartenenza. In una struttura come quella psichiatrico-giudiziaria la coercizione poteva diventare un’arma (e a volte lo diventava) per essere messa in atto senza reale motivo, con la scusante della prevenzione, a volte anche a scopo punitivo, o solo perché non si sapeva cosa altro fare, come probabilmente avviene ancora oggi nelle strutture che la praticano. Fu con la consapevolezza di questi rischi che non ci si accontentò, allora, di togliere i letti in una istituzione totale, ma si preferì rendere inutile il loro uso. Una consapevolezza che, anche attualmente, deve indurre riflessioni finalizzate a chiarire i vari aspetti del problema, per potere individuare la soluzione senza demagogie. È evidente che la coercizione rappresenta il fallimento della psichiatria e un barbaro ritorno ai tempi pre Bicètre, o - se si preferisce - al positivismo tutto concentrato sul corpo. Ma è anche vero che per un operatore psichiatrico trovarsi di fronte un soggetto agitato, magari pericoloso e aggressivo, e non avere altre risorse che la contenzione a rischio della propria salute fisica rende comprensibile, anche se non giustificabile, l’uso della pratica. Il fatto è che non si dovrebbe mai arrivare ad un paziente agitato, perché questo è un fallimento, e la coercizione rappresenta tutti i fallimenti possibili della psichiatria e non solo. Un paziente agitato è certamente un fallimento perché vuol dire che non è stato monitorato e trattato adeguatamente. E un paziente agitato non dovrebbe mai essere approcciato da chi non ha competenze e formazioni, perché in questo caso la coercizione diventa la soluzione più semplice e quindi inevitabile. È nella formazione e nella prevenzione, dunque, che i servizi psichiatrici dovrebbero investire, operazione quanto mai complessa e di difficile attuazione, perché necessita di tempi, energie, risorse economiche, volontà di crescere e di radicale mutamento di modelli culturali che vivono sull’emergenza e sulla risoluzione rapida e indolore, almeno per gli operatori. La storia di Elena, già oggetto di indagine giudiziaria, diventa quindi una ulteriore testimonianza di una inadeguatezza culturale che, a distanza di quaranta anni dalla chiusura dei manicomi e dopo il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, non riesce ad essere correttamente affrontata dalla psichiatria. Questa ultima è sempre più tesa alla ricerca di farmaci e connessioni di neurotrasmettitori e sempre meno a quello che è il rapporto medico/ paziente, dimenticando di essere una commistione tra medicina e scienze umane, e che per dirla con le parole di Eugenio Borgna “la psichiatria è innanzitutto gentilezza”. Bisogna però trovare chi la insegna e soprattutto chi vuole imparare ad essere gentile. *Psichiatra Intervista. Giarruso (M5S): dovremo essere discontinui su migranti e legalità di Matteo Marcelli Avvenire, 29 agosto 2019 Il senatore pentastellato, al secondo mandato, è tra i sostenitori dell’intesa con il Partito democratico. Senatore pentastellato al secondo mandato, Mario Giarrusso è tra i sostenitori dell’intesa con il Pd. Un accordo che però non lo imbarazza, considerando che, dice, “non ho mai nascosto le mie riserve su Salvini”. Senatore, la Lega ha staccato la spina e ora andrete al governo con il Pd: non le pare un po’ troppo comodo? La scomodità è stata provocata al Paese dal leader della Lega, che ha compiuto un voltafaccia inatteso. M5s aveva stipulato non un’alleanza, ma un contratto che noi intendevamo onorare. Io non ho un’ostilità preconcetta per Salvini, ma non ho mai nascosto le mie riserve su di lui e sul suo partito, viste anche le inchieste a ripetizione della magistratura, in particolare il caso Siri-Arata (che ho visitato in carcere) e quanto sta emergendo sui contatti fra Lega e Russia. Ci sarà questa discontinuità? Anche l’altroieri Trenta ha imposto un blocco a una nave Ong. La discontinuità andrà garantita soprattutto sul piano dei comportamenti e dell’azione di governo. Credo che un terreno decisivo sarà proprio quello della giustizia e della legalità. Per giustizia, a proposito di Ong e migranti, mi riferisco anche all’esigenza di garantire i diritti basilari dei più bisognosi, sia dei cittadini italiani e delle loro famiglie, sia di chi bussa in condizioni disperate alla porte del nostro Paese. Di Maio rinuncerà a fare il vicepremier? Avrà un altro ministero? Sono certo che agirà nell’interesse del M5s e del Paese. Gli incarichi di governo, oltre che fra i contraenti, andranno concordati con il presidente incaricato. Di Maio è il capo politico, ma la guida dell’esecutivo spetta a Conte. Sono figure distinte ed è bene che lo restino. Il voto su Rousseau non le sembra uno sgarbo istituzionale? Se la base fosse contraria cosa accadrà? Considerato che l’incarico a Conte è esplorativo e che il Movimento ha una modalità specifica di consultare i propri attivisti che ne legittimano le scelte, ritengo che essa vada accolta e rispettata. Ci sono parlamentari contrari all’accordo? Che peso avranno? Mi stupirebbe il contrario. Quanto al peso dipenderà dal numero, che ritengo esiguo. Parlando dei suoi temi, ci sono punti in comune sulla lotta alla mafia con il Pd? L’azione di contrasto alla criminalità organizzata sarà un tema strategico se si vuole dare un altro segnale serio di discontinuità. Mi auguro che il Pd non abbia remore su questo terreno. Ci sono già figure di garanzia alle quali si può fare riferimento, a cominciare dal presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. Ma sarà importante mobilitare anche altre risorse: penso ad esempio a Piera Aiello, una donna che nelle scelte di vita ha dimostrato la volontà e la possibilità di sconfiggere le mafie. Come legge l’endorsement di Trump? Premesso che nessuno può mettere in discussione che l’Italia svolga con onore i propri compiti in seno alla Nato, come forza politica dobbiamo iniziare a dare risposte chiare e nette in materia di politica estera, al fine di restituire all’Italia quel ruolo di pivot nel Mediterraneo che risulta quasi azzerato negli ultimi decenni, penso alla Libia e soprattutto all’irrisolto caso Regeni. Gli Usa possono e devono aiutarci in questo. L’appoggio di Trump mi appare un buon segnale. L’autunno caldo dei giudici di pace: astensioni in arrivo di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 29 agosto 2019 Il cambio di governo mette a rischio la riforma. Con l’avvento del governo Conte bis rischia tornare al punto di partenza la tanto auspicata riforma della magistratura onoraria. Le conseguenze di questo stop sono facilmente immaginabili: una nuova raffica di astensioni dalle udienze. L’ultima si è svolta a luglio, in segno di protesta nei confronti del testo messo a punto dal governo, ritenuto insoddisfacente dai giudici di pace. Da mesi la categoria attendeva un intervento che modificasse il quadro normativo introdotto dalla precedente riforma, firmata da Andrea Orlando. Come ricordato ieri su questo giornale da Alessandro Parrotta, lo scorso 29 luglio era cominciato l’iter parlamentare in Senato del disegno di legge 1438 sul riassetto della magistratura onoraria. Il provvedimento, approvato il 20 maggio dal Consiglio dei ministri, era stato fortemente voluto dal leghista Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia. Diverse le modifiche introdotte, come il restringimento del regime delle incompatibilità dei magistrati onorari o l’estensione dell’applicabilità della normativa sull’assistenza ai familiari disabili. Veniva poi prevista la permanenza in servizio fino a 68 anni, con l’introduzione del cosiddetto “doppio binario”, ossia la scelta tra il mantenimento dell’attuale sistema a cottimo o, in alternativa, i tre impegni settimanali con un incremento dell’ emolumento. “A livello prettamente tecnico e giuridico la riforma è da accogliere con favore perché - seppur migliorabile in alcuni passaggi - inizia a rispondere in maniera chiara e proporzionata alle richieste che da anni la categoria coinvolta porta avanti”, ha ricordato ieri Parrotta. Ma per molti magistrati onorari - attualmente la categoria tratta oltre il 60 percento dei procedimenti civili e penali, con competenza a decidere in via esclusiva sulla materia dell’immigrazione clandestina - si tratta invece di una riforma che non risolve i problemi di fondo: dall’equa retribuzione alle tutele previdenziali e assistenziali. Il prossimo 7 settembre è già in programma a Roma una assemblea generale aperta a tutti i giudici di pace. L’incontro, come si legge nel comunicato dell’Unione nazionale giudici di pace (Unagipa) è stato concepito come “momento di confronto e di messa a fuoco dei problemi di organizzazione degli Uffici che stanno emergendo dalle prime applicazioni della riforma Orlando”. Riforma, come detto, contestata aspramente da tutta la categoria. Perché il tema di fondo è sempre lo stesso: l’equiparazione della magistratura onoraria, sotto il profilo delle funzioni, doveri e del lavoro, a quella professionale. Concetto ribadito anche dal Comitato europeo dei diritti sociali fin dal 2016 e che non pare trovare al momento alcuna applicazione. Riforma intercettazioni, resta da blindare il divieto di “spiare” gli avvocati di Errico Novi Il Dubbio, 29 agosto 2019 Le nuove norme non impediscono al pm di ascoltare il difensore. C’è un aspetto della riforma intercettazioni che potrebbe mettere d’accordo Bonafede e Orlando: quello relativo alle prerogative del difensore. Si tratta anzi di una questione dal doppio risvolto. Innanzitutto il divieto di intercettare i colloqui dell’avvocato con il proprio assistito, che il decreto Orlando rafforza ma in una misura ritenuta non soddisfacente dal Cnf. Sull’altro versante c’è il nodo dell’accesso al materiale intercettato: i limiti posti alla polizia giudiziaria nella trascrizione dei brani, infatti, costringerebbero i difensori ad ascoltare anche centinaia di ore di conversazioni nelle salette predisposte dalle Procure. Un effetto collaterale ai confini dell’assurdo, tanto più se combinato con i tempi strettissimi lasciati ai legali per acquisire gli atti e chiedere eventualmente la trascrizione di conversazioni rimaste negli archivi ma presumibilmente utili alla difesa: appena 10 giorni prorogabili di altri 10. Sono nodi che andranno sciolti in ogni caso, da qui al 31 dicembre, data in cui (come ricordato in altro servizio, ndr), il decreto intercettazioni entrerà in vigore. Rispetto ai colloqui tra difensore e assistito, in un tavolo tecnico riunito a via Arenula nel giugno scorso il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha ricordato come il provvedimento congelato dal 2017 preveda il divieto di trascriverli, ma che “in questi casi l’ascolto dovrebbe essere immediatamente interrotto dall’operatore e il materiale subito distrutto”. Misura al momento non inserita nel testo ma indispensabile se si vuole impedire che, attraverso intercettazioni illegittime, gli inquirenti possano acquisire comunque elementi relativi alla strategia difensiva. Gli equilibri fra efficacia dello strumento investigativo, tutela della privacy e diritto di difesa restano non facili da definire. Potrebbero essere favoriti dalle innovazioni tecnologiche che Bonafede aveva prefigurato anche rispetto alla tracciabilità degli accessi all’archivio riservato della Procura, in modo da restringere il campo dei “sospettabili” in quei casi in cui il materiale trascritto, pur escluso dagli atti di pm e gip, finisse comunque sui giornali. I dubbi legittimi sul divieto di dimora per Lucano di Nuccio Ordine Corriere della Sera, 