A proposito del lenzuolo usato per la fuga da Poggioreale di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 28 agosto 2019 A proposito di quanto accaduto a Poggioreale, io preferisco sempre che qualcuno che si trova in carcere usi un lenzuolo per fuggire piuttosto che per impiccarsi. E mi auguro che nel buio di una cella a chiunque venga il pensiero di farla finita annodando un lenzuolo a una inferriata alla quale appendersi, possa invece scoccare l’idea di provare a usare quello stesso lenzuolo per tentare di fare quello che ha fatto il detenuto di Poggioreale. Perché la fuga è un segno di speranza e di cambiamento, di rivolta contro un luogo che è il nulla se non l’emblema del fallimento. Non rieduca e non corregge. Non retribuisce chi ha subito un torto. Non salva e non redime. E neppure salva o protegge coloro che sono fuori dal carcere a meno che non si voglia reintrodurre catene ai piedi e una cella per tutta la vita per coloro che finiscono nel circuito della giustizia e che in massima parte sono poveri, persone senza alternative, senza altre scelte, marginati e marginali, etichettati come criminali fin dalla nascita, disuguali in un mondo ingiusto, un mondo governato da poche regole che sono l’utilitarismo, il profitto, il consumo, l’uso, il dominio. E al quale si sono adattati non vedendo l’altro, ma solo se stessi, vedendo l’altro come ostacolo al proprio tornaconto. Certo, a molti leggendomi qui bollirà il sangue, diranno che sono pazzo, che sono il solito buonista, estremista, utopista e via discorrendo. Posso capire qualunque obiezione, ma il mio pensiero non cambia, perché nasce da quello che so: quello che dico è frutto di un’esperienza e di uno studio e di una conoscenza. Le persone in carcere credo di conoscerle, perché nella mia attività di volontario cominciata nel 2008 ne ho incontrate a centinaia, quotidianamente, direttamente e senza filtri. Le ho conosciute di persona, frequentate, con loro mi sono confrontato. Da loro ho imparato. E ho conosciuto i tanti che non ce l’hanno fatta: coloro che sono ritornati dentro pur dopo aver, come si dice con il solito moralismo da quattro soldi, espiato la pena e coloro che in carcere si sono uccisi, impiccati a quel solito lenzuolo, in piedi su quel solito sgabello al quale hanno dato il calcio finale alla loro vita. Per la cronaca 1.084 persone dal 2000 a oggi (dati Ristretti aggiornati al 18 agosto 2019). Gran parte giovani, il 30 per cento in attesa di giudizio. E tanti con gravi problemi di tossicodipendenza. Tossicodipendente era il trentenne bulgaro trovato impiccato in carcere a Pescara lo scorso 12 agosto, tossicodipendente era Massimiliano Scirri trovato impiccato il 23 aprile dello scorso anno in carcere a Chieti. Scirri l’avevo anche incontrato, in un articolo pubblicato sulla rivista di Voci di dentro dello scorso aprile Daniele e Ennio hanno raccontato la loro impotenza, hanno descritto la sua vita in sezione, il suo brancolare in attesa della terapia… Insisto e non ho dubbi: quando il carcere diventa un luogo di morte (e il carcere è sempre un luogo di morte) allora il carcere ha fatto il suo tempo, è scaduto come una medicina scaduta, da buttare. E occorre cominciare a costruire una società migliore a partire proprio dalle sue contraddizioni, per rimettere al centro l’uomo e farlo uscire come uomo e non come ex detenuto. Per eliminare il carcere e sostituire alla pena la riappacificazione. Mi fanno orrore le affermazioni della Uil penitenziaria che all’indomani della fuga da Poggioreale dichiara che gli istituti penitenziari non sono popolati da collegiali, che la gestione penitenziaria aperta e incontrollata ha prodotto e produce solo ulteriore malavita. Possibile che non riescano a vedere il fallimento di questa istituzione? Possibile che arrivino a invocare più restrizioni e più agenti invece che più educatori? Concludo. Sono 931 gli educatori impiegati nelle duecento carceri italiane e se consideriamo che i detenuti sono 60.254 (dati al 31 luglio 2019, fonte Ministero della Giustizia) vediamo bene che il rapporto è un educatore ogni 65 detenuti. Per inciso per poter parlare con un educatore, per poter chiedere qualcosa come un permesso per andare a trovare la madre malata o il figlio malato alle volte passano mesi in alcuni casi anche semestri. Non va meglio per altre figure come gli psicologi: sono 600 in tutto, in media fanno 30-40 ore al mese. Stiamo larghi con i numeri, facciano quaranta ore al mese, e cioè in un anno sono 288 mila ore complessive, che significa meno di 5 ore all’anno per detenuto senza dimenticare che in queste cinque ore ci sono tante altre mansioni come ad esempio il partecipare ai consigli di disciplina, alla scrittura dei profili di ciascun detenuto, etc. Ecco perché dico: tempo scaduto, carcere scaduto, e certo è meglio che qualcuno che si trova in carcere usi un lenzuolo per fuggire piuttosto che per impiccarsi. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Psicologi: cinque ore all’anno di colloqui per ogni detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2019 Il carcere è, per definizione, un luogo di espiazione di una pena, un ambiente nel quale gli individui reclusi sono temporaneamente privati della propria libertà per aver commesso un reato, anche gravissimo. Da un punto di vista umano e costituzionale il carcere non deve essere però un luogo di sofferenza, di rabbia o di rassegnazione. Deve essere una realtà nella quale chi vi è recluso possa comprendere la gravità dell’errore commesso e apprendere quel tessuto di regole e di norme comportamentali la cui non osservanza l’ha portato a commettere il reato per il quale è stato condannato. Alla prova dei fatti tutto ciò risulta spesso difficile, utopico, quasi inattuabile. Così, come ha osservato l’autorità del Garante nazionale delle persone private delle libertà nell’ultima relazione al Parlamento, dal carcere poi bisogna uscire, ma rimane il dato preoccupante che migliaia di detenuti permangono nei penitenziari, nonostante la possibilità di poter accedere alle misure alternative. Tra le varie criticità che affliggono il sistema penitenziario, c’è l’enorme carenza di due figure fondamentali. Una è quella dell’educatore. È una particolare figura professionale che racchiude in sé funzioni diverse, e che con il suo nome richiama l’obiettivo ultimo di chi lavora in carcere. Ha il compito di instaurare e mantenere vivo un rapporto umano con il detenuto, in un contesto che tende a spersonalizzare ogni aspetto della vita quotidiana. Il suo lavoro è rivolto al recupero della persona, partendo dalla valorizzazione delle sue risorse individuali. Insieme al detenuto e ad altre figure professionali che operano in carcere, l’educatore costruisce un progetto educativo e di reintegrazione dell’individuo nel contesto sociale, coinvolgendo i servizi pubblici, le agenzie territoriali, le associazioni e le singole persone che si rendono disponibili. Questi progetti possono essere realizzati non solo all’interno del carcere, ma a anche attraverso strumenti legislativi che consentono al detenuto di scontare la sua pena all’esterno dell’istituto, in famiglia o in altre situazioni di vita. E, sempre a proposito delle misure alternative, Il lavoro dell’educatore mira anche a valutare la possibilità per il detenuto di scontare la pena fuori dal carcere. Ma la realtà è che tale figura professionale è carente. Attualmente sono 931 gli educatori impiegati nelle carceri italiane e se consideriamo che i detenuti - al 31 luglio - sono 60.254, il rapporto è un educatore ogni 65 detenuti. L’altra figura professionale carente è quella dello psicologo. Fondamentale anche per la prevenzione dei suicidi. Infatti ha il compito di effettuare colloqui di sostegno (per situazioni di disagio o sofferenza, malessere per difficoltà di rapporto con gli altri, ecc.), di diagnosi, valutazione, e motivazione (quando è in progetto un inserimento in Comunità Terapeutica come programma riabilitativo alternativo alla carcerazione o successivo alla stessa); curano i rapporti con i Sert competenti territorialmente per i pazienti detenuti; collaborano con gli operatori delle Comunità terapeutiche e con le Associazioni del privato-sociale per progetti rivolti ai tossicodipendenti in carico all’Unità Operativa. Figura, come detto, carente. Sono 600 in tutto e in media fanno 30 ore al mese. Il dato in rapporto con la popolazione detenuta è presto detto: meno di 5 ore all’anno per detenuto. Dietro le sbarre si fuma di più e la sigaretta fa sentire liberi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2019 Antigone e Sism lanciano l’allarme sui pericoli del tabagismo. Continua l’approfondimento dell’associazione Antigone, in collaborazione con il Segretariato Italiano Studenti Medicina (Sism), sulla conoscenza sulle patologie presenti in carcere e sulle loro cause. Dopo aver precedentemente approfondito le malattie infettive, questa volta tocca al tabagismo. Antigone spiega che l’uso di sigarette in carcere è maggiore che all’esterno, perché danno un senso di libertà, perché aiutano la socialità, per la situazione di dipendenza di tanti detenuti. Eppure in tanti vorrebbero smettere. Cosa che farebbe bene sia a chi fuma sia ai tanti, compreso il personale, che subiscono gli effetti del fumo passivo in ambienti spesso poco aerati. Secondo quanto scrive Elio Gentilini dell’associazione Antigone, Il tabagismo all’interno dei luoghi di detenzione è un problema di salute pubblica di primo piano, ma nonostante ciò gli studi nelle carceri italiane sono pochi. Tra questi, sempre secondo Antigone, meritano di essere citati “Il monitoraggio della salute dei detenuti nel carcere di Trento” e l’indagine “Passi in carcere”, approvata dall’Istituto Superiore di Sanità. Dalla prima ricerca è emerso come nel carcere trentino il 72% della popolazione carceraria sia fumatrice: un dato in linea, se non superiore, a quelli rilevati dalla letteratura medica straniera. Da un’altra ricerca, consultabile nella “Relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia- Romagna” (5), emerge che il 27% dei nuovi ingressi in carcere negli anni 2015-2017 è rappresentato da fumatori. Sono numeri che probabilmente sottostimano l’effettiva portata del fenomeno. Il fumo è spesso percepito come qualcosa di normale, con la conseguenza che spesso il detenuto-paziente non si cura di citarlo quando si fa il quadro sulla sua situazione medica, né il medico lo riporta sempre nella raccolta anamnestica di routine. All’interno del carcere, poi, è considerato ancora più normale. Tre sono le cause principali dell’ampia diffusione del tabagismo nelle carceri: una psicologica, l’altra sociale, e la terza direttamente riconducibile al fenomeno delle dipendenze. Le cause di natura psicologica possono andare oltre il semplice stress della vita ristretta. Sempre Gentilini di Antigone spiega che la sigaretta può rappresentare in effetti uno dei pochi momenti di libertà all’interno di un ambiente fortemente costrittivo. Così come, fumarsi una sigaretta, è una risposta al desiderio di socialità. E poi ci sono i tossicodipendenti e tale dipendenza porta inevitabilmente un alto rischio di diventare fumatori. Che fare? Antigone fa l’esempio del carcere di Sollicciano, quando, nel 2016, sono state introdotte le sigarette elettroniche. Attraverso il “sopravvitto”, cioè l’acquisto di beni di consumo in carcere, è divenuto stato possibile sostituire le sigarette tradizionali con quelle elettroniche. “Se il carcere, come prevede la Costituzione, è legittimo solo laddove contribuisce al reinserimento delle persone detenute - scrive Antigone nel suo secondo approfondimento sulle patologie in carcere - non è possibile ignorare le condizioni di chi vive al suo interno, in primis quelle legate al diritto alla salute. Gli obiettivi di salute pubblica riguardanti la popolazione detenuta devono coincidere anche nelle pratiche con quelli che riguardano cittadini in stato di libertà, avendo entrambi pari dignità rispetto al bisogno di cura”. Nelle carceri è arrivato i momento di eliminare il sopravvitto di Baldo degli Ubaldi poliziapenitenziaria.it, 28 agosto 2019 Anticamente il “Bettolino” era uno spaccio di vini e di altri generi alimentari annesso alle caserme e talora anche nelle carceri. All’epoca i detenuti dovevano accontentarsi del vitto che passava l’amministrazione carceraria, una brodaglia a base di fave, ma quelli che potevano disporre di denaro avevano la possibilità di acquistare altri generi alimentari al “bettolino” e se non volevano ricorrere all’acquisto in questo modo, tramite un tale cosiddetto “spendino” potevano farsi comprare fuori ciò che era permesso. Di solito era il “carceriere” a gestire il bettolino, arrotondando così il misero soldo, ma questo spesso era oggetto di eccessi in quanto, al fine di guadagnare il massimo, il vino scorreva a fiumi con tutti i problemi che possiamo immaginare. Successivamente, la somministrazione di tali generi vittuari viene demandata ad una impresa esterna che, sotto indicazione del Direttore, “ somministrerà ai “racchiusi” (detenuti n.d.r.) quei generi a norma delle prescrizioni che troverà di permettere e determinare, ritenuto che tali prezzi dovranno essere sempre inferiori a quelli in corso nella città, eccettuato il tabacco il quale, dovendo essere di quello acquistato nelle regie dispense, verrà dato ai racchiusi ai prezzi di regia tariffa”. Chiaramente tutti i generi che l’impresa somministrava ai detenuti dovevano essere di qualità, in perfetto stato e controllati dal medico e dal direttore (un po’ come avviene oggi con la Commissione demandata all’uopo). L’evoluzione del bettolino è oggi il nostro sopravvitto (dal vocabolario: Vitto sostitutivo o aggiuntivo dei pasti ordinari, che il recluso si procura a proprie spese) che è uno spaccio interno in cui si può comprare di tutto, come in un supermercato: carne da cucinare, biscotti, frutta, formaggio, vino in cartone da 250 cl., caffè, detersivo, sigarette, pentole, bombolette di gas, ecc. Gli acquisti vengono fatti tramite le liste compilate dagli “spesini” sulla base delle richieste dei detenuti e consegnate all’ufficio preposto alla gestione delle procedure. Con il sopravvitto abbiamo praticamente mantenuto la stessa impronta lavorativa ottocentesca del bettolino, sia pur con tutte le inevitabili varianti dettate dai tempi; ma la possibilità di comprare dei generi alimentari extra rispetto al vitto che passa lo Stato rimane ancora oggi e passa dal sopravvitto, con metodologie di approvvigionamento che oggi sembrano assolutamente superate e che potrebbero essere sostituite (con grande beneficio per il servizio della Polizia Penitenziaria e per la sicurezza degli istituti visto che gli “spesini” spesso sono coinvolti in vari traffici approfittando della libertà di movimento all’interno dell’istituto determinata dalla necessità di prelevare i generi dall’impresa di mantenimento per distribuirli nei reparti detentivi). L’organizzazione del sopravvitto comporta l’impiego di centinaia di agenti di Polizia Penitenziaria che potrebbero essere facilmente recuperati e restituiti al servizio a turno. Chiudere, quindi, con l’esperienza ottocentesca del bettolino/sopravvitto e aprire una nuova stagione dando l’appalto a ditte esterne, con l’onere di arredare mini market all’interno di spazi messi a disposizione e dare la possibilità ai detenuti di fare la spesa (chiaramente nei limiti previsti e regolamentandone le modalità) nel market, saldando (come si fa oggi con le telefonate) attraverso l’uso di una card prepagata ricaricabile. In questo modo si potrebbero recuperare dalle 500 alle 600 unità di Polizia Penitenziaria su tutto il territorio nazionale, magari destinandone una percentuale al rinforzo degli uffici dei conti correnti, per adeguare tecnologicamente gli stessi alle nuove esigenze. Un’amministrazione seria, efficiente, moderna, non può continuare a gestire il sopravvitto come si gestiva un secolo fa il bettolino; si eviterebbero in questo modo anche le annose polemiche strumentali su prezzi esosi praticati dalle imprese di mantenimento, demandandone il controllo alla Polizia Penitenziaria, così come avviene oggi con il “controllo periodico dei prezzi” che avviene nei supermercati vicini all’istituto di pena e che, comunque, sarebbe superfluo se ad ottenere l’appalto fossero grandi gruppi come Conad, Carrefour, Despar, Eurospin, Esselunga ecc. Bonafede-Orlando, il derby parte dalle intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 28 agosto 2019 Sono due big. Uno, Alfonso Bonafede, potrebbe restare ministro della Giustizia. L’altro, Andrea Orlando, è candidato a essere vicepremier, forse l’unico, nel Conte bis. Ed è soprattutto il predecessore di Bonafede a via Arenula. Tra loro due potrebbe attivarsi il polo dialettico più intenso dell’eventuale alleanza giallorossa. Fatte salve, com’è ovvio, le fibrillazioni già in corso su legge di Bilancio e reddito di cittadinanza. L’asse sulla giustizia tra Bonafede e Orlando promette di essere croce e delizia del nuovo patto di governo. A partire da un dossier caldissimo e decisivo: le intercettazioni. Su come riformarle, infatti, rischia di aprirsi caso. Orlando è, in materia, autore di un decreto legislativo mai entrato in vigore eppure mai affossato del tutto dallo stesso Bonafede. Su quel testo, la cui efficacia è ora rinviata al 31 dicembre, si giocherà una partita enorme. Perché la giustizia è sempre un tema chiave: lo è stato anche nell’epopea gialloverde, in cui ha innescato un’anteprima della crisi col no di Salvini alla riforma penale di Bonafede. Sulla giustizia si arroventerebbe, di sicuro, anche il rapporto del Movimento col Pd. Non senza sorprese, certo, perché su alcuni contenuti del ddl su processi e Csm, per esempio, il dem Orlando potrebbe essere assai più concorde di quanto non sia stata la leghista Bongiorno. Ma intanto si dovrà fare i conti con la mina della nuova prescrizione, vigente dal 1° gennaio prossimo. E, appunto, con le intercettazioni. Il disvelamento di traffici veri e presunti della “casta” è una prassi di sistema a cui Bonafede non intende rinunciare: “Non possiamo riportare le lancette indietro nel tempo”, ha detto, “a quando la politica pensava fosse giusto che il popolo italiano non dovesse sapere cosa accadeva in certi contesti”. Orlando la vede molto diversamente. Non a caso, il 29 dicembre del 2017, a pochi mesi dalla fine dell’esecutivo Gentiloni, ottenne il via libera al suo decreto intercettazioni, che sarebbe dovuto entrare in vigore nei mesi successivi. Tra le norme allora previste, una versione più prudente dei limiti per l’uso dei trojan nelle indagini per corruzione, ormai irreparabilmente superata dalla “liberalizzazione” introdotta con la “spazza corrotti”. Ma nel provvedimento firmato dall’attuale vicesegretario Pd c’erano anche altri interventi. Innanzitutto il divieto, per la polizia giudiziaria, di trascrivere conversazioni che riguardassero persone estranee alle indagini o dati sensibili, dal punto di vista della privacy, comunque non rilevanti rispetto agli stessi illeciti ipotizzati. E poi l’obbligo, per gli stessi pm e per i gip, di evitare la trasposizione integrale dei brogliacci nelle richieste e nelle ordinanze di misure cautelari, e di limitarsi a riportarvi solo i “brani essenziali” delle conversazioni captate. Ecco, è forse questo il punto chiave. Perché è chiaro che se la possibilità di richiamare le telefonate viene ridotta alla fonte, diventa assai più impervio, per i giornali, acquisire contenuti non penalmente rilevanti ma compromettenti per il notabile di turno. Su come modulare una simile norma si consumerebbe, probabilmente, lo scontro fra M5s e Pd, e in particolare tra Bonafede e Orlando. E non è che la discussione possa trascinarsi a lungo, come invece è stato, con la Lega, sulle modifiche al processo penale. Sulle intercettazioni c’è quella data ghigliottina, impossibile da aggirare: il 31 dicembre. Dopo quel giorno la riforma Orlando entrerebbe in vigore così com’è. Se fosse andato avanti l’esecutivo gialloverde, Bonafede avrebbe cercato, per tempo, di rimaneggiarla in profondità. Gli sarebbe risultato difficile, considerata la posizione di Salvini e Bongiorno. Ma ora potrebbe trovare in Orlando un interlocutore ancora più spigoloso, giacché si tratta dell’autore stesso del decreto. Sarà una linea calda, se mai l’alleanza prenderà il largo. Ma non è detto che le agitazioni siano tali da provocare un altro naufragio. La riforma della magistratura onoraria tra i dossier da non lasciare incompiuti di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 28 agosto 2019 Il 29 luglio 2019 è cominciato l’iter parlamentare in Senato del disegno di legge 1438 in materia di riforma della magistratura onoraria. Il provvedimento, che introduce importanti modifiche all’attuale disciplina, è tra quelli di cui andrà messa alla prova la capacità di “sopravvivere” all’eventuale cambio di maggioranza. Si tratta, fra l’altro, di un testo al quale ha dedicato particolari energie il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, della Lega: una figura che ha avuto un peso nelle politiche dell’esecutivo da poco entrato in crisi e che ora, inevitabilmente, pare destinata a lasciare l’incarico. Il ddl era stato inizialmente approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 20 maggio 2019, su impulso del ministro Bonafede e appunto del sottosegretario Morrone. Preliminarmente è opportuno rilevare che la materia da tempo richiedeva un aggiornamento, soprattutto alla luce delle legittime richieste dei rappresentanti di categoria. La riforma nasce proprio con il preciso obiettivo di arrivare a una più razionale e funzionale gestione della figura del magistrato onorario, recependo alcune delle indicazioni scaturite dal Tavolo tecnico istituito circa un anno fa, nel settembre 2018, al fine di migliorare e rendere più funzionali proprio le condizioni degli appartenenti a una categoria importante per l’amministrazione della giustizia. Tra le novità che verrebbero introdotte dalla riforma, occorre evidenziare il restringimento del regime delle incompatibilità dei magistrati onorari in relazione ai casi di rapporti di parentela, affinità e coniugio tra magistrato onorario e il familiare esercente la professione forense. Viene, poi, estesa ai magistrati onorari la disciplina di cui all’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, numero 104, per consentire l’assegnazione ad altra sede ed assistere in tal modo un familiare con disabilità. Viene ammessa la permanenza in servizio fino a 68 anni se la durata dell’incarico viene confermata per quattro quadrienni. Viene introdotta, inoltre, la possibilità del cosiddetto “doppio binario”, ossia la scelta tra il mantenimento dell’attuale sistema a cottimo o, in alternativa, i tre impegni settimanali con un incremento degli emolumenti. Inoltre, è prevista una corposa - e da tempo auspicata - riorganizzazione degli Uffici del Giudice di Pace. Viene introdotta, dunque, una tutela rafforzata per una categoria, che - riprendendo le parole del guardasigilli Bonafede - rappresenta “una componente importante del sistema, garantendo un contributo significativo al concreto funzionamento del servizio ai cittadini”, e che da tempo obbiettivamente meritava una disciplina aggiornata. In tema, il ministro ha affermato con soddisfazione che “si tratta di un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per la categoria”. Le parole di Bonafede non possono che condividersi: seppur il provvedimento abbia suscitato alcune critiche, da qualche parte bisognava iniziare. La riforma ha già incassato, peraltro, il nulla osta della Ragioneria dello Stato e ora in teoria dovrebbe iniziare l’iter parlamentare in Senato. A livello prettamente tecnico e giuridico la riforma è da accogliere con favore perché - seppur migliorabile in alcuni passaggi - inizia a rispondere in maniera chiara e proporzionata alle richieste che da anni la categoria coinvolta portava avanti per una normativa di settore aggiornata. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Lettera aperta al Presidente della Repubblica sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati di Giovanni Mottura* La Repubblica, 28 agosto 2019 Il tema dei beni sequestrati con finalità di confisca è tale da essere alla continua attenzione di molti e spesso dunque - giustamente - oggetto di varie esternazioni sui mezzi di comunicazione. Il motivo dell’esigenza di una lettera aperta indirizzata alla massima istituzione della Repubblica, è semplice: perché da troppo tempo la voce di chi fa questo mestiere (con iscrizione obbligatoria all’albo del ministero della Giustizia) non viene affatto ascoltata dal legislatore, che pure di frequente è intervenuto nell’ultimo decennio, offrendoci oggi un “codice antimafia” di oltre centoventi articoli. Male comune a tante categorie, si può dire … ed è tanto vero che, anche in questo caso, pochi semplici interventi potrebbero rimediare a criticità e storture evidenti del sistema, nell’interesse - da sottolineare - di tutti gli stakeholder. gli obiettivi Ricordando che il tema della buona gestione dei beni sequestrati e confiscati ha un altissimo valore, ormai non solo simbolico ma anche intrinseco (circa 9.000 procedimenti iscritti al 31.12.2017, a cui corrispondono 177.906 beni, di cui oltre 15.000 inseriti solo nel corso dell’ultimo anno - fonte ministero Giustizia; n. 2.892 aziende attualmente gestite dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) - fonte: audizione in Commissione Antimafia del Direttore Anbsc, 10 luglio 2019), e pienamente consci della difficoltà di esercizio delle funzioni di amministratore giudiziario, quale pubblico ufficiale “votato” alla gestione economica - e in particolare “mediatore” tra le esigenze di una rigorosa, quanto garantistica, procedura repressiva della pericolosa conduzione criminale dell’impresa e quelle di una sostenibile gestione, legalitaria e proficua, dell’impresa stessa - si auspica che il mandato al nuovo Governo contenga una Sua raccomandazione di