29 agosto 2019 Pare incredibile che l’ex Sindaco non possa ottenere l’autorizzazione a recarsi a Riace per incontrare suo padre, Roberto, 93 anni, in gravi condizioni di salute a causa di una leucemia e di un infarto. Pare incredibile che Mimmo Lucano non possa ottenere l’autorizzazione a recarsi a Riace per incontrare suo padre, Roberto, di 93 anni. Un divieto di dimora nel comune di cui è stato Sindaco gli impedisce ora di assistere il suo anziano genitore, ormai in gravi condizioni di salute a causa di una leucemia e di un infarto. E mentre una petizione indirizzata al Presidente della Repubblica ha già raccolto quasi 90.000 firme, arrivano il sostegno di Mauro Palma (Garante nazionale dei diritti dei detenuti) e molte attestazioni di solidarietà dal mondo dello spettacolo (ultimo Vinicio Capossela) e della cultura. Tra le tante, anche quella del fisico Marc Mézard, direttore dell’École normale supérieure di Parigi: proprio in questo tempio della ricerca europea, infatti, lo scorso 6 marzo, in un’aula stracolma di professori e studenti, Lucano, Wim Wenders (che al tema dei migranti ha dedicato Il volo) e altri illustri invitati hanno riflettuto sull’accoglienza e sull’incontro tra i popoli nel Mediterraneo. L’ex Sindaco - sarebbe un errore considerarlo un antropologo o un sociologo - ha solo avuto il merito di “vedere” con il cuore. Non si tratta qui di discutere l’operato della magistratura che non può in nessun modo essere condizionato. Ma alcune domande - giustificate anche dalla decisione della Suprema Corte di Cassazione che nel marzo 2019 ha ritenuto insussistenti le ragioni che hanno portato a decidere la misura restrittiva della libertà personale - mi sembrano legittime: siamo sicuri che Lucano vada trattato come un pericoloso delinquente? Siamo certi che in una zona ad altissima densità mafiosa, come la Locride, il tema dell’emigrazione clandestina a Riace debba essere considerato una priorità? In molti siamo convinti che l’ex Sindaco, ormai simbolo nel mondo di un modello aperto di accoglienza, sia vittima di un clima di odio e di egoismo che, in questi anni, ha avvelenato ogni forma di civile convivenza. Qui la “pietà” (ha ragione Lucano a ribadirlo) non c’entra. Sono in gioco solo la giustizia e i diritti umani. La legalità prevale sui reati. Vietato l’uso di prove irregolari anche se indispensabili di Franco Ricca Italia Oggi, 29 agosto 2019 Corte di Giustizia Ue. L’esigenza di perseguire i reati in materia di Iva, a tutela degli interessi finanziari dell’Ue, soccombe al principio di legalità e allo stato di diritto: è conforme con l’ordinamento unionale la norma nazionale che impedisce di utilizzare, nel procedimento penale, prove acquisite illegittimamente, come intercettazioni telefoniche non regolarmente autorizzate, per dimostrare la commissione del reato. La Corte di giustizia Ue ha rilasciato l’importante chiarimento nella sentenza 17 gennaio 2019, causa C-310/16. Le questioni sollevate dai giudici bulgari miravano a stabilire se l’articolo 325 del trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue) e gli articoli 1 e 2 della convenzione Pif del 1995 sulla protezione degli interessi finanziari dell’Ue debbano interpretarsi nel senso che ostano, con riferimento al principio di effettività delle azioni penali in tema di reati Iva, all’applicazione della norma nazionale che impone di escludere dal procedimento penale elementi di prova, quali le intercettazioni telefoniche, che richiedono una preventiva autorizzazione giudiziaria, qualora l’autorizzazione sia stata rilasciata da un’autorità incompetente, anche nel caso in cui si tratti degli unici elementi di prova del reato. La sentenza ricorda preliminarmente che, allo stato attuale, il diritto dell’Ue non stabilisce norme sulle modalità di acquisizione e di utilizzo delle prove nei procedimenti penali in materia di Iva. La materia è quindi di competenza degli stati membri, che hanno però l’obbligo di contrastare le frodi e gli illeciti che ledono gli interessi finanziari dell’Ue, tra cui le frodi Iva, mediante misure effettive e dissuasive; a tale scopo, sono liberi di scegliere le sanzioni applicabili, sebbene in ipotesi di frodi gravi in materia di Iva possano imporsi sanzioni penali, come richiesto dalla convenzione Pif. In proposito, va incidentalmente ricordato che la convenzione è stata sostituita dalla direttiva 2017/1371, le cui disposizioni devono essere applicate in tutti gli stati membri dal 6 luglio scorso. In Italia, però, il recepimento della direttiva, previsto dal ddl comunitaria 2018, non è ancora avvenuto. Tornando alla sentenza, la Corte osserva ancora che gli stati membri devono garantire che le norme nazionali di procedura penale consentano una repressione effettiva dei reati collegati alle frodi Iva, nel rispetto dei principi di proporzionalità, equivalenza ed effettività. Spetta quindi al legislatore nazionale adottare le misure necessarie, se necessario modificando la normativa per evitare che le regole di procedura applicabili nella repressione dei predetti reati possano comportare un rischio sistemico d’impunità. I giudici nazionali, dal canto loro, devono dare piena efficacia agli obblighi derivanti dal trattato e disapplicare pertanto le disposizioni interne che ostino all’applicazione di sanzioni effettive e dissuasive ai reati gravi in materia di Iva. L’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Ue, tuttavia, non esonera i giudici dal rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e dei principi generali del diritto dell’Ue, non soltanto durante i procedimenti penali, ma anche durante la fase delle indagini preliminari, sino dal momento in cui la persona è accusata. I giudici, in particolare, non sono dispensati “dal necessario rispetto del principio di legalità e dello stato di diritto, che costituisce uno dei principali valori su cui si fonda l’Unione”. Ne consegue che il potere repressivo non può essere esercitato al di fuori dei limiti legali entro cui un’autorità è autorizzata ad agire secondo il diritto nazionale. Inoltre, le intercettazioni telefoniche costituiscono un’ingerenza nel diritto alla vita privata che è ammessa solo quando prevista dalla legge, se sia necessaria e risponda effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Ue. Nella fattispecie, risulta che le intercettazioni telefoniche erano state autorizzate da un’autorità giudiziaria non competente, quindi devono essere considerate come non previste dalla legge. In conclusione, il diritto dell’Ue non contrasta con l’applicazione di una norma nazionale che esclude l’utilizzo nel procedimento penale di intercettazioni telefoniche non debitamente autorizzate, persino quando costituiscano gli unici elementi di prova del reato in materia di Iva. Abuso di diritto - Con sentenza del 10 luglio 2019, causa C-273/18, la Corte ha dichiarato che per contestare l’abuso di diritto e negare, quindi, la detrazione dell’Iva, l’amministrazione deve dimostrare quale sia il vantaggio indebito ottenuto dai soggetti passivi. La detrazione non può essere rifiutata soltanto perché, nell’ambito di una serie di cessioni concatenate, l’acquirente ha ricevuto la fattura da un soggetto diverso da quello presso il quale ha prelevato i beni, essendo tale circostanza, di per sé, perfettamente giustificabile per vari motivi. Il procedimento era stato promosso dai giudici lettoni nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il diniego della detrazione dell’Iva relativa ad un acquisto di beni che si inseriva in una serie di operazioni “a catena”, in parte intracomunitarie, prive però di connotazioni fraudolente. Non avendo trovato una spiegazione logica all’intervento delle società intermediarie, l’amministrazione aveva concluso che queste non avessero esercitato alcuna attività e che l’acquirente finale, in realtà, avesse acquistato i beni dal primo fornitore intracomunitario; di conseguenza, aveva negato la detrazione, riqualificando gli acquisti interni come intracomunitari, sul fondamento del carattere artificiale della catena e dell’esistenza di una pratica abusiva, senza tuttavia precisare in cosa sarebbe consistito il vantaggio così indebitamente conseguito. La questione sollevata dai giudici nazionali mirava quindi a chiarire se l’art. 168 della direttiva Iva debba interpretarsi nel senso che, per rifiutare il diritto alla detrazione a motivo dell’esistenza di un abuso di diritto, sia sufficiente il fatto che l’acquisto dei beni si collochi al termine di una catena di operazioni di vendita successive tra varie persone e che i beni siano stati consegnati all’acquirente da un soggetto facente parte di tale catena, ma diverso da quello che risulta come fornitore nella fattura, oppure occorra dimostrare quale sia l’indebito vantaggio fiscale di cui avrebbero beneficiato i soggetti coinvolti. Nella sentenza, la Corte ricorda che ricorre una pratica abusiva, in materia di Iva, in presenza di due condizioni: - che le operazioni, nonostante il rispetto formale delle disposizioni unionali e nazionali, abbiano come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da dette disposizioni; - che risulti, da un insieme di elementi oggettivi, che tale vantaggio fiscale è lo scopo essenziale delle operazioni. Osserva poi la Corte che la mancata corrispondenza tra il soggetto che consegna i beni e quello che emette la fattura non si deve necessariamente ad un occultamento fraudolento del reale fornitore e non costituisce necessariamente una pratica abusiva, ma può avere altre motivazioni, per esempio l’esistenza di due vendite successive riguardanti i medesimi beni, i quali sono trasportati direttamente dal primo venditore al secondo acquirente. Ciò premesso, nella fattispecie l’autorità fiscale non ha dimostrato l’indebito vantaggio fiscale di cui avrebbe beneficiato l’acquirente finale, né ha individuato gli eventuali indebiti vantaggi fiscali ottenuti dalle altre società coinvolte. Di conseguenza, il solo fatto che, nell’ambito di una catena di operazioni, l’acquirente sia entrato fisicamente in possesso dei beni prelevandoli nel deposito di un soggetto diverso da quello che risulta essere indicato come fornitore nella fattura, non può giustificare una differente qualificazione dell’operazione. In queste circostanze, non avendo l’autorità fornito alcun elemento di prova dell’esistenza di un abuso, la detrazione non può essere negata. L’imprevisto rende legittima la difesa dell’aggressore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 36143/2019. Anche se lo scontro è stato accettato o creato, pur potendo sottrarsi, la legittima difesa non va negata nel caso di un’azione imprevedibile e sproporzionata rispetto alle “premesse” iniziali. La Cassazione, con la sentenza 36143/2019, accoglie il ricorso contro la condanna per lesioni aggravate, confermata dalla Corte d’Appello. Il caso esaminato aveva preso le mosse da quella che sembrava una futile lite per motivi di circolazione stradale. L’imputato aveva aggredito, prima verbalmente poi fisicamente, la parte lesa che guidava ad alta velocità mentre lui, con moglie e figli al seguito, stava attraversando la strada. Nel corso della lite l’automobilista aveva colpito il ricorrente con una mazza da baseball che teneva nel cofano ferendolo. Nella rissa era finita anche la moglie dell’imputato, presa a pugni dal conducente dell’auto mentre cercava solo di calmare gli animi e separare i due litiganti. È stato a questo punto che l’imputato ha commesso l’azione per la quale era stato condannato sia nel primo sia nel secondo grado di giudizio: si era impossessato della mazza da baseball e l’aveva usata per colpire l’aggressore della moglie. Per la Corte d’Appello nei suoi confronti non poteva valere la scriminante della legittima difesa. La causa di non punibilità non può essere applicata, aveva precisato la Corte territoriale, nei confronti di chi “abbia contribuito volontariamente alla creazione di una situazione di pericolo alla quale volontariamente si espone”. In questo caso, infatti, manca il requisito della “necessità” della difesa previsto in maniera perentoria dall’articolo 52 del Codice penale. Per la Suprema corte il principio è corretto. Ma non può valere nel caso esaminato, perché tiene conto solo dell’aggressione iniziale senza considerare gli sviluppi imprevedibili. Per i giudici di legittimità la legittima difesa deve essere riconosciuta quando, in presenza di tutti gli altri requisiti di legge, “vi sia stata un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia un’offesa che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta”. Ha dunque sbagliato la Corte di merito a non far pesare nel giudizio lo stato di concitazione provato dal ricorrente al momento del fatto “determinato dall’imprevedibile sviluppo della lite che lui stesso aveva concorso a determinare, consistente nell’aggressione perpetrata in danno di sua moglie”. Un principio in materia di legittima difesa al quale la Corte d’Appello dovrà attenersi valutando se - in base alle concrete circostanze esistenti al momento dei fatti - la reazione possa essere considerata “necessitata e proporzionata rispetto all’offesa ingiusta subita dalla moglie e, dunque, se possa essere scriminata ai sensi dell’articolo 52 del Codice penale”. Riciclaggio per l’avvocato che investe nella ristorazione il denaro del cliente di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 36522/2019. Integra gli estremi del reato di auto riciclaggio la condotta del professionista che investe in un’attività di ristorazione il danaro proveniente da una truffa da lui stesso perpetrata in danno di una cliente. La Cassazione con la sentenza 36522/19,depositata ieri, ha così ribadito che la destinazione del denaro “sporco” a un’attività economica non possa essere riguardata come mera utilizzazione o godimento personale dovendosi, pertanto, escludere la sussistenza della clausola di non punibilità contemplata dalla norma penalistica che punisce l’autoriciclaggio (articolo 648 1ter del codice penale). Nel caso di specie, il professionista aveva utilizzato il denaro provento della truffa consumata in danno del cliente per avviare un’attività di ristorazione effettuando bonifici su conti correnti subito dopo aver proceduto all’incasso delle somme. Secondo la tesi della difesa, la punibilità di tale condotta andava esclusa in quanto scriminata dall’uso personale del denaro provento del delitto, tanto più che la modalità di trasferimento del denaro essendo del tutto tracciabile e, quindi, consentendo di individuare agevolmente le somme trasferite sarebbe stata sufficiente a escludere qualsiasi volontà di camuffamento della loro provenienza delittuosa; di talché, il tribunale aveva errato nel ritenere che la destinazione del denaro a un’attività economica non rientri nell’utilizzo personale. La Corte nel respingere la tesi difensiva ha ribadito che l’investimento dei proventi della condotta delittuosa in una attività di impresa rientra a pieno titolo in quelle “attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative” richiamate dall’articolo 648 ter 1, 1° comma del codice penale, escludendo che nella specie possa parlarsi di uso personale. Sul punto, la Cassazione ha riproposto alcuni importanti passaggi che valgono a tracciare la differenza tra destinazione del denaro, del bene o di altra utilità alla mera utilizzazione o al godimento personale e la condotta punita a titolo di auto riciclaggio che consiste invece nell’impiego, nella sostituzione o nel trasferimento dei proventi illeciti in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative con modalità tali da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. In particolare, la Suprema corte è tornata a sottolineare che la clausola di punibilità rinviene la propria ratio nella salvaguardia del divieto del ne bis in idem che impedisce di punire due volte un soggetto per lo stesso fatto. Tale divieto verrebbe infatti violato ove l’agente venisse punito anche per il mero utilizzo o godimento dei beni provento del delitto presupposto senza porre in essere alcuna attività ingannevole al fine di ostacolarne l’identificazione. Ciò determinerebbe, infatti, un’inaccettabile duplicazione sanzionatoria come tale contraria al principio del ne bis in idem. Da qui, la limitazione dell’applicabilità della non punibilità ai soli casi in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati nella disponibilità dell’agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell’effetto di “sterilizzazione che impedisce - pena la sanzione penale - la reimmissione nel legale circuito economico”. Omessa dichiarazione, reato solo provando il dolo di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 36474/2019. Nel reato di omessa presentazione della dichiarazione, il prestanome risponde solo se è provato il suo intento di evadere le imposte attraverso l’inadempimento dichiarativo. Non è infatti sufficiente ai fini della colpevolezza, la mera assunzione dell’incarico di amministratore di diritto. A precisarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 36474 depositata ieri. Il legale rappresentante, in realtà mero amministratore di diritto, di una società veniva condannato per il reato di omessa presentazione della dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. La pena veniva confermata anche in grado di appello e l’imputato ricorreva in Cassazione. Con riferimento al reato di omessa presentazione della dichiarazione, la difesa censurava che la Corte di appello aveva confermato la colpevolezza solo per la sua qualità di amministratore di diritto della società, trascurando che mancava qualunque prova sulla sussistenza del dolo specifico. Il prestanome, infatti, poteva al più ritenersi colpevole degli inadempimenti, ma proprio per la sua estraneità alla gestione sociale, affidata all’amministratore di fatto, non poteva sussistere l’intento di evadere attraverso l’omissione della dichiarazione. La Suprema corte ha ritenuto fondata la doglianza sul punto. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che nei reati omissivi, commessi in nome e per conto della società, l’amministratore di fatto è il soggetto attivo del delitto e il prestanome è il concorrente per non avere impedito l’evento illecito. L’amministratore di diritto, accettando la carica, ha accettato i rischi connessi al proprio ruolo, quale, ad esempio, impedire danni per la società stessa e per i terzi. Tuttavia, proprio perché nella maggior parte dei casi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza, i reati omissivi sono solo formalmente a egli imputabili, atteso che l’agente va individuato in chi effettivamente gestisce la società, essendo l’unico in grado di compiere (o meno) l’azione dovuta. La Cassazione ha così affermato che al prestanome può essere addebitato il reato a titolo di concorso con l’amministratore di fatto solo a condizione che ricorra anche l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. In particolare, per il delitto di omessa presentazione oltre al dolo generico, cioè la coscienza di aver omesso l’adempimento, occorre la volontà di evasione, integrata dalla cosciente intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte attraverso la citata omessa presentazione. Il giudice di merito quindi, deve individuare, al di là della mera assunzione della carica, ulteriori elementi a dimostrazione dell’intento evasivo. Nella pronuncia è altresì specificato che a tal fine, è di per sé insufficiente l’astratta consapevolezza che attraverso l’omessa presentazione non si sarebbero versate le imposte dovute, poiché il prestanome poteva anche non essere a conoscenza della situazione fiscale della società. Vercelli: detenuto in coma, si sospetta una overdose di stupefacenti di Carlotta Rocci La Repubblica, 29 agosto 2019 La Procura apre un fascicolo, per ora senza indagati. Un detenuto di 30 anni in coma (e non morto - come erroneamente scritto sull’edizione cartacea di Repubblica Torino) dopo che mercoledì scorso si è sentito male nella sua cella nel carcere di Vercelli. Da allora è ricoverato all’ospedale di Novara incosciente e in condizioni gravissime. Per i medici dell’ospedale di Novara, dove l’uomo è arrivato la causa del malore è un’”ischemia”, ma il coma potrebbe essere stato causato dai farmaci o da qualche sostanza stupefacente. Per far luce sull’accaduto la procura di Vercelli ha aperto un fascicolo per ora senza indagati e senza alcuna ipotesi di reato. “Sono molte le piste che stiamo seguendo e i punti su cui la procura vuole fare chiarezza”, spiega il procuratore capo Pier Luigi Pianta. Gli accertamenti successivi al ricovero del detenuto e le prime indagini interne al carcere, subito dopo i fatti, sembravano aver escluso l’ipotesi che l’uomo avesse cercato di togliersi la vita con un cocktail di sostanze, ma ora la procura ha chiesto ulteriori accertamenti anche su questa possibilità. Il malore del giovane carcerato, trattenuto al carcere di Vercelli da aprile, che almeno in apparenza non aveva grossi problemi di salute e risultava in cura solo con delle benzodiazepine, dei banali ansiolitici, apre però un interrogativo a cui la procura vuole rispondere. L’uomo potrebbe aver avuto accesso ad altri tipi di sostanze? Per questa ragione sabato scorso è stata disposta dalla procura una perquisizione della polizia giudiziaria nel braccio dove il giovane aveva vissuto negli ultimi mesi. Altri dettagli potrebbero emergere dall’esame tossicologico: i primi accertamenti avrebbero già rilevato l’assunzione di sostanze chimiche ma dovranno essere analizzate per chiarire la loro natura. Anche per questo la procura è ancora molto cauta: “Sono necessari approfondimenti e l’indagine è in una fase molto iniziale”, spiega Pianta. Il giovane era stato trovato mercoledì sera, nel bagno, dal suo compagno di cella che aveva dato l’allarme. Soccorso dagli agenti era stato portato in ospedale a Vercelli dal 118 dove è arrivato già intubato e in coma, i condizioni gravissime. Nel carcere di Vercelli al momento ci sono 317 detenuti, di cui 33 donne, controllati da 171 poliziotti penitenziari. “Da tempo denunciamo la carenza di organico che affligge tutte le carceri piemontesi e Vercelli non fa eccezione, mancano almeno 35 agenti- commenta il sindacato di polizia penitenziaria Osapp - Nell’istituto in questione da mesi manca un comandante fisso e vengono mandati a turno i comandati da altre carceri. In questi ultimi tre mesi, ad esempio, è in servizio a Vercelli il comandante di Verbania”. A metà agosto il garante comunale dei detenuti Roswitha Flaibani aveva visitato l’istituto di pena per rendersi conto delle criticità della struttura. “Dispiace moltissimo per quello che è accaduto al detenuto - dice Flaibani. Non credo che quello che è successo sia imputabile al carcere o alla direzione penitenziaria”. E prosegue: “Il problema dello spaccio è comune a tutte le carceri piemontesi e denota una falla in un sistema che si illude di poter controllare tutto ma inevitabilmente ci sono cose che sfuggono, nonostante gli sforzi”. Per evitare che i detenuti che hanno accesso