inserimento programmatico dei seguenti obiettivi concreti. In primo luogo occorre valorizzare, rafforzandone adeguatamente gli organici, il ruolo consulenziale dell’Anbsc dal momento del sequestro, con particolare riferimento alla collaborazione con l’amministratore giudiziario (futuro coadiutore della stessa Anbsc) nelle decisioni di continuità aziendale (nel caso di imprese) e/o di gestione (dei beni immobili), in un’ottica da subito orientata, nel pieno rispetto delle garanzie di conservazione del valore e della reversibilità, alla possibile futura destinazione dei beni in parola, con particolare riguardo alla salvaguardia dei livelli occupazionali delle imprese confiscate. In secondo luogo, nell’ottica di un’opportuna specializzazione e di una migliore organizzazione professionale, si ritiene opportuno procedere alla rimodulazione del limite degli incarichi di amministratore giudiziario (attualmente previsto dall’art. 35, comma 2, D.Lgs. 159/11), eliminando il mero limite numerico (tre), privo di sostanziale significato, e adottando un limite determinato mediante un adeguato e congruo algoritmo quali-quantitativo, in attuazione del decreto ministeriale già previsto dallo stesso articolo citato. Al contempo, è indispensabile provvedere alla redazione di un provvedimento (circolare) del ministero della Giustizia, di concerto con l’Anbsc, previa consultazione delle categorie professionali interessate al ruolo di amministratore giudiziario, per l’interpretazione, univoca, chiara ed equa, della tariffa professionale recata dal D.P.R. 177/2015, da applicarsi uniformemente in tutti i tribunali e, con le opportune precisazioni, anche da parte dell’Anbsc, nella remunerazione dei propri coadiutori. Si ritenere che attribuendo un’adeguata priorità agli obiettivi sopra individuati, la gestione proficua dei beni sequestrati e confiscati sarebbe garantita da una spirale virtuosa, con il coinvolgimento delle migliori, motivate e giovani forze professionali del nostro Paese. *Presidente Consiglio Direttivo Inag L’omicidio di Novara e la lezione d’amore dietro l’abbraccio tra due famiglie di Michela Marzano La Repubblica, 28 agosto 2019 È coraggioso il padre di Yoan Leonardi, il giovane di 23 anni ucciso in provincia di Novara dal suo migliore amico. Ha quel coraggio che oggi, talvolta, viene confuso con la debolezza. Nonostante di forza ce ne voglia tantissima per non odiare l’assassino di un figlio, non prendersela con i suoi genitori, e aspettare che la giustizia faccia il suo corso. “Alberto ha ucciso mio figlio a tradimento, ma non provo odio per lui”, ha detto Marino Leonardi ai cronisti che gli chiedevano come mai i genitori dell’assassino del figlio si trovassero ieri a casa sua. “Sono miei amici, e lo rimarranno”, ha aggiunto spiegando il perché di quell’abbraccio tra lui, la sua ex-moglie, e i genitori di Alberto. Dando un esempio di umanità e di pietas a tutti coloro che, in un’epoca caratterizzata dalla rabbia e dall’assenza di empatia, cedono alla logica dell’odio, e immaginano che la vendetta sia l’unica strada da percorrere. Nonostante il torto subito sia enorme. E nulla sia più doloroso della perdita di un figlio. Com’è possibile abbracciare i genitori dell’assassino del proprio bambino? Com’è che il dolore di questo padre non si trasforma in una valanga di recriminazioni? Saranno in tanti a chiederselo. È per questo che Marino è un esempio per tutti noi. E che le sue parole risuonano come un monito per coloro che pensano che l’amicizia non abbia alcun valore, che sia giusto e legittimo farsi “giustizia da sé”, e che si debba ormai tornare alla legge del taglione. Certo, Alberto dovrà pagare per quello che ha fatto, lo riconosce anche il padre di Yoan. Non si tratta di cancellare l’accaduto. Ma nemmeno di far pagare i suoi genitori. L’amicizia, quando esiste, resta. E l’abbraccio tra queste due famiglie, ora che Yoan non c’è più, sigilla un patto di alleanza. Nonostante il dolore e la paura. Perché il coraggio di Marino non cancella né l’uno né l’altra, ma permette di ricominciare, di non distruggere quel fragile velo di umanità che ci fa vivere gli uni accanto agli altri. A differenza di quando si immagina che la vendetta sia l’unico modo per cancellare il rancore e la disperazione. Mentre la vendetta non allevia la sofferenza, ma peggiora le cose. In un’epoca in cui chiunque rinfaccia qualunque cosa a chiunque altro, i genitori di Yoan ci ricordano l’importanza della tolleranza e del perdono, della lealtà e dell’amicizia. E di come sia possibile restare umani. Carcere: il letto a “castello” va detratto dallo spazio minimo disponibile di Veronica Manca* quotidianogiuridico.it, 28 agosto 2019 Con la sentenza n. 29476/2019, la Prima Sezione è tornata ad occuparsi del computo del mobilio per la delimitazione dello spazio minimo detentivo, conforme agli standard di umanità della pena. In particolar modo, in linea con i precedenti della Prima Sezione, il Collegio ha confermato il criterio per cui devono essere sottratti dalla superficie disponibile per ciascun detenuto tutti gli arredi fissi, compresi i servizi igienici: in tale descrizione, vi rientra senza alcun dubbio - secondo la Cassazione - anche la struttura del letto c.d. “a castello”. *Avvocato in Trento e Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Trento Cannabis: sì alla non punibilità se la quantità supera di poco il tetto dell’uso personale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 27 agosto 2019 n. 36447. Via libera alla non punibilità per particolare tenuità del fatto se la quantità di cannabis detenuta supera di pochissimo il tetto dell’uso personale. La Corte di cassazione, con la sentenza 36447, respinge il ricorso del Pubblico ministero contro la scelta di non procedere nei confronti di un imputato per illecita detenzione di 10,19 grammi di cannabis sativa, grazie all’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale. Una conclusione non condivisa dalla pubblica accusa, secondo la quale la sentenza impugnata giustificava l’applicazione della norma di “favore” solo sulla base dell’insussistenza di elementi ostativi, pena edittale e abitualità della condotta, e sull’esiguità del quantitativo di sostanza detenuto. Per il Pm mancava un’adeguata motivazione circa la ritenuta tenuità del fatto in relazione al testo unico sulla droga (Dpr 309/1990). La Corte di cassazione respinge il ricorso e ricorda che il giudizio sulla tenuità dell’offesa va fatto tenendo presente i criteri affermati dall’articolo 133, comma primo del Codice penale. Ma non è necessario esaminarli tutti: basta indicare quelli considerati più rilevanti. Per il tribunale hanno pesato l’occasionalità della condotta e l’esigua quantità di cannabis che superava di poco il limite “concesso” per l’uso personale. L’offesa al bene giuridico protetto era dunque particolarmente lieve. Né per la Cassazione è pertinente la deduzione del Pm secondo il quale il dato della quantità era già stato preso in considerazione per qualificare il reato e non poteva dunque essere di nuovo valutato ai fini della non punibilità. La terza sezione penale precisa che il giudice può tenere conto di uno stesso elemento che possa influire su diversi aspetti del suo giudizio “ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem”. Responsabilità 231, società senza tenuità del fatto di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2019 Lo scorso 31 gennaio è entrata in vigore la legge 3/2019 “spazza corrotti”. Rilevanti sono le novità introdotte in differenti settori, che spaziano dalla materia penale, tanto sostanziale quanto processuale, all’ordinamento penitenziario e alla disciplina della trasparenza nella gestione dei partiti. L’ampio intervento nel diritto penale ha toccato anche la responsabilità da reato degli enti, con importanti modifiche e integrazioni direttamente al testo del Dlgs 231/01 tramite il comma 9 dell’unico articolo che compone la legge 3/19. La responsabilità del Decreto 231 viene estesa al nuovo reato-presupposto di traffico di influenze illecite previsto dall’articolo 346 bis del Codice penale. La precedente formulazione dell’articolo 25 del Dlgs 231/01 non comprendeva né questo delitto, introdotto nella sua prima versione dalla legge “Severino” del 2012, né la fattispecie “originaria” del millantato credito (articolo 346 del Codice penale), oggi confluita nell’articolo 346 bis del Codice penale. Il nuovo articolo 25 stabilisce invece per l’ente una sanzione pecuniaria sino a 200 quote per l’ipotesi in cui il soggetto apicale o sottoposto, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (oppure con uno dei pubblici agenti stranieri, comunitari e internazionali di cui all’articolo 322 bis del Codice penale), indebitamente faccia dare o anche solo promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il soggetto per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. La legge 3/2019 ha poi modificato l’articolo 322 bis del Codice penale, estendendo l’applicabilità delle fattispecie contemplate dalla norma a nuovi soggetti e, in particolare: alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri od organizzazioni pubbliche internazionali; ai membri delle assemblee parlamentari internazionali o di un’organizzazione internazionale o sovranazionale; ai giudici e funzionari delle corti internazionali. La novella si traduce nel corrispondente allargamento del perimetro soggettivo delle fattispecie-presupposto della responsabilità da reato degli enti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater e 322 del Codice penale, in forza del rinvio allo stesso articolo 322 bis del Codice penale operato dall’articolo 25, comma 4, del Dlgs 231/01. La legge 3/19 ha ulteriormente allargato, in via indiretta, sempre in ragione del rinvio dell’articolo 25, comma 4, l’ambito della responsabilità da reato degli enti attraverso l’eliminazione del dolo specifico prima richiesto dall’articolo 322 bis, comma 2, n. 2,del Codice penale, sicché oggi non è più necessario che le condotte dei soggetti che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri od organizzazioni pubbliche internazionali siano dirette a procurare un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali, ovvero finalizzate ad ottenere o mantenere un’attività economica o finanziaria. Sembra invece da escludere, stando all’indirizzo ormai consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, che la causa di non punibilità delle persone fisiche inserita nell’articolo 323 ter del Codice penale rispetto a condotte collaborative post crimen e alla restituzione di quanto ottenuto dal reato possa essere estesa agli enti. La Cassazione (sent. n. 11518/19), infatti, ha ribadito, con riguardo alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131 bis del Codice penale, l’autonomia della responsabilità da reato dell’ente rispetto alla responsabilità penale della persona fisica non punibile. Nel solco dell’inasprimento del sistema sanzionatorio che ha interessato anche le pene accessorie per i reati delle persone fisiche, il Legislatore ha inoltre aumentato la durata delle sanzioni interdittive per la responsabilità dell’ente connessa ai reati-presupposto dell’articolo 25, commi 2 e 3 (corruzione propria, corruzione in atti giudiziari, reati del corruttore ex articolo 321, istigazione alla corruzione propria), prima di durata non inferiore a un anno: attualmente è prevista, invece, una forbice edittale che va dai quattro ai sette anni, se il reato-presupposto è commesso da un soggetto apicale, e dai due ai quattro anni, se il reato-presupposto è commesso da un sottoposto. Di rilievo è, altresì, il nuovo comma 5 bis dello stesso articolo 25 del Dlgs 231/01, che tende a favorire l’emersione delle condotte illecite incentivando l’adozione dei modelli organizzativi. Si prevede, infatti, che la sanzione interdittiva ritorni ad essere quella ordinaria prevista dall’articolo 13, comma 2, del Dlgs 231/2001 (dai tre mesi ai due anni) - e, dunque, non opera il nuovo regime sanzionatorio dell’articolo 25 - nel caso in cui, prima della sentenza di primo grado, l’ente si sia efficacemente adoperato per evitare le ulteriori conseguenze dell’attività delittuosa, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione dei responsabili, ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, e in ogni caso abbia eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Da ultimo, la novella ha modificato i termini di durata massima delle misure cautelari, slegandoli dalla durata edittale della sanzione (articolo 51). Attualmente, la misura cautelare non può quindi superare il termine di un anno, oppure di un anno e quattro mesi dopo la sentenza di condanna. Vercelli: morte sospetta di un detenuto infovercelli24.it, 28 agosto 2019 Indagini in corso su una vicenda drammatica avvenuta nel carcere cittadino. Quando si sono accorti che accusava un grave malore lo hanno portato al Pronto soccorso e, da qui, a Novara. Ma per l’uomo, detenuto nel carcere di Bielliemme, non c’è stato comunque nulla da fare. A