ai medicinali possano rivenderli all’interno del carcere, ad esempio, i medici dell’Asl sbriciolano le pastiglie per evitare che possano essere nascoste in bocca a lungo. Ora la procura, però, vuole capire se ci siano altri modi per far entrare sostanze sintetiche, medicinali e droga dietro le sbarre sfuggendo alle verifiche quotidiane degli agenti che controllano i movimenti dei detenuti e perlustrano gli spazi comuni del carcere. Roma: recluso a Rebibbia da tre mesi, ma dovrebbe essere in una Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 agosto 2019 Il problema delle persone che vengono trattenute illegalmente nelle carceri, in attesa di essere ospitati nelle Rems si ripropone quotidianamente. La legge 81/ 2014, infatti, ha sancito il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Fu un grande passo di civiltà. Dentro gli Opg, in effetti, i “folli rei” non erano seguiti dai servizi sanitari territoriali e potevano rimanere all’infinito tra quelle antiche mura, per la continua proroga delle misure di sicurezza: i cosiddetti “ergastoli bianchi”. Condizioni disumane, come dimostrò nel 2011 la Commissione d’inchiesta parlamentare guidata dal senatore Ignazio Marino. Adesso, la legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso. Però sono affollate - questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppe ordinanze di misure di sicurezza - e si creano le liste d’attesa. Alcuni attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. In una situazione simile si trova anche Giacomo Seydou Sy, figlio di Loretta Rossi Stuart, ovvero la sorella di Kim Rossi Stuart. È rinchiuso nel carcere di Rebibbia, nonostante sia arrivata una relazione psichiatrica che lo ha ufficialmente definito “inadatto al regime carcerario”. Ad oggi gli resta da scontare un anno di Rems per infermità mentale ma la struttura è piena. Una situazione che lo costringe a restare in carcere: “È un internato, da tre mesi è obbligato a stare in carcere, senza le cure adeguate, perché non c’è posto nella struttura alternativa dove dovrebbe andare. La lista d’attesa è pazzesca”, denuncia con dolore Loretta Rossi Stuart. Una situazione grave. Tanto da portare anche a gesti estremi, come il caso di Valerio Guerrieri, 21 anni e che si è tolto la vita al carcere di Regina Coeli. Anche lui doveva stare in una Rems. Napoli: a Poggioreale non c’è alcuna differenza tra i vivi e i morti di Bruna Di Dio liberopensiero.eu, 29 agosto 2019 Sono trascorse poche ore dalla cattura del polacco Robert Lisowski, il detenuto evaso dalla casa circondariale di Poggioreale, ma non basta a placare le polemiche sulle condizioni in cui versa la struttura stessa. Dopo la fuga del detenuto, avvenuta il 25 agosto, gli argini non hanno più retto: da più parti sono state evidenziate le problematiche che i detenuti e gli stessi agenti penitenziari sono costretti a subire presso la casa circondariale di Poggioreale. Le prime polemiche sono sorte dopo le affermazioni del cappellano del carcere, il quale ha dichiarato ipso facto: “È scappato un detenuto da Poggioreale; embè? Perché stupirsi davanti a una evasione dal carcere? È la cosa più naturale che possa accadere. Quello che è innaturale è tenere rinchiuse delle persone in una situazione disumana e degradante”. Altre segnalazioni sono giunte dal Garante Nazionale dei detenuti, tra l’altro poco prima che avvenisse l’evasione; il Garante, nelle vesti di Marco Palma, ha evidenziato una moltitudine di problematiche, pubblicando una relazione in cui si evince che “in alcuni reparti le condizioni di vita sono inaccettabili”; Palma ha rimarcato numerose criticità legate alla struttura stessa, e cioè al doppio dei detenuti che una casa circondariale come Poggioreale potrebbe ospitare, l’assenza inoltre di oggetti indispensabili per l’uso quotidiano da parte dei detenuti, nonché la difficoltà ad individuare spazi affinché i detenuti possano comunicare con le proprie famiglie. Difatti, è lo stesso Palma ad affermare che le condizioni sono “incompatibili con la dignità delle persone ristrette”. In effetti Poggioreale nasce come casa circondariale: questo significa che all’interno vi dovrebbe ospitare esclusivamente persone in attesa di giudizio, quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni. La realtà è un’altra: se a Poggioreale i posti ammessi sono 1633, ad oggi vi sono, invece, 2373 persone anche con condanna definitiva, a causa di un ampio sovraffollamento negli altri istituti penitenziari. All’interno di una cella ci sono dalle 15 alle 20 persone, spesso con un unico bagno in condizioni deplorevoli (come riportato dallo stesso Palma), letti insufficienti. Una sola finestra per 12 o 15 persone, un’aria irrespirabile, condizioni igienico-sanitarie al limite se non del tutto assenti, detenuti con Aids ed epatite lasciati in queste celle sovraffollate in condizioni pericolose per sé e per gli altri. Un fallimento, perché è lo stesso sindacato degli agenti penitenziari a riconoscere di operare in una situazione indegna: “Il sistema Poggioreale venga abbattuto”. Seppure una chiara provocazione, quanto affermato evidenzia la necessità immediata di provvedere a cambiare quelle che sono condizioni inverosimili sia per i detenuti che per gli agenti e per tutti coloro che vi lavorano; risulta inverosimile soprattutto in uno Stato democratico, la cui Costituzione sancisce all’art. 27 comma 3 che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono mirare alla rieducazione del condannato. Solo che la rieducazione, spesso, è una chimera. Il problema principale è che in Italia abbiamo sempre delle “belle leggi”, ma coloro che devono attuarle e rispettarle non vi riescono nemmeno minimamente. Nel XXI secolo ancora pensiamo che la condanna per eccellenza possa essere la legge del taglione o addirittura la pena di morte. Abbiamo sempre pensato di eliminare il problema eliminando le persone. Così con i malati di mente, oggi con i detenuti. Li abbiamo esiliati, resi assenti, privi di parola e di ogni forma di comunicazione col mondo esterno: di loro sappiamo poco o niente, e ci vien fatto credere che siano lo scarto della società. Li riteniamo a prescindere colpevoli perché detenuti, per cui condannati alle loro irreversibili colpe, senza diritti, come bestie da macello. Se bastasse dare loro della dignità per renderli persone migliori, invece di abbandonarli, di annichilirli, imbruttirli dentro e fuori, restituendo alla società uomini che sanno solo riconoscere l’odio, perché nessuno ha insegnato loro la delicatezza d’animo, la gentilezza gratuita? Se fossimo noi ad offrirgli un’altra possibilità garantendo loro posate per mangiare, un letto dove dormire, offrendo loro competenze spendibili, insegnando loro l’educazione al sentimento, alla condivisione, al sacrificio? Li chiudiamo invece nelle quattro mura, in condizioni disumane, senza possibilità di veder sorgere l’alba del giorno dopo, come fossero dei problemi gestibili perché controllati; non importa se si ribellano, se si suicidano: la società non deve sapere, non deve prendere consapevolezza né della causa né dell’effetto. Non è in questo modo che riusciremo ad arginare i reati e dunque a prevenirli, se è vero che non siamo nemmeno capaci, spesso, di creare le condizioni per reintegrarli in maniera costruttiva all’interno del tessuto sociale. A Poggioreale c’è un problema di diritti, come in gran parte degli istituti penitenziari italiani. Vi è certamente un problema di sovraffollamento, ma anche di possibilità e prevenzione: mancanza di occupazione, analfabetismo, dispersione scolastica sono alcuni dei fenomeni che alimentano questi “inferni dei dimenticati”. Aver sbagliato nella vita non legittima lo Stato e chi lo rappresenta ad umiliarne e spegnere le speranze, i sogni. Poggioreale non è un caso isolato, Poggioreale è oggi “il caso”, è quella goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che dovrebbe suscitare ampie riflessioni: sulla necessità di integrare un maggiore organico di educatori nonché di agenti, su una struttura che non dovrebbe vendere utopie né rinchiudere ed esiliare ciò che la società ha creato, perché spesso i detenuti sono esclusivamente il risultato di una società malata. Il tema Poggioreale, logicamente, è molto sentito anche dal Comune di Napoli, in particolare dall’assessore alle Politiche Sociali, Roberta Gaeta, che fece visita al carcere alcune settimane fa, tra fine luglio ed inizio agosto, e non esitò a pubblicare una considerazione su quanto visto: “Insieme a una delegazione dei Radicali italiani ho compiuto una visita nel carcere di Poggioreale. Ritenevo doveroso osservare di persona le criticità di una situazione che viene sottaciuta dal dibattito politico, ma che interessa migliaia di persone. Come Assessore alle Politiche Sociali considero un dovere istituzionale occuparmi dei diritti dei cittadini privi delle loro famiglie e dei lavoratori”. L’assessore ha già avuto modo di sottolineare, inoltre, “la mancanza di una prospettiva dell’attuale sistema giudiziario”, ritenendo che non si investa in un recupero efficiente ed in “programmi alternativi alla detenzione”. Secondo Gaeta, un modo per fronteggiare una tale emergenza è “recuperare del terreno circa la programmazione” attraverso forme di cooperazione, inserimento lavorativo e formazione laboratoriali. Il carcere è una struttura portante di una società. Risulta per certi versi lo specchio di una società. Oggi si parla di Poggioreale, domani di Rebibbia: c’è la necessità impellente di una riforma carceraria, di una riforma che guardi a reali e possibili obiettivi, una riforma che metta nelle condizioni di lavorare, di recuperare soprattutto. Una riforma che maturi il detenuto, lo renda responsabile, che possa abbattere il concetto attuale di carcere espressione di potere, repressione. Abbiamo bisogno che la politica non dimentichi gli ultimi, “i colpevoli”; una politica fatta da illuminati che legittimamente si scandalizzano dinanzi alle più brutali violenze, lontane o vicine, ma che non si scandalizzano del proprio sistema carcerario condannato più volte dalla Corte di Strasburgo. Il paradosso più grande, dunque, è avere una società che ripudia ogni forma di barbarie, ma non si rende conto di avere il carcere alle porte: questo carcere. Napoli: carcere di Poggioreale, ecco i colloqui “abusivi” di Walter Medolla Corriere del Mezzogiorno, 29 agosto 2019 La denuncia dei residenti dei condomini limitrofi al carcere: salgono sui muretti e parlano. Fa discutere la notizia di colloqui non autorizzati tra detenuti del carcere di Poggioreale e i loro familiari, che avverrebbero dalla strada, attraverso una finestra dell’istituto di pena. Comunicazioni a distanza dal cortile-giardino di un condominio che sorge di fronte al carcere. Non c’è pace per il carcere di Poggioreale. Dopo la rissa tra detenuti, il dossier del garante nazionale delle persone private della liberta che lo ha definito un “luogo inumano” e l’evasione del polacco accusato di omicidio, la Casa Circondariale si ritrova a essere di nuovo sotto i riflettori. Questa volta a far discutere è la notizia di colloqui non autorizzati tra detenuti e i loro familiari che avverrebbero direttamente dalla strada, attraverso una finestra dell’istituto di pena. Un po’ come accadeva in passato, quando le cantate a fronda di limone animavano le notti attorno alle carceri napoletane per portare messaggi, saluti e informazioni. Le comunicazioni a distanza avvengono da uno spazio condominiale di un palazzo che sorge di fronte al carcere, qui i parenti dei detenuti iniziano a parlare a distanza con i propri congiunti, godendo di una visuale particolarmente privilegiata. Il condominio in questione è quello di via Poggioreale 33, uno stabile abitato da oltre 100 famiglie con parcheggi e spazi in comune. Proprio entrando nella zona riservata alle auto del parco privato, i congiunti dei detenuti, salendo sul muretto di recinzione che delimita la proprietà, hanno la visuale giusta per dialogare con i parenti ristretti. “Più che veri e propri colloqui - spiega Alberto, uno degli inquilini del palazzo che preferisce non dirci il suo cognome - stabiliscono un contatto visivo. Urlano, si salutano sventolando fazzoletti. Non fanno lunghi discorsi, ma danno informazioni sulla situazione a casa e sui loro fatti personali”. I colloqui sono continui durante tutto l’arco della giornata ed è come se vi fossero degli appuntamenti fissati. “Si mettono nel vialetto laterale del nostro parco - spiega una donna che pure abita nel palazzo e che preferisce non fornire le sue gene- dove godono di una buona vista e dopo pochi minuti iniziano a parlarsi. Non aspettano molto, è come se avessero un appuntamento con la persona che è reclusa. E poi dal carcere si affacciano sempre dalla stessa finestra, quella che noi abbiamo individuato essere l’infermeria”. Una prassi che va avanti da tempo e che è stata segnalata anche alle forze dell’ordine. “Abbiamo chiesto in maniera informale a polizia e carabinieri - racconta Alberto - e ci hanno detto che non è ravvisabile nessun reato, forse solo quello di violazione della proprietà privata. Intanto questa storia incredibile perdura e noi siamo disperati. Siamo stanchi di queste continue invasioni”. Episodi dello stesso tenore si verificano anche lateralmente al carcere di Poggioreale, in via Biscardi, proprio all’esterno del Palazzo di Giustizia. Anche qui, soprattutto in tarda serata quando la zona è poco trafficata, familiari dei detenuti si fermano in strada e, o in piedi sugli scooter o sui cofani delle auto, iniziano questi colloqui a distanza con mariti, genitori o figli. “Naturalmente sono quasi sempre donne, adulte o giovani - spiega il signor Alberto - e noi non sappiamo più cosa dirgli, a volte ci rispondono anche male. Ma ora siamo veramente stanchi”. Della situazione si è interessato il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli che ha deciso di scrivere alla direzione del carcere per chiarimenti. “Dinanzi ad una segnalazione tanto grave e circostanziata - ha spiegato il consigliere dei Verdi - abbiamo inviato una nota alla direzione della struttura chiedendo di effettuare le verifiche del caso. Qualora queste ultime confermassero quanto descritto dal cittadino saremmo di fronte ad un fatto eccezionalmente grave che determinerebbe l’insorgere di una responsabilità disciplinare a carico di chi permette ai detenuti di colloquiare con soggetti esterni al carcere al di fuori delle modalità previste dalla legge”. Napoli: a Poggioreale situazione allarmante, mobilitazione dei Radicali di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2019 Dopo la visita condotta a Poggioreale lo scorso primo agosto, i Radicali per il Mezzogiorno Europeo tornano ad occuparsi del principale carcere napoletano. Presto partirà una mobilitazione straordinaria finalizzata a porre in evidenza il sovraffollamento, l’assenza di misure alternative alla detenzione e le condizioni invivibili di alcuni padiglioni come il Milano ma non solo. Ad illustrare il punto di vista dei Radicali e a presentare gli obiettivi dell’iniziativa politica su questo tema, l’avvocato Raffaele Minieri, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani ed esponente di punta dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo: “La situazione in cui versa il carcere di Poggioreale – ha esordito Minieri - è assolutamente allarmante e gli eventi degli ultimi giorni testimoniano la difficoltà che l’assenza di soluzioni alternative alla detenzione provoca alla gestione di una struttura vecchia e oltremodo affollata. È indubbio che le condizioni detentive siano assolutamente intollerabili in alcuni padiglioni e che vi sia necessità di un intervento effettivo. Tuttavia è altrettanto impensabile provare a risolvere il problema con misure non strutturali. La scelta di segnalare alla Procura della Repubblica le condizioni di detenzione non può essere la risposta ad un problema che trascende le responsabilità individuali ma riguarda l’intero sistema penale, dall’eccesso della custodia cautelare in carcere alle difficoltà del Tribunale di sorveglianza, passando per la creazione di nuovi reati e per l’introduzione di ulteriori restrizioni all’accesso alle misure alternative alla detenzione”. Spazio quindi all’impegno per il futuro con alcuni obiettivi già chiari: “È necessario – ha concluso Minieri - un impegno volto alla riduzione dei numeri delle presenze in conformità con quanto auspicato dalla Corte Costituzionale già nel 2014 e quanto indicato più volte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. In tal senso l’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo, preso atto del disinteresse della politica, avvierà una mobilitazione straordinaria volta ad attivare le magistrature superiori affinché attraverso il percorso giurisdizionale sia possibile valorizzare le misure alternative alla detenzione seguendo le indicazioni già date dalle stesse negli ultimi anni”. Avellino: detenuta tenta il suicidio nel carcere di Bellizzi Irpino linkabile.it, 29 agosto 2019 Il Garante Ciambriello: “Non si può morire di carcere e in carcere”. Il carcere da un punto di vista umano e costituzionale non deve essere un luogo di sofferenza, di rabbia o di rassegnazione. “ Non si può morire di carcere e in carcere”, ha denunciato recentemente il garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello. Nelle carceri irpine c’è una situazione variegata, ma i direttori riconoscono la complessità delle cose, le carenze sanitarie e sentono il bisogno di chiedere aiuto. Lunedi scorso è stato ad Ariano Irpino il nuovo Provveditore Campano dell’Amministrazione penitenziaria Antonio Fullone. Una situazione esplosiva e sempre più fuori controllo quella delle carceri campane. Ormai si susseguono con cadenza quotidiana episodi di cronaca, dalle aggressioni ai danni di agenti ai tentativi di suicidio, forme di autolesionismo e scioperi della fame.. Lo scorso 22 agosto una detenuta quarantenne avrebbe tentato il suicidio nel carcere di Bellizzi Irpino ingerendo un mix di farmaci. L’episodio, come detto, risale a qualche giorno fa ma è venuto alla ribalta della cronaca soltanto oggi. La donna sarebbe risultata positiva agli oppiacei. Un avvelenamento che poteva risultare fatale se non fossero intervenuti in maniera provvidenziale gli agenti che hanno immediatamente allertato il 118. La donna si trova ora ricoverata all’ospedale Moscati dove sta seguendo una terapia disintossicante e non sarebbe in pericolo di vita. È l’ennesimo fatto di cronaca che riaccende l’attenzione sulle tante criticità del penitenziario irpino. Solo ieri un recluso aveva rotto il setto nasale a un agente della polizia penitenziaria nel corso di controlli di routine prima di aggredire un altro agente e di provare a impiccarsi nella sua cella. Anche qui decisivo è stato l’intervento degli agenti che hanno scongiurato il peggio. Mancanza di psicologi e psichiatri è stata, recentemente, la denuncia di Ciambriello in una conferenza stampa nel carcere avellinese. A più riprese il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha lanciato l’allarme sulle carenze sanitarie della struttura e sulla mancanza di personale. Per il Garante Ciambriello:” Un problema, in realtà, generale e che quindi riguarda la maggior parte del sistema penitenziario. La mancanza di educatori, 923 per 60mila detenuti, 95 in Campania per più di 7.000 detenuti, la mancanza di figure sociali, di psicologi e psichiatri, di assistenti sociali fa aumentare il malessere dei detenuti. I tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno e quelli riusciti sono 29 dall’inizio dell’anno, 5 in Campania. Prevenire i suicidi non è mai semplice. Però si può fare molto, come ridurre al minimo l’isolamento e aumentare la possibilità di avere contatti con i familiari, aumentando il numero e durata delle telefonate. Compreso quello di introdurre la possibilità di avere contatti, anche intimi, con i proprio compagni o compagne. In una sola parola, non negare l’affettività. Insomma occorre sconfiggere la paura, riconoscere gli errori fatti. Habitat ed affettività si possono coniugare con il carcere”. Bari: musica in riva al mare, in carcere e tra gli ammalati di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 agosto 2019 Anche quest’anno, come nella scorsa edizione, il Bari Piano Festival (24 agosto - 2 settembre) ha voluto portare i suoi interpreti non solo in riva al mare o in spazi suggestivi, centrali e prestigiosi, ma anche in luoghi dove la musica può aiutare a curare il corpo o l’anima, come l’Istituto Oncologico Giovanni Paolo II e il carcere. In programma per sabato 31, nella Casa circondariale Francesco Rucci, un piano-recital del M° Maurizio Zaccaria, nel corso del quale sarà eseguito in prima assoluta Profumi per pianoforte di Nico Girasole, commissionato dal Bari Piano Festival con musiche di Ludwig van Beethoven, Fryderyk Chopin, Richard Wagner, Jules Massenet, George Gershwin e Nico Girasole. La rassegna musicale - che propone generi diversi, grandi musicisti e giovani promesse - è stata ideata dal Comune di Bari e organizzata dal Teatro Pubblico Pugliese in collaborazione con Fondazione Petruzzelli sotto la direzione artistica del maestro Emanuele Arciulli. Il sindaco di Bari Antonio De Caro, nel presentare il programma della seconda edizione del festival, ha voluto sottolinearne “la vocazione a rompere le consuetudini dei luoghi consacrati alla musica per spingersi oltre ed entrare nelle carceri, negli ospedali e nelle case private”. Il concerto è stato incluso dalla direzione della Casa circondariale nelle manifestazioni previste per la promozione all’interno degli istituti penitenziari di “2019 - Matera capitale europea della Cultura”. Delitto, castigo e racconto. Noi, persone al di là del reato di Marco Castrovinci La Repubblica, 29 agosto 2019 “Donne in prigione”, docu-film di Jo Squillo, Francesca Carollo e Giusy Versace, è stato girato nelle celle del carcere di San Vittore e viene presentato oggi alla Mostra del Cinema di Venezia. Fare i conti col passato è un esercizio che, in carcere, non si può rimandare né lasciare ad altri, come se si potesse in qualche modo sfuggire da se stessi. Cosa, peraltro, impossibile, mentre la quotidianità chiama montagne di pensieri e sta lì a ricordare ciò che è stato. E così, affrontare il futuro o qualcosa che si avvicini a un’idea di futuro diventa una prova di cuore e coraggio: lo sa Hasna, lo sanno bene Martina, Elena, Yvone, Josephine e le altre protagoniste del docu-film “Donne in prigione”, girato interamente nella sezione femminile del carcere di San Vittore: un racconto corale che verrà presentato questo pomeriggio alla Mostra del Cinema di Venezia, nato “dalla volontà di capire, di comprendere cosa porti una donna a compiere un reato tanto grave da cambiare il corso di una vita”, spiega Jo Squillo, promotrice insieme con Francesca Carollo e Giusy Versace del progetto, parte delle iniziative culturali della Onlus Wall of Dolls contro la violenza sulle donne. “La gente fuori guarda solo i reati, ma non sa perché