stroncarlo, sarebbe stata un’overdose. È una vicenda drammatica e che al tempo stesso apre scenari preoccupanti quella che si è verificata la scorsa settimana, nella serata di mercoledì, nel carcere cittadino, ma che è parzialmente trapelata solo nelle ultime ore. Quando l’uomo si è sentito male, è stato portato al pronto soccorso e da qui direttamente a Novara: poco dopo è entrato in coma ed è spirato. A stroncarlo sarebbe stata un’overdose ma, secondo quando è emerso finora, l’uomo, detenuto da aprile, non aveva dichiarato di essere tossicodipendente e non risultava essere in carico al Sert. La vicenda è dunque subito arrivata sul tavolo della Procura che ha già aperto un fascicolo ed effettuato un accesso in carcere per chiarire i contorni del decesso e - nel caso - come sia giunta al detenuto la sostanza che potrebbe essere risultata fatale. Se venisse confermata l’overdose causata da qualche sostanza, la vicenda andrebbe a riproporre il problema della tossicodipendenza, ma anche del traffico di sostanze, all’interno delle carceri italiane: problema non certamente nuovo e, di fatto, mai debellato. “Del resto è un’illusione poter pensare di controllare tutto e tutti”, è il commento di Roswitha Flaibani, garante vercellese dei diritti delle persone detenute. Ferrara: la rieducazione dei detenuti in carcere, un diritto che non riesce ad arrivare a tutti di Alessandra Mura La Nuova Ferrara, 28 agosto 2019 Sciopero della fame all’Arginone. La Garante: è una struttura complessa, difficile organizzare corsi per le sezioni speciali. Nella Casa circondariale dell’Arginone vengono organizzate attività di formazione e rieducazione dei carcerati, come previsto tra le finalità della pena detentiva. Una possibilità che però non riesce ad arrivare a tutti in uguale misura, perché ci sono detenuti, quelli delle sezioni dei “protetti”, che proprio per le limitazioni legate alla loro sicurezza finiscono per essere in buona parte esclusi da queste attività. Una limitazione che può sfociare in frustrazioni e proteste. L’ultima è quella di Andrea Volpe, conosciuto per la vicenda delle Bestie di Satana, che ha avviato uno sciopero della fame insieme ad altri quattro compagni lamentando questa discriminazione. Struttura complessa - Un problema che Stefania Carnevale, Garante ferrarese per i Diritti delle persone private della libertà personale ha ben presente: “La questione è che la Casa circondariale di via Arginone è molto diversificata e complessa per essere una struttura di medie dimensioni”. Oltre alla sezione riservata ai detenuti comuni, ci sono le sezioni speciali: i “protetti”, che, in ragione del tipo di reato commesso o dell’orientamento sessuale, rischiano prevaricazioni da parte di altri ristretti; i parenti di collaboratori di giustizia; i collaboratori di giustizia a rischio di ritorsioni; l’Alta Sicurezza 2, dove sono custodite persone accusate o condannate di reati di terrorismo anarco-insurrezionalista; i semiliberi. “Si può dunque ben immaginare, spiega Carnevale, “come possa essere complicato, a cominciare dall’aspetto logistico e organizzativo, tenere attività diversificate per ciascuna tipologia di detenuti che non possono incontrarsi tra di loro, all’interno degli spazi del carcere”. A complicare ulteriormente il tutto la scarsità di risorse e la conseguente necessità di appoggiarsi in buona parte al volontariato. “C’è sempre stato un grande impegno da parte della direzione del carcere - prosegue Carnevale - per offrire ai detenuti opportunità di formazione e rieducazione. Un tema che ho affrontato più volte con l’Area pedagogica del carcere”. Diritti in contrasto - Il diritto alla protezione dei detenuti delle sezioni speciali finisce quindi per entrare in contrasto con quello della rieducazione. “In più d’estate la situazione si complica, perché ci sono meno attività ed è il periodo in cui i detenuti avvertono maggiormente il vuoto e la solitudine”. Il caso Volpe, peraltro, non è l’unico. Per i motivi più disparati, gli scioperi della fame sono eventi piuttosto frequenti, “e non è possibile monitorare il fenomeno in tempo reale”. Tra gli obiettivi del Garante, “c’è sempre stato e c’è quello di estendere il più possibile le attività svolte dai detenuti comuni anche agli “speciali”, ma per le ragioni che ho esposto non è semplice e alla fine non si riesce mai ad andare oltre a un solo corso. La creazione di sezioni è disposta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), e il carcere di Ferrara risulta essere fortemente frammentato, e questo determina maggiori difficoltà a organizzare attività formative differenziate, incastrando spazi e orari per evitare il contatto tra sezioni da tenere separate”. A questo si aggiunge che anche per i detenuti comuni, i programmi di rieducazione devono essere differenziati sulla base della durata della pena da scontare. Avellino: Silvana, il suicidio davanti al figlio e l’inferno nel carcere di Bellizzi di Luciano Trapanese thewam.net, 28 agosto 2019 Il tentato suicidio di una detenuta nel carcere di Bellizzi non può che riportare alla mente la storia di Silvana Giordano, che a 26 anni, si impiccò in una cella davanti al figlio di due anni e mezzo. Era il maggio del 1998. Sono passati 21 anni, eppure quella vicenda si ripropone di continuo. Una ferita mai rimarginata. Anche perché gran parte delle ragioni di quella tragedia sono rimaste irrisolte. Nelle celle, oggi come allora, e forse oggi peggio di allora, si vive in condizioni molto lontane dal decente. Detenuti ammucchiati, costretti a condividere la vita in pochi metri quadri. Situazioni igienico sanitarie al limite. E a Bellizzi, bambini rinchiusi con le madri. Fino a tre anni. A guardare lo stesso pezzettino di cielo dietro le sbarre. Una ex detenuta ci raccontò che aveva vissuto per tre anni con il suo bambino in carcere. Ora il ragazzo ha dodici anni, ma trasaliva angosciato ogni volta che sentiva cancelli e porte che si aprivano o chiudevano. Silvana si uccise impiccandosi a un lenzuolo. Lo aveva legato al letto. Suo figlio stava dormendo, era l’alba. Ma il rantolo della madre lo svegliò. Le vigilanti lo trovarono in lacrime accanto al corpo della madre. Non capiva cosa era successo. Non poteva. Quel suicidio resta per molti un mistero. La ragazza sarebbe uscita dopo qualche mese. Non aveva nessuna apparente ragione per farla finita. Non in quel modo. Non davanti al figlio. L’unica motivo per dare una parvenza di senso a quel gesto disperato è sempre rimasta la stessa: il carcere. La vita dietro quelle sbarre. Silvana era molto bella. Si disse che non riusciva a contenere le continue avances di altre detenute. Era una voce, una tra le tante. La verità, se pure c’era una verità da cercare, non venne mai fuori. La sua morte impressionò l’opinione pubblica. Tante le interrogazioni parlamentari. Il deputato sannita Alberto Simeone, scomparso tre anni fa, propose una legge per mettere fine a quello sconcio dei bimbi in cella. Erano tutti d’accordo. Talmente tanto convinti che quella norma avrebbe dovuto essere emanata che oggi i bimbi vivono ancora dietro le sbarre. Fino a tre anni. Con l’unica differenza - e aggravante - che in venti anni le condizioni nelle prigioni italiane sono molto peggiorate: le strutture sono sempre più vecchie e il sovraffollamento è diventato una regola. I suicidi in carcere, gli atti di autolesionismo, le malattie psichiatriche, sono un dramma accertato. Con numeri da brivido. Eppure resta tutto avvolto in un silenzio tombale. Come se chi ha sbagliato e ne sta pagando le conseguenze non avesse comunque diritto almeno a vivere con dignità. Senza dover subire una pena nella pena. Ma non ci sorprende. Nell’epoca della politica sotto forma di like, niente è più impopolare delle ragioni di chi è in carcere perché ha commesso reati. E i politici - molti, ormai - ripetono spesso come un mantra a ogni episodio di cronaca: prendetelo e fatelo marcire in galera. Beh, non vi preoccupate, in carcere si marcisce davvero. E se qualcuno pensasse ancora che le prigioni dovrebbero essere il luogo dove recuperare chi ha commesso degli errori, può scordarselo. È solo l’inferno. E non c’è nessuna intenzione di trasformarlo in purgatorio. Nonostante Silvana e tanti e tante che come lei non hanno più visto il cielo. Udine: nell’agosto 2018 una transessuale di 33 anni moriva suicida nel carcere “maschile” di Fabio Folisi friulisera.it, 28 agosto 2019 Qualche giorno fa sui social veniva ri-postata la notizia della morte di Danila, transessuale straniera di 33 anni suicida 4 ore dopo essere entrata nel carcere di Udine di via Spalato, trovata impiccata con un lenzuolo nel bagno del reparto “protetto” dove era stata reclusa. In molti non avevano notato la data del post, agosto 2018, pensando si trattasse di un ennesimo caso e lamentando che la stampa non se ne stesse occupando. In realtà, una volta tanto, la stampa è innocente visto che la notizia era datata e anche alle accuse che era stato omesso il nome della vittima “senza riportare un nome, un’identità, senza il rispetto dell’identità sessuale. Una trans. Come un oggetto, manco un animale” si può tranquillamente rispondere che questa “omissione” viene quasi sempre fatta per rispetto della vittima (uomo, donna o trans) di questa estrema scelta. Ci sono ovviamente delle eccezioni a questa regola e riguardano sostanzialmente l’eterno e sottile limite fra il diritto di cronaca e quello di salvaguardare la dignità delle persone, anche nel caso in cui queste fossero famose. Il confine è delimitato in maniera dettagliata dal Testo unico dei doveri del giornalista, che richiama il Codice dei trattamenti dei dati personali: non tutto si può scrivere; non tutto è giusto che diventi notizia. Il requisito è quello dell’interesse pubblico: episodi minimi, fatti personali che riguardano persone non conosciute, prive di ruoli pubblici, non possono, non devono finire all’attenzione dei media. Fatta questa doverosa difesa della categoria, che purtroppo spesso non applica queste norme deontologiche, si può invece dire che la tematica generale dei suicidi in carcere, di qualsiasi sesso sia la vittima, è un problema raramente trattato dai media come non lo sono in genere le questioni che riguardano le condizioni di vita negli istituti penitenziari. Il perché è facilmente comprensibile, i diritti dei detenuti non sono argomenti “popolari”, anzi, nella vulgata di certa plebe e in quella di molti politici che su questi concetti basano la loro fortuna elettorale, l’idea che il detenuto debba “soffrire” per espiare la propria pena diventa fattore addirittura gratificante. Poco importa se molti detenuti sono in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti, poco importa se in carcere spesso finiscono soggetti deboli incapaci di efficace difesa e che più che di reclusione necessiterebbero di attenzione. Insomma nonostante l’Italia sia il Paese natale di Cesare Beccaria il sistema carcerario italiano non brilla per umanità ed organizzazione anche se innegabilmente alcuni sforzi vengono fatti dal sistema penitenziario grazie alla volontà di molti operatori. Ma resta comunque il dramma del sovraffollamento causa principale di atti di violenza e autolesionismo. Sovraffollamento per il quale l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia Europea più volte. Nel 2018, sono stati 63 i morti per “volontà” nelle carceri italiane e fra questi c’è anche Danila che secondo una relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute era una della 58 persone transessuali presenti all’epoca nelle carceri italiane. Guardando i siti istituzionali e le statistiche ufficiali si scopre che queste persone sono attualmente collocate in 10 sezioni a loro riservate, ma quasi tutte collocate in istituti maschili. Nella recente relazione al Parlamento del Garante, datata 2018, si legge fra l’altro: “Il Garante nazionale ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. In altre parole, bisognerebbe dare priorità alla percezione soggettiva dei diretti interessati/e, quindi alla loro identità di genere, piuttosto che basarsi semplicemente sui documenti anagrafici che riportano quasi sempre i dati anagrafici al maschile. Un paio di anni fa si era parlato della stesura di un decreto del ministro che, almeno in via sperimentale, andava in questa direzione e ridefiniva le sezioni destinate alle persone transessuali. Purtroppo il decreto non è stato emanato e nei cambi di governo il tema sembra sparito dall’agenda delle urgenze, ora, nell’idea di una nuova maggioranza di Governo, potrebbe essere il momento di riproporre la questione. Benevento: Camera penale in visita al carcere, ecco la relazione ottopagine.it, 28 agosto 2019 Il presidente Camera Penale, Russo: “Sistema esecuzione penale fallace: serve riforma profonda”. Come già anticipato da Ottopagine.it nell’articolo del 18 agosto, aderendo all’iniziativa “Ferragosto in Carcere”, promossa dal Partito Radicale e da Radio Radicale, e sostenuta dall’Unione delle Camere Penali Italiane, la Camera Penale di Benevento, con il presidente Domenico Russo, il vicepresidente, Ettore Marcarelli, il Segretario, Vincenzo Gallo, e i componenti di Giunta, gli avvocati Natascia Pastore e Nico Salomone, delegato per l’Osservatorio Carcere, ha visitato, nella giornata di domenica 18 agosto, la Casa Circondariale “Capodimonte” di Benevento. Gli avvocati si sono trattenuti per oltre 3 ore all’interno dell’istituto di pena dove hanno incontrato il direttore Gianfranco Marcello e successivamente, grazie alla disponibilità e all’ausilio dello stesso e con il fondamentale supporto degli agenti della Polizia Penitenziaria, hanno visitato i padiglioni dei reparti femminile e maschile (detenuti comuni e alta sicurezza), oltre che le aree dedicate alle attività lavorative e trattamentali. Nell’Istituto, come risulta dai dati prontamente messi a disposizione dalla Direzione, sono attualmente presenti 421 detenuti (di cui 347 uomini e 74 donne - 62 stranieri complessivamente), a fronte di una capienza regolamentare di 261 persone, benché la capienza effettiva dello stesso risulti attualmente aumentata a circa 450 persone. I detenuti comuni sono 210 e i detenuti in alta sicurezza sono 211 (nessuno in regime di 41 bis): 267 in espiazione pena definitiva, 132 in attesa di giudizio (di cui 93 imputati, 39 appellanti e 20 ricorrenti). Sono complessivamente 90 i detenuti lavoranti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria (di cui 66 uomini e 24 donne), uno il detenuto (donna) lavorante per conto di imprese e cooperative. Va aggiunto che sono 11 (di cui 7 a titolo volontario) in totale (tra semiliberi e art. 21 O.P.) i detenuti che lavorano alle dipendenze di datori di lavoro esterni (Questura, Comune di Benevento e Caritas). “L’Istituto - spiega in una lunga nota il presidente della Camera Penale di Benevento, l’avvocato Domenico Russo - attualmente dispone di un unico vicedirettore (invece dei tre regolarmente in servizio in passato) e ciò limita fortemente, come può facilmente dedursi, la possibilità da parte del direttore di incontrare i detenuti, con la dovuta costanza, per colloqui e udienze. Il personale amministrativo, pur rientrando nei limiti formali di pianta organica, è concretamente insufficiente per una piena attuazione della cd. “sorveglianza dinamica”, come prevista dalla normativa vigente. Il dato di concreta insufficienza riguarda in particolare gli operatori dediti alle attività trattamentali (psicologi ed educatori). Gli educatori - oggi, più precisamente, qualificati come ‘funzionari giuridico-pedagogici’ - effettivamente in servizio sono 6, come da pianta organica, e sono alle dipendenze dirette dell’Amministrazione penitenziaria. Gli psicologici in servizio in Istituto sono due, di cui uno “interno”, alle dipendenze dell’Amministrazione (per un servizio di 44 ore mensili), l’altro “esterno”, alle dipendenze dell’Asl. Il numero degli agenti di Polizia Penitenziaria risponde ai criteri di organico (244 in pianta organica, 232 assegnati, 258 effettivamente in servizio), ma non consente - spiega ancora l’avvocato Russo - la presenza concretamente necessaria in ciascuna sezione di almeno 3-4 agenti (tanto in conseguenza dei recenti “tagli”). La Casa Circondariale conta di una sala teatro, di un campo sportivo e di 8 stanze palestra, che, però, nella realtà sono piccole e contengono pochi e vecchi attrezzi in disuso. Per le attività teatrali, come sottolineato dal medesimo Direttore, si auspica una collaborazione con le associazioni di volontariato locali. È altresì presente una serra agricola ed un’area verde all’aperto, che la Direzione intende recuperare. Adeguati in termini di spazio e sufficientemente attrezzati appaiono gli ambienti cucina, tanto nel reparto maschile, quanto in quello femminile. La struttura ha al suo interno un presidio medico per l’assistenza sanitaria (24 ore su 24) ed un servizio SERT funzionante e sufficientemente organizzato. È presente, inoltre, un reparto che ospita soggetti gravati da patologie psichiatriche per una capienza allo stato di 5 persone, cui è assegnato personale infermieristico alle dipendenze dell’ASL costantemente presente in Istituto. Lunghe, ad oggi, restano ancora le attese per lo svolgimento di visite mediche specialistiche ed esami diagnostici presso l’Azienda Ospedaliera “San Pio” di Benevento. L’Istituto è dotato di una sartoria, ben funzionante, cui attualmente risultano assegnate, quali lavoratrici, alcune detenute; la sartoria produce uniformi per uso interno e si occupa altresì della loro riparazione; restano, invece, allo stato inutilizzati i locali poco prima adibiti a copisteria digitale (per la riproduzione in forma digitale di manoscritti musicali) e a laboratorio orafo. Anche questo in conseguenza della riduzione dei fondi disponibili. Oggetto di recente intervento manutentivo è l’area riservata ai colloqui con i difensori, agli interrogatori e alle udienze con i magistrati e al Sert. L’Istituto garantisce i corsi di studio della scuola obbligatoria statale, avendo al suo interno una Scuola Alberghiera (reparto alta sicurezza), e organizza corsi di taglio e cucito. Con l’ausilio di educatori e psicologi, il carcere di Benevento, in collaborazione con associazioni di volontariato e cooperative sociali, organizza e promuove attività volte alla tutela dei rapporti con la famiglia e di sostegno alla genitorialità, pur mancando specifici percorsi psicologici individuali in tal senso”. Il numero uno della Camera Penale di Benevento rileva “tuttavia, come non risulti la costante organizzazione di ‘corsi di formazione professionalè che possano concretamente - e nell’ottica della primaria funzione rieducativa della pena - consentire il graduale reinserimento lavorativo dei detenuti e, così, la loro effettiva reintegrazione sociale. Da realizzare - secondo Russo - ancora un necessario presidio dell’Ufficio Anagrafe per risolvere il problema dei detenuti privi di documento di riconoscimento o che lo hanno smarrito. Nonostante l’impegno della Direzione, come, ad esempio, per il recupero di aree non utilizzate da destinare ad attività trattamentali, quali la palestra, il giardinaggio e l’orticoltura, e quello volto a sollecitare l’implementazione dei corsi di formazione lavorativa, la situazione dell’Istituto presenta ancora diverse criticità. Per ciò che concerne l’aspetto strettamente legato alla “detenzione”, le celle, tanto nel reparto femminile, quanto in quello maschile, sono predisposte per ospitare due o quattro persone. All’ispezione visiva non sono emerse gravi situazioni di sovraffollamento della singola cella, anche se alcune di queste, tenuto conto degli arredi presenti al loro interno, sono prossime al limite del rispetto del parametro giurisprudenziale (per quanto esso sia ancora non uniformemente definito) dei 3 mq di spazio vitale per ciascuna persona ivi ospitata. Le celle - conclude l’avvocato Russo - non presentano segni evidenti di muffa ed umidità, se non in qualche caso e in modo non eccessivamente allarmante. L’acqua calda a disposizione dei detenuti è contingentata giornalmente, più o meno per tre volte al giorno, con qualche connessa lamentela, essendo la stessa utilizzata sia per l’igiene personale che per il lavaggio degli indumenti. Le zone doccia si presentano in condizioni igienico-sanitarie mediamente accettabili e dignitose. Resta inalterato, ad oggi, l’utilizzo (criticabile e sconsigliabile, visto che concerne spesso soggetti al primo ingresso e incensurati) delle celle dell’area isolamento per l’accoglienza dei “nuovi giunti”, tanto nel reparto femminile, che in quello maschile. Sul punto va detto che la Direzione ha tuttavia disposto che tali celle siano costantemente tenute sotto osservazione e che la permanenza nelle stesse, in attesa del trasferimento ai reparti, non si protragga oltre qualche giorno e che il singolo detenuto non resti mai da solo”. Al termine della lunga relazione, la Camera Penale concluse spiegando che “La Casa Circondariale di Benevento certamente non versa nelle condizioni drammatiche che contraddistinguono altri istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale. La Direzione, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria in servizio svolgono il loro lavoro con dedizione e competenza. Tuttavia, tale impegno non può nascondere le carenze, pur presenti ed innanzi evidenziate, su cui è necessario intervenire. Con maggiore impegno da parte di tutti i soggetti preposti, si potrebbero ottenere, in tempi congrui, buoni risultati. Va rimarcato, in ogni caso, come il sistema dell’esecuzione penale, così come attualmente strutturato, resti fallace e vada profondamente riformato. La finalità rieducativa della pena è sostanzialmente ancora un “auspicio costituzionale” e sussiste, per questo, la necessità cogente di destinare maggiori risorse al sistema e puntare utilmente sulle misure alternative alla detenzione”. Lungo questa traccia, la Camera Penale di Benevento annuncia di “perseverare nel suo impegno volto a collaborare al miglioramento delle condizioni della detenzione inframuraria e dell’esecuzione più in generale, riservandosi ogni azione utile in tal senso, allo scopo di rendere l’espiazione della pena maggiormente rispettosa della dignità umana e degli irrinunciabili principi dettati dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali”. Castrovillari (Cs): i detenuti a servizio della comunità ilfattodicalabria.it, 28 agosto 2019 Incontro tra il direttore della Casa circondariale di Castrovillari Giuseppe Cartà e il consigliere provinciale Graziano Di Natale per avviare un progetto che coinvolga i detenuti a lavori di pubblica utilità. Si è svolto oggi presso la direzione della casa circondariale di Castrovillari un incontro tra il direttore Giuseppe Cartà e il consigliere provinciale Graziano Di Natale. Si è discusso di idee ed iniziative ed in particolare del progetto relativo al coinvolgimento dei detenuti ai lavori di pubblica utilità. L’iniziativa dovrebbe interessare le strade, di competenza della Provincia di Cosenza, ricadenti nel territorio di Castrovillari. Si è quindi convenuto di programmare nella prossima settimana una riunione operativa, alla presenza del Presidente Franco Iacucci, al fine di definire le questioni logistiche organizzative finalizzate alla stipula di una convenzione tra i due Enti. Roma: “Sbarre, confini, frontiere”, conferenza stampa del Sinodo valdese e metodista nev.it, 28 agosto 2019 Il tema delle carceri, della giustizia, dei diritti al centro della conferenza stampa di martedì 27 agosto al Sinodo valdese e metodista, con l’avvocata e giurista Ilaria Valenzi e il pastore Francesco Sciotto. Da una parte chi vuole “Buttare via la chiave”, chi augura alle persone di “marcire in galera”, dall’altra la Costituzione, il rispetto dei diritti. E il tema dei diritti, appunto, delle carceri e quindi in senso più ampio della giustizia, è stato oggi al centro della conferenza stampa del Sinodo valdese e metodista in corso a Torre Pellice, alla quale hanno preso parte la giurista Ilaria Valenzi e il pastore Francesco Sciotto, e moderata dal giornalista Roberto Davide Papini. “Il tema delle carceri è sempre urgente - ha esordito Valenzi - ed è necessario ripensare la pena: sui diritti stentiamo a riconoscere la dignità come principio fondamentale, essenziale” dell’azione dello Stato. Le chiese protestanti e i loro rappresentanti, in tutta Italia, periodicamente entrano negli istituti penitenziari, incontrano i detenuti. Il pastore della chiesa metodista di Scicli e membro della Commissione Sinodale per la Diaconia (Csd) Francesco Sciotto ha esortato “chi ci vede, chi sta seguendo questa conferenza stampa, che siano persone detenute o loro famiglie, a chiederci una visita”. Una presenza, quella dei valdesi e dei metodisti nelle carceri italiane, che punta a spezzare le catene dell’odio: “si rompono mettendo in circolazione un altro modo di relazionarsi - ha aggiunto l’avvocata Valenzi - non cadere nell’errore di parlare alla pancia delle persone. Perché purtroppo l’odio è contagioso e ha effetti devastanti sull’idea della società”. Per fare questo, come ha spiegato Sciotto, il mondo valdese finanzia numerosi progetti: dagli interventi della Diaconia alle attività finanziate dall’Otto per mille, come il contributo all’osservatorio di Antigone. Esperienze di incontro con la società civile ma anche ecumeniche, perché “incontrarsi in carcere è più facile e dietro le sbarre c’è più ecumenismo di quanto si immagini”. Tante le facce, tanti i problemi, di chi vive - purtroppo spesso subisce - il mondo carcerario: dalle discriminazioni - “quando la persona non viene vista nel suo insieme ma solo per una sua caratteristica o scelta o in quanto bisognosa, quello è già un discrimine in partenza” ha detto Valenzi - alla situazione lavorativa. “C’è un mantra che è quello che manca il lavoro in Italia - ha aggiunto Francesco Sciotto -: io penso invece che ci voglia un investimento sul lavoro, perché là dove ci sono investimenti per accompagnare le persone in percorsi di inclusione, riescono a trovare