li abbiamo fatti, la nostra storia dietro, non sa che comunque siamo esseri umani”, dice Elena, una delle detenute, spiegando così il senso stesso del film: dieci “racconti di vita, intensi e forti”, riprende Jo Squillo, “di donne che sono cadute ma che affrontano la risalita, attraverso uno straordinario percorso rieducativo”. Chi infatti ha accettato di raccontarsi, ha partecipato a un corso professionale per cineoperatori. “Sono state loro in qualche modo a riprendersi, nonostante le enormi restrizioni in carcere. Noi abbiamo insegnato loro un lavoro, un possibile mestiere futuro, grazie alla collaborazione del direttore Giacinto Siciliano e dell’educatrice Francesca Masini”. A Venezia saranno presenti tre detenute - Hasna, Josephine e Yvone - “che racconteranno con noi la storia di un documentario”, dice ancora Jo Squillo, “le cui protagoniste hanno subito quasi sempre violenza, fisica o psicologica. Donne ferite, offese, vittime di aggressioni con l’acido, che hanno reagito finendo anche per uccidere, ferire, picchiare” e che cercano qui di “spiegare a chi è fuori come si vive in carcere e quale carico di dolore si trovino ora a sopportare, invitando altre donne a non commettere i loro stessi errori. Mi hanno insegnato cos’è la dignità, quella che mostra chi è colpevole e sta pagando per i propri reati, anche molto gravi. Persone consapevoli di aver sbagliato, anche per colpa della droga che ha portato molte di loro a non capire come reagire”. Insomma, “donne fragili e chiuse - come racconta di sé Josephine - incapaci di chiedere aiuto, prigioniere ancora prima di entrare in carcere, ma che con le loro parole insegnano che si può sempre scegliere, impegnarsi, reagire provando a pensare al futuro, perché l’anima non ha sbarre davanti a sé. Fondamentale è la libertà di pensiero, non lasciarsi morire dentro”. Donne in prigione è accompagnato anche da “una canzone bellissima”, “Rinascita”, cantata dalle detenute e registrata a San Vittore, in collaborazione con il corso di coro gospel gestito dalla Auser di Milano e tenuto da Sara Bordoni. “Siamo entrate in sintonia, grazie alla voglia di condividere e forse anche alla mia storia di donna che lavora al fianco delle donne fin dal mio periodo punk, negli anni 80” e a un brano come Siamo donne, “un inno al rispetto per le donne. A Venezia mi aspetto attenzione per un docu-film che è stato, per le protagoniste, un percorso terapeutico, una presa di coscienza della propria anima”. Torino: il carcere diventa realtà virtuale alla Mostra del Cinema di Venezia di Manuela Marascio torinoggi.it, 29 agosto 2019 Da domani “VR Free”, del regista Milad Tangshir, sbarca al Lido per una serie di proiezioni con l’ausilio della tecnologia “virtual reality”. La Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino rappresenterà l’Italia al Mostra Nazionale del Cinema di Venezia. Diretto dal regista iraniano Milad Tangshir, laureato al DAMS nel 2011, “VR Free” è l’unico film nostrano inserito nella sezione “Venice Virtual Reality”, che accoglie opere basate su esperienze immersive in 3D. La pellicola, presentata dall’Associazione Museo Nazione del Cinema, è prodotta da Valentina Noya e realizzata con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte grazie al bando Under35 Digital Video Contest. È stata girata interamente tra le mura del carcere, e sarà in programma per il pubblico dal 29 agosto al 7 settembre in visione VR, con diverse modalità di fruizione anche per singolo spettatore su prenotazione, sull’isola del Lazzaretto Vecchio. L’ausilio delle nuove tecnologie permette così di esplorare in prima persona la natura degli spazi detentivi, catturando momenti salienti della vita dentro la prigione. Nel film si vedono anche le reazioni di alcuni detenuti che, usando visori e cuffie, guardano video sulla vita fuori della prigione, partecipando virtualmente ad alcune situazioni collettive e non più alla loro portata, come una partita di serie A allo stadio, una festa in discoteca il sabato sera, un’immersione sottomarina, o la passeggiata in un parco pubblico. Un “portarsi fuori” (o dentro, per lo spettatore esterno), che è anche fonte di riflessione sul valore profondo della libertà. “VR Free è il tentativo di portare l’universo poco conosciuto del carcere sotto gli occhi del pubblico - dichiara il regista - ma anche un invito a partecipare in forma più consapevole all’urgente discussione sui nostri luoghi di detenzione. Penso che la realtà virtuale sia uno strumento molto potente quando tratta il concetto di spazio. Abbiamo cercato di usarne il potenziale in modo espressivo, portando questo nuovo mezzo in un mondo che di per sé contiene spazi duri e aggressivi”. “Oggi - continua - si avverte una crescente tendenza a utilizzare la realtà virtuale per raccontare l’impatto sociale di alcuni progetti. Offrire nuove modalità per esplorare la cultura e l’identità, può aiutarci a superare alcune carenze e creare un’opportunità per una maggiore comprensione”. Dopo l’anteprima al Festival del Cinema di Cannes, come uno dei contenuti disponibile sulla nuova app Rai Cinema Channel VR Experience, “VR Free” era stato protagonista del Festival LiberAzioni di Torino, a fine maggio, grazie a una serie di proiezioni organizzate con Emergency. “Siamo molto orgogliosi di aver contribuito alla realizzazione di questo progetto, capace di raggiungere al meglio i risultati che ci eravamo prefissi con il bando, ideato per sostenere opere crossmediali e transmediali”, commenta il direttore di Film Commission Torino Piemonte Paolo Manera. “Tangshir si fa così portavoce di una nuova generazione di filmakers e creativi, in grado di raccontare il presente con uno sguardo inedito e attraverso la sperimentazione tecnologica”. Le prigioni italiane in mostra a Perpignan nationalgeographic.it, 29 agosto 2019 Il progetto fotografico di Valerio Bispuri sarà esposto dal 31 agosto al 15 settembre a Visa Pour L’Image, il più importante festival di fotogiornalismo mondiale. Dopo Encerrados, il progetto sulle carceri sudamericane, il fotografo romano Valerio Bispuri presenta il suo nuovo progetto sulle prigioni italiane, Prigionieri, che comprende anche un libro fotografico (Contrasto editore), in uscita il 29 agosto. La presentazione del lavoro in anteprima mondiale avverrà al festival di fotogiornalismo Visa Pour l’Image di Perpignan, in Francia, dove sarà in mostra dal 31 ottobre al 15 settembre alla Eglise des Dominicains. Qui di seguito, la descrizione del progetto raccontata dal fotografo stesso: “Dopo aver concluso Encerrados, un viaggio fotografico di dieci anni attraverso 74 carceri dell’America del Sud, nel 2014 ho deciso di continuare a esplorare il mondo dei detenuti nelle carceri italiane. Prigionieri, insieme a Encerrados e Paco, forma una trilogia della libertà perduta. Questo secondo viaggio nell’universo carcerario vuole esplorare le condizioni e la vita quotidiana dei detenuti nei centri di detenzione italiani e cercare di capire le loro difficoltà, i loro bisogni, le loro emozioni. Le carceri sono lo specchio della società di un paese, dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali. In Italia ci sono 190 penitenziari di cui 55 femminili. Sono stato in 10 prigioni per quattro anni e mi sono accorto come il sistema penitenziario italiano ha problemi di sovraffollamento, disoccupazione per i detenuti e strutture precarie. Negli ultimi anni c’è stato un lento miglioramento in alcuni carceri, ma la condizione dei detenuti resta sempre di estrema difficoltà e isolamento. In questi non-luoghi, le persone private della libertà cercano di ricostruire abitudini, affetti e trovare un’alternativa per il futuro che spesso non esiste. Non c’è alcuno sforzo da parte dello Stato di aiutare al reinserimento di chi esce dal carcere dopo anni di detenzione. Sono così moltissimi i detenuti che tornano dopo breve tempo in prigione. Sono entrato nelle carceri di massima sicurezza, dove sono rinchiusi affiliati camorristi e mafiosi, come Poggioreale a Napoli e l’Ucciardone a Palermo. Ho visitato le realtà delle colonie penali, dove i prigionieri sono parzialmente liberi e possono lavorare al di fuori degli istituti penitenziari, come a Isili in Sardegna. Mi sono immerso nella dimensione delle carceri femminili: nell’antico monastero di Venezia; a San Vittore a Milano e a Rebibbia femminile a Roma. Sono stato in piccole dimensioni carcerarie e in enormi istituti penitenziari. Ho potuto osservare strutture nuove, come il carcere di “Capanne” a Perugia o piccoli istituti come a Sant’Angelo dei Lombardi. Più di tutto però sono stato a stretto contatto con i detenuti: ho pranzato nelle loro celle, ho ascoltato i loro racconti, ho condiviso i loro pianti e le loro risate. Abbiamo vissuto momenti che sembravano quotidiani. Queste immagini sono anche il frutto di questi istanti passati insieme. Sempre di più penso che il carcere non deve essere punitivo solamente ma deve fornire a chi è rinchiuso una nuova possibilità. In questi quattro anni ho avuto l’opportunità di conoscere da dentro il mondo delle carceri italiane e l’idea che mi sono fatto è di un’enorme solitudine. I detenuti sono permanentemente a contatto tra di loro, eppure sono sempre soli, in qualsiasi momento della giornata. “Prigionieri” è un progetto che cerca l’anima di questi esseri umani privi di libertà. È un lavoro di analisi antropologia, sociologica e fotografica sull’uomo ed è parte di una ricerca più grande sul mondo degli invisibili. Coloro che sono dimenticati, emarginati, lasciati andare. Ho sempre pensato che per fotografare la realtà in profondità sia importante saper aspettare e riuscire a calibrare quello che sentiamo con quello che vediamo. Ci vuole tempo per raccontare”. Migranti, il ruolo italiano per una seria strategia Ue di Valerio Onida Corriere della Sera, 29 agosto 2019 L’emergenza non va dimenticata, con le sue prospettive e l’apparente incapacità delle istituzioni nazionali, europee e internazionali di affrontarla. Occupata o distratta dalle vicende o dalla rissa politica quotidiana, l’opinione pubblica del nostro Paese rischia di perdere di vista un’altra crisi, anche più grave di quella economica e finanziaria che i famosi “mercati” si incaricano ogni giorno di evocare: la crisi migratoria, con le sue prospettive di lungo termine e con l’apparente incapacità delle istituzioni politiche nazionali, europee e internazionali di affrontarla efficacemente. Ma non possiamo voltarci dall’altra parte. Non possiamo accettare come “normale” o “inevitabile” che esseri umani in fuga da condizioni subumane di vita, raccolti in mare (quando ce la fanno) e in attesa di un “porto sicuro” e di accordi fra diversi Paesi che ritardano, vengano confinati per giorni e giorni sulle navi che li hanno salvati, negando loro lo sbarco o l’ingresso nelle acque territoriali, in nome dell’”interesse nazionale” a “difendere i confini” e nell’intento (di per sé apprezzabile, ma che non dovrebbe mai essere perseguito strumentalizzando esseri umani) di costringere gli altri paesi europei a non “lasciare sola” l’Italia. Bisogna pur dire che ci sono due argomenti, su cui poggiano le politiche di chiusura dei sovranisti anti-migranti, che hanno una innegabile consistenza. Il primo è che non si debbono favorire i trafficanti di uomini che organizzano l’esodo verso l’Europa. Il secondo è che solo la chiusura dei nostri porti potrebbe indurre gli altri Paesi europei a farsi carico del problema. Ma resta il fatto che così facendo si colpiscono e si strumentalizzano le vittime dirette di questa politica, che non sono i trafficanti, né le milizie o le tribù che controllano il territorio libico, ma sono uomini, donne e bambini in fuga dalle loro terre. Ci sono alternative, che non si limitino alla predicazione generica di un dovere di accoglienza, senza lavorare per soluzioni più giuste e praticabili? Certo, sono alternative più difficili da preparare e da realizzare rispetto ad un decreto del ministro degli Interni; ma è doveroso cercare di metterle in opera. Si potrebbe o si dovrebbe, per esempio, non già negare l’ingresso nelle acque territoriali o l’approdo nei nostri porti, ma assumere l’iniziativa di fare sbarcare i migranti nell’ambito di un regime giuridico esplicitamente derogatorio rispetto agli accordi di Dublino, ai cui termini la responsabilità dell’accoglienza resta tutta e solo sullo Stato di primo approdo. L’Italia dovrebbe accoglierli invece, dichiaratamente, come immigrati non in Italia (come è del resto vero: infatti essi non mirano a restare solo in Italia) ma in Europa. Dovrebbe quindi apprestare strutture e mezzi per offrire loro una sistemazione provvisoria, ma non considerarli come “richiedenti asilo” in Italia. Sono richiedenti asilo in Europa: il che significa che verrebbero identificati e ovviamente ospitati, ma come tali, per conto e a spese dell’Unione Europea. Si violerebbero così le regole europee oggi in atto, finché non si riesce ad accordarsi per modificarle, Ma la “provocazione” (questa volta non sulla pelle dei migranti,) potrebbe forse meglio ottenere il suo effetto, e sarebbe comunque più accettabile. Se l’Unione rifiutasse di assumere questo onere, l’Italia dovrebbe agire comunque “in nome e per conto” della stessa, utilizzando anche risorse finanziarie europee (lo Stato italiano è contributore netto verso l’Unione). A quel punto tutti gli Stati europei, compreso il nostro, dovrebbero assumersi le loro responsabilità. E, per esempio, il nostro Stato potrebbe rifiutarsi di accettare il ri-trasferimento forzoso in Italia di coloro che (come già fanno non pochi di loro), avessero raggiunto il territorio di altri paesi europei. “Frontiere chiuse”, insomma, ma non verso i confini esterni dell’Unione, che sarebbe dovere di questa vigilare, bensì verso gli altri Stati europei che rifiutassero di condividere la responsabilità dei flussi di ingresso. C’è però un altro e più difficile insieme di misure che dovrebbero essere adottate - da tutti i Paesi europei, e intanto, subito, anche dal nostro - per ostacolare i traffici di esseri umani: aprire subito e in misura adeguata alle nostre possibilità vie di ingresso legali in Italia, e quindi in Europa, dai Paesi di provenienza dei migranti (corridoi umanitari o comunque li si voglia chiamare): per ridurre e possibilmente impedire che il flusso degli aspiranti migranti si avvalga delle strade illegali che passano dalla Libia (e da quei centri che vengono spesso descritti come veri e propri luoghi inumani di detenzione) e da lì si avventuri nel Mediterraneo. Anche questa dovrebbe essere una politica dell’intera Unione: ma finché essa non lo fa, dovrebbe farlo l’Italia, ovviamente computando i migranti legali così accolti nell’ambito di “quote” di spettanza del nostro Paese, alla stessa stregua di quelli che giungono via mare. In terzo luogo, l’Italia dovrebbe attivare una seria politica di integrazione dei migranti. Ciò significa non limitarsi a fornire vitto e alloggio temporanei, e a decidere sulle domande di protezione internazionale (decisioni che, con i criteri restrittivi di recente introdotti, aumentano solo il numero degli “irregolari” destinati a un “rimpatrio” di fatto in larga misura impraticabile e in molti casi ingiusto), ma fare - anche qui, per conto dell’Unione, oltre che organizzando il contributo degli enti locali e del terzo settore - un serio sforzo di conoscenza dei singoli individui (provenienza, capacità, attitudini, aspirazioni), di formazione (linguistica, culturale, professionale), di orientamento. Altrimenti i migranti sempre più resteranno abbandonati a se stessi, o peggio in balia delle organizzazioni di sfruttamento del lavoro nero o delle organizzazioni criminali. Solo queste misure - difficili, costose, ma non impossibili - sarebbero tali da fare dell’Italia non unicamente un “porto sicuro”, ma un esempio e un traino per quella seria politica europea delle migrazioni che sarebbe giusto attendersi da una Unione nata anche e soprattutto promuovere “la pace e la giustizia fra le nazioni” (articolo 11 della nostra Costituzione). Migranti. Appello dei Valdesi ai Sindaci, contro il decreto sicurezza di Luca Kocci Il Manifesto, 29 agosto 2019 Approvato un ordine del giorno in cui si invitano tutte le chiese locali a chiedere che nei Comuni dei propri territori sia autorizzato il rilascio della residenza ai migranti. Disubbidite al decreto sicurezza del ministro dell’Interno Salvini e iscrivete all’anagrafe i richiedenti asilo perché possano avvalersi dei servizi socio-sanitari essenziali. È l’appello che arriva ai sindaci dal Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi, in corso a Torre Pellice (To) fino a venerdì. La parola disubbidienza non viene utilizzata, ma la sostanza è quella. Il Sinodo infatti ha approvato un ordine del giorno in cui, fra l’altro, invita tutte le chiese locali “a chiedere che nei Comuni dei propri territori i sindaci autorizzino il rilascio della residenza, come già avvenuto in alcuni Comuni o a seguito di talune ordinanze giudiziali”. Ovvero che incoraggino i primi cittadini a fare come il sindaco di Palermo Orlando - seguito a ruota dal napoletano De Magistris - che, nonostante il divieto imposto dal primo dei due decreti sicurezza, ha iscritto ugualmente all’anagrafe i migranti perché potessero beneficiare dei servizi comunali, assumendosene responsabilità e conseguenze (che peraltro non vi sono state). Oppure come il sindaco di Bologna Merola che, con una scelta più soft, lo ha fatto dopo la sentenza del tribunale, accolta “con soddisfazione” e ovviamente senza opporsi. Migranti. Sgomberato il “ghetto” della Felandina, ma per molti non è la soluzione di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 agosto 2019 Centotrenta braccianti stranieri sono stati trasferiti in altre strutture, ma senza un vero e proprio piano di ricollocamento. Per gli altri occupanti, un numero imprecisato compreso tra i 400 e i 600, che sfuggono ai radar istituzionali, non c’è un’alternativa. Colpo di coda dell’ormai ex ministro dell’Interno Matteo Salvini: ieri a Metaponto di Bernalda (in provincia di Matera) è stato sgomberato il ghetto della Felandina, una serie di capannoni di un consorzio industriale mai nato e poi diventato alloggio per centinaia di braccianti stranieri che si guadagnano la giornata nei campi del Metapontino. È così che centotrenta persone sono state trasferite in altre strutture, senza che tuttavia esista un vero e proprio piano di ricollocamento. In realtà, comunque, il totale degli occupanti dei cinque opifici abbandonati sarebbe un numero imprecisato compreso tra i 400 e i 600, persone che sfuggono ai radar istituzionali e che, spesso e volentieri, vengono reclutati per i lavori in campagna attraverso il caporalato. L’accusa di star gestendo male la situazione, adesso, viene mossa dal “Forum delle terre di dignità” che ha sì definito la Felandina come un vero e proprio “ghetto” ma ha anche fatto presente la mancanza di “un piano di evacuazione efficace e giusto per i migranti”. I posti messi a disposizione, infatti, non sarebbero abbastanza per tutti e il timore, più che fondato, è che a decine finiranno a dormire in mezzo a una strada. È la solita storia: basta spostare i migranti per poter dire di aver risolto un problema, anche se poi in realtà tutto resta come prima, soltanto viene spostato altrove, nell’indifferenza più o meno generale. La politica locale, che per ora si limita ad osservare a distanza la situazione, sembra più che altro preoccupata per il rischio che nei prossimi giorni verrà a mancare un bel numero di braccianti, almeno finché non si capirà dove verranno piazzati questi migranti, trattati praticamente come dei pacchi da spostare qua e là nel territorio, andando incontro spesso a lamentele di vicinato e polemiche spicciole nei consigli comunali. La decisione di sgomberare la Felandina è arrivata dopo che lo scorso 7 agosto scoppiò un incendio in un capannone in seguito al quale morì una 27enne di origine nigeriana. Droghe. L’overdose che non vediamo di Maria Novella De Luca La Repubblica, 29 agosto 2019 Gli esperti di tossicodipendenze lo ripetono almeno da due anni: siamo alla vigilia di un’epidemia di morti per overdose. Simile, o forse peggiore, di quelle degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Perché non soltanto l’eroina è tornata, costa meno di niente e ripropone, come un brutto déjà vu, tutto il suo lugubre corollario di siringhe abbandonate nei luoghi della movida, nei già noti inferni del buco, tra i nuovi muri del pianto. Ma accanto all’eroina, dopo aver seminato morte negli Stati Uniti, ormai nei discount dello spaccio di casa nostra cominciano ad apparire killer ancora più pericolosi: i nuovi oppioidi sintetici, derivati, anche, da farmaci legali come il potentissimo antidolorifico Fentanyl. Un analgesico cento volte più potente della morfina, sequestrato già due anni fa tra le dosi di un noto pusher che spacciava davanti a un liceo milanese. In quella morsa a tenaglia di compravendita di sostanze che circonda, ormai, drammaticamente, ogni luogo abitato dai ragazzi, a cominciare dalle scuole. Eppure di questa nuova emergenza, (che negli Stati Uniti ha causato nel 2017 sessantamila morti, più delle vittime dei dieci anni di guerra del Vietnam) nel nostro Paese occupato a fare terra bruciata ai negozi di cannabis light, non si parla. Anzi, invece di intraprendere una dura “guerra di strada” contro i veri mercanti di morte, l’uscente ministro dell’Interno Salvini, sbagliando clamorosamente obiettivo, ha puntato la sua battaglia di ordinanze e divieti contro la marijuana legale. Ignorando gli appelli sull’epidemia di oppiacei lanciati dalle comunità terapeutiche, dai servizi territoriali, ma anche dai Pronto Soccorso, alle prese con giovanissimi in overdose da sostanze sconosciute. Nell’assenza assoluta di campagne di informazione che dicano, finalmente, la verità sulle nuove facce del narcotraffico. Perché nella mutazione dei mercati della droga, il vero rischio è oggi quello dei supermarket dello spaccio a basso costo. Dove i pusher vendono allo stesso prezzo dosi di eroina e di cannabis sintetica, di crack e di metamfetamine, di hashish e oppiacei “legali” come il Fentanyl, appunto, cui si deve la morte non soltanto dello Chef Andrea Zamperoni, ma di artisti come Prince e Dolores O Riordan. In un mix micidiale che mescola medicine e stupefacenti, benzodiazepine e droghe di laboratorio, creando dipendenze sempre più veloci. Allarmi inascoltati. Mentre gli operatori chiedono il rilancio dei servizi e il rilancio della conferenza nazionale sulle droghe, l’unico vero allarme in Italia sembra essere quello sulle “canne”. Nella polemica storica, tra chi considera lo spinello la porta d’accesso verso le droghe pesanti e chi ritiene invece che questo automatismo non esista affatto. Una dicotomia, droghe pesanti e droghe leggere, già (purtroppo) spazzata via da una realtà peggiore, un mondo tossico dove tutto si è mescolato su un livello “orizzontale” dettato dal narcotraffico. Un’offerta che propone a un’utenza sempre più acerba sostanze di tutti i tipi, senza più alcuna differenziazione del pericolo. Come se fosse la stessa cosa fumare una canna di marijuana o una pallina di eroina, spacciata addirittura a un euro davanti alle scuole medie. Basterebbe ascoltare la voce dei presidi che raccontano la loro impotenza contro l’assalto dei pusher, per rendersi conto di quanto sia grave la situazione. Una guerra perduta, dove oggi sembrano vincere gli spacciatori, mentre l’ossessione del Viminale sono stati i biscotti alla canapa e la marijuana legale, assai meno stupefacente, in verità, di quella venduta dagli spacciatori. Iran. Ritorna l’orrore delle impiccagioni in piazza di Camille Eid Avvenire, 29 agosto 2019 Tornano le esecuzioni in piazza: è stato impiccato in pubblico l’uomo che, lo scorso maggio, aveva ucciso l’imam incaricato della preghiera del venerdì a Kazarun, città dell’Iran meridionale. Lo riporta l’agenzia di Stato Irna, citando il capo della giustizia della provincia di Fars, Kazen Musavi. Hamid Reza Derakhshandeh è stato ucciso sulla stessa scena del delitto: il 29 maggio aveva ucciso con un coltello Mohammad Khorsand, mentre tornava a casa da una cerimonia del Ramadan, il mese sacro di digiuno per i musulmani. Il religioso, dal 2007, era il principale imam della preghiera del venerdì. Dopo il suo arresto, Derakhshandeh è stato processato e ha “confessato” di aver premeditato l’omicidio, come ha riferito Musavi. La sentenza di morte era stata confermata dalla Corte Suprema ed eseguita dopo che la famiglia dell’imam aveva deciso di non perdonare l’assassino, il quale non aveva espresso pentimento. Secondo la legge iraniana, la famiglia di una vittima di omicidio può fermare l’esecuzione capitale del condannato e ottenere un compenso. L’esecuzione conferma un trend in crescita ogni volta che sale la tensione politica interna o internazionale. Secondo l’organizzazione Iran Human Rights (Ihr) sarebbero almeno 110 le esecuzioni compiute in Iran nella prima metà del 2019, tra cui due minorenni. L’Ihr ha calcolato che delle 110 esecuzioni, solo 37 sono state riportate da fonti filogovernative, mentre le altre sono state tenute “segrete”. Salgono così ad almeno 3.724 le esecuzioni compiute in Iran dall’inizio della presidenza di Rohani (primo luglio 2013). Secondo le informazioni ufficiali raccolte da Nessuno tocchi Caino, delle 326 esecuzioni registrate nel 2018, almeno 14 erano pubblicate con persone impiccate in piazza (sono state 36 de12017), di cui 10 per fatti di natura politica, anche se è probabile che molti altri messi a morte per reati comuni fossero in realtà oppositori politici appartenenti alle varie minoranze etniche, come curdi, baluci e ahwazi. Afghanistan. Basi militari Usa, il lato oscuro dei negoziati di Emanuele Giordana Il Manifesto, 29 agosto 2019 Nonostante i buoni propositi e un clima apparentemente disteso c’è qualcosa di segreto e oscuro nel negoziato in corso a Doha. A parte il governo afgano, un fantasma cui per ora non è concesso alcun ruolo, ci sono molti “non detto” sull’accordo in corso oltre a quanto sappiamo più o meno ufficialmente. Tra i tanti fantasmi c’è infatti il convitato di pietra che va sotto il nome di “basi militari”, dossier strettamente collegato al numero di soldati (oggi 14 mila) che gli americani vorrebbero conservare sul suolo afgano. Stando a rare indiscrezioni, talebani e americani avrebbero già concordato anche il futuro di Bagram - la grande base militare a Nord di Kabul, principale hub militare Usa nel Paese - e l’utilizzo delle basi aeree dell’esercito afgano sparse per l’Afghanistan da cui l’Us Air Force potrebbe controllare il fianco orientale iraniano e il fianco meridionale dell’Asia centrale ex sovietica, leggi il confine Sud della cintura protettiva russa. Per sorvegliare le basi e garantire il loro utilizzo serve però una forza di alcune migliaia di soldati. Dove stazionerebbero? L’ipotesi è che ci sia un vincolo su Bagram o un trasferimento dei soldati americani nella vasta area dove si trova l’ambasciata Usa e l’attuale comando Nato, vincolata a un accordo ultra decennale di affitto col governo di Kabul e vicina all’aeroporto militare afgano di Kaya dove già stazionano i caccia americani. Tra i tanti “non detto” c’è anche un altro esercito con cui fare i conti. Un esercito allevato dall’intelligence americana di milizie paramilitari. Nel loro recente saggio The CIA’s “Army”, Astri Suhrke e Antonio De Lauri scrivono che “le milizie sostenute dalla Cia sono una versione particolarmente problematica di milizie locali sviluppate in Afghanistan negli anni”: un piccolo potere armato afgano sostenuto dall’esterno. Dal 2001 in avanti “le forze militari statunitensi e la Cia hanno organizzato milizie per combattere i militanti islamisti. Quasi due decenni dopo, la Cia gestisce ancora milizie locali nelle operazioni contro talebani e altri islamisti”: gruppi armati responsabili di “gravi violazioni, tra cui numerose uccisioni extragiudiziali di civili”. Violazioni impunite grazie alla “sponsorizzazione della Cia che assicura la copertura del segreto (militare)… senza alcuna supervisione pubblica…”. La stima varia da 3 a 10 mila unità. Tutte cose su cui per ora è meglio regni il silenzio. Israele. Parziale vittoria di un prigioniero palestinese di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2019 Il 26 agosto uno dei prigionieri palestinesi in sciopero della fame, Wajdi al-Awawdeh, ha concluso e firmato un accordo che confermava la sua liberazione entro il febbraio 2020. Gli altri sette prigionieri (Huzaifa Halabiya - ormai al sessantesimo giorno di digiuno, Ahmed Ghannam, Sultan Khallouf, Ismail Ali, Tareq Qaadan, Nasser al-Jada e Thaer Hamdan) continuano determinati nella loro battaglia nonviolenta contro l’iniquo, arbitrario sistema carcerario (e in particolare contro la detenzione amministrativa, ossia l’imprigionamento senza accuse e senza processo). La sezione penitenziaria del Fplp (Fronte popolare per la Liberazione della Palestina) ha commentato dicendo che proseguirà nei suo sforzi per ottenere “un accordo in vista della loro liberazione”. Comunque i prigionieri rimangono intenzionati a non desistere fino a quando le loro richieste non saranno accolte. Nello stesso giorno, sempre il 26 agosto, a Ramallah - nella Cisgiordania occupata - venivano arrestati dai soldati israeliani nove esponenti del Fplp. L’operazione si inserisce in una più ampia, sistematica strategia di imprigionamento di esponenti della resistenza palestinese. E continua intanto lo stillicidio di giovani palestinesi che rimangono feriti, più o meno gravemente, nelle proteste del venerdì (conosciute come “Grande Marcia per il Ritorno”) alla frontiera a est di Gaza. Il 23 agosto circa novemila manifestanti si erano radunati (per il 71° venerdì) inalberando bandiere palestinesi e lanciando slogan. Dalle barricate erette, avevano poi lanciato sassi e altri oggetti contro le forze israeliane che rispondevano sia con lacrimogeni, sia con fuego real. Almeno 122 palestinesi sono rimasti feriti e 50 di loro presentavano ferite da arma da fuoco. Tra i feriti, anche tre infermieri palestinesi. Ecuador. I cinque mesi da incubo dell’hacker che difende i diritti umani di Arturo Di Corinto La Repubblica, 29 agosto 2019 Amnesty International interviene a favore del programmatore svedese Ola Bini. Amico di Julian Assange è perseguitato dalla giustizia ecuadoriana ma senza prove. Ola Bini è un attivista svedese per i diritti umani che vive in Ecuador dal 2013 dove lavora allo sviluppo di software di sicurezza. Difendendo il diritto alla privacy con il suo lavoro, ha permesso a giornalisti e attivisti di condividere informazioni e raccogliere prove in modo sicuro evitando la sorveglianza illegale dei governi. Ola Bini è stato arrestato ad aprile. Accusato di violazione di sistemi informatici e cospirazione, è stato detenuto ingiustamente e adesso, a indagine quasi conclusa e senza prove, accusato di altri reati imprecisati. La sua vicenda ha allertato la comunità internazionale del software libero e gli esperti di sicurezza informatica in tutto il mondo tanto che Amnesty International è intervenuta duramente denunciando la violazione dei suoi diritti da parte delle autorità. Come ha detto Fernanda Doz Costa, vicedirettore di Amnesty International, “in un paese dove gli attacchi ai difensori dei diritti umani spesso rimangono impuniti, le accuse infondate nei loro confronti vengono immediatamente indagate”. La vicenda del programmatore è esemplare. Lo svedese, attivista per i diritti digitali che ha realizzato con la Electronic Frontier Foundation nuovi tool per garantire la sicurezza dei siti web, ha fondato a Quito, capitale dell’Ecuador, il Centro per l’autonomia digitale con lo scopo di mettere nelle mani dei cittadini strumenti per la privacy di facile utilizzo, innervosendo non poco le autorità del luogo. Accusato fuori dei tribunali di aver contribuito a divulgare i conti bancari off-shore del presidente di estrema destra Lenin Moreno, in combutta con Wikileaks e Julian Assange, Ola Bini è stato arrestato l’11 aprile 2019 dopo la conferenza in cui l’allora ministro dell’Interno María Paula Romo annunciava la decisione del paese di togliere ad Assange lo status di rifugiato politico, confondendo l’attivista svedese con presunti hacker russi rei di voler destabilizzare il governo in combutta col Venezuela. Arrestato all’aeroporto di Quito, senza mandato, e tenuto all’oscuro dei capi di imputazione a Bini è stata negata persino la possibilità di avere un traduttore, di comunicare con l’esterno, di chiamare un avvocato. Neanche l’ambasciata svedese è stata informata della sua incarcerazione. Il 16 Aprile, a un evento pubblico a Washington, D.C., il Presidente Moreno, per manifestare la svolta politica rispetto al governo di sinistra che aveva protetto Julian Assange nella sua ambasciata di Londra, aveva detto che Bini era “responsabile di aver hackerato account governativi e sistemi telefonici”. Solo dopo due mesi e mezzo, il 20 giugno, il tribunale però ne ordinava la scarcerazione riconoscendo che la sua detenzione arbitraria ne aveva violato i diritti alla libertà personale e a un giusto processo. Contattato da Repubblica, Carlo Mendoza di Amnesty International ci ha confermato che Bini adesso “è in libertà condizionata, non può lasciare il paese e deve presentarsi ogni settimana alle autorità”. Non potendo provare l’attacco informatico il primo agosto le autorità lo hanno accusato di evasione fiscale. Per molti osservatori quello di Ola Bini è più un caso politico che una vicenda criminale e, secondo Amnesty contribuisce a creare un’atmosfera di intimidazione e paura tra coloro che difendono i diritti digitali e la privacy in Ecuador. Perciò l’organizzazione per i diritti umani invoca un giusto processo al programmatore. In attesa di averlo però, il 17 agosto la stampa ecuadoriana vicina al governo ha diffuso delle fantomatiche prove contro di lui, in particolare la fotografia della schermata di una connessione Telnet fatta da Bini a un server governativo dove però l’accusato non è mai entrato, arrestandosi al suo ingresso come fanno tutti gli hacker etici di fronte a un cancello aperto dove c’è scritto “Vietato Entrare”, prima di avvisare le autorità competenti. Che è quello che Bini ha provato a fare contattando come intermediario Ricardo Arguello, una figura ben nota nella comunità ecuadoriana del software libero. Eppure che non sia penetrato nel server si vede bene dalla schermata arrivata - non si sa come - nelle redazioni.