un’occupazione. Occorre investire sull’inclusione attraverso il lavoro”. E in termini di rapporto costi-benefici, il saldo delle attività finalizzate a migliorare le condizioni di vita - e di lavoro - di chi sta scontando una pena detentiva, così come tutto ciò che comporta un’esecuzione penale esterna alle carceri, è positivo. “Tutto quello che “spezzetta” le sbarre - ha confermato il pastore Sciotto - costa poco. Penso ad esempio all’esperienza della pasticceria “Cotti in fragranza” a Palermo, un’esperienza che come tante si nutre soprattutto di creatività. Mentre sbarre, confini, frontiere costano tanti soldi e producono ancora più chiusura”. E su questa strada valdesi e metodisti vogliono proseguire: “La Diaconia vuole continuare a riflettere su queste tematiche, non arretriamo”. Spazi e barriere, quelle vite nascoste dietro e fuori le sbarre di Silvia Nugara Il Manifesto, 28 agosto 2019 Venezia 76. Nel programma della Venice Virtual Reality l’unica opera italiana in concorso è “VR Free” di Milad Tangshir. All’isola del Lazzaretto Vecchio di Venezia, dove si svolgono le proiezioni della Venice Virtual Reality per la 76° Mostra del cinema, l’unica opera italiana in concorso è VR Free di Milad Tangshir. Il giovane regista iraniano, torinese d’adozione, ha già firmato il corto Displaced (2015) dedicato ai rifugiati al confine tra Austria e Slovenia e debutterà presto con il suo primo lungometraggio documentario intitolato Star Stuff, girato in osservatori astronomici di tre continenti e prodotto da Davide Ferrario: tutte opere che esplorano i concetti di spazio, di confine e di sconfinamento. A sua volta, il cortometraggio di dieci minuti presentato a Venezia, è stato realizzato insieme ad alcuni detenuti della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, grazie a un progetto dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Il titolo del film è un gioco di assonanze tra VR (virtual reality) e “we are” che con l’aggettivo “free” si può tradurre come “siamo liberi”. Un gioco di parole tutt’altro che puramente ludico, che si rivela un’indicazione sulla maniera in cui la realtà virtuale è utilizzata come strumento per oltrepassare i confini tra dentro e fuori il penitenziario. Il corto sfrutta al massimo le potenzialità del mezzo con due diverse operazioni: da una parte, filmando alcuni momenti della vita quotidiana dei detenuti rende possibile a chi sta fuori guardare il mondo di chi sta dentro; dall’altra parte, filmando la vita fuori la porta dentro. Innanzi tutto, il film osserva e presta orecchio al paesaggio visivo e sonoro in cui sono immersi i detenuti: le piccole celle con la radio o la tv accesa, i servizi poco distanti dalla branda su cui si riposa, i pasti, i colori delle pareti scrostate, le grate alle finestre, il rimbombo dei corridoi, il cortile in cemento dove sgranchirsi le gambe per una passeggiata avanti e indietro anche se il cielo è scuro. Talvolta le riprese in soggettiva ci immergono nello spazio carcerario in modo da farci mettere nei panni di chi in quel luogo ci vive, per esempio, nella sequenza della consegna dei pasti, girata dalla posizione di chi spinge il carrello delle vivande. In VR Free c’è dunque la vita dietro le sbarre, senza pietismi o sensazione ma Tangshir ci propone poi alcune scene di quiete quotidiana fuori dal carcere: un pomeriggio assolato nel parco, una serata in discoteca, una partita di calcio allo stadio, sequenze in cui i detenuti stessi, tramite dei visori, si sono potuti immergere, vivendo virtualmente situazioni a loro ormai precluse e re-incontrando per mezzo di questo dispositivo anche i loro cari coinvolti dal regista nelle riprese in esterni. VR Free gioca qui sul punto di vista e sullo sguardo mostrandoci prima i reclusi che osservano il mondo in realtà virtuale e poi le scene di vita “fuori”, così che la loro visione diventa la nostra e viceversa. L’USO della realtà virtuale diventa dunque non solo la novità con cui esplorare le potenzialità del linguaggio cinematografico aumentato ma anche uno strumento d’incontro con vite altre, spesso celate dietro muri fisici o barriere simboliche. Crisi di governo, la libertà di informazione viene prima di tutto di Vincenzo Vita Il Manifesto, 28 agosto 2019 Fate la cosa giusta. Senza garantire la pratica effettiva delle diverse idee non si possono garantire gli altri aspetti dei programmi. La libertà di informazione è come la libertà personale: viene prima di tutto il resto. “Que serà serà”, recita il titolo di un famoso brano reso celebre da Doris Day. Mentre scriviamo non siamo certi degli esiti della crisi di governo. Tuttavia, facciamo voti. Perché nelle cose della politica (oggi più che mai) il meglio è improbabile e l’obiettivo realistico è quello di r-esistere. Contro l’ondata di destra in giro per il villaggio globale e che in Italia ha preso le sembianze di Matteo Salvini (già, neanche la destra è quella di una volta) serve una fase difensiva. Utile, magari, a ripensare a cosa può essere una sinistra rinnovata da cima a fondo. Tuttavia, nei diversi appelli o documenti programmatici emersi finora manca il tema dell’informazione. Assenza colposa se non dolosa, e purtroppo non inedita. È noto che al sistema politico (tutto) piace autorappresentarsi nel mondo mediale, fino all’imbuto dei social, che dà dipendenza come la droga. Non è un’esagerazione, visto che ci sono ormai numerosi studi in materia. Il tema della comunicazione non può e non deve essere eluso nelle discussioni di queste ore. Hanno giustamente richiamato l’attenzione sulla gravità della situazione l’associazione “Articolo21” e la Federazione della stampa. Sì, perché veniamo da una stagione pessima per le libertà previste dalla Costituzione: giornalisti minacciati e persino aggrediti, ricorso spregiudicato alle “querele temerarie” come forma di ricatto e di censura preventiva, tentativi di commissariamento dell’istituto di previdenza della categoria, revisione regressiva del Fondo per il pluralismo e l’innovazione. La nuova maggioranza segnerà una “discontinuità” rispetto alle scelte davvero discutibili del sottosegretario con delega Vito Crimi? Con rispetto per le persone, come si dice. Ma continuerà la sceneggiata degli “Stati generali dell’editoria”, che al momento non sembrano aver avuto altro sotto testo se non la chiusura annunciata di numerosi giornali e l’attacco astioso a Radio radicale. Va da sé che è necessario discutere un punto così delicato e dirimente in un contesto di riforme ormai indifferibili. Sull’informazione, infatti, il discorso deve allargarsi almeno al conflitto di interessi, alla riforma della Rai, alla revisione della orrenda legge Gasparri. Insomma, che qualche parola esca dagli incontri in corso su un argomento preliminare rispetto a tutti gli altri. Senza garantire la pratica effettiva delle diverse idee non si possono garantire gli altri aspetti dei programmi. La libertà di informazione è come la libertà personale: viene prima di tutto il resto. Neppure è credibile discettare di transizione digitale se il mondo reale è in crisi. Se rischiano di chiudere da qui a due anni 50 testate con esiti drammatici anche per l’occupazione. Si pronunci subito questa semplice frase: ci impegniamo a rimettere in discussione nella prossima legge di bilancio le lettere b e c del comma 810 dell’articolo 1 dell’omologa legge precedente. Vale a dire evitare l’eutanasia progressiva delle testate locali dell’universo associazionistico, o nazionali, cooperative e di opinione come il manifesto e l’Avvenire. La prima discontinuità sia sui migranti di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 28 agosto 2019 Fate la cosa giusta. La novità - mentre si contano i morti dell’ultimo naufragio sulle coste della Libia - e che si pone come una vera e propria mina sul cammino negoziale in pieno svolgimento, denuncia il presidente del Pd Orfini, è appunto la ritrovata unità degli esponenti giallo verdi su un provvedimento che ribadisce le linea politica a trazione leghista. In cosa si concretizza l’idea di “discontinuità” evocata giustamente dal segretario Pd per aprire una nuova fase con i 5 stelle? Evidentemente, in primis, nella questione più simbolica: la gestione dei flussi migratori. Quella che ha, più di tutte, caratterizzato il precedente governo, peraltro formalmente ancora in carica. Non caso, nelle sue ultime ore al Viminale, il Ministro degli Interni, stavolta in accordo con quella della Difesa e il collega delle Infrastrutture, hanno firmato il divieto d’ingresso nelle acque territoriali italiane per la nave Eleonore della Ong Lifeline, che lunedì aveva soccorso centouno migranti su un gommone in avaria al largo di al-Khoms, in acque libiche. La novità - mentre si contano i morti dell’ultimo naufragio sulle coste della Libia - e che si pone come una vera e propria mina sul cammino negoziale in pieno svolgimento, denuncia il presidente del Pd Orfini, è appunto la ritrovata unità degli esponenti giallo verdi su un provvedimento che ribadisce le linea politica a trazione leghista. Ora, passi per il responsabile, in uscita, del Viminale, ma cosa significa questa decisione ora, in piena trattativa per la formazione di un nuova alleanza, da parte degli esponenti pentastellati? Ci pare evidente che, di fronte ad una decisione così grave, che di fatto segna uno dei punti più alti di quella concezione sovranista e xenofoba tanto cara alla Lega, e non solo, si debba cominciare chiaramente e con trasparenza, ad entrare nel merito delle posizioni da tenere su una materia che ha delle implicazioni su tutto l’impianto democratico del Paese e delle sue relazioni a livello europeo ed internazionale. La gestione dei flussi migratori, infatti, è stato il grimaldello attraverso cui si è tentato di smantellare l’idea stessa di multilateralismo, il vero bersaglio grosso dei sovranisti continentali e transatlantici. Si è cominciato, infatti, rigettando il Migration Compact, un accordo elaborato in sede Onu per stabilire alcune regole internazionali basilari. L’Italia, che in un primo tempo aveva aderito, si è poi ritirata, nel nome della sovranità nazionale, come d’altra parte hanno fatto gli Usa di Trump, con la sua politica di muri e criminalizzazione dei migranti. Si è passati poi, insieme al gruppo di Visegrad, la variopinta alleanza sovranista europea, a rifiutare le regole di Dublino, certo da cambiare ma non da infrangere, anche perché i “corpi del reato” altro non sono che quelli dei migliaia di migranti costretti ad odissee drammatiche o a morire in un mare una volta nostrum ma che oggi disconosce chi vi annega. Altra componente altamente simbolica, per il ruolo che rivestono proprio nel far rispettare varie convenzioni internazionali, l’attacco frontale alle Ong. Tacciate di ogni nefandezza, dalla tratta di esseri umani al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dal ricevere soldi da organizzazioni terroristiche al traghettare in Europa le milizie jiadiste, la vecchia regola hitleriana della “merda nel ventilatore” è stata sapientemente alimentata per discreditare, attraverso queste organizzazioni libere e indipendenti, l’idea stessa che potessero e dovessero esserci ancora norme che valgono per tutti e sempre. Che si trattasse della Convenzioni di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare, o quella Onu sull’infanzia che impone l’interesse superiore del minore su tutte le altre considerazioni, queste regole che ancora compongono il, già abbastanza frammentato, quadro del multilateralismo dei Diritti umani, sono state preso di mira sistematicamente e con lucida ferocia, magari impugnando un crocefisso o invocando la protezione mariana. Ultimo, ma non certo per ordine di importanza, il taglio più che drastico ai fondi per la cooperazione allo sviluppo, e la parallela gestione di segmenti di politica estera da parte del Viminale, attraverso accordi che prevedono aiuti di maggior favore a quei Paesi che accettano i rimpatri. Appare dunque più che evidente il piano di disarticolazione messo in atto in questi mesi per denaturare dalle fondamenta un impianto che, bene o male, ha assicurato a livello internazionale, europeo, ma anche nazionale, un certo livello di civiltà. Ecco allora i temi, tra gli altri, su cui chiedere e pretendere gradienti di fortissima discontinuità, di ritorno alle regole, al rispetto degli impegni presi a livello Onu ed europeo a partire dal sostegno agli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, e l’Amazzonia di Bolsonaro è un tragico esempio della loro violazione. Droghe. Trentun agosto, overdose e diritto alla salute di Coordinamento Itardd* Il Manifesto, 28 agosto 2019 È uscito per Einaudi l’ultimo romanzo di Don Winslow, “Il Confine”, che sta avendo un ottimo successo editoriale. Nei primi capitoli, l’autore immagina l’incontro fra il capo della Narcotici del Nypd- New York Police Department e il capo della Dea, l’agenzia federale antidroga, appena nominato. Il poliziotto di New York si vanta col funzionario federale che il suo dipartimento doterà tutti gli agenti del Naloxone, il farmaco usato come antidoto nei casi di overdose da oppiacei (“Si tratta per prima cosa di salvare i feriti nella guerra alla droga”, dice); e accusa la Dea di miopia perché denuncia “festini a base di Naloxone” (cosa che un agente Dea in Utah ha effettivamente fatto nel 2017). Negli Usa, a fronte di una feroce impennata dei morti di overdose, il Naloxone è disponibile ovunque, anche nei motel; le metropolitane sono piene di avvisi rivolti a chi usa eroina e in tv o sul web fioriscono gli spot per coinvolgere tutti nel soccorso delle vittime di overdose. Sarà perché le vittime della cosiddetta epidemia negli Usa sono per lo più bianchi, ma nella patria della “tolleranza zero” e della war on drugs qualcosa è cambiato. In Italia, il primo paese al mondo ad aver fatto del Naloxone un farmaco da banco senza ricetta medica, colpisce l’immobilismo delle istituzioni nazionali rispetto al fenomeno dell’uso di droghe, mentre i media gridano all’”emergenza droga”, quasi sempre richiamando lo spettro degli anni ottanta e di qualche “nuova eroina” dal colore acceso. Negli ultimi due anni le overdose sono aumentate del 10%, anche se non hanno raggiunto i numeri dei favolosi ottanta. Eppure “sappiamo cosa fare”: questo il motto della campagna Mai senza naloxone, che Itardd, insieme a Forum droghe (con l’adesione di Sidt e Federserd) ha lanciato lo scorso anno maisenzanaloxone.fuoriluogo.it/index.php/la-campagna/. La carovana che sta girando l’Italia per portare avanti questa campagna ha dovuto confrontarsi con i racconti di diversi operatori, che hanno denunciato il sequestro di Naloxone a opera delle forze dell’ordine. Dunque la prima regola di sicurezza - serve Naloxone dappertutto, anche a bordo delle volanti - è disattesa, anzi manifestamente osteggiata. Eppure “sappiamo cosa fare”. Tutte le persone che usano eroina, i loro amici, i vicini e i familiari devono avere il salvavita. Senza paura. Serve facilitare i soccorsi con una legge del “Buon Samaritano”, che tuteli chi chiama aiuto in caso di overdose e lo incoraggi a comporre il 118. Per questa legge ci stiamo impegnando assieme a Itanpud, la rete italiana delle persone che usano droghe. Soprattutto bisogna smettere di stigmatizzare chi usa droghe, e invece cominciare a rivolgersi direttamente ai consumatori che spesso sono i primi a intervenire per salvare la vita di chi va in overdose. Smettere i toni dell’emergenza e concentrarsi sulle persone. Anche quest’anno, il 31 agosto, ricorre l’International Overdose Awareness Day, l’iniziativa che vuole sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale e i policy maker a prevenire le morti per overdose. Lo scorso anno, è partita la Carovana della campagna Mai senza naloxone. Nelle tappe di Firenze, Perugia e Reggio Emilia abbiamo toccato con mano quanto ogni giorno i consumatori e gli operatori della riduzione del danno siano impegnati per prevenire le morti da overdose. Abbiamo registrato un grande impegno e ottimi propositi che si scontrano con politiche ancora ispirate alla tolleranza zero, all’astinenza come obiettivo unico della cura, alla colpevolizzazione dei consumatori e alla volontà di punirli. Speriamo che anche quest’anno lo International Overdose Awareness Day sia un passaggio per mettere in discussione le politiche sulle droghe. A fianco di chi le usa, per i loro diritti. *Network Italiano Riduzione del Danno Allarme per il Fentanyl. La droga che uccide ora si vende anche in Italia di Elena Dusi La Repubblica, 28 agosto 2019 Ultima vittima, lo chef Zamperoni morto a New York. Ecco perché è così letale. Il Vietnam, per uccidere 60mila giovani americani, ha avuto bisogno di 15 anni. Al Fentanyl sono bastati gli ultimi due. L’oppioide che ha dato il colpo di grazia allo chef Andrea Zamperoni oggi negli Usa fa strage più degli incidenti stradali ed è la prima causa di mortalità fra i giovani. Nel 2018 il presidente Trump l’ha dichiarato “emergenza nazionale”. Da allora poliziotti, pompieri e paramedici girano con il naloxone, farmaco di primo intervento. La strage americana (200mila morti dal 2014) fa tremare il resto del mondo, Italia compresa. “Il Fentanyl e le sostanze illegali simili sono fra 100 e 1000 volte più potenti dell’eroina” spiega Simona Pichini, prima ricercatrice all’Istituto Superiore di Sanità, esperta di nuove droghe. “La dose letale è di pochi microgrammi: un granello. Basta toccarlo o inalarlo per caso”. Tute ermetiche e maschere sono d’obbligo per chi effettua i sequestri. Del Fentanyl, però, nell’ultima relazione del Dipartimento antidroga italiano non c’è quasi traccia. I sequestri si contano sulle dita. Il problema da noi non esiste? “Non sappiamo. Identificare queste sostanze è complicato. Solo ora stiamo imparando” dice Pichini. In Italia tra 2016 e 2017 le morti per overdose sono salite del 9,7% dopo 15 anni di calo. “Non siamo sicuri che c’entri il Fentanyl. Servirebbero analisi tossicologiche costose, che solo pochi laboratori sanno fare. Difficile che siano disposte per un’overdose” spiega Pichini. “I derivati del Fentanyl sono ben più di 50. Come per il doping, ne arrivano sempre di nuovi. Per dare un nome a una sostanza abbiamo bisogno di un campione: “lo standard”. Ottenerlo richiede autorizzazioni a non finire e ditte specializzate che ce lo inviino dall’estero. Ci mettiamo un anno”. A oggi i laboratori italiani si sono procurati 22 “standard”. Sanno cioè riconoscere 22 derivati del Fentanyl: sostanze con piccole differenze chimiche. “Sono assai meno della metà delle sostanze in circolazione” spiega Luca Morini, tossicologo dell’università di Pavia. “Sospettiamo che venga spacciato al posto dell’eroina o venga usato per tagliarla. Ha un prezzo concorrenziale” spiega Marica Orioli, che dirige il laboratorio di tossicologia forense al Dipartimento di scienze biomediche dell’università di Milano. “Chi lo ha usato racconta che “sale rapido” ed è piacevole. Ma fra i campioni del boschetto di Rogoredo non siamo mai riusciti a identificarlo”. La “vittima zero” in Italia è stata trovata solo per testardaggine. “Era un 39enne di Milano. Aveva comprato droga sul web” spiega Orioli, che si è occupata del caso. “Sembrava una normale overdose: siringa, accendino, buchi nel braccio. Ma nel corpo non c’era traccia di eroina. Ci siamo incaponiti e abbiamo trovato un analogo del Fentanyl”. Tempo: un anno e mezzo. La morte è di aprile 2017, la fine delle analisi di settembre 2018. Storia simile per la seconda vittima italiana: un 59enne di Varese, nel 2018. “Aveva accanto a sé resti di polvere” spiega Morini, che con i colleghi ha effettuato i test. “I Carabinieri si sono accorti che era un analogo del Fentanyl. Noi per avere lo standard abbiamo impiegato quasi un anno. I test, dopo, richiedono solo 2-3 settimane”. Il paradosso del Fentanyl è che non viene dal mondo dello spaccio, ma dalla farmaceutica. È usato dagli anni ‘60 come anestetico e antidolorifico. Dalle corsie, complici le prescrizioni facili (11 milioni di persone negli Usa lo prendono indebitamente e il 5% dei bambini nasce in astinenza), è debordato nelle strade. Fra le vittime illustri, il cantante Prince. Ieri un tribunale dell’Oklahoma ha condannato la Johnson & Johnson (produttrice storica di oppioidi) a 572 milioni per aver sottovalutato i rischi e spinto i medici alle prescrizioni. Uno degli avvocati dell’accusa aveva perso il figlio. Di cause simili gli Usa ne hanno 2mila. Ma le azioni dell’azienda ieri sono salite del 2%. Era attesa una multa più alta. Per il business, va bene così. Nigeria. Angoscia e povertà per le sopravvissute della tratta di esseri umani La Repubblica, 28 agosto 2019 Il report di Human Rights Watch: “Si smetta di rinchiudere nei rifugi le donne vittime di tratta e si offra loro maggiore sostegno”. Molte sopravvissute della tratta di esseri umani per sfruttamento sessuale e del lavoro, una volta tornate in Nigeria, sono alle prese con problemi di salute irrisolti, povertà e condizioni di vita ripugnanti. Lo afferma un nuovo report pubblicato ieri da Human Rights Watch. Le autorità nigeriane hanno mancato di prestare l’assistenza di cui le sopravvissute hanno bisogno per ricostruire le proprie vite, e hanno detenuto illegalmente in dei rifugi molte donne e ragazze già traumatizzate. L’esclusione sociale delle donne rinchiuse in rifugi. Il rapporto di 90 pagine dal titolo “You Pray for Death: Trafficking of Women and Girls in Nigeria”, fornisce resoconti dettagliati di come la tratta di esseri umani si svolga in Nigeria. Human Rights Watch ha riscontrato che l’incubo per le sopravvissute non finisce quando riescono a tornare a casa. Il governo nigeriano dovrebbe adottare provvedimenti per affrontare le gravi condizioni di salute, l’esclusione sociale e la povertà con cui si misurano le sopravvissute, e smettere di traumatizzarli ulteriormente detenendoli in dei rifugi. “Donne e ragazze trafficate dentro e fuori dalla Nigeria hanno patito abusi indicibili per mano dei trafficanti, ma hanno ricevuto sostegno medico, terapie e sostegno finanziario inadeguati per reintegrarsi in società” ha detto Agnes Odhiambo, ricercatrice esperta per i diritti della donna a Human Rights Watch. “Siamo rimasti scioccati nel trovare sopravvissute alla tratta rinchiuse, e senza possibilità di comunicare con le proprie famiglie per mesi interi, all’interno di strutture governative.” Le interviste a 76 superstiti. Human Rights Watch ha intervistato 76 superstiti di traffico umano in Nigeria, così come funzionari governativi, leader della società civile, rappresentanti di governi donatori e istituzioni che danno sostegno a iniziative anti-tratta in Nigeria. La tratta, frequente, di donne e ragazze nigeriane in Europa e Libia ha fatto notizia a livello internazionale negli ultimi anni, spingendo il governo nigeriano ad adottare provvedimenti. Molte donne e ragazze sono anche tenute in condizioni simili a quelle della schiavitù all’interno della Nigeria. Le contro-misure del governo nigeriano. Le autorità nigeriane hanno adottato alcune importanti misure per affrontare il dilagante problema della tratta di esseri umani nel Paese, tra cui l’istituzione di rifugi, assistenza sanitaria, e la creazione di programmi vocazionali e di sostegno economico per le sopravvissute. Tuttavia, le autorità si appoggiano eccessivamente ai rifugi, anziché a servizi incentrati sulla comunità, come mezzo principale per garantire servizi alle sopravvissute. Le autorità nigeriane hanno anche detenuto delle superstiti all’interno di tali strutture, negando loro la libertà di allontanarsene, spesso per mesi interi, in violazione degli obblighi internazionali della Nigeria. La protezione non dovrebbe essere una scusa per detenere arbitrariamente donne e ragazze, e privarle della loro libertà e facoltà di muoversi liberamente, ha dichiarato Human Rights Watch. Tali condizioni detentive mettono a rischio il loro recupero e benessere. Alcune testimonianze dirette. “Sono qui da quasi sei mesi …. Mangio, dormo, e grido. Non aprono il cancello …” ha detto una diciottenne in un rifugio della National Agency for the Prohibition of Trafficking in Persons (Naptip). “Ho detto al Naptip che non voglio rimanere qui; voglio andare a casa. Hanno detto che mi lasceranno andare. Non sono a mio agio qui. Non posso rimanere senza fare niente.” Il percorso delle vittime di traffico è straziante, ed è difficile risollevarsi. Human Rights Watch ha documentato come i trafficanti, perlopiù conoscenti delle loro vittime, ingannano donne e ragazze per trasportarle all’interno dei confini nazionali e al estero ai fini di sfruttarle in varie forme di lavoro forzato. L’illusione di un lavoro all’estero ben pagato. Donne e ragazze spesso credevano di emigrare per impieghi all’estero, ben pagati, come lavoratrici domestiche, parrucchiere, o cameriere d’albergo. Rimanevano scioccate quando capivano di essere state ingannate, rimanendo intrappolate in situazioni di sfruttamento, con ingenti “debiti” da pagare. Hanno detto che i loro aguzzini le obbligavano a prostituzione e lavoro domestico forzato per lunghe giornate senza pause e senza paga. I trafficanti le obbligavano a fare sesso con uomini senza preservativi, e spesso le obbligavano ad abortire in condizioni malsane, senza antidolorifici o antibiotici. Il racconto di esperienze spaventose. Alcune sopravvissute alla tratta hanno descritto esperienze spaventose che hanno causato loro traumi durevoli. Una donna ha raccontato di essere stata trafficata e obbligata a prostituirsi in Libia, all’età di diciotto anni, e di essere rimasta soggiogata per circa tre anni. Mentre era in Libia, fu rapita da persone lei dice erano membri dello Stato islamico (conosciuto anche come Isis). Assistette a esecuzioni e bombardamenti, e passò di mano in mano tra vari trafficanti. Rimase incinta, ma perse il bambino appena nato durante un bombardamento. Ha descritto così la sua vita dopo la tratta: “A volte non voglio vedere nessuno. A volte sento che sto per uccidermi. Non dormo bene.” Lo stigma dopo il ritorno in Nigeria. Alcune donne e ragazze dicono di essere alle prese con problemi di salute mentale e fisica di lunga durata e di vivere lo stigma sociale una volta tornate in Nigeria, dove hanno difficoltà ad ottenere aiuto e servizi. Molte donne e ragazze hanno detto di non avere le risorse per sostenere se stesse e le proprie famiglie. Le sopravvissute alla tratta hanno detto di sentirsi profondamente stressate, e disperate. Le superstiti dicono di non essere state coinvolte attivamente, in genere, dagli enti preposti a garantire servizi nelle decisioni sull’assistenza che toccava loro, e di non aver ricevuto informazioni adeguate sui servizi stessi. Alcune hanno subìto lunghe attese, senza assistenza, dopo aver contattato gli enti in cerca di aiuto. Le ONG che offrono servizi alle vittime. Al di là dell’uso di rifugi da parte del governo, una rete di organizzazioni non governative offre servizi alle vittime della tratta, tra cui rifugi e sistemazioni, identificazione e individuazione delle famiglie, così come riabilitazione e reintegro. Tuttavia, rappresentanti di alcuni di questi gruppi hanno detto di non essere finanziati adeguatamente e di non essere in grado di soddisfare i molteplici bisogni delle sopravvissute per un’assistenza omnicomprensiva di lungo termine. Gli sforzi di riabilitazione e reintegro in Nigeria sono anche inficiati da un’eccessiva enfasi sull’acquisizione di competenze professionali nel breve periodo che rafforza i tradizionali ruoli di genere, dai fiacchi tentativi del governo di identificare le vittime, e da problemi di finanziamenti e coordinamento, e da scarsa vigilanza. “Urgente un miglioramento nell’assistenza alle donne”. Le autorità nigeriane tra cui i funzionari del Naptip - dice tra l’altro il rapporto di Uman Rights Watch - dovrebbero lavorare con urgenza per migliorare l’assistenza e i servizi per le superstiti alla tratta di esseri umani identificate internamente e rimpatriate, anche mettendo fine alla pratica di negare la libertà di movimento a coloro che vengono ospitate nei rifugi. “Le autorità nigeriane fanno fatica a gestire la crisi della tratta di esseri umani, e lavorano in condizioni ardue, ma possono fare di meglio se ascoltano ciò che le sopravvissute hanno da dire in merito ai propri bisogni” ha detto Odhiambo. “Per mettere fine alla tratta e spezzare i cicli di sfruttamento e sofferenza occorre che il governo aiuti le sopravvissute a superare il trauma e a guadagnarsi una vita dignitosa in Nigeria”. Hong Kong. 80 giorni di rabbia: la protesta supera quella degli ombrelli di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 28 agosto 2019 Nel 2014 gli studenti si fermarono a 79. Ora, tra pallottole, concessioni, mercati instabili e leader “liquidi”, Xi non cala la scure. Ma per quanto tempo ancora? La rivolta di Hong Kong ha appena superato gli 80 giorni. Quella “storica” degli ombrelli nel 2014 si era spenta per sfinimento dopo 79 giorni di occupazione del centro. Cinque anni fa i giovani guidati dal teenager Joshua Wong avevano preso qualche manganellata, si erano difesi con ombrelli gialli da un limitato uso di lacrimogeni da parte della polizia e dopo 79 giorni erano tornati a scuola. Questa volta invece non c’è segno di esaurimento della spinta ribelle, anche violenta. E c’è una data inquietante fissata nel calendario: l’1 ottobre festa della Repubblica in Cina. Xi Jinping non sembra il tipo di leader disposto a celebrare l’unità nazionale e il potere comunista a Pechino mentre una città importante come Hong Kong è fuori dal suo controllo. In questi primi 80 giorni la polizia ha lanciato oltre duemila candelotti lacrimogeni, sparato pallottole di gomma, caricato e bastonato a sangue, usato cannoni ad acqua, prima nell’illusione assurda di spegnere con la forza i cortei di centinaia di migliaia di persone, poi per reagire agli assalti di una fazione dura uscita dal movimento di protesta. In strada l’evoluzione è sempre più pericolosa. Il primo colpo di pistola a Hong Kong è risuonato domenica 25 agosto. Lo ha esploso un agente di polizia circondato da un nucleo dell’ala combattente dei dimostranti. Altri poliziotti hanno estratto l’arma puntandola ad altezza d’uomo, sostenendo di essersi sentiti minacciati a tal punto da temere per la vita. Hanno avuto paura. E dobbiamo aver paura anche noi di quello che potrebbe succedere ora nella City cinese ma ancora semi-democratica grazie agli accordi “Un Paese due Sistemi” sottoscritti da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping 35 anni fa. Il pragmatico Deng aveva promesso che “le azioni sarebbero rimaste calde in Borsa, i cavalli avrebbero continuato a galoppare all’ippodromo tanto caro agli inglesi e agli hongkonghesi e i ballerini avrebbero continuato a danzare nella notte”. La profezia ha retto. Ma qualcosa di inatteso è successo. E bisogna guardare molto più indietro del 9 giugno, quando un milione di cittadini di Hong Kong aprì le marce contro la legge che avrebbe permesso alla Cina di farsi consegnare dei ricercati da Hong Kong. Forse Deng Xiaoping aveva in mente una Cina diversa da quella di oggi. L’aveva immaginata più liberale e aperta nei decenni futuri (soprattutto in economia). Per questo si impegnò a garantire per Hong Kong un’amministrazione speciale dal 1997, data della restituzione alla madrepatria dell’ex colonia britannica, fino al 2047. E aveva lasciato intendere che nel lontano 2047 a Pechino il Partito comunista avrebbe ancora governato, ma con un sistema meno autocratico. Così Hong Kong avrebbe potuto rappresentare un test per l’intera Repubblica popolare. Poi però nel 2012 il Partito si è affidato a Xi Jinping e tutto è cambiato. Finora Pechino si è limitata ad osservare i fatti di Hong Kong. Anche se la sua propaganda ora definisce i patti con Londra una reliquia anacronistica. Anche se la sua diplomazia è stata mobilitata per accusare Washington di aizzare la rivolta. Anche se i ribelli sono stati bollati come “quasi terroristi” dopo che avevano occupato per una notte il parlamento e per due giorni l’aeroporto. Tutto sommato però in questa estate di scontri Xi Jinping ha ancora lasciato fare. Dopo 80 giorni tre punti sembrano evidenti. 1) Pechino ha fatto male i conti quando non ha ordinato al governo di Hong Kong della insignificante Carrie Lam di ritirare tempestivamente e definitivamente la proposta di legge dello scandalo. Se due milioni di persone su una popolazione di sette milioni scendono in strada è assurdo ridurre la crisi a un problema di ordine pubblico. Ma non è stata offerta alcuna soluzione politica, una concessione chiara che convinca la maggioranza a fermarsi. Forse ora non basterebbero più nemmeno le dimissioni della governatrice Lam. 2) La frustrazione ha trasformato parte del movimento giovanile: non in meglio, vista la guerriglia con la polizia. E la protesta “liquida come l’acqua” (così si autodefinisce per la sua capacità di scorrere in diversi punti della città senza fermarsi) non presenta leader capaci di dialogo. 3) Si discute molto di “nuova Tienanmen”. La speranza è che Pechino non voglia rischiare l’isolamento, sanzioni economiche e la fine di Hong Kong come centro finanziario ordinando il bagno di sangue. Inviare polizia dalla Cina continentale o peggio mobilitare la guarnigione militare di Hong Kong sembra una follia. Ma Xi e compagni hanno l’incubo della fine dell’Urss e addebitano la colpa del crollo dell’impero sovietico alla debolezza di Mikhail Gorbaciov. Non accettano il fatto che Gorbaciov evitò l’uso della forza per scelta morale. Per questo sul tavolo di Xi può esserci anche pronto un ordine tragico. Afghanistan. La comunità dei difensori dei diritti umani è sotto attacco di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 agosto 2019 Nel dicembre 2016 il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani si era impegnato a difendere i difensori e gli attivisti dei diritti umani: “La loro protezione è questione su cui il mio governo, il parlamento e la magistratura hanno piena responsabilità”, aveva dichiarato a una conferenza della Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan. Un rapporto diffuso oggi da Amnesty International denuncia quanto a quell’impegno non sia seguito alcun fatto concreto. Non solo il governo di Kabul ha ripetutamente mancato di indagare sugli attacchi contro i difensori dei diritti umani, ma a volte li ha addirittura accusati di aver presentato false denunce o suggerito loro di armarsi per difendersi autonomamente. Le storie contenute nel rapporto di Amnesty International sono drammatiche. “Hasiba” (non è il suo vero nome) è un’avvocata che difende le donne che hanno subito violenza domestica, cercano di divorziare o sono sotto processo per presunti reati. A partire dal 2017 ha subito una serie di attacchi, anche con l’acido. La polizia non ha dato seguito alle sue denunce e l’avvocata è stata costretta a chiudere il suo studio legale per sette mesi. Nell’ottobre 2018 “Mohamed” (non è il suo vero nome) è stato aggredito nei pressi della sua abitazione a Kabul e ha riportato ferite al fegato. Ha chiesto aiuto alle autorità ma non gli è stata accordata alcuna misura di protezione. Anzi, gli è stato suggerito di comprare una pistola e di “proteggersi per conto suo”. Dopo l’aggressione è stato costretto a lasciare la capitale. Molti difensori e attivisti dei diritti umani non hanno più alcuna fiducia nella capacità o nella volontà del governo di proteggerli. Questa sensazione è acuita dai casi in cui le autorità hanno accusato i difensori dei diritti umani di aver inventato le minacce nei loro confronti o di aver rifiutato la protezione offerta dal governo. “Shahzad” (non è il suo vero nome) è stato recentemente minacciato dai talebani su Facebook con questo messaggio: “Sei il servo dei giudei e degli infedeli. Abbiamo detto ai mujahedin di mandarti all’inferno”. “Shahzad” ha segnalato la minaccia alla Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan, che a sua volta ha informato la Direzione per la sicurezza nazionale. La reazione è stata che “Shazad” si era inventato tutto. L’ambiente in cui operano i difensori dei diritti umani è uno dei più estremi al mondo. Ogni anno in Afghanistan viene superato il numero di vittime civili di quello precedente - ciò nonostante molti governi europei continuano a effettuare rimpatri, considerandolo un “paese sicuro”. Il mese di luglio è stato il più violento da oltre due anni a questa parte. Ma della necessità di difendere coloro che difendono i diritti umani, nei negoziati in corso, non vi è traccia. Come se il loro coraggio fosse sacrificabile in nome della “pace”. La Russia protesta contro il processo alle tre sorelle che hanno ucciso il padre molestatore di Rosalba Castelletti La Repubblica, 28 agosto 2019 La sera del 27 luglio 2018, in un appartamento alla periferia di Mosca, Mikhail Khachaturjan spruzzò spray al peperoncino sulle tre figlie adolescenti perché il soggiorno non era abbastanza pulito. Non era che l’ennesimo abuso per Krestina, Angelina e Maria, che allora avevano 19, 18 e 17 anni. Quel giorno decisero che sarebbe stato l’ultimo: aspettarono che il padre si assopisse in poltrona e lo colpirono con un coltello da cucina e un martello. Mikhail morì dopo pochi minuti. Da allora il caso delle tre sorelle ha riportato alla ribalta la controversa legge che due anni fa ha depenalizzato la violenza domestica in Russia. Le tre ragazze sono state incriminate per “omicidio premeditato” e rischiano fino a 20 anni di carcere. I legali sostengono che non sono assassine a sangue freddo, ma vittime di un padre violento che le schiavizzava, torturava e violentava. Sono almeno sette i casi di abusi confermati da un’inchiesta di 22 pagine. Amici e vicini avevano avvertito la polizia, ma non era mai intervenuta perché il padre era un boss e autorevole esponente della diaspora armena. Per le Khachaturjan ci sono state manifestazioni nella Federazione e da Londra a Buenos Aires. Le Pussy Riot hanno organizzato un concerto per raccogliere fondi. Donne hanno messo in scena un’opera teatrale intitolata “Le tre sorelle” come la celebre pièce di Anton Cechov, ma ispirata alle vicende di Krestina, Angelina e Masha. L’attivista Aljona Popova ha lanciato su change.org una petizione per la loro scarcerazione che ha raccolto oltre 300mila firme. E sui social viene rilanciato l’hashtag “Non voglio morire” per ricordare tutte le donne a processo per aver aggredito o ucciso il partner violento: secondo MediaZona, sito sul sistema giudiziario russo, circa l’80 percento delle donne incarcerate per omicidio avrebbe assassinato il partner per legittima difesa. Finora la solidarietà non ha aiutato le sorelle Khachaturjan: sono agli arresti domiciliari in attesa del processo che si dovrebbe tenere a metà ottobre. I loro avvocati sperano che la procura faccia cadere le accuse o le attenui. “Non è un caso isolato”, insiste Popova. “La polizia, i giudici e i procuratori devono decidere chi vogliono proteggere: un padre violento o i russi che hanno il diritto costituzionale di